“Vagine in rivolta” (i nuovi idoli dei media occidentali)

“Pussy Riot” sono le “rivoluzionarie russe” celebrate dalla Repubblica.

Il quotidiano arriva a chiamarle “pasionarie”, eroine delle proteste contro il regime (i nemici della NATO sono sempre “regimi”, gli amici sono sempre “governi”, anche quando sono teocratici-assolutisti e destabilizzano altre nazioni).

PUSSY RIOT. È “singolare” che l’articolista, Anais Ginori, abbia scelto di non tradurre il loro nome – “la sommossa della figa” – limitandosi a definirlo “nome ammiccante” e che, da femminista, non abbia nulla da eccepire al fatto che altre donne usino i loro corpi nudi per richiedere la loro scarcerazione.

La Ginori ha stabilito che la Russia è una dittatura e che questa punk band e la blogger egiziana che si mostra nuda su internet sono assimilabili a Aung San Suu Kyi (!!!) ed alle tre più recenti Nobel per la Pace (!!!).
http://stefanofait.tumblr.com/post/71002131125/khodorkovsky-le-vagine-rivoltanti-sic-e-lidolatria

Nessun dubbio sull’appropriatezza di infilarsi polli in vagina davanti ai bambini, inscenare un’orgia in un museo, fare concerti in piazza o sui tetti degli edifici pubblici senza aver richiesto alcuna autorizzazione, od occupare una cattedrale dove si onorano i caduti di guerra russi per fare un concertino punk anti-putin e blasfemo, infischiandosene dei credenti e dei loro diritti. In Italia o in qualunque altro paese sarebbe legale? Non sarebbero in stato di fermo? Amnesty International le dichiarerebbe “prigioniere politiche”?

Infine, nessun riferimento al fatto che gli autoproclamati leader della protesta anti-Putin siano assidui frequentatori dell’ambasciata americana.

Il tutto, purtroppo, rientra nella campagna di propaganda che sta preparando la terza guerra mondiale, come la preparano le esercitazioni navali occidentali e russe davanti alle coste siriane.

*****
Nel 2010 Charlie Gilmour, il figlio del chitarrista dei Pink Floyd, David Gilmour, è stato arrestato per condotta violenta. Charlie Gilmour, 21 anni, era stato fotografato dopo che si era arrampicato sul Cenotafio – che ricorda i caduti di tutte le guerre – aggrappandosi alla ‘Union Jack’. Il ragazzo si era successivamente scusato per “il terribile insulto” e aveva definito il suo gesto “un’idiozia”.

Gli hanno dato 16 mesi, di cui 8 da passare in carcere!
ecco le parole del giudice: «Lei, a differenza di molte persone che vedo arrivare qui, ha avuto il vantaggio di un’intelligenza acuta e di ottimi studi. Conosce il lusso e il benessere. Mi rifiuto di pensare che non sapesse che cosa faceva. E strappando la bandiera ha insultato la memoria di uomini morti per garantire anche a lei il diritto di protestare».
http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/411776/

*****

Riesamino quel che ho fatto in questo post, a beneficio di tutti i lettori:

* Ho analizzato il carattere propagandista di un articolo che ignora il fatto che le azioni di quelle tizie le avrebbero portate all’arresto in una qualunque DEMOCRAZIA LAICA. Pensiamo a cosa sarebbe successo se una punk band italiana avesse fatto un concerto non autorizzato in una moschea o sinagoga italiana, o a San Petronio – è davvero così difficile condividere lo sdegno che si sarebbe levato? Siamo diventati così intolleranti nei confronti delle persone religiose? Le tizie in questione hanno ammesso di aver suonato nella cattedrale mentre i credenti pregavano ed hanno ammesso di sapere che si trattava di un crimine; ergendosi poi a paladine della lotta contro le ingiustizie del sistema penale russo si sono rese ridicole ed hanno presumibilmente oltraggiato chi le giudicherà. Se la potevano cavare con una sanzione, ma hanno voluto trasformare il caso in un evento mediatico e ora chissà.

* Ho cercato di evidenziare come nulla di tutto questo abbia a che fare con Putin, visto che la denuncia proviene dalla Chiesa ortodossa e riguarda l’occupazione di una cattedrale durante un rito: l’accusa è di vandalismo, non vilipendio (cf. Pietro Ricca e il suo “buffone” rivolto a Silvio Berlusconi);

* Ho denunciato la sciagurata equazione Aung San Suu Kyi (e le altre premio Nobel per la Pace) = rockettare in cerca di fama e leader degli occupanti cileni (celebre unicamente per la sua avvenenza e scelta come portavoce principalmente per la sua avvenenza);

Aggiungo ora che le loro azioni “dimostrative”, insultando la fede di milioni di credenti, hanno permesso a Putin di ergersi a difensore della fede e dei loro diritti fondamentali, ricompattando ulteriormente l’opinione pubblica russa dietro di lui. Ma, forse, l’intento di chi le sta usando propagandisticamente non è quello di screditare Putin in Russia, bensì quello di eccitare gli animi nei paesi NATO, in vista della resa dei conti. In quel caso la mossa è effettivamente brillante. 

Una generazione di Italiani condannati alla miseria, con l’avallo dei “progressisti” (articolo della Repubblica)

 

Luciano Gallino, “Sulla crisi pesano i debiti delle banche”, la Repubblica, 30 luglio 2012, p. (1) 18

Il 20 luglio la Camera ha approvato il “Patto fiscale”, trattato Ue che impone di ridurre il debito pubblico al 60% del Pil in vent` anni. Comporterà per l`Italia una riduzione del debito di una cinquantina di miliardi l`anno, dal 2013 al 2032.

Una cifra mostruosa che lascia aperte due sole possibilità: o il patto non viene rispettato, o condanna il Paese a una generazione di povertà.

Approvando senza un minimo di discussione il testo la maggioranza parlamentare ha però fatto anche di peggio. Ha impresso il sigillo della massima istituzione della democrazia a una interpretazione del tutto errata della crisi iniziata nel 2007. Quella della vulgata che vede le sue cause nell`eccesso di spesa dello Stato, soprattutto della spesa sociale. In realtà le cause della crisi sono da ricercarsi nel sistema finanziario, cosa di cui nessuno dubitava sino agli inizi del 2010. Da quel momento in poi ha avuto inizio l`operazione che un analista tedesco ha definito il più grande successo di relazioni pubbliche [“propaganda”, NdR] di tutti i tempi: la crisi nata dalle banche è stata mascherata da crisi del debito pubblico.

In sintesi la crisi è nata dal fatto che le banche Ue (come si continuano a chiamare, benché molte siano conglomerati finanziari formati da centinaia di società, tra le quali vi sono anche delle banche) sono gravate da una montagna di debiti e di crediti, di cui nessuno riesce a stabilire l`esatto ammontare né il rischio di insolvenza. Ciò avviene perché al pari delle consorelle Usa esse hanno creato, con l`aiuto dei governi e della legislazione, una gigantesca “finanza ombra”, un sistema finanziario parallelo i cui attivi e passivi non sono registrati in bilancio, per cui nessuno riesce a capire dove esattamente siano collocati né a misurarne il valore.

La finanza ombra è formata da varie entità che operano come banche senza esserlo. Molti sono fondi: monetari, speculativi, di investimento, immobiliari. Il maggior pilastro di essa sono però le società di scopo create dalle banche stesse, chiamate Veicoli di investimento strutturato (acronimo Siv) o Veicoli per scopi speciali (Spv) e simili. Il nome di veicoli è quanto mai appropriato, perché essi servono anzitutto a trasportare fuori bilancio i crediti concessi da una banca, in modo che essa possa immediatamente concederne altri per ricavarne un utile. Infatti, quando una banca concede un prestito, deve versare una quota a titolo di riserva alla banca centrale (la Bce per i paesi Ue). Accade però che se continua a concedere prestiti, ad un certo punto le mancano i capitali da versare come riserva. Ecco allora la grande trovata: i crediti vengono trasformati in un titolo commerciale, venduti in tale forma a un Siv creato dalla stessa banca, e tolti dal bilancio. Con ciò la banca può ricominciare a concedere prestiti, oltre a incassare subito l`ammontare dei prestiti concessi, invece di aspettare anni come avviene ad esempio con un mutuo. Mediante tale dispositivo, riprodotto in centinaia di esemplari dalle maggiori banche Usa e Ue, spesso collocati in paradisi fiscali, esse hanno concesso a famiglie, imprese ed enti finanziari trilioni di dollari e di euro che le loro riserve, o il loro capitale proprio, non avrebbero mai permesso loro di concedere. Creando così rischi gravi per l`intero sistema finanziario.

I Siv o Spv presentano infatti vari inconvenienti. Anzitutto, mentre gestiscono decine di miliardi, comprando crediti dalle banche e rivendendoli in forma strutturata a investitori istituzionali, hanno una consistenza economica ed organizzativa irrisoria. Come notavano già nel 2006 due economisti americani, G. B. Gorton e N. S. Souleles, «i Spv sono essenzialmente società robot che non hanno dipendenti, non prendono decisioni economiche di rilievo, né hanno una collocazione fisica». Uno dei casi esemplari citati nella letteratura sulla finanza ombra è il Rhineland Funding, un Spv creato dalla banca tedesca IKB, che nel 2007 aveva un capitale proprio di 500 (cinquecento) dollari e gestiva un portafoglio di crediti cartolarizzati di 13 miliardi di euro. L`esilità strutturale dei Siv o Spv comporta che la separazione categorica tra responsabilità della banca sponsor, che dovrebbe essere totale, sia in realtà insostenibile. A ciò si aggiunge il problema della disparità dei periodi di scadenza dei titoli comprati dalla banca sponsor e di quelli emessi dal veicolo per finanziare l`acquisto. Se i primi, per dire, hanno una scadenza media di 5 anni, ed i secondi una di 60 giorni, il veicolo interessato deve infallibilmente rinnovare i prestiti contratti, cioè i titoli emessi, per trenta volte di seguito. In gran numero di casi, dal 2007 in poi, tale acrobazia non è riuscita, ed i debiti di miliardi dei Siv sono risaliti con estrema rapidità alle banche sponsor.

La finanza ombra è stata una delle cause determinanti della crisi finanziaria esplosa nel 2007. In Usa essa è discussa e studiata fin dall`estate di quell`anno. Nella Ue sembrano essersi svegliati pochi mesi fa. Un rapporto del Financial Stability Board dell`ottobre 2011 stimava la sua consistenza nel 2010 in 60 trilioni di dollari, di cui circa 25 in Usa e altrettanti in cinque paesi europei: Francia, Germania, Italia, Olanda e Spagna. La cifra si suppone corrisponda alla metà di tutti gli attivi dell`eurozona. Il rapporto, arditamente, raccomandava di mappare i differenti tipi di intermediari finanziari che non sono banche. Un green paper della Commissione europea del marzo 2012 precisa che si stanno esaminando regole di consolidamento delle entità della finanza ombra in modo da assoggettarle alle regole dell`accordo interbancario Basilea 3 (portare in bilancio i capitali delle banche che ora non vi figurano). A metà giugno il ministro italiano dell`Economia – cioè Mario Monti – commentava il green paper: «E’ importante condurre una riflessione sugli effetti generali dei vari tipi di regolazione attraverso settori e mercati e delle loro potenziali conseguenze inattese».

Sono passati cinque anni dallo scoppio della crisi. Nella sua genesi le banche europee hanno avuto un ruolo di primissimo piano a causa delle acrobazie finanziarie in cui si sono impegnate, emulando e in certi casi superando quelle americane. Ogni tanto qualche acrobata cade rovinosamente a terra; tra gli ultimi, come noto, vi sono state grandi banche spagnole. Frattanto in pochi mesi i governi europei hanno tagliato pensioni, salari, fondi per l`istruzione e la sanità, personale della PA, adducendo a motivo l`inaridimento dei bilanci pubblici. Che è reale, ma è dovuto principalmente ai 4 trilioni di euro spesi o impegnati nella Ue al fine di salvare gli enti finanziari: parola di José Manuel Barroso. Per contro, in tema di riforma del sistema finanziario essi si limitano a raccomandare, esaminare e riflettere. Tra l`errore della diagnosi, i rimedi peggiori del male e l`inanità della politica, l`uscita dalla crisi rimane lontana.

Il lavaggio del cervello che stanno subendo i tedeschi (e tutti gli altri)

Da tempo sostengo che i Tedeschi stanno subendo una tremenda manipolazione delle coscienze e che la teutonofobia mediterranea è ingiustificata, perché i principali responsabili del disastro europeo non sono i comuni cittadini tedeschi (o la maggioranza di cittadini greci che ha fatto il suo dovere), in gran parte impossibilitati a formarsi un giudizio ragionato ed informato su quel che sta succedendo, al pari della vasta maggioranza della popolazione mondiale. C’è al potere, nel mondo, un’oligarchia che si spaccia per europeista ed umanitaria ma non ha alcuna lealtà che trascenda l’egotismo e l’interesse di casta.

Fortunatamente un numero crescente di giornalisti coscienziosi se ne stanno rendendo conto.

Nella crisi dell’euro i mezzi di comunicazione tedeschi ripetono all’unisono i pregiudizi e le frasi fatte sugli altri paesi e hanno un ruolo decisivo nella contestata politica di Angela Merkel.

Robert Misik

Di recente sulla sua copertina la rivista inglese New Statesman definiva Angela Merkel come “Europe’s Most Dangerous Leader” [la “Leader più pericolosa d’Europa]. Nelle pagine interne della rivista la cancelliera veniva addirittura definita la “persona più pericolosa del mondo” e si concludeva con questa sintesi: “Con il suo rifiuto a cambiare e con la sua determinazione a mantenere la politica di rigore über alles, Merkel sta distruggendo il progetto europeo, impoverendo i vicini della Germania e rischiando una nuova depressione mondiale. Bisogna evitarlo”.

Sì, in queste frasi la tendenza dei giornalisti per il superlativo è piuttosto evidente. Tuttavia gli autori dicono chiaramente quello che in quasi tutta Europa si pensa della cancelliera tedesca e del suo sadismo fiscale, così come del rifiuto della Germania di spegnere questo incendio adottando delle misure energiche.

Ma c’è un paese in cui si pensa in modo diametralmente opposto, la Germania. Di solito in materia di politica europea, quando si parla della “posizione tedesca” o della “posizione francese”, si parla della posizione del governo. Ma nella crisi attuale in Germania esiste un consenso fra il governo, l’opinione pubblica e quasi tutti i media, a tal punto che l’opposizione non osa nemmeno più opporsi.

E quando la cancelliera è costretta a deviare di qualche millimetro dalla sua posizione fondamentalista, come in occasione dell’ultimo vertice europeo, deve subire dure critiche. Merkel “si è piegata” e i grandi media si chiedono spaventati: “Chi pagherà il conto?”

Eh sì, da molto tempo non è più solo la Bild con titoli alti dieci centimetri a gridare: “Ancora altro denaro per i greci rovinati? La Bild dice no!” Da qualche mese anche la stampa ritenuta oggettiva e seria, la cosiddetta stampa normale, sembra aver adottato la stessa posizione.

Spesso è in frasi accessorie, apparentemente anonime, che si esprime in modo più evidente questo consenso nazionale, questo sciovinismo che sottomette l’Europa a una prova di verità. In espressioni come “i paesi indebitati” o “poco seri”, che si indirizzano ovviamente agli stati meridionali della zona euro – “la Spagna indebitata”. Ma, un attimo, a quanto ammonta il debito pubblico della Spagna? All’inizio dell’anno corrispondeva al 68 per cento del pil spagnolo. A titolo di paragone quello della Germania era dell’81 per cento. Allora, chi è “il paese indebitato”?

Nel bel mezzo del reportage del programma Heute-journal della rete pubblica Zdf sulle elezioni greche si può sentire questa frase: “Il peggio è stato evitato all’ultimo momento”. Il peggio sarebbe stata la vittoria di Syriza, la coalizione di sinistra, ed stato evitato grazie alla vittoria dei conservatori, quella banda di ladri che ha portato il paese alla situazione attuale. Due minuti dopo un altro servizio e un altro inviato. Questa volta si parla del G20 e si può sentire: “Gli altri vogliono il denaro dei tedeschi”.

Quando si passa sulle altre reti si sentono ovunque frasi del genere, che contribuiscono ad alimentare questa situazione. I mezzi di comunicazione sembrano suonare tutti la stessa musica. I giornalisti non sembrano neanche più rendersi conto di fare propaganda, e utilizzano formule che da molto tempo sono diventate dei luoghi comuni.

Anche il settimanale Die Zeit non vede alcun problema a utilizzare un titolo a caratteri cubitali: “Il mondo intero vuole il nostro denaro”. Forse il giornalismo più miserabile è quello che si crede oggettivo e che invece non fa altro che diffondere i pregiudizi locali.

Ovviamente ci sono anche altre voci, che con grande pazienza ricordano che finora la Germania è riuscita a cavarsela piuttosto bene a spese degli altri e che ha la sua parte di responsabilità negli attuali squilibri economici, che possiamo lottare contro la crisi solo se riusciremo a sopprimere i difetti della costruzione della zona euro e che è assurdo parlare degli immaginari “limiti delle capacità tedesche”, quando in realtà i costi della crisi sono esagerati. Ovviamente queste voci ragionevoli esistono e formano delle macchie di colore in un’atmosfera piuttosto grigia.

Si può analizzare tutto ciò e cercare di capire. Ma di fatto in questa atmosfera non è certo facile rimproverare a Merkel di rimanere troppo concentrata sul rigore. O criticare i socialdemocratici per non essere in grado di condurre una vera politica di opposizione. In questa atmosfera di esaltazione nazionale non deve di certo stupire che i responsabili politici se vogliono essere eletti – o rieletti – non si allontanano di un millimetro dai soliti luoghi comuni.

Ripetere semplici pregiudizi, diffondere le formule di propaganda più seducenti, ben lontano da qualunque logica economica, comportarsi come se si fosse dei visionari o semplicemente non correre rischi urlando insieme agli altri, ecco quello che ha fatto la grande maggioranza della stampa tedesca durante questa crisi dell’euro. Ma dove diavolo è finito il Kurt Tucholsky [giornalista e uomo di satira considerato come una delle coscienze morali della Repubblica di Weimar] che riuscirà a farsi beffe di questa triste stampa?

 http://www.presseurop.eu/it/content/article/2333541-ranghi-serrati-dietro-la-cancelliera

2012 – l’anno delle bizzarrie naturali (una sintesi dei primi mesi)

Trauttmansdorff o Rosengarten? A proposito di apartheid

Estratto da

Stefano Fait e Mauro Fattor, “Contro i miti etnici: alla ricerca di un Alto Adige diverso“, Raetia, 2010, 224 pagine.

Un prato con molti fiori diversi è più bello di un prato dove cresce una sola varietà di fiori

Franjo Komarica, vescovo di Banja Luka

Chi parla di apartheid a proposito della situazione altoatesina non viene quasi mai preso sul serio e, quando ciò avviene, è spesso solo per esprimere la propria indignazione nei confronti di chi stabilisce un parallelo così infelicemente indelicato nei confronti di chi ha sofferto realmente a causa del regime segregazionista sudafricano. In pratica si accusa il provocatore di avere poche idee e pure confuse a proposito di entrambe le realtà. In passato io stesso ho usato il termine apartheid per definire la segmentazione etnica altoatesina e, pur essendo perfettamente consapevole della necessità di avanzare numerosi e doverosi distinguo, ritengo che chi afferma di non dovere neppure prendere in considerazione il confronto non sia pienamente al corrente delle sostanziali affinità tra le radici del pensiero razziale sudafricano e quelle del patriottismo etnicista sudtirolese. È bene dunque dedicare un capitolo a questa disputa perché altrimenti si continuerà pervicacemente a credere che, in tempi ragionevoli, in Alto Adige si potrà un giorno giungere alla separazione finale tra autonomismo e segmentazione etnica, preludio di una scelta di autodeterminazione politica più matura e persino condivisibile. Queste, secondo me, sono vane illusioni giacché, localmente, autonomia ed etnicismo (ossia razzismo) esistono e si sostengono vicendevolmente in una relazione simbiotica. Solo la libera e determinata scelta di migliaia di residenti di varcare il confine etnico, cioè di “contaminare” deliberatamente la propria appartenenza originaria ed abbracciare una pluriappartenenza potrà cambiare le cose. Quanti sono stati disposti a farlo finora? Solo alcune migliaia di persone in poco meno di ottant’anni di convivenza forzata. Inoltre si può prevedere che il continuo afflusso di immigrati causerà un ulteriore irrigidimento dei confini etnici – come dimostrano i successi delle destre etnopopuliste nell’area alpina di lingua tedesca. Ci vorrà del tempo, come ci è voluto molto tempo per abbattere il regime segregazionista, ma l’etnocrazia altoatesina è destinata ad essere spazzata via dalla Storia. La questione è come far sì che ciò avvenga senza spargimenti di sangue.

Possiamo iniziare prendendo in esame la questione demografica. Israele, la popolazione bianca sudafricana, i Figiani, gli abitanti del Québec, i Sudtirolesi e tanti altri popoli dove il criterio dell’ethnos non è ancora stato sostituito da quello del demos, sono accomunati dalla paura di essere numericamente schiacciati da una maggioranza etnicamente diversa, che metterebbe a repentaglio la stabilità del modello socio-amministrativo etnocratico che hanno messo in piedi per tutelare i propri interessi collettivi. Solo in Sudafrica e negli stati confederati statunitensi questa paura si è tradotta in specifiche misure di vera e propria segregazione etnica, ma il potenziale per una deriva analoga sono presenti in tutte queste realtà e, paradossalmente, proprio in virtù del richiamo ai diritti inviolabili dei popoli, tra i quali quello all’integrità e l’autenticità, estensione del discorso dei diritti naturali. Questo tipo di interpretazione comunitarista dei diritti naturali in pratica giustifica una serie di interferenze o violazioni della sfera privata nella misura in cui questo possa portare dei benefici ai gruppi in questione. Tuttavia se ogni diritto comporta un dovere, come si può assegnare alcun tipo di responsabilità ad un gruppo per la condotta dei suoi membri? Nessun sistema penale avanzato lo potrebbe prendere nella pur minima considerazione. Giungiamo così al pericoloso paradosso che le persone hanno maggiori diritti se sono etnicamente definite senza che ciò comporti maggiori responsabilità verso l’esterno, ma piuttosto un esubero di doveri collettivi (verso il gruppo stesso), a discapito della creatività, del diritto al dissenso e, nel complesso, del progresso civile e morale. Questo è un paradosso intrinseco al rapporto tra democrazia e diritti umani. Infatti la democrazia non è di per sé favorevole alla tutela e promozione dei diritti umani in ogni circostanza. Al contrario, la Storia insegna che “il popolo”, usando discrezionalmente i poteri dello Stato, non ha perso molte occasioni per imporre la sua volontà a chi non ne faceva parte, etichettato come inferiore o nocivo. Dunque, come raccomanda Jack Donnelly, uno dei massimi studiosi mondiali di diritti umani e relazioni internazionali, “gli attivisti per i diritti umani devono essere almeno tanto diffidenti del popolo quanto lo sono degli Stati e nel contempo devono servirsi dello Stato per proteggersi dalle passioni popolari e dai pregiudizi” (Donnelly, 1999: p. 403). L’unico modo per riuscirvi è trasformare lo Stato “da uno strumento nelle mani di un gruppo dominante – e non solo quando si tratta di una piccola aristocrazia ereditaria, un potente gruppo di capitalisti plutocrati, l’esercito, o un partito totalitario, ma anche quando è la maggioranza di una società ad essere politicamente dominante – ad un guardiano dei diritti umani di ogni cittadino” (ibid. p. 404).

Cerchiamo di capire meglio come questo paradosso fondamentale prese forma nel Sudafrica del secondo dopoguerra, dove per popolo s’intendeva la minoranza bianca. Il Partito Nazionale (che rappresentava i nazionalisti Afrikaner) salì al potere nel 1948 e s’incaricò di istituire il cosiddetto “apartheid”. L’idea di questo modello di struttura organizzativa era nata negli anni Trenta, quando i leader afrikaner proclamarono che la visione del mondo del loro popolo non si poteva conciliare con i principi del liberalismo occidentale e con il suo laicismo e si riconobbero sempre più in certi valori comunitaristi promossi dal fascismo e poi dal nazismo[1]. Il futuro dell’Afrikanerdom doveva essere all’insegna della purezza etnico-razziale, dell’autenticità della tradizione e della lingua, della difesa dei valori cristiani e, più in generale, della strenua difesa di società e cultura contro la loro progressiva americanizzazione. Insomma l’apartheid non va ridotto solo ad una mera questione razziale, vi era anche il netto rifiuto del modello economico e sociale anglo-americano e della lingua inglese che stava diventando egemone e contaminava l’afrikaans. Il principio cardine dell’apartheid, come suggerisce il suo nome – un neologismo che significa “separatezza” – era una nozione dogmatica di divisione e distanziamento culturale e sociale che trovava la sua fonte di legittimazione nell’ideologia nazionalista e nel neo-Calvinismo del teologo e politico olandese Abraham Kuyper (1837-1920). Specialmente nella “teoria delle sfere di sovranità” (souvereiniteit in eigen kring in olandese, soewereiniteit in eie kring in afrikaans), secondo cui potere ed autorità sono stati assegnati ai popoli da Dio per tramite del Cristo, in modo tale da essere distribuiti equamente tra le varie sfere, o istituzioni, dell’esistenza umana, ognuna di pari dignità rispetto alle altre, sovrana su se stessa ed indipendente dalle altre (Norval, 1996). Da qui nasce il principio dell’uguaglianza – formale, non certo sostanziale –, tra la cultura bianca, quella nera e quella delle altre minoranze, che andavano separate per preservarne i tratti caratteristici e permetterne un’evoluzione “libera” e distinta, nei tempi e nei modi più idonei a ciascuna sfera o dominio (eiesoortigheid, “propriezza”). Il contenuto delle sfere non doveva essere diluito o contaminato, ma rispettato e valorizzato, perchè l’elezione divina coincideva con quella culturale (Templin, 1984; Thompson, 1985). Anche in Sud Africa, come in Israele e in Alto Adige, ritroviamo quindi il motivo dell’Alleanza con Dio che garantisce al Popolo Eletto il diritto di insediamento su una Terra Promessa (Sion) e lo protegge dai suoi nemici interni ed esterni. Ritroviamo la dottrina della separazione tra uguali, dove alcuni gruppi sono più uguali degli altri e a ciascuno è assegnato un destino esclusivo (Johnson, 1983). Inoltre vanno segnalate la creazione di un sistema scolastico separato, l’uso obbligatorio della madrelingua nelle scuole e la rimozione degli scolari Afrikaners dalle scuole inglesi (Louw, 2004). È piuttosto ironico, ma anche emblematico di un certo modo di pensare i rapporti tra gruppi umani, che l’apartheid fosse stato concepito dai suoi promotori come l’espressione di una politica umanitaria, che ripudiava la società castale precedente. Una separazione verticale era infatti preferibile ad una separazione orizzontale. Il sistema castale generava amarezza, frustrazione, risentimento ed avrebbe finito per causare scontri interrazziali. Invece in questo modo i neri si vedevano riconosciuto il diritto di sviluppare la propria specifica identità politico-culturale, evitando così l’approccio assimilatorio, considerato troppo paternalistico (Louw, 2005). Per questo non mancavano ipocrite affermazioni di solidarietà interrazziali con i Bantù, le cui sofferenze sotto il giogo coloniale erano poste sullo stesso piano delle inquietudini prodotte dalle pressioni globalizzanti in seno alla società bianca sudafricana. Così teorici dell’apartheid quali Diederichs, Cronje e Du Plessis denunciavano il capitalismo sfrenato ed il cosmopolitismo liberale che avrebbero portato all’estinzione la ricca diversità etnica sudafricana sostituendola con una scialba uniformità culturale (Louw, op. cit.). J.B.M Hertzog, generale e poi primo ministro dell’Unione del Sudafrica, dichiarò che “il dovere del nativo non è quello di diventare un europeo nero, ma di diventare un nativo migliore, con ideali e con una cultura che siano i suoi” (Dubow, 1989). In realtà, naturalmente, il vero motivo non era quello di rispettare gli usi e costumi altrui, ma quello di evitare un’impura mescolanza etno-razziale (mengelmoes) e conservare il potere politico e l’egemonia socio-culturale.Altrimenti non si capisce perchè questo intervento radicale di ingegneria sociale avrebbe dovuto separare i gruppi etnici anche negli hotel, nei ristoranti, negli ospedali, sulle spiagge, nelle associazioni sportive e culturali, nei treni, ecc. e proibire i matrimoni interrazziali (inclusi quelli con le minoranze indiane e cinesi). Dietro la retorica dell’incompatibilità culturale e della deleteria ibridazione si celava il consueto tentativo di puntellare ideologicamente un sistema di potere delegittimato. L’imperativo della protezione della propria identità rendeva necessaria l’adozione di misure per rafforzare la coscienza etnica. Tra queste c’erano un sistema corporativo di stampo populista (Volkskapitalisme) e la celebrazione rituale del Great Trek dei Voortrekker boeri con la rievocazione storica in costume della migrazione dei pionieri e l’esaltazione degli eroi del passato. I paralleli con la realtà sudtirolese sono numerosi: l’esaltazione delle virtù contadine, la lotta contro la modernità globalizzante, la ricerca dell’autarchia, lo spirito indipendentista, un’intensa religiosità, la guerriglia per bande contro gli invasori guidati da generali “barboni”, l’etnopopulismo ed il patriottismo localista.

Quel che è interessante rilevare è che mentre in Sudafrica questo modello di monoculturalismo plurale portò all’apartheid, in Olanda lo stesso principio organizzativo, ma spogliato di qualunque componente razziale, si manifestò nella forma del verzuiling, o “pluralismo verticale”. Tra gli anni Venti e gli anni Sessanta la società olandese, per consentire alla popolazione di continuare a vivere nelle proprie comunità chiuse a dispetto dell’avanzare della globalizzazione, fu spezzettata in quattro diversi blocchi verticali, o pilastri (zuilen), ciascuno con la propria ideologia di riferimento (socialismo, calvinismo, cattolicesimo, liberalismo, ecc.) e collegati solo dall’intreccio delle rispettive elite e dalla volontà di raggiungere una serie di compromessi per il bene della nazione. In questo modo ogni cittadino poteva vivere in un mondo familiare, ordinario, omogeneo, fatto di banche, mezzi d’informazione, sindacati, partiti, scuole, ospedali, biblioteche, università, associazioni sportive e culturali, bar e chiese ideologicamente corretti e congrui (Wintle 1987). Il motto era “vivere separati ma assieme”, su base egalitaria. Di conseguenza i membri di un pilastro (zuil) non avevano necessità di incontrare i membri degli altri pilastri. Questa auto-segregazione, ufficialmente giustificata dal bisogno di trovare un accordo di massima tra persone di mentalità diversa, servì ad accrescere le distanze sociali tra gruppi di cittadini proprio quando le specificità culturali s’indebolivano a causa della loro prossimità fisica. Nella piena certezza della giustezza delle proprie idee e della erroneità di quelle altrui, si preferì evitare un confronto diretto piuttosto che vedere nel disaccordo e nel contrasto risorse da mettere a frutto per il progresso del paese (Wintle, 2000). Solo la spinta libertaria della fine degli anni Sessanta, che in Olanda non si è ancora fermata, riuscì ad abbattere questo sistema coercitivo, che trova paralleli in società notoriamente instabili ed autoritarie come il Libano, la Malesia, Mauritius, le Figi, l’Irlanda del Nord e Cipro. Ma la nozione stessa di una segmentazione sociale non è morta nei Paesi Bassi. Ancora oggi le etnie minoritarie immigrate sono state inquadrate in un modello multiculturalista molto simile a quello del verzuiling, come se questo fosse l’unico modo di evitare seri conflitti sociali. In realtà anche in passato la segregazione ha funzionato, almeno in parte, solo per una serie di circostanze eccezionali: (a) l’assenza del feudalesimo e quindi il precoce emergere di una società aperta ed egalitaria ostile ad comunità gerarchizzate; (b) un costante, secolare flusso di immigrati; (c) comunità di fedeli di dimensioni comparabili; (d) la tradizionale cooperazione tra le elite; (e) l’emigrazione di un’ampia sezione della popolazione più fondamentalista verso il Michigan ed il Sudafrica; (f) un’economia tradizionalmente fondata su di un intenso commercio marittimo (Pettigrew & Meertens 2003). In seguito i processi di laicizzazione, individuazione e mondializzazione hanno eroso il consenso attorno a questo modello sociale e oggi è finalmente possibile affermare che la celebre tolleranza olandese è stata raggiunta non grazie a, ma nonostante il verzuiling (Pettigrew & Meertens, op. cit.).

Se riesaminiamo quanto detto possiamo notare che in queste società l’interculturalità non era intesa come un valore e che l’enfasi sull’unità nella diversità genera un collage di comunità autoperpetuantesi e per quanto possibile indifferenti le une rispetto alle altre, invece che una società nel senso proprio del termine – un insieme organizzato di individui associati. Notiamo anche che sebbene questo approccio sia in grado di limitare temporaneamente il ricorso alla violenza da parte dei cittadini e dello stato, le tensioni rimangono, e non sono sempre latenti. Se a ciò aggiungiamo il carattere coercitivo nei confronti delle libere scelte individuali, siamo costretti a concludere che questo modello dovrebbe avere un’applicazione limitata nel tempo e nella portata. L’alternativa ad un Giardino di Rose (Stato Razziale) o ad uno zoo di gabbie separate (etnocrazia) è un parco botanico come quello di Castel Trauttmansdorff (democrazia liberale) che riunisce la flora locale e quella di tutto il mondo, realizzando un’integrazione di ibridazioni, non discriminatoria e non intimorita dalle eventuali contaminazioni. Questa è la direzione intrapresa, non senza tentennamenti e difficoltà, dalla Repubblica di Mauritius, ma anche dalla maggior parte dei paesi del Nord Europa e Nord America. Vi si parlano diverse lingue ed è nata una lingua franca creola, si celebrano capodanni e feste religiose assieme, si convive, invece di esistere separatamente. E tutto questo in un paese dove il discorso ufficiale, nella politica come nell’educazione, è stato per lungo tempo primordialista, l’ibridità era vista come una piaga sociale e ci sono casi di politici che, come Langer, hanno rifiutato pubblicamente l’obbligo di identificarsi con un gruppo etnico specifico. La società civile mauriziana ha, in buona parte, ignorato le pretese di politici ed imprenditori etnici (ossia chi ha interesse a sottolineare differenze e separazioni) per amor del quieto vivere. Almeno in questo, e forse non solo in questo, Mauritius è più progredita e civile dell’Alto Adige, a dispetto dell’enorme divario nelle risorse, infrastrutture, alfabetizzazione e sostegno internazionale. Immagino sia questo il cammino da percorrere, quello che conduce ad un luogo dell’anima dove la storia e la cultura del mio prossimo sono anche parte della mia identità, eterogenea, sovrabbondante, plurale di chi non è più uno, non è più una monade, ma più di uno; è eccedente, è poroso, espansivo, comprensivo, senza nel contempo perdere di vista il suo giroscopio interiore, la sua bussola morale, ossia senza abiurare la sua individualità. Dove la mia gente è la gente che considero tale, a prescindere dalle classificazioni ufficiali. La destinazione è il luogo dell’incredibile simmetria, la palintonos harmonia, l’armonia degli opposti eraclitea, dove tutto quel che dissolve unisce, tutto quel che distanzia e separa ricongiunge.

Tenuto conto del fatto che le identità forti sono la conseguenza e non la causa dei conflitti, l’unico modello praticabile è quello di una società aperta, libera da tabù, tribalismi e vincoli imposti dall’alto, dove le scelte sono consapevoli e critiche (Amselle, 2001). Quante speranze ci sono che ciò avvenga? Poche, molto poche, almeno nel breve periodo. In ogni caso, bisognerebbe quantomeno evitare di commettere lo stesso errore dell’Impero Austro-Ungarico che, nell’intento di censire i suoi sudditi su base etnica, finì per indebolire il sentimento di comune appartenenza ad un organismo sovranazionale e potenziò le spinte centrifughe e le dispute tra le varie nazionalità, collassando infine sotto il peso di egoismi e rivendicazioni localistiche più o meno giustificate (Zeman, 1990). Secondo me l’attuale modello autonomista rischia di perpetuare quest’irragionevole contrapposizione tra localismo ed universalismo. Lo smarrimento identitario altoatesino avrebbe potuto essere un terreno fertile per una politica interculturale favorevole alle contaminazioni di idee e stili di vita. Invece gli studi periodici dell’Istituto provinciale di statistica di Bolzano confermano che per i giovani altoatesini i confini etnici rimangono poco permeabili e circa un terzo di loro (con picchi prossimi al 50% tra quelli di lingua italiana)non è soddisfatto dell’attuale modello di convivenza etnica. Ancora fino a pochi anni fa gli Altoatesini di lingua italiana ponevano quelli di lingua tedesca sui gradini più bassi nella scala delle preferenze, dopo Cinesi ed Africani e prima di Tirolesi, Albanesi e Zingari (Kohr et al. 1994; Buzzi et al., 2004). Nell’elaborare il presente modello autonomistico si è pensato che siccome il bersaglio di violenze ed abusi sono spesso i “gruppi umani” allora sono questi che vanno tutelati e risarciti, come se la volontà individuale costituisse una presenza disturbatrice. Ad una violenza semplificatrice della complessità del reale si è opposta una giustizia parimenti semplificatrice ed arbitraria che ha mortificato la libertà di scelta dei singoli, costretti ad auto-amputare la propria identità plurale. A livello politico, poi, questo stato di cose è stato riaffermato da un moralismo manicheo imperniato sull’eroica lotta contro l’oppressore, sia esso di etnia “tedesca” o “italiana”. Proporzionali e censimenti etnici possono funzionare per un paio di generazioni al massimo, quando gli umori della popolazione sono orientati allo scontro. Poi diventano inevitabilmente parte del problema, in quanto mantengono i conflitti latenti, invece di sanarli. La proporzionale etnica tende a spersonalizzare gli individui e stereotipizzare i gruppi e, quando a ciò si aggiunge la competizione per le risorse, le tensioni che ne derivano innescano un meccanismo di identificazione automatica dell’individuo con il suo gruppo di riferimento che sopprime le discrepanze tra identità personale ed identità collettiva. In altre parole nessuna vera riconciliazione è possibile in una democrazia su base etnica. Essa non è casa per nessuno, è cronicamente instabile e giace su un pendio che conduce al baratro della distopia e dello scontro interetnico. Gli esempi che possono servire a minare il dogma dell’etnocrazia sudtirolese sono innumerevoli: Israele, Cipro e Yugoslavia, Myanmar, Malesia, Sri Lanka, Québec, Fiji, Rwanda, Cambogia, Estonia e Slovacchia, oltre ad un eventuale Iraq etnicamente tripartito. Per quanto tempo ancora continueremo ad illuderci? Questo tipo di democrazia etnocratica rimane in vita solo perché una maggioranza di cittadini ha paura di quel che avverrebbe con la sua scomparsa e perché si identifica così fortemente con la patria che qualunque critica all’ideologia dominante nella sua patria è vista come un attacco personale. Erich Fromm aveva già notato che chi criticava la Germania durante il nazismo spingeva sempre più tra le braccia di Hitler anche quei Tedeschi in disaccordo con lui. Questo è il risultato di quel morbo che è il patriottismo, l’assudditarsi del devoto ad un idolo.


[1] Anche se solo una minoranza simpatizzò per Hitler.

Padania e Baviera

Affinità e divergenze tra Padani e Bavaresi

di Gabriele Merlini

C’è una storiella fenomenale che torna ciclicamente sui media. Un po’ come l’elezione del cane più brutto del mondo o il cliccatissimo divorzio hollywoodiano. E spesso si presenta in relazione a congressi straordinari, plenarie o estemporanei spazi di confronto (dal monologo alla sfilata di elmi normanni –Nasalhelm in tedesco- quelli senza corna) della Lega Nord. Cioè raffrontare il cosiddetto Carroccio alla CSU bavarese, costola della CDU o Christlich Demokratische Union Deutschlands nazionale. Nonché -per estensione- il nord padano al sud della Germania. Vie d’approccio mediatiche differenti ma parimenti funzionali: una sembrerebbe essere il citare a rotazione qualche esponente promulgatore della idea di unire («confederare») la zona che dalla Bassa conduce a Bressanone quindi Svizzera, Baviera e il Baden-Württemberg (aree che senza dubbio non stanno nella pelle in vista dell’evento)

o rapportarle secondo i crismi di alta produttività, diffuso benessere e status scomodo di motore nazionale. E certo tutto pare pienamente lecito: discutibile che possa suonare, è una teoria. Però l’argomento risulta al tempo stesso scivoloso e tagliente poiché il distratto può pensare male ossia che la Lega (nelle proprie -ormai superate, sicuro- correnti: barbari sognanti e/o cerchio magico) abbia davvero profonde similitudini con la CSU bavarese. Da qui l’idea di un riassuntino/confronto in vista dell’aggiustamento reciproco.

Per dire. La Christlich-Soziale Union in Bayern è un partito tedesco che opera solo in Baviera, che sarebbe un Land della Germania, che sarebbe una repubblica federale. La Lega Nord è un partito italiano che nella norma può operare in qualsiasi regione d’Italia, che non è una repubblica federale.
La CSU bavarese è un partito conservatore dalle posizioni più conservatrici rispetto alla CDU nazionale. La Lega Nord è un partito chissà se più a destra o sinistra o alleato o avversario del Popolo della Libertà, che sarebbe il movimento con il quale ha governato lungamente.

La CSU ha governato in Baviera da quando è stata fondata, e da qui l’appellativo di «partito egemone». Furono esponenti della CSU tutti i primi ministri bavaresi dal cinquantasette a oggi (più dal quarantasei al cinquantaquattro) mentre la Lega ha alternato exploit notevoli a fiaschi tremendi e quando infila qualcuno su qualche scranno ci sta che sia pure rubricato alla voce lista civica.

«Rimodellare il Carroccio sul modello della CSU bavarese» è mantra frequente nei titoli del giornali e dovrebbe infondere un po’ di allegria allo spaesato elettore reduce da tempi complicati: i tedeschi offrono infatti solide garanzie di serietà e meglio accodarsi a loro che a sciagurati concittadini, no? Come e in che modo però rimane un mistero. Farsi un proprio parlamento (la Baviera di fatto ce l’ha)? Strada percorribile e già percorsa ma ahimè le targhe finte su palazzi altrui paiono riscuotere relativo successo. Mala tempora. Allora riguadagnare credibilità attraverso una costante opera di pulizia interna, muniti di scope decorate in verde? Ok tuttavia non prendete in questo caso come modello la CSU, scossa com’è da ricorrenti polemiche e accuse (ultime l’idea di rimettere in giro il Mein Kampf per prevenire una feroce diffusione allo scadere dei diritti, o la sparata del celebratissimo pluri-presidente Edmund Stoiber sulle sorti elettorali della nazione: «non posso accettare che sia di nuovo la Germania Est a decidere chi sarà il prossimo Cancelliere. Non si può permettere che della gente frustrata determini le sorti della Germania.» Eccetera.)

Avanti.

«Ad Assago elezioni plebiscitarie per il nuovo leader del Carroccio. Come modello la CSU bavarese» titola la Padania di lunedì due luglio. «Governatori e sindaci guerrieri il vero esercito padano, che guarda all’Europa dei popoli.»

Europa dei popoli capace di offrire qualche elemento di comunione ai due movimenti, seppure anche qui con talune differenze. Vale a dire sia la Lega che la CSU bavarese -o buona fetta di essa- hanno qualche problemino nei confronti dell’Euro e l’Unione e i popoli, con i primi che ci sparacchiano contro appena possono, mentre i secondi che si limitano a un approccio più soft suggerendo l’uscita di qualche stato membro, poi si vedrà (ultima cronologicamente la Grecia per bocca di Hans-Peter Friedrich: «Atene non ha soltanto un problema di liquidità ma anche problemi strutturali e di crescita. Per questo deve seriamente prendere in considerazione di uscire dall’euro.» Il tutto mentre da Berlino Angela Merkel sosteneva l’esatto opposto alla stampa estera.)
L’avere evitato il gesto dell’ombrello o il dito medio nella redazione dello Spiegel è segno di discontinuità della CSU bavarese con il movimento di via Bellerio. Ma c’è tempo per venirsi incontro.

Sorvolando infine sugli aspetti etici («la CSU è per una politica basata sulla responsabilità cristiana. A ciò si accompagna il rifiuto di progetti utopistici per il futuro» dal sito ufficiale) o religiosi, sebbene ad oggi poco spazio abbiano avuto nel cristianesimo caratterizzante la CSU le divinità fluviali, i soli delle Alpi e druidi. Ma anche qui c’è tempo per venirsi incontro. D’altronde se ne parla da pochissimo («D’Onofrio: facciamo come la CSU bavarese» sul Corriere della Sera, 7 febbraio 1998) e perché affrettarsi?

http://www.eastjournal.net/germania-affinita-e-divergenze-tra-il-compagno-padano-e-noi-cattolici-bavaresi/18891

*****

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/07/22/contro-i-miti-etnici-alla-ricerca-di-un-alto-adige-diverso-un-libro-preveggente/

Come se non ci fossero abbastanza problemi, arrivano le carestie globali

Articolo del Guardian

Il meteo impazzito in alcune delle regioni agricole vitali per il mondo sta devastando colture e minacciando una nuova crisi alimentare globale paragonabile agli shock che hanno scatenato disordini sociali e politici nel 2008 e nel 2010.

Mentre gli Stati Uniti subiscono la peggiore siccità in oltre 50 anni, gli analisti avvertono che l’aumento dei prezzi alimentari potrebbe colpire i paesi più poveri del mondo, causando sconvolgimenti sociali.

La situazione ricorda quella del 2008 quando i prezzi dei generi alimentari hanno scatenato un’ondata di disordini in 30 paesi in tutto il mondo, da Haiti al Bangladesh.

Gli studiosi affermano che l’aumento dei prezzi dei generi alimentari ha anche contribuito ad innescare la primavera araba nel 2011.

Nick Higgins, analista commerciale della Rabobank, ha dichiarato: “Le rivolte per il cibo sono un rischio reale; a questo punto i prezzi del grano sono ancora più elevati che nel 2008, e ciò avrà un effetto su chi non può permettersi di pagare i costi più”.

Il segretario americano per l’agricoltura Tom Vilsack ha detto: “se conoscessi una danza della pioggia la farei”.

Gli Stati Uniti sono fondamentali per i mercati alimentari mondiali, essendo il maggiore esportatore mondiale di mais, soia e grano, per cui l’impatto della siccità si farà sentire in tutto il mondo.

I prezzi del mais sono già saliti del 40% da giugno, stabilendo  record storici, i prezzi della soia sono saliti del 30%, anche loro a livelli record, e il grano è lievitato del 50%.

Ma la crisi non ha colpito solo gli Stati Uniti.

Anche l’America del Sud è stata colpita da una siccità, che potrebbe danneggiare il raccolto di soia, mentre il frumento britannico è stato danneggiato dalla pioggia.
Le inondazioni russe potrebbero condizionare la mietitura del grano, causando picchi dei prezzi.

Il problema è aggravato da forti ordinativi di mais e soia per produrre biocarburanti, al fine di soddisfare le quote negli Stati Uniti e in Europa.

La Cina sta facendo un’incetta strategica di cereali, mettendo sotto pressione i mercati.

I consumatori percepiranno presto gli effetti di questi picchi. Un alto prezzo del grano si riflette direttamente in un aumento dei prezzi nei negozi, in quanto è l’ingrediente principale per il pane e di altri alimenti di base.

Il collegamento è meno diretto con altre colture. Mais e soia vengono utilizzati per alimentare il bestiame, l’aumento dei prezzi così finirà per causare un aumento del prezzo della carne. Nel breve termine, tuttavia, avranno l’effetto contrario, perché gli allevatori uccideranno il bestiame per non doverlo nutrire e ciò produrrà una temporanea caduta dei prezzi. In seguito costerà molto ricostruire le mandrie di bovini e questi effetti inflazionistici saranno lunghi e persistenti.
L’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari hanno un effetto sproporzionato sui più poveri del mondo.

Chi vive in Occidente spende circa il 15% del loro reddito per il cibo, un valore che sale a circa il 75% nei paesi in via di sviluppo: perciò qualsiasi variazione dei prezzi alimentari ha un impatto drammatico sui bilanci delle famiglie. Purtroppo ora i loro risparmi sono stati bruciati dalle crisi del 2008 e 2010.

Gli economisti temono che l’inflazione dei prezzi alimentari aggraverà la crisi economica globale, in quanto limiterà la capacità dei mercati emergenti di fornire qualsiasi tipo di stimolo per guidare la ripresa.

Lucio Caracciolo, “L’Europa è finita?” (considerazioni di immenso buon senso sull’Europa, sull’Italia e su altro ancora)

Estratti da “L’Europa è finita?”, di Enrico Letta, Lucio Caracciolo. Torino : Add, 2010.

Lucio Caracciolo scrive:

18-19: L’Europa che vorrei dovrebbe essere anzitutto un grande spazio di democrazia, di libertà e di protezioni sociali nei limiti in cui demografia ed economia ce lo permetteranno. Sotto il profilo istituzionale, non penso a un’Ue-Stato. Vedo semmai diversi sottogruppi europei, alcuni più, altri meno integrati. I primi potrebbero sviluppare delle confederazioni europee, cioè degli Stati con diversi livelli di sovranità concordata, gli altri svilupperebbero l’integrazione attuale, approfondendone gli aspetti economici (per esempio riguardo alla mobilità della forza lavoro), a istituzioni politiche più o meno costanti.

20-21: Penso a una Confederazione europea nell’Unione europea, che comprenda i sei Paesi fondatori (Italia, Francia, Germania, Olanda, Lussemburgo e Belgio) più Spagna, Portogallo, Austria. Aggiungerei la Svizzera, se mai gli elvetici dovessero cambiare idea sull’Europa, cosa di cui dubito fortemente. Escludo quindi le isole britanniche, la cui storia si fonda sull’idea di impedire l’unità europea. Ed escludo anche nuovi o risorti Stati dell’Europa centrale e orientale, la cui priorità attuale non è l’integrazione comunitaria ma il consolidamento della recuperata sovranità nazionale. In termini diacronici, sono nazioni risorgimentali. Alcune delle quali ancora in cerca di confini stabili.

21-22: Alcuni popoli europei – penso ai catalani piuttosto che ai fiamminghi o agli scozzesi – usano l’Europa come grimaldello per emanciparsi, in prospettiva, dai rispettivi Stati (multi)nazionali, o almeno per conquistare autonomie sempre più accentuate.

L’attuale crisi economica, che è sempre più una crisi sociale, rischia poi di mettere in questione il senso concreto degli Stati nazionali, a cominciare dal nostro. Quando i tedeschi riscoprono l’Euronucleo come insieme riservato ai Paesi connessi all’economia e alla cultura monetaria germanica, constatiamo che ne risulta rafforzata la tesi «padana» per cui il Nord Italia pertiene a questo spazio, il Sud niente affatto.

22: Non so fino a dove si spingeranno fra vent’anni i confini dell’Unione europea, se ancora esisterà. In ogni caso mi pare difficile che possa recuperare una funzione integrativa, mentre probabilmente si acccentuerà la tendenza opposta. Ne risulterà una geopolitica più complessa, quindi di più ardua gestione.

25: Il mio timore è che l’Ue finisca per delegittimare le democrazie nazionali – le uniche di cui disponiamo – senza produrre una democrazia europea.

26: Se per fare l’Europa dobbiamo negare il cittadino, tengo il cittadino e butto l’Europa.

31: Infatti la Germania non pensava a un euro per tutta l’Europa – roba da europeismo ingenuo – quanto a una moneta dell’ area del marco: un vestito europeo per la moneta tedesca.

33: Se riprendiamo in mano i giornali tedeschi o olandesi della seconda metà degli anni Novanta, quando si dibatteva del diritto di questo o quello Stato di entrare nell’euro, vi troviamo gli stessi stereotipi che corrono di nuovo oggi, sull’onda della crisi partita dalla Grecia: PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna = maiali), Club Med e altre simpatiche definizioni di stampo antropologico. Categorie irrazionali ma potentemente radicate nelle opinioni pubbliche e nelle élite, che illustrano il presunto carattere dei vari popoli, echeggiando le teorie di Schumpeter sulla cultura monetaria come espressione della cultura nazionale. Quindici anni dopo, senza dracma né peseta né lira ma con l’euro in mano, siamo ancora a questo genere di polemica etnomonetaria. Un razzismo soft. Alla faccia dell’affratellamento europeo che l’euro avrebbe inevitabilmente generato.

42-43: Un’Europa per non con gli europei, elaborata da un club di ottimati nei loro inaccessibili laboratori. Quell’ europeismo si considerava figlio di una filosofia della storia che avrebbe prodotto l’Europa per surrogazione tecnocratica, non per effetto di una scelta politica discussa e condivisa, ritenuta impossibile. Un tentativo titanico, che meriterebbe un’ analisi aperta e approfondita, invece dei mascheramenti che tuttora lo occultano. Un orizzonte talmente astratto dalle dinamiche storiche da contenere in nuce le premesse della sua irrealizzabilità.

45-46: Trovo…straordinariamente affascinante e originale il ragionamento dell’ europeismo «alto». Quello che nonostante tutto continua a crederci davvero. O almeno non sa rinunciare a credere. Questi, più che rispettabili politici e pensatori, mi ricordano Tertulliano: credo quia absurdum. È una fede. Una fede, per me paradossale, nelle virtù salvifiche delle crisi. La tesi: dobbiamo stare molto male per diventare buoni. Più costruiamo meccanismi imperfetti – l’euro senza Europa -, più ci costringiamo a perfezionarli. A questo può portare la sfiducia degli eletti nei cittadini europei, o futuri tali. Soffrire fa bene all’Europa? Non condivido. Confesso di non essere obiettivo nella mia analisi, perché il cilicio continua a sembrarmi una forma di perversione anziché un veicolo di perfezionamento. Dunque non mi convince la teoria dell’ europeismo classico, fondata sulla speranza nell’effetto maieutico delle crisi. Tu stesso hai citato l’esempio della seconda guerra mondiale o dell’ attuale crisi economica. La crescente consapevolezza del deficit politico dell’Europa prodotta dalla crisi dell’ euro sarebbe destinata a produrre più Europa. Mi pare un’idea catastrofica. In senso tecnico. Per me le catastrofi sono catastrofi, le crisi crisi. Punto. E non sono affatto certo che mi o ci migliorino. Tanto meno che facciano l’Europa. È semmai durante le crisi che emergono i nostri lati peggiori: nefandezze collettive talvolta riscattate dall’ eroismo di pochi. Egoismi, diffidenze, chiusure, tentazione di scaricare sui più deboli i problemi dei forti (e viceversa). In ogni caso, anche se la teoria delle catastrofi potesse un giorno molto futuro rivelarsi corretta e dunque produrre davvero l’Europa, preferirei non rischiare l’esperimento. Invoco il principio di precauzione.

46-47: il vincolo esterno. Tu ne hai fatto le lodi. lo non ci riesco proprio…Un riflesso pericoloso perché fondato sulla radicale sfiducia in noi stessi. Nell’Italia e negli italiani. Ma se non siamo capaci di governarci da soli, in che senso saremmo una repubblica e una democrazia? Se non ci fidiamo di noi stessi, dobbiamo per forza cercare qualche soggetto esterno che abbia tempo da perdere con l’Italia, per eterodirigerla.

47: Ci poniamo volutamente in una condizione di inferiorità che non ci permette di essere percepiti come pari da chi si considera al cuore del progetto europeo. Ciò rende paradossale il nostro europeismo, perché è tanto più spinto quanto più grave è la sfiducia in noi stessi. È l’esatto contrario dell’idea di Europa dei Paesi più forti: l’Europa come moltiplicatore della propria potenza, non come compensazione della propria impotenza. Il vincolo esterno è la dichiarazione di non-europeità dell’Italia.

48: Se l’Italia vorrà avere un ruolo di rilievo in Europa nei prossimi anni, dovrà prima di tutto occuparsi di se stessa, recuperando un’idea sufficientemente forte di unità nazionale.

49: In un Paese dove efficienza e legittimazione dello Stato non solo sono storicamente deficitarie ma decrescenti, parlare di federalismo significa lavorare per lo smantellamento di quel poco di istituzioni comuni di cui ancora disponiamo. Significa produrre un patchwork di regioni semi-indipendenti molto dissimili tra loro sotto ogni profilo, che dovrebbero essere tenute assieme miracolosamente da un centro sempre più delegittimato. E come per l’europeismo, il federalismo all’italiana non esprime un progetto.

49: Il paradosso è che invece di utilizzare lo slancio europeo per costruire un’Italia che si tenga in piedi con le proprie gambe e dia, in quanto tale, un proprio contributo alla costruzione dell’Europa, con il mito del vincolo esterno abbiamo contribuito a decostruire quel poco che rimane del nostro Stato democratico.

56: SULLE PECCHE DELA GRECIA: Il pericolo è fare di questa giusta critica un argomento etnico. Un razzismo appena mascherato. Questa forse è la peggiore delle derive della tecnocrazia, che tendendo a esautorare la politica riporta in auge gli stereotipi culturali. Come se vi fossero Paesi geneticamente dediti a spendere e spandere, e altri Paesi costitutivamente dediti alla virtù. In ogni stereotipo, come in ogni leggenda, c’è una base di verità. Farne però la regola immutabile, il destino di un popolo, è la fine della politica. Nel caso dell’ euro, concepire come hanno fatto e tendono di nuovo a fare i tedeschi, un Euronucleo di Paesi automaticamente virtuosi, è un modo di ragionare antipolitico. Una sorta di etnomonetarismo. Trascurando, come tu ricordavi, che la stessa Germania, oltre naturalmente alla Francia, ha allegramente deviato dalle presunte virtù e dalle regole scritte in più di un’ occasione. E dimenticando che gli altri europei hanno pagato un prezzo molto alto per l’unificazione tedesca, contribuendo allo sforzo di Berlino volto a riempire il buco nero della Rdt con enormi trasferimenti finanziari, dai risultati peraltro discutibili. E purtroppo questo etnomonetarismo si sposa con analoghe tendenze interne agli Stati membri. Penso anzitutto al Belgio, ma anche all’Italia, alla propaganda leghista sull’inconciliabilità fra Nord e Sud.

74: Noi tendiamo purtroppo a rimuovere il nostro passato recente. E a immaginarci come un continente spontaneamente democratico. Noi pensiamo di essere più democratici degli altri. Come se la democrazia fosse nel nostro Dna.

75: Che tale vincolo sia eterno, ne dubito. Continuando a minare la logica della politica democratica, potremmo risvegliare le bestie intolleranti che animarono i nostri avi.

79: Contesto che esista un’opinione pubblica europea. Niente affatto. Esistono diverse opinioni pubbliche nazionali in Europa. La prova? Ogni volta che si tenta di varare un medium europeo, non funziona. Non si riesce a vendere lo stesso giornale a Cipro e a Dublino, a Roma e a Riga, a Londra e a Lubiana, a Parigi e a Berlino (nemmeno a Berlino e a Francoforte). Le culture e i gusti di queste popolazioni, tutte orgogliosamente rivendicanti la loro radice europea, sono troppo diverse.

84: L’altro protagonista ad avere le idee chiare sull’ allargamento a est era la Gran Bretagna. In parte perché condivideva la russofobia di quei Paesi; in parte perché vedeva l’ex Est come un’ area da non lasciare al predominio esclusivo della Germania; e in parte perché, come gli americani, voleva collegare gli ex satelliti di Mosca al mondo atlantico più che al mondo europeo. Londra non voleva «europeizzare» l’ex Est, voleva «atlantizzarlo» anche attraverso Unione europea. Con ciò rendendo complessivamente l’Ue meno europea e più atlantica. E ha vinto. L’allargamento battezzato da Bruxelles è stato un grande successo di Londra e Washington.

107-108: Il tuo ragionamento mi sembra uno sviluppo radical-utopistico del funzionalismo, per cui istituzioni e funzioni che si scoprono imperfette devono essere surrogate da autorità non-statuali e non legittimate da meccanismi democratici condivisi. Sicché le attuali istituzioni democratiche nazionali dovrebbero finire per autocommissariarsi per il bene della nostra moneta. Mi sembra politicamente difficile. Con tutto quello di buono che l’esperimento della moneta «unica» (nell’Ue ne circolano altre undici, ma continuiamo a chiamarla così, misteri dell’ eurogergo) può aver prodotto sotto il profilo economico, dobbiamo prendere atto che abbiamo raggiunto e superato il limite entro il quale il funzionalismo aveva un effetto integrativo. Adesso ha una funzione disintegrativa.

109-110: Stiamo chiedendo in nome dell’Europa sacrifici che i cittadini europei non sono disposti a concedere. Diamo così alimento alle teorie cospirative degli estremisti, che vedono un solo grande complotto mondiale di speculatori, banchieri e loro tirapiedi politici [Beh, è così: 1% contro 99%, ma l’1% non è compatto, per fortuna – NdR]. Con l’Europa pallido vampiro che affonda i denti nei nostri corpi infiacchiti dalla recessione. Temo che presto potremo trovarci di fronte a rivolte di piazza, a ondate di violenza, quanto meno a una protesta diffusa e rabbiosa che metterà sotto pressione le nostre istituzioni democratiche. Credo che il «rigore» così astrattamente concepito sia una risposta sbagliata, che avrebbe un effetto deprimente sulla stessa idea di Europa, per quel che ne resta. Non penso solo alla Grecia, ma anche all’Italia, una volta che alcuni ammortizzatori sociali avranno terminato o ridotto il loro effetto.

Se Europa non vorrà più dire pace e benessere, ma violenza e deflazione, chi oserà più difenderla?

121-122:   Un incendio è un incendio; molti incendi sono molti incendi. E la crisi che stiamo vivendo a mio avviso non ha nulla di positivo. Anzi, nasce proprio dall’ assenza di una prospettiva comune tra i principali Paesi europei sul da farsi. Insomma, se vogliamo parlare di unione politica dobbiamo parlare di politica.

Ascoltandoti, e conoscendo il tuo carattere moderato, mi colpisce l’impronta rivoluzionaria del tuo ragionamento. Quando parli di Europa mi sembri un bolscevico, che si augura che la crisi finaale del capitalismo diffonda nelle masse la consapevolezza dell’ oppressione di classe, spingendole ad affidarsi al Partito per conquistare il socialismo. Perché questo è il destino dell’umanità scoperto da Marx. Sostituisci Europa a socialismo e hai il ritratto dell’ideologia europeista.

lo non credo che la crisi che stiamo vivendo renda gli europei più consapevoli della necessità dell’Europa. Però il tuo ragionamento è interessante, perché lo sento ripetere ormai da molto tempo e da persone di diverso orientamento politico, che si riconoscono in tale presunta necessità della storia. Ora, non vedo alcuna necessità della storia, né nel caso europeo né in alcun altro caso. Sarò troppo ottimista, ma resto convinto che la storia non sia data ma sia anche frutto delle nostre azioni, spesso involontarie, nei brevi limiti della nostra esistenza e scontando l’inerzia formidabile del passato.

121-122: L’Europa che sogno è uno Stato confederale, dotato quindi di vari livelli di sovranità, dall’Europa al comune. I suoi confini saranno quelli dell’Europa centro-occidentale che ho sopra evocato. Questa Confederazione europea sarà una potenza attiva su scala globale. E sarà parte della molto più vasta e lasca Unione europea, da estendere a sud-est, verso la Turchia e il Nord Africa, che chiamerei quindi Unione euromediterranea.

Come si avvicina questo sogno? Non certo a partire dalle istituzioni comunitarie, perché non hanno la legittimità né l’autorità per farlo. Qualsiasi proposta per l’Europa futura non può che partire dalle autorità nazionali, le sole titolate a organizzare il consenso dei cittadini.

123-124: Se davvero si costituisse un Euronucleo paracarolingio, forse ne saremmo esclusi. In tal caso metteremmo a rischio l’unità nazionale. Perché se il criterio di quel nucleo è l’appartenenza alla sfera economica tedesca, Fino a Verona ci siamo, più a sud molto meno. Bossi avrebbe buon gioco a rispolverare i suoi argomenti secessionisti. Per la Lega l’Euronucleo torneerebbe a rivelarsi la leva per dividere l’Italia, non per unire l’Europa. E l’unica reazione possibile è quella di metterci definitivamente insieme come europei.

*****

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/07/22/contro-i-miti-etnici-alla-ricerca-di-un-alto-adige-diverso-un-libro-preveggente/

Un’inchiesta del Guardian ci spiega chi ci vuole portare in guerra e perché

A giudicare dal tono dei commenti nei forum dei quotidiani britannici e dai risultati dei sondaggi internazionali, questa guerra avrà i giorni contati. Non la vuole nessuno e le masse questa volta non si faranno infinocchiare. Ma questa non è una buona ragione per lavarsene le mani. Chi arriva a capire il mastodontico inganno perpetrato ai danni dell’opinione pubblica internazionale in Siria sarà in grado di porsi le domande necessarie, ma spesso eluse, su molte altre questioni. Questi sono tempi eccezionali, di grandi trasformazioni, e chi ne è consapevole sarà capace di cavalcare l’onda, chi non lo è sarà sommerso.

Questa è la traduzione di un articolo del Guardian che, per la prima volta, si pone la domanda che ogni giornalista serio avrebbe dovuto porsi da mesi: chi sono i nostri interlocutori dell’opposizione siriana?

“I media sono stati troppo passivi riguardo per quanto riguarda le fonti dell’opposizione siriana senza mai esaminare il loro background e le loro connessioni politiche. Quindi è tempo di dare un’occhiata più da vicino …

Questa è una storia che riguarda i suoi narratori: i portavoce, gli “esperti della Siria”, gli “attivisti per la democrazia”. I creatori della versione ufficiale dei fatti. Le persone che “sollecitano” e “avvertono” e “esortano a passare all’azione”.

È la storia di alcuni tra gli esponenti più citati dell’opposizione siriana e dei loro legami con il business anglo-americano della costruzione di un’opposizione anti-Assad. I principali media sono stati, per lo più, notevolmente passivi riguardo alle fonti siriane: classificandoli semplicemente come “portavoce ufficiali” o “attivisti pro-democrazia”, nella maggior parte dei casi senza esaminare le loro dichiarazioni, il loro background e le loro connessioni politiche.

È importante sottolineare che per studiare il background di un portavoce siriano non è importante mettere in dubbio la sincerità della sua opposizione al Assad. Bisogna tuttavia considerare che un odio appassionato del regime di Assad non è garanzia di indipendenza. In effetti, un certo numero di figure chiave del movimento di opposizione siriana sono esuli da lunga data che ricevevano finanziamenti governativi Stati Uniti per minare il governo Assad già da molto prima che la primavera araba fosse esplosa.

Sebbene non sia stata ancora comprovata la politica del governo degli Stati Uniti per rovesciare Assad con l’uso della forza, questi portavoce sono veementi sostenitori di un intervento militare straniero in Siria e per tale ragione dei naturali alleati di noti neoconservatori americani che hanno sostenuto l’invasione di Bush in Iraq e che stanno ora facendo pressione sull’amministrazione Obama per intervenire. Come vedremo, molti di questi portavoce hanno trovato sostegno, e in alcuni casi sviluppato relazioni lunghe e redditizie, con i paladini dell’intervento militare su entrambi i lati dell’Atlantico.

[…].

Il Consiglio Nazionale Siriano

I più citati portavoce dell’opposizione sono i rappresentanti ufficiali del Consiglio Nazionale Siriano. Il CNS non è l’unico gruppo dell’opposizione siriana – ma è generalmente riconosciuto come “la principale coalizione di opposizione” (BBC). Il Washington Times lo descrive come “un gruppo ombrello di fazioni rivali con sede al di fuori della Siria”. Certamente il CNS è il gruppo di opposizione che ha avuto i più stretti rapporti con le potenze occidentali – e che ha chiesto l’intervento straniero sin dalle prime fasi della rivolta. In febbraio di quest’anno, in occasione dell’apertura del vertice degli Amici della Siria in Tunisia, William Hague ha dichiarato: “Incontrerò i leader del Consiglio nazionale siriano tra pochi minuti … Noi, in accordo con altre nazioni, d’ora in poi tratteremo con loro, riconoscendoli come i legittimi rappresentanti del popolo siriano “.

Il portavoce ufficiale del CSN di più lunga data è l’accademica siriana con sede a Parigi Bassma Kodmani.

Bassma Kodmani è stata vista quest’anno alla conferenza Bilderberg a Chantilly, in Virginia.

La Kodmani è un membro dell’ufficio esecutivo e responsabile degli affari esteri del Consiglio Nazionale Siriano. La Kodmani è molto vicina al centro della struttura di potere del CSN, ed è uno dei portavoce più irruenti del Consiglio. “Nessun dialogo con il regime al potere è possibile. Possiamo solo discutere su come passare a un sistema politico diverso”, ha dichiarato questa settimana. E in questo passo viene  citata dal notiziario dell’AFP dichiara: “Il prossimo passo deve essere una risoluzione ai sensi del capitolo VII, che consente l’utilizzo di tutti i mezzi legittimi, inclusi mezzi coercitivi, l’embargo sull’importazione di armi, nonché l’uso della forza per obbligare il regime ad accondiscendere con noi”.

Questa affermazione si traduce nel titolo “I Siriani richiedono peacekeepers dell’ONU armati” (dell’australiano Herald Sun). Quando si invoca un’azione militare internazionale su larga scala ci sembra ragionevole chiedersi: Ma chi è, con esattezza, che la invoca? Possiamo dire, semplicemente, “un portavoce ufficiale del CSN”, oppure sarebbe necessario informarsi meglio?

Quella di quest’anno era la seconda conferenza Bilderberg della Kodmani. Nel corso della conferenza 2008, la Kodmani è stato inserita nella lista come francese, ma nel 2012, la sua “francesità” era venuta meno e lei era stata contrassegnata semplicemente come “internazionale” – perché la sua patria era diventato il mondo delle relazioni internazionali.

Qualche anno fa, nel 2005, la Kodmani lavorava per la Fondazione Ford al Cairo, dove era direttrice del loro del programma di controllo e cooperazione internazionale. La Fondazione Ford è una grande organizzazione, con sede a New York, e già allora la Kodmani aveva fatto carriera. Ma stava per fare molta altra strada, a livello professionale.

Nello stesso periodo, nel mese di febbraio del 2005, le relazioni degli Stati Uniti con la Siria subirono un grave deterioramento ed il presidente Bush richiamò in sede il suo ambasciatore da Damasco. Un mucchio di progetti dell’opposizione risalgono proprio a questo periodo. “Il denaro degli Stati Uniti per le figure dell’opposizione siriana ha cominciato a scorrere a fiumi sotto la presidenza di George W. Bush, dopo il suo congelamento delle relazioni con Damasco nel 2005“, scrive il Washington Post.

Nel settembre del 2005, la Kodmani fu nominata direttore esecutivo della Arab Reform Initiative (ARI) – un programma di ricerca avviato dal potente gruppo di pressione degli Stati Uniti, il Council on Foreign Relations (CFR).

Il CFR è un thinktank estremamente influente in politica estera, e l’iniziativa Arab Reform è descritta sul suo sito web come un “CFR Project“. Più specificamente, l’ARI è stata avviata da un gruppo all’interno del CFR chiamato “US / Middle East Project” – un corpo di diplomatici di alto livello, di funzionari di intelligence e di finanziatori, di cui l’obiettivo dichiarato è di effettuare un’ “analisi delle politiche regionali” allo scopo di “prevenire i conflitti e promuovere la stabilità dei paesi arabi”. Il progetto US / Middle East persegue questi obiettivi sotto la guida di una commissione internazionale presieduta dal generale (in pensione), Brent Scowcroft.

Brent Scowcroft (presidente emerito) è un ex consigliere della sicurezza nazionale del presidente degli Stati Uniti – ha assunto il ruolo di Henry Kissinger. Seduto al fianco di Scowcroft nel consiglio internazionale è il suo compagno geo-stratega, Zbigniew Brzezinski, che gli succedette come consigliere per la sicurezza nazionale ed anche Peter Sutherland, presidente della Goldman Sachs International. Già nel 2005, risulta che una branca istituzionale di alto livello dell’intelligence e della finanza occidentale aveva selezionato la Kodmani per eseguire un progetto di ricerca in Medio Oriente. Nel settembre dello stesso anno, la Kodmani fu nominata direttore del programma a tempo pieno. In precedenza, nel 2005, il CFR assegnò il “controllo finanziario” del progetto al Centre for European Reform (CER).

Il CER è supervisionato da Lord Kerr, vice presidente della Royal Dutch Shell. Kerr è un ex capo del servizio diplomatico ed è un consulente senior presso la Chatham House, (un thinktank vetrina dei migliori cervelli dell’ estabishment diplomatico britannico).

Il responsabile del CER è Charles Grant, un ex redattore in materia di difesa dell’ Economist, e oggi membro del Consiglio europeo per le Relazioni Estere, un “thinktank pan-europeo” pieno zeppo di diplomatici, di industriali, di professori e di Primi Ministri. Nella lista dei suoi membri troverete il nome: “Bassma Kodmani (Francia / Siria) – Direttore Esecutivo, dell’ Iniziativa per l’Arab Reform“.

Un altro nome sulla lista è : George Sorosil finanziere la cui non-profit “Open Society Foundations” è la fonte primaria di finanziamento dell’ ECFR. A questo livello, nel bel mondo del settore bancario, della diplomazia, dell’industria, dei servizi segreti e di vari istituti e fondazioni di politica, tutti interrelati, piazzata lì, nel bel mezzo di tutto questo, ci troviamo la Kodmani.

Il punto è che la Kodmani non è una “attivista pro-democrazia” presa a caso a cui capita di essersi trovata davanti a un microfono. Ha impeccabili credenziali diplomatiche internazionali: lei ricopre la carica di direttore della ricerca presso l’Académie Diplomatique Internationale – “un’istituzione indipendente e neutrale dedicata a promuovere la diplomazia moderna”. L’Académie è diretta da Jean-Claude Cousseran, un ex capo della DGSE – il servizio di intelligence straniera francese.

Un’immagine sta emergendo della Kodmani ed è quella della fidata luogotenente dell’industria della promozione della democrazia anglo-americana. La sua “provincia di origine” (secondo il sito web del CSN) è Damasco, ma ha stretti rapporti professionali e di lunga data, precisamente con quei poteri ai quali sta chiedendo di intervenire in Siria.

E molti dei suoi colleghi portavoce dell’opposizione sono ugualmente ben introdotti.

Radwan Ziadeh

Un altro rappresentante spesso citato del CSN è Radwan Ziadeh – direttore delle relazioni estere presso il Consiglio Nazionale Siriano. Ziadeh ha un curriculum impressionante: dirigente in un thinktank finanziato dal governo federale di Washington, l’US Institute of Peace (il cui Consiglio di Amministrazione è pieno zeppa di ex allievi del Dipartimento della Difesa e del National Security Council, il cui presidente è Richard Solomon, ex consigliere di Kissinger nel NSC).

Nel mese di febbraio di quest’anno, Ziadeh ha aderito ad un gruppo elitario di falchi di Washington firmando una lettera che invitava Obama a intervenire in Siria: i suoi co-firmatari sono James Woolsey (ex capo della CIA), Karl Rove (portaborse di Bush Jr), Clifford May (del Committee on the Present Danger) e Elizabeth Cheney, ex capo del Pentagono del Gruppo Iran-Siria Operations [moglie del ex vice presidente di Bush, Dick Cheney, quello che spara agli esseri umani e li chiama “incidenti di caccia”, NdR].

Ziadeh è un organizzatore instancabile, un membro di prima classe in possesso di informazioni riservate di Washington, con entrature in alcune dei più potenti thinktank. Le connessioni di Ziadeh si estendono ovunque fino ad arrivare a Londra. Nel 2009 è diventato un membro associato esterno presso la Chatham House, e nel giugno dello scorso anno si è messo in evidenza nel quadro di una delle loro manifestazioni – “In previsione del futuro politico della Siria” – condividendo una piattaforma con il suo collega del CSN il portavoce Ausama Monajed (più oltre ulteriori informazioni su Monajed) e l’altro membro del CSN Najib Ghadbian.

Ghadbian è stato identificato dal Wall Street Journal come un intermediario iniziale tra il governo americano e l’opposizione siriana in esilio: “Un primo contatto tra la Casa Bianca ed il NSF [National Salvation Front] è stato preparato e condotto da Najib Ghadbian, che è uno scienziato politico dell’Università dell’ Arkansas . “Questo è successo nel 2005. L’anno considerato come uno spartiacque. Attualmente, Ghadbian è un membro della segreteria generale del CSN, ed è nel comitato consultivo dell’ organo politico con sede a Washington chiamato Centro siriano per gli studi politici e strategici (SCPSS) – una organizzazione co-fondata da Ziadeh.

Ziadeh si è creato collegamenti come questo per anni. Già nel 2008, Ziadeh partecipò ad una riunione di esponenti dell’opposizione in un edificio governativo di Washington: una mini-conferenza intitolata “La Siria Nella sua Transizione“. La riunione era co-sponsorizzata da un’organo statunitense chiamato il Consiglio della Democrazia e con la partecipazione un’organizzazione chiamata il Movimento per la Giustizia e lo Sviluppo (MJD) con sede nel Regno Unito. È stato un grande giorno per il MJD – il loro presidente, Anas Al-Abdah, aveva viaggiato fino a Washington dalla Gran Bretagna per l’evento, assieme al loro direttore delle pubbliche relazioni. Ecco a voi, dal sito web del MJD, una descrizione della giornata: “La conferenza ha visto una svolta eccezionale, in ragione del fatto che la sala assegnata era gremita di ospiti della Camera dei Deputati e del Senato, i rappresentanti dei centri di studi, giornalisti ed espatriati siriani [sic ] negli Stati Uniti“.

La giornata si è aperta con un discorso introduttivo tenuto da James Prince, capo del Consiglio della Democrazia. Ziadeh era in un piattaforma di esperti presieduto da Joshua Muravchik (l’ultra-interventista autore del op-ed “Bomb Iran” del 2006). Il tema della discussione era “L’emergere di un’opposizione organizzata”. Seduto accanto a Ziadeh nel pannello di esperti c’era il direttore delle relazioni pubbliche del MJD – un uomo che sarebbe poi diventato il suo portavoce e collega del CSN – Ausama Monajed.

Ausama Monajed

Insieme alla Kodmani e Ziadeh, Ausama (o, talvolta, Osama) Monajed è uno dei portavoce più importanti CSN. Ce ne sono altri, naturalmente – il CSN è infatti è molto grande e comprende anche la Fratellanza Musulmana.

[…]

Monajed spesso spunta come un fungo nella veste di commentatore di canali televisivi. Eccolo alla BBC, che parla dal loro ufficio di Washington. Monajed non è uso addolcire il suo messaggio: ” assistiamo a scene in cui ci sono civili abbattuti e bambini massacrati e uccisi e donne violentate, sugli schermi televisivi, quotidianamente.”

Nel frattempo, oltre che ad Al Jazeera, Monajed, parla di “ciò che sta veramente accadendo, in realtà, sul territorio” – parla dei “miliziani di Assad”, che “vengono a violentare le loro donne, a massacrare i loro figli ed ad uccidere i loro anziani“.

Monajed si è anche presentato, pochi giorni fa, nelle vesti di blogger, sull’Huffington Post UK, dove ha spiegato “Perché il mondo deve intervenire in Siria” – chiedendo “un’assistenza militare diretta” ed un “aiuto militare straniero“. Quindi, ancora una volta, la domanda legittima potrebbe essere: ma chi è veramente questo portavoce che sta chiedendo un intervento militare?

Monajed è membro del CSN, consulente del suo Presidente, e secondo la sua biografia del CSN, è “il fondatore e direttore di Barada Television“, un canale satellitare pro-opposizione con sede a Vauxhall, una zona sud di Londra. Nel 2008, pochi mesi dopo aver partecipato alla conferenza la “Siria nella sua Transizione” Monajed era di nuovo a Washington, invitato a pranzo da George W Bush, assieme ad una manciata di altri dissidenti, come Garry Kasparov.

Nello stesso periodo, nel 2008, il Dipartimento di Stato Usa conosceva Monajed come “direttore delle relazioni pubbliche del Movimento per la Giustizia e lo Sviluppo (MJD), che conduce una lotta per un cambiamento pacifico e democratico in Siria”.

Diamo un’occhiata più da vicino al MJD. L’anno scorso, il Washington Post prese una storia da Wikileaks, che aveva pubblicato messaggi diplomatici riservati. Queste missive sembrano dimostrare un notevole flusso di denaro dal Dipartimento di Stato americano verso il Movimento per la Giustizia e lo Sviluppo che ha sede in Regno Unito. Secondo il rapporto del Washington Post: “la Barada TV è strettamente collegata al Movimento per la Giustizia e lo Sviluppo, con sede a Londra, che è una rete di esuli siriani. Missive diplomatiche statunitensi riservate dimostrano che il Dipartimento di Stato ha convogliato un ammontare di denaro che arriva a $ 6 milioni di dollari nelle casse del gruppo sin dal 2006 [nel 2010 Napolitano ha insignito Assad della gran Croce al Merito] per far funzionare il canale satellitare e finanziare alcune altre attività all’interno della Siria. “

[…]

Come riporta il Washington Post:

“Diverse Missive diplomatiche statunitensi dall’ambasciata di Damasco rivelano che gli esuli siriani hanno ricevuto denaro da un programma del Dipartimento di Stato chiamato The Middle East Partnership Initiative. Secondo le lettere, il Dipartimento di Stato ha convogliato denaro per finanziare un gruppo di esuli attraverso il Democracy Counsil, un’organizzazione senza scopo di lucro con sede a Los Angeles “.

[…].

Questa non è una novità. Torniamo un po’ indietro all’inizio del 2006, e vi ritroverete il Dipartimento di Stato che annuncia una nuova “opportunità di finanziamento” chiamato “programma per la democrazia in Siria“. In offerta, finanziamenti per un valore di “5 milioni di dollari nell’ anno fiscale federale 2006″. L’obiettivo delle sovvenzioni? “Accelerare l’opera dei riformatori in Siria“.

[…].

Un combattente chiave di questa battaglia per i cuori e le menti è il giornalista americano e blogger del Daily Telegraph, Michael Weiss.

Michael Weiss

Uno dei maggiori esperti occidentali sulla Siria e ampiamente citato – è un entusiasta dell’ intervento occidentale – Michael Weiss fa eco all’ambasciatore Ross, quando dice che : “L’intervento militare in Siria non è tanto una faccenda di preferenze ma di ineluttabilità“.

Alcuni degli scritti interventisti di Weiss possono essere trovati in un sito web denominato “NOW Libano”, un sito pro-Washington, con sede a Beirut – la cui sezione “NOW Siria” è una fonte importante di aggiornamenti sugli eventi siriani. NOW Libano è stato fondato nel 2007 dall’ executive della Saatchi & Saatchi, Eli Khoury. Khoury è stato descritto dal settore pubblicitario come uno “specialista in comunicazione strategica, specializzato in immagine aziendale e sviluppo del marchio e dell’immagine di governo “.

Weiss ha detto in NOW Libano, nel mese di maggio scorso, che grazie al flusso di armi ai ribelli siriani “abbiamo già iniziato a vedere qualche risultato.” Ha, inoltre, mostrato una analoga approvazione dell’evoluzione delle milizie, già pochi mesi prima, in un pezzo scritto per il New Republic: “Nelle ultime settimane, l’esercito siriano libero e altre brigate di ribelli indipendenti hanno fatto passi da gigante” – dopo di che, come qualsiasi blogger potrebbe fare, ha dato il suo “Bollino blu a favore di un intervento militare in Siria”.

Ma Weiss non è solo un blogger. Ed è anche il direttore delle comunicazioni e pubbliche relazioni presso la Henry Jackson Society, un thinktank di politica estera ultra-ultra-interventista.

I mecenati della Henry Jackson Society internazionali sono: James “ex-boss”della CIA Woolsey, Michael “sicurezza nazionale” Chertoff, William “PNAC” Kristol, Robert “PNAC” Kagan , Joshua “Bomb Iran” Muravchick, e Richard “Principe delle Tenebre “Perle.

La Henry Jackson Society è intransigente nella sua “strategia di avanzamento” verso la democrazia. E Weiss è incaricato del suo messaggio. La Henry Jackson Society è orgogliosa del suo capo PR che ha una così vasta portata d’influenza: “Lui è l’autore dell’influente rapporto: “Intervento in Siria? Una valutazione della legittimità, logistica e rischi “, che è stato riproposto e approvato dal Consiglio Nazionale Siriano.”

[…] Il fondatore di Barada TV, Ausama Monajed, editò il rapporto di Weiss, lo pubblicò attraverso la sua organizzazione (l’SRCC) e lo passò al Consiglio Nazionale Siriano, con il supporto della Henry Jackson Society.

L’Osservatorio Siriano per i diritti umani

La giustificazione dell’ “inevitabile” intervento militare è la ferocia del regime del presidente Assad: le atrocità, i bombardamenti, le violazioni dei diritti umani. L’informazione è fondamentale in questo caso, e c’è stata una sola fonte che, prima su tutte, ci ha fornito dati sulla Siria. Questa è citata costantemente ed è: “Il capo dell’Osservatorio Siriano per i diritti umani, colui che ha raccontato a VOA [Voice of America], che i combattimenti ed i bombardamenti avevano ucciso un numero di almeno 12 persone nella provincia di Homs.”

L’Osservatorio Siriano per i diritti umani è comunemente usato come una fonte indipendente di notizie e di statistiche. Proprio questa settimana, l’agenzia di stampa AFP ha diffuso questa storia: “Le forze siriane hanno martellato (con rappresaglie armate) le province di Aleppo e di Deir Ezzor , ed in conseguenza di ciò almeno 35 persone sono state uccise in tutto il paese, tra loro 17 civili, ci ha riferito un osservatore”. Le varie atrocità e i numeri delle vittime sono riportati, tutte da un’unica fonte, (citata così): “il direttore dell’Osservatorio Rami Abdel Rahman l’ha riferito all’AFP per telefono.”

Ogni orribile statistica proviene “dall’Osservatorio Siriano per i diritti umani ” (AP), che ha sede in Gran Bretagna. È difficile trovare un rapporto sulla Siria che non li citi. Ma chi sono loro? “Loro” sono soltanto una persona, Rami Abdulrahman (o Rami Abdel Rahman), che vive a Coventry.

In base a un dispaccio della Reuters del dicembre dello scorso anno: “Quando non risponde alle chiamate dei media internazionali, Abdulrahman è a pochi minuti di distanza in fondo alla strada nel suo negozio di abbigliamento, che dirige con sua moglie.”

Questo nome, “l’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani”, suona così imponente, così ineccepibile, così obiettivo. Eppure, allorché Abdulrahman e la sua ONG che ha sede in “Gran Bretagna”, (contando in più l’AFP / ed il blog NOW Libano) sono l’unica fonte di così tante notizie circa un argomento così importante, sembrerebbe ragionevole di sottoporre questo organo a un controllo un po’ maggiore di quello che ha dovuto subire fino ad adesso.

Hamza Fakher

Il rapporto tra Ausama Monajed, il CSN, i falchi della Henry Jackson, ed i media acritici è evidente nel caso di Hamza Fakher. Il 1 ° gennaio, Nick Cohen ha scritto nell’ Observer: “Per capire la portata della barbarie commessa, ascoltate Hamza Fakher, un attivista pro-democrazia, che è una delle fonti più affidabili sui crimini del regime che lo stesso nasconde con l’oscuramento totale delle notizie.”

Prosegue poi a narrare i terribili racconti di Fakher, di torture e di omicidi di massa. Fakher a Cohen racconta di una nuova tecnica di tortura una piastra rovente di cui ha sentito parlare, ( in questi termini ): “immaginate tutta la carne che si scioglie finché l’osso non resta esposto prima che il detenuto cada sulla piastra”. Il giorno seguente, Shamik Das, scrivendo sul blog progressista “Left Foot Forward”, cita la stessa fonte: “Hamza Fakher, un attivista pro-democrazia, descrive una realtà ripugnante …” – e dunque la lista delle atrocità già indicata a Cohen si ripete.

Allora, domandiamoci, ma chi è esattamente questo “attivista pro-democrazia”, che si chiama Hamza Fakher?

Fakher, si scopre, è il co-autore di Revolution in Danger, un “Resoconto strategico della Henry Jackson Society “, pubblicato a febbraio di quest’anno. È anche co-autore di una nota informativa con il direttore per le comunicazioni della Henry Jackson Society, Michael Weiss. E quando non è impegnato nel co-redigere note informative strategiche della Henry Jackson Society, Fakher è il responsabile per la comunicazione del Strategic Research and Communication Centre (SRCC) londinese.

Come forse ricorderete, il SRCC è gestito da una sola persona, Ausama Monajed: “il Signor Monajed ha fondato il centro nel 2010. Ed è ampiamente citato ed intervistato dalla stampa internazionale e dai mezzi di informazione. In precedenza ha lavorato come consulente di comunicazione in Europa e negli Stati Uniti e precedentemente ha avuto il ruolo… di direttore della Barada Television … “.

Monajed è il capo di Fakher.

Se questo non bastasse, per un tocco finale in salsa di Washington, nello Strategic Research and Communication Centre troviamo Murhaf Jouejati, professore alla National Defense University di Washington – “il più importante centro di formazione dei militari di professione” “sotto la direzione del Presidente, della Giunta dei Capi di Stato Maggiore“.

Se vi capita di stare per programmare un viaggio per visitare lo “Strategic Research and Communication Center” di Monajed, lo troverete a questo indirizzo: Strategic Research & Communication Centre, Office 36, 88-90 Hatton Garden, Holborn, Londra EC1N 8PN.

[…].

E non si deve dimenticare, che qualunque sia la destabilizzazione che è stata compiuta nell’ambito delle notizie e dell’opinione pubblica, essa viene effettuata su un duplice terreno. Sappiamo già che, (perlomeno), la “CIA e il Dipartimento di Stato stanno collaborando nello sviluppo della logistica dell’Esercito Libero dell’opposizione siriana, sia a favorire il trasferimento di forniture belliche loro destinate in Siria ed a fornir loro una formazione nell’ambito della comunicazione

I bombardieri sono pronti. I piani sono già stati elaborati.

Questi esperti di comunicazione stanno lavorando duramente per creare quello che Tamara Wittes ha chiamato un “brand positivo”.

Ci stanno vendendo l’idea di un intervento militare e di un cambio di regime, ed i media sono affamati di quel tipo di prodotto. Molti degli “attivisti” e portavoce che rappresentano l’opposizione siriana sono strettamente, (e in molti casi anche finanziariamente), legati agli Stati Uniti ed a Londra – proprio quelli che starebbero operando in favore dell’intervento. Il che significa che le informazioni e le statistiche provenienti da queste fonti non sono necessariamente pure e semplici notizie – ma che è un imbonimento per la vendita, una campagna di Pubbliche Relazioni.

Ma non è mai troppo tardi per porsi delle domande, per esaminare le fonti. Porsi domande non ci rende dei fan di Assad – questo è una falsa argomentazione. Ci rende solo meno suscettibili di raggiro.

La buona notizia è che ogni minuto nasce uno scettico.

articolo di Charlie Skelton per il Guardian UK

Fonte: The Syrian opposition: who’s doing the talking?

Zbigniew Brzezinski ha messo in guardia gli Stati Uniti, per l’ennesima volta, contro uno scontro con l’Iran. “Una guerra nel Medio Oriente, nell’attuale contesto, durerebbe per anni”, ha spiegato in un’intervista per Newsmax TV. “Le conseguenze economiche sarebbero devastanti per i cittadini americani: alta inflazione, instabilità, insicurezza”. La chiusura dello Stretto di Ormuz da parte dell’Iran, anche solo per un breve periodo, farebbe salire alle stelle il prezzo del greggio, in quanto quella rotta sarebbe troppo pericolosa. D’altronde “se l’idea è quella di mettere all’angolo l’Iran, umiliarlo, trattarlo diversamente dalle altre nazioni che hanno sottoscritto il Trattato di Non-Proliferazione, non arriveremo mai ad un accordo”.

Heiliges Land Tirol / Fratelli d’Italia

 

Estratto da Stefano Fait e Mauro Fattor, “Contro i miti etnici: alla ricerca di un Alto Adige diverso“, Raetia, 2010, 224 pagine.

Ti sei mai chiesto cosa sia questa patria, questa nazione? Pure invenzioni di un piccolo gruppo di sciagurati che vogliono governare sui popoli! Quando la Terra venne creata non fu suddivisa in nazioni! …poi vennero gli uomini, con le loro strampalate idee di possedere il territorio, dimenticando, inoltre, che su questa Terra, mentre lei permane, noi veniamo e ce ne andiamo.

Mario Martinelli

 

Dopo lo spettacolare fallimento della moralità convenzionale (di stampo comunitario) nel corso del secolo scorso, la mansueta, meccanica identificazione dell’individuo ad una collettività, sia essa un’etnia, una patria o una corporazione, è estremamente problematica e va trattata come ogni altra forma di idolatria o tribalismo, ossia con il più lucido scetticismo. L’Heimat è un territorio dell’immaginario, non un’entità naturale. Gli esseri umani fanno già abbastanza fatica a non fuggire da se stessi per paura di essere inadeguati e a non essere prevenuti nei confronti degli sconosciuti per paura di scottarsi l’anima: indurli ad amare una finzione che esalta le differenze verso l’esterno ed annulla l’unicità di ciascuno di noi è irresponsabile.

Dunque il valore dell’Heimat/Patria non solo non esercita effetti virtuosi sulla società civile, ma addirittura la danneggia, sia a livello morale sia a livello pratico. Vediamo meglio come e in che misura ciò avvenga nel contesto altoatesino. C’è una significativa testimonianza di Bernhard Pircher che fu intervistato dalla rivista “UnaCittà” quando aveva 19 anni ed era membro della compagnia di Schützen venostana di Glurns/Glorenza (Pircher 1997). Illustrando le ragioni che lo avevano indotto a diventare uno Schütze, Pircher spiega che “Quello che mi affascinò di più era questo essere dalla parte della Heimat, delle tradizioni, della religione e anche del bisogno di coesione, il fatto cioè che ci si raduni per le celebrazioni pubbliche e per marciare insieme. L’ammissione nella compagnia degli Schützen di un nuovo membro deve essere unanime”. Questa scelta fu resa più facile da un evento particolarmente spiacevole, una rissa con degli italiani per futili motivi. Così Pircher confessava di essere stato per lungo tempo anti-italiano: “Adesso però la vedo diversamente. Anche gli italiani sono esseri umani e hanno quindi molto in comune con noi”. Una frase che chiarisce meglio di dozzine di saggi la natura disumana e de-umanizzante, per entrambi i gruppi etnici, della separazione etnica in vigore nella Heimat altoatesina, specialmente per i giovani, inesperti e quindi estremamente influenzabili. E l’Heimat? Cos’era l’Heimat per quel giovane Schütze della Val Venosta? “Heimat è quel luogo in cui ci si sente “a casa”. Qui da noi ci si conosce tutti. Ci si saluta anche se non ci si conosce e si ha fiducia negli altri…Heimat è per me lì dove si sta volentieri. Io nella mia terra posso fare le cose che amo fare…Nella mia Heimat io ho l’aria pura e un ambiente quasi incontaminato, che rispetto”. Per Pircher l’Heimat non è chiusa ai forestieri: “Essa è per tutti, questo lo voglio ben sperare. Anche per quegli italiani che sono nati qui. Io vorrei anche che ognuno si prendesse cura di questa Heimat, anche delle sue tradizioni. Quando ad esempio si preparano i fuochi per il “Sacro Cuore di Gesù”, è bello perché vecchi e giovani si incontrano, salgono insieme sulla montagna e condividono il piacere di queste tradizioni. Si ascoltano storie di tempi passati, e quando poi bruciano i falò, si sente dentro di sé una gioia e un senso di comunione così unico e profondo. Tutti aiutano, tutto il paese si dà da fare affinché queste feste riescano bene. È anche un modo per incontrare persone che altrimenti non si incontrerebbero. È un’alternativa al solito bar, e magari pure alla discoteca in cui i più vecchi in ogni caso non vanno. Anche questi incontri sono Heimat”. O forse no. Forse l’idea di Heimat è una sovrastruttura del tutto superflua. Tant’è che in italiano basta dire – “sentirsi a casa” – senza tanti fronzoli mistici politicamente manipolabili. Heimat non è l’unica risposta, o la migliore, allo spaesamento da globalizzazione. Il paesaggio emotivo tedesco non è poi così diverso da quello latino o slavo. Così in Trentino si possono fare le stesse cose e provare le stesse sensazioni senza che la mente chiami in causa come un automatismo del tipo “stimolo-risposta” la nozione di patria/Heimat. C’è chi si è chiesto come mai una parte del mondo germanico sia così fermamente aggrappata a questa idea di Heimat. Ad esempio Peter Blickle, docente di germanistica presso l’Università del Michigan, ritiene (Blickle 2002) che essa nasca dalla fusione di Romanticismo ed anti-Illuminismo e che il bisogno psicologico derivi in primo luogo dal desiderio di ricavarsi uno spazio idealizzato e protettivo, un’appartenenza di tipo neo-tribale percepita come naturale nella quale perdersi. È una provincia dello spirito che è emanazione di una spiritualità provinciale, locale e che impregna una “individualità collettiva” che “rassicura i germanofoni circa il loro valore, identità e unicità” (Blickle, op. cit., 50). Il sé, come detto, si perde nell’Heimat e diviene un sé diverso da quello descritto da Freud, un sé “preconscio, dipendente dal gruppo e sociale…bisognoso di radici. Un sé sradicato è percepito come sminuito o guastato” (ibidem, 69) che confonde persone e cose, l’errore ontologico del pensiero magico-superstizioso che un tempo si chiamava idolatria pagana.In passato quest’invenzione del pensiero umano è servita a tenere in piedi un sistema di valori, poteri e rapporti umani fortemente lesivo della dignità delle donne e discriminatorio nei confronti dei bambini e delle minoranze.

Inoltre l’aura di innocenza che spira attorno all’Heimat è saldamente legata alla semplice e perniciosa equazione di bello e buono. Se l’Heimat è un idillio di bellezza, innocenza e purezza, allora chi la ama è buono ed irreprensibile per definizione. Anzi, è un eletto. Non è quindi per nulla sorprendente che l’Heimat sudtirolese attiri le personalità narcisistiche. Tutti, anche se in misura diversa, siamo affetti da narcisismo. Il militante etnicista o patriottico va oltre, dando libero sfogo alla sua immaginazione ipertrofica. In talune circostanze la discrepanza tra realtà e immaginazione è tale che questo tipo di narcisista inveterato trova arduo non provare disgusto per ciò che stona, fosse pure una certa classe di esseri umani. Dimostra povertà di spirito e scarsa empatia, tratta gli altri come oggetti utili ad alimentare il proprio bisogno narcisistico, si chiude autisticamente nel suo bozzolo di certezze, nel suo personale universo di riduzionismi che lo deresponsabilizzano e spostano la colpa sui difetti congeniti degli altri. Necessita di ordine e chiarezza e li può trovare nella superstizione del gene onnipotente, della tradizione ordinatrice, dell’identità totalizzante e neo-tribale, cioè nell’idea in quanto tale, immacolata ed omogenea. Il Südtirol o l’Italia come filo a piombo dell’anima (Stecher 2008). Un’idolatria che è anche un terribile auto-inganno e che bolla come minaccia tutto ciò che contamina la purezza dell’idea, arrivando a negare la realtà, come nel risibile “no a un’Italia multi-etnicadi Berlusconi. Se questa minaccia non è opportunamente neutralizzata la condanna è all’alienazione. Un inconscio processo di alienazione è già comunque in atto, perché il narcisista immaginifico è già schiavo delle sue idee fisse. I totalitarismi altro non sono che manifestazioni su vasta scala del medesimo fenomeno, vere e proprie epidemie di narcisismo. Ciò potrà sembrare strano per chi è abituato, erroneamente, a pensare al narcisismo in termini di egocentrismo ed eccessivo amor proprio. In realtà il narcisista, se privato della sua sorgente di conferme e rassicurazioni, si sente vuoto e depresso, inutile, senza scopo, amorfo, ansioso ed insicuro. Soffre di considerevoli oscillazioni nell’autostima e può arrivare a credere che la vita non sia degna di essere vissuta. Per evitare questo tragico epilogo sente l’impulso di aggrapparsi ad una qualche figura o idea dominante che fornisca un sostegno solido. Anela la fama e l’ammirazione, perché queste portano con loro l’universale approvazione. Se non può conseguirla si attacca al culto della celebrità. Molti binomi padrone-servo potrebbero essere tranquillamente invertiti, perché entrambi sono narcisi ed hanno bisogno di quel tipo di rapporto patologico più di quanto necessitino di un certo status. È il vuoto interiore, l’inautenticità, la perdita di senso, l’incertezza del futuro che paventano più di ogni altra cosa. La superficialità non è un problema, il narcisista è in ogni caso antropologicamente pessimista, il suo pensiero non è mai profondo – è arendtianamente banale –, né lo è la sua stima nei confronti degli altri esseri umani, che non sono mai davvero suoi simili e per questo possono essere ordinatamente incasellati in categorie arbitrarie. Il feticismo, l’illusionismo nella sua accezione più ampia è il vizio caratteristico del narcisista. Non potendo contare su una vita ultraterrena, esorcizza lo spettro della morte concentrandosi sull’immagine e sull’idea – la Patria, l’Etnia –, rendendole immortali, e si autoipnotizza, dissipando il suo potenziale. Il suo amor proprio è dunque fragilissimo e la concentrazione su di sé in realtà è molto precaria e può mutarsi molto facilmente in attaccamento fanatico ad un movimento e ad un leader che incarnino le idee fisse che danno senso alla sua esistenza, almeno provvisoriamente. Insomma il narcisista non è autonomo ed indipendente, non ha alcun serio controllo sulla sua esistenza. Al contrario è eterodiretto, e si lascia facilmente assimilare da fazioni, sette, tribù, razze, campanilismi, integralismi e militanze varie, riflessi distorti della realtà. Si intossica di lusinghe, vezzeggiamenti, adulazioni, apprezzamenti di un sé illusorio, falso e privo di valore, che ha bisogno di ripetute conferme e le trova nella grandezza del Gruppo. È una comparsa nella sua vita, non il protagonista, anche se non se ne rende conto e profonde impegno e risorse per rinsaldare ancora di più questo stato di cose.

Oggi, in Alto Adige come in gran parte dell’Europa, la logica etnarchica, – essenzialmente narcisistica – che antepone il particolare all’universale sacrificando il motto Liberté, Égalité, Fraternité sull’altare della Cultura e dell’Identità, è sopravvissuta alla sconfitta del nazismo e del comunismo. Si è tornati a parlare di identità naturali, anche se nessuno ha saputo ancora spiegare cosa ci sia di naturale e di univoco in queste identità. D’altronde quello identitario non è un appello alla ragione, ma alle emozioni, ai sensi di colpa ed alla paura di chi, sentendosi in dovere di appartenere “anima e core” ad un insieme più ampio, non si sente di poter affrontare il giudizio altrui e l’ostracismo degli altri membri del gruppo. La moda etnarchica non va però affrontata in modo sbrigativo. Non è un atavismo incontrollabile ma piuttosto un nobile stimolo umano primordiale (quello al raggruppamento ed alla condivisione di sforzi ed aneliti) che può essere male indirizzato, nel qual caso trova pretesti e razionalizzazioni eminentemente moderne quando il modello universalista segna il passo, cioè ad ogni seria crisi internazionale o sotto la spinta dell’immigrazione di massa.

Essa rimane una strategia fallimentare sotto ogni punto di vista. A livello etico perché non rispetta la dignità intrinseca e l’autonomia delle persone e dissimula la loro unica, comprovabile appartenenza, quella alla specie umana. A livello pratico perché non esiste alcun modo per tenere sotto controllo le forze centrifughe ed atomizzanti messe in moto da una politica della differenziazione identitaria. Ci sarà sempre una minoranza che pretenderà il pieno autogoverno se non riceverà un’adeguata compensazione. Pensiamo a quel che sta avvenendo in Bosnia, dove la Republika Srpska a forte maggioranza serba sta già meditando di seguire l’esempio del Montenegro e Kosovo, distruggendo quindi ogni sforzo pacificatore ed unitario della comunità internazionale in Bosnia. Oppure pensiamo alla contrapposizione tra Scozia ed Inghilterra, tra Catalogna ed Andalusia, tra Fiandre e Vallonia, tra Padania e Meridione. In caso di separazione, il paradigma etnico che la giustifica sarebbe nel contempo il maggiore ostacolo alla realizzazione di una società equa, giusta, e solidale. La maggioranza etnica sarebbe autorizzata a decidere in funzione dell’interesse primario della conservazione della sua egemonia. E non è precisamente quel che avviene in Alto Adige – e in Italia –, con la ben remunerata connivenza di quasi tutti i partiti? Cosa succederebbe in Alto Adige se si arrivasse al distacco dall’Italia? Cosa farebbe la maggioranza italofona di Bolzano e dell’Oltradige-Bassa Atesina? E come si può evitare che degli standard etici locali logorino la coesione dell’Unione Europea attorno ai principi universalistici ereditati dall’ecumenismo cristiano, dall’Umanesimo e dall’Illuminismo? Il separatismo localistico ed il differenzialismo identitario non sono né assennati né moralmente giustificabili. Non possono costituire una risposta ai problemi dell’autogestione territoriale né possono mitigare l’impatto della globalizzazione a livello socio-economico, se non altro perché i movimenti etnopopulistici europei sono sempre ed invariabilmente libertari (di destra), in quanto il loro bacino elettorale si concentra soprattutto nella piccola e media impresa, cioè tra elettori che troppo spesso sono più propensi a pretendere tutele per sé stessi, anche se a discapito del resto della popolazione e degli immigrati che pure loro stessi assumono in gran numero (Tamás 2000). Quel che è scandaloso è che una parte della sinistra, in nome dell’anti-imperialismo, si sia sentita in dovere di combattere la destra su un campo come quello delle identità collettive, che è il terreno naturale della destra stessa.

« Older entries