Fanatismo religioso (per intensità) – cenni di antropologia critica del consumismo e del marketing

La cultura influenza ciò che le persone vedono, ricordano ed il modo in cui elaborano le informazioni. Essa influisce sulla costruzione soggettiva della realtà, degli insiemi di valori, atteggiamenti e reazioni standardizzati e convenzionali, norme e principi, suggerendo un certo indirizzo d’azione o una certa linea di interpretazione. Quando i valori sono socio-culturalmente strutturati, allora queste linee guida e priorità forniscono motivazioni per l’agire dei gruppi sociali e, cumulativamente, in certe circostanze storiche, di interi popoli.

Anche l’acquisto ed il consumo di un prodotto sono frutto di una scelta fatta sulla base di considerazioni di ordine sociale, culturale ed economico che s’intersecano con le più vaste dinamiche dei mutamenti culturali, dei rapporti di potere, e dei processi di costruzione di un’identità personale e collettiva. Comprare un determinato prodotto equivale a fare una dichiarazione pubblica sulla propria identità, sul proprio status e sui propri gusti. Un consumatore può teoricamente identificarsi con numerose categorie sociali e quindi con vari stili e modalità di consumo, ma non tutte queste variabili sono in grado di attivare i suoi criteri selettivi, perché la loro influenza sulla sua identità sociale e sulla sua rappresentazione del tipo di persona che aspira a diventare può variare sensibilmente.
In altre parole, i suoi bisogni cambiano al variare delle sue identificazioni (religiose, di genere, etniche, di ruolo sociale, ecc.), cioè al variare del messaggio che il consumatore intende trasmettere a chi gli sta intorno e che spesso definisce la sua affiliazione ad un gruppo (es. donna araba di ceto medio-alto che sceglie di esibire la sua etnicità).
Si tratta di capire quali valori e preferenze prevalgono in un certo contesto socio-culturale ad un dato momento.

E’ nell’interesse dei pubblicitari che operano in mercati “esotici” sottolineare ed accentuare differenze, peculiarità, specificità, idiosincrasie ed incongruenze di culture e società che vengono descritte come non pienamente confrontabili e traducibili. Solo così possono valorizzare la loro professionalità (lo stesso discorso vale anche per numerosi antropologi, ovviamente). Ma è anche così che nascono interpretazioni fantasiose sulla concezione di natura umana che prevale nella tal cultura, sulle prerogative del tal gruppo sociale e sulle inclinazioni della tal categoria di consumatori.

L’indirizzo meramente quantitativo delle ricerche di mercato può comportare conseguenze sommamente spiacevoli:

  • l’esclusione di tutto ciò che non si concilia con parametri prefissati e obiettivi specifici del cliente;
  • la mortificazione dei consumatori, trasformati in dati statistici più o meno corrispondenti alla realtà;
  • l’accumulo di studi che presentano conclusioni discrepanti e dati disomogenei. Ci si dovrebbe chiedere: indicano differenze interculturali reali o sono il risultato di misurazioni imprecise?
  • l’impossibilità di stabilire se le differenze nel comportamento dei consumatori siano significative;
  • l’impossibilità di verificare se le risposte ai questionari completati dai consumatori siano veritiere e se i consumatori agiscano coerentemente rispetto ai propri propositi (discrasia tra intenzioni dichiarate e comportamento reale);
  • l’impossibilità di verificare che i parametri non siano datati o che siano efficaci nella “lettura” della realtà, che le generalizzazioni siano giustificate, che i dati culturali siano trasferibili in altri contesti, che le correlazioni siano dirette e non coinvolgano altri fattori che si è scelto di non considerare;

Per “etnogenesi” s’intende la creazione di un’etnicità (di un gruppo etnico) attraverso la reificazione (fabbricazione) di determinati attributi. Un caso emblematico di etnogenesi è quello dei Latini e degli Ispanici negli Stati Uniti, generati a tavolino per classificare chiunque provenga da sud e parli una lingua iberica, a prescindere dall’ampiezza delle differenze tra un portoricano ed un cileno, o tra un Maya ed un cittadino della capitale del Messico.
Questa irragionevole semplificazione, che serve agli analisti del servizio censimenti ed all’amministrazione pubblica per meglio gestire la complessità di una società multietnica e multiculturale, si interseca con la logica propria dell’analista di mercato il quale, prendendo per buono il criterio classificatorio ufficiale, tende a cercare di dimostrare che esistono differenze ragguardevoli tra i gruppi sociali ed etnici, tali da giustificare il ricorso a specialisti. Questa operazione amplifica le differenze tra gruppi (es. Italo-Americani ed Ispanici) e riduce quella all’interno di un gruppo (es. Cubani e Boliviani).
Questa vera e propria invenzione di marcatori di differenze spesso inconsistenti finisce per inglobare l’intera cultura, essenzializzandola: se alcune di queste peculiarità si rivelano incerte, allora se ne creano di nuove.
Così le dinamiche interne alla segmentazione del mercato su base etnica producono differenze che possono essere irrilevanti, ininfluenti, o persino inesistenti, ma che sono rese salienti ed influenti a fini commerciali. Al contrario, quelle differenze reali che non sembrano utili alla commercializzazione del prodotto o che complicano il quadro generale vengono dissimulate e rimosse.

Ogni discorso alternativo e “deviante” che nasca all’interno di una comunità viene soffocato da certi dogmi del marketing, che preferisce linee divisorie nette e precise e nessun mutamento sostanziale. Altrimenti come si spiega il fatto che l’unico metodico esame comparativo delle strategie pubblicitarie svedesi e statunitensi abbia mostrato che il contenuto valoriale degli spot commerciali è rimasto pressoché invariato nel corso di 20 anni?

Heiliges Land Tirol / Fratelli d’Italia

 

Estratto da Stefano Fait e Mauro Fattor, “Contro i miti etnici: alla ricerca di un Alto Adige diverso“, Raetia, 2010, 224 pagine.

Ti sei mai chiesto cosa sia questa patria, questa nazione? Pure invenzioni di un piccolo gruppo di sciagurati che vogliono governare sui popoli! Quando la Terra venne creata non fu suddivisa in nazioni! …poi vennero gli uomini, con le loro strampalate idee di possedere il territorio, dimenticando, inoltre, che su questa Terra, mentre lei permane, noi veniamo e ce ne andiamo.

Mario Martinelli

 

Dopo lo spettacolare fallimento della moralità convenzionale (di stampo comunitario) nel corso del secolo scorso, la mansueta, meccanica identificazione dell’individuo ad una collettività, sia essa un’etnia, una patria o una corporazione, è estremamente problematica e va trattata come ogni altra forma di idolatria o tribalismo, ossia con il più lucido scetticismo. L’Heimat è un territorio dell’immaginario, non un’entità naturale. Gli esseri umani fanno già abbastanza fatica a non fuggire da se stessi per paura di essere inadeguati e a non essere prevenuti nei confronti degli sconosciuti per paura di scottarsi l’anima: indurli ad amare una finzione che esalta le differenze verso l’esterno ed annulla l’unicità di ciascuno di noi è irresponsabile.

Dunque il valore dell’Heimat/Patria non solo non esercita effetti virtuosi sulla società civile, ma addirittura la danneggia, sia a livello morale sia a livello pratico. Vediamo meglio come e in che misura ciò avvenga nel contesto altoatesino. C’è una significativa testimonianza di Bernhard Pircher che fu intervistato dalla rivista “UnaCittà” quando aveva 19 anni ed era membro della compagnia di Schützen venostana di Glurns/Glorenza (Pircher 1997). Illustrando le ragioni che lo avevano indotto a diventare uno Schütze, Pircher spiega che “Quello che mi affascinò di più era questo essere dalla parte della Heimat, delle tradizioni, della religione e anche del bisogno di coesione, il fatto cioè che ci si raduni per le celebrazioni pubbliche e per marciare insieme. L’ammissione nella compagnia degli Schützen di un nuovo membro deve essere unanime”. Questa scelta fu resa più facile da un evento particolarmente spiacevole, una rissa con degli italiani per futili motivi. Così Pircher confessava di essere stato per lungo tempo anti-italiano: “Adesso però la vedo diversamente. Anche gli italiani sono esseri umani e hanno quindi molto in comune con noi”. Una frase che chiarisce meglio di dozzine di saggi la natura disumana e de-umanizzante, per entrambi i gruppi etnici, della separazione etnica in vigore nella Heimat altoatesina, specialmente per i giovani, inesperti e quindi estremamente influenzabili. E l’Heimat? Cos’era l’Heimat per quel giovane Schütze della Val Venosta? “Heimat è quel luogo in cui ci si sente “a casa”. Qui da noi ci si conosce tutti. Ci si saluta anche se non ci si conosce e si ha fiducia negli altri…Heimat è per me lì dove si sta volentieri. Io nella mia terra posso fare le cose che amo fare…Nella mia Heimat io ho l’aria pura e un ambiente quasi incontaminato, che rispetto”. Per Pircher l’Heimat non è chiusa ai forestieri: “Essa è per tutti, questo lo voglio ben sperare. Anche per quegli italiani che sono nati qui. Io vorrei anche che ognuno si prendesse cura di questa Heimat, anche delle sue tradizioni. Quando ad esempio si preparano i fuochi per il “Sacro Cuore di Gesù”, è bello perché vecchi e giovani si incontrano, salgono insieme sulla montagna e condividono il piacere di queste tradizioni. Si ascoltano storie di tempi passati, e quando poi bruciano i falò, si sente dentro di sé una gioia e un senso di comunione così unico e profondo. Tutti aiutano, tutto il paese si dà da fare affinché queste feste riescano bene. È anche un modo per incontrare persone che altrimenti non si incontrerebbero. È un’alternativa al solito bar, e magari pure alla discoteca in cui i più vecchi in ogni caso non vanno. Anche questi incontri sono Heimat”. O forse no. Forse l’idea di Heimat è una sovrastruttura del tutto superflua. Tant’è che in italiano basta dire – “sentirsi a casa” – senza tanti fronzoli mistici politicamente manipolabili. Heimat non è l’unica risposta, o la migliore, allo spaesamento da globalizzazione. Il paesaggio emotivo tedesco non è poi così diverso da quello latino o slavo. Così in Trentino si possono fare le stesse cose e provare le stesse sensazioni senza che la mente chiami in causa come un automatismo del tipo “stimolo-risposta” la nozione di patria/Heimat. C’è chi si è chiesto come mai una parte del mondo germanico sia così fermamente aggrappata a questa idea di Heimat. Ad esempio Peter Blickle, docente di germanistica presso l’Università del Michigan, ritiene (Blickle 2002) che essa nasca dalla fusione di Romanticismo ed anti-Illuminismo e che il bisogno psicologico derivi in primo luogo dal desiderio di ricavarsi uno spazio idealizzato e protettivo, un’appartenenza di tipo neo-tribale percepita come naturale nella quale perdersi. È una provincia dello spirito che è emanazione di una spiritualità provinciale, locale e che impregna una “individualità collettiva” che “rassicura i germanofoni circa il loro valore, identità e unicità” (Blickle, op. cit., 50). Il sé, come detto, si perde nell’Heimat e diviene un sé diverso da quello descritto da Freud, un sé “preconscio, dipendente dal gruppo e sociale…bisognoso di radici. Un sé sradicato è percepito come sminuito o guastato” (ibidem, 69) che confonde persone e cose, l’errore ontologico del pensiero magico-superstizioso che un tempo si chiamava idolatria pagana.In passato quest’invenzione del pensiero umano è servita a tenere in piedi un sistema di valori, poteri e rapporti umani fortemente lesivo della dignità delle donne e discriminatorio nei confronti dei bambini e delle minoranze.

Inoltre l’aura di innocenza che spira attorno all’Heimat è saldamente legata alla semplice e perniciosa equazione di bello e buono. Se l’Heimat è un idillio di bellezza, innocenza e purezza, allora chi la ama è buono ed irreprensibile per definizione. Anzi, è un eletto. Non è quindi per nulla sorprendente che l’Heimat sudtirolese attiri le personalità narcisistiche. Tutti, anche se in misura diversa, siamo affetti da narcisismo. Il militante etnicista o patriottico va oltre, dando libero sfogo alla sua immaginazione ipertrofica. In talune circostanze la discrepanza tra realtà e immaginazione è tale che questo tipo di narcisista inveterato trova arduo non provare disgusto per ciò che stona, fosse pure una certa classe di esseri umani. Dimostra povertà di spirito e scarsa empatia, tratta gli altri come oggetti utili ad alimentare il proprio bisogno narcisistico, si chiude autisticamente nel suo bozzolo di certezze, nel suo personale universo di riduzionismi che lo deresponsabilizzano e spostano la colpa sui difetti congeniti degli altri. Necessita di ordine e chiarezza e li può trovare nella superstizione del gene onnipotente, della tradizione ordinatrice, dell’identità totalizzante e neo-tribale, cioè nell’idea in quanto tale, immacolata ed omogenea. Il Südtirol o l’Italia come filo a piombo dell’anima (Stecher 2008). Un’idolatria che è anche un terribile auto-inganno e che bolla come minaccia tutto ciò che contamina la purezza dell’idea, arrivando a negare la realtà, come nel risibile “no a un’Italia multi-etnicadi Berlusconi. Se questa minaccia non è opportunamente neutralizzata la condanna è all’alienazione. Un inconscio processo di alienazione è già comunque in atto, perché il narcisista immaginifico è già schiavo delle sue idee fisse. I totalitarismi altro non sono che manifestazioni su vasta scala del medesimo fenomeno, vere e proprie epidemie di narcisismo. Ciò potrà sembrare strano per chi è abituato, erroneamente, a pensare al narcisismo in termini di egocentrismo ed eccessivo amor proprio. In realtà il narcisista, se privato della sua sorgente di conferme e rassicurazioni, si sente vuoto e depresso, inutile, senza scopo, amorfo, ansioso ed insicuro. Soffre di considerevoli oscillazioni nell’autostima e può arrivare a credere che la vita non sia degna di essere vissuta. Per evitare questo tragico epilogo sente l’impulso di aggrapparsi ad una qualche figura o idea dominante che fornisca un sostegno solido. Anela la fama e l’ammirazione, perché queste portano con loro l’universale approvazione. Se non può conseguirla si attacca al culto della celebrità. Molti binomi padrone-servo potrebbero essere tranquillamente invertiti, perché entrambi sono narcisi ed hanno bisogno di quel tipo di rapporto patologico più di quanto necessitino di un certo status. È il vuoto interiore, l’inautenticità, la perdita di senso, l’incertezza del futuro che paventano più di ogni altra cosa. La superficialità non è un problema, il narcisista è in ogni caso antropologicamente pessimista, il suo pensiero non è mai profondo – è arendtianamente banale –, né lo è la sua stima nei confronti degli altri esseri umani, che non sono mai davvero suoi simili e per questo possono essere ordinatamente incasellati in categorie arbitrarie. Il feticismo, l’illusionismo nella sua accezione più ampia è il vizio caratteristico del narcisista. Non potendo contare su una vita ultraterrena, esorcizza lo spettro della morte concentrandosi sull’immagine e sull’idea – la Patria, l’Etnia –, rendendole immortali, e si autoipnotizza, dissipando il suo potenziale. Il suo amor proprio è dunque fragilissimo e la concentrazione su di sé in realtà è molto precaria e può mutarsi molto facilmente in attaccamento fanatico ad un movimento e ad un leader che incarnino le idee fisse che danno senso alla sua esistenza, almeno provvisoriamente. Insomma il narcisista non è autonomo ed indipendente, non ha alcun serio controllo sulla sua esistenza. Al contrario è eterodiretto, e si lascia facilmente assimilare da fazioni, sette, tribù, razze, campanilismi, integralismi e militanze varie, riflessi distorti della realtà. Si intossica di lusinghe, vezzeggiamenti, adulazioni, apprezzamenti di un sé illusorio, falso e privo di valore, che ha bisogno di ripetute conferme e le trova nella grandezza del Gruppo. È una comparsa nella sua vita, non il protagonista, anche se non se ne rende conto e profonde impegno e risorse per rinsaldare ancora di più questo stato di cose.

Oggi, in Alto Adige come in gran parte dell’Europa, la logica etnarchica, – essenzialmente narcisistica – che antepone il particolare all’universale sacrificando il motto Liberté, Égalité, Fraternité sull’altare della Cultura e dell’Identità, è sopravvissuta alla sconfitta del nazismo e del comunismo. Si è tornati a parlare di identità naturali, anche se nessuno ha saputo ancora spiegare cosa ci sia di naturale e di univoco in queste identità. D’altronde quello identitario non è un appello alla ragione, ma alle emozioni, ai sensi di colpa ed alla paura di chi, sentendosi in dovere di appartenere “anima e core” ad un insieme più ampio, non si sente di poter affrontare il giudizio altrui e l’ostracismo degli altri membri del gruppo. La moda etnarchica non va però affrontata in modo sbrigativo. Non è un atavismo incontrollabile ma piuttosto un nobile stimolo umano primordiale (quello al raggruppamento ed alla condivisione di sforzi ed aneliti) che può essere male indirizzato, nel qual caso trova pretesti e razionalizzazioni eminentemente moderne quando il modello universalista segna il passo, cioè ad ogni seria crisi internazionale o sotto la spinta dell’immigrazione di massa.

Essa rimane una strategia fallimentare sotto ogni punto di vista. A livello etico perché non rispetta la dignità intrinseca e l’autonomia delle persone e dissimula la loro unica, comprovabile appartenenza, quella alla specie umana. A livello pratico perché non esiste alcun modo per tenere sotto controllo le forze centrifughe ed atomizzanti messe in moto da una politica della differenziazione identitaria. Ci sarà sempre una minoranza che pretenderà il pieno autogoverno se non riceverà un’adeguata compensazione. Pensiamo a quel che sta avvenendo in Bosnia, dove la Republika Srpska a forte maggioranza serba sta già meditando di seguire l’esempio del Montenegro e Kosovo, distruggendo quindi ogni sforzo pacificatore ed unitario della comunità internazionale in Bosnia. Oppure pensiamo alla contrapposizione tra Scozia ed Inghilterra, tra Catalogna ed Andalusia, tra Fiandre e Vallonia, tra Padania e Meridione. In caso di separazione, il paradigma etnico che la giustifica sarebbe nel contempo il maggiore ostacolo alla realizzazione di una società equa, giusta, e solidale. La maggioranza etnica sarebbe autorizzata a decidere in funzione dell’interesse primario della conservazione della sua egemonia. E non è precisamente quel che avviene in Alto Adige – e in Italia –, con la ben remunerata connivenza di quasi tutti i partiti? Cosa succederebbe in Alto Adige se si arrivasse al distacco dall’Italia? Cosa farebbe la maggioranza italofona di Bolzano e dell’Oltradige-Bassa Atesina? E come si può evitare che degli standard etici locali logorino la coesione dell’Unione Europea attorno ai principi universalistici ereditati dall’ecumenismo cristiano, dall’Umanesimo e dall’Illuminismo? Il separatismo localistico ed il differenzialismo identitario non sono né assennati né moralmente giustificabili. Non possono costituire una risposta ai problemi dell’autogestione territoriale né possono mitigare l’impatto della globalizzazione a livello socio-economico, se non altro perché i movimenti etnopopulistici europei sono sempre ed invariabilmente libertari (di destra), in quanto il loro bacino elettorale si concentra soprattutto nella piccola e media impresa, cioè tra elettori che troppo spesso sono più propensi a pretendere tutele per sé stessi, anche se a discapito del resto della popolazione e degli immigrati che pure loro stessi assumono in gran numero (Tamás 2000). Quel che è scandaloso è che una parte della sinistra, in nome dell’anti-imperialismo, si sia sentita in dovere di combattere la destra su un campo come quello delle identità collettive, che è il terreno naturale della destra stessa.

“Contro i miti etnici” – un libro “preveggente” ed in offerta speciale (-20%) per i lettori del blog

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Preveggente e lucido – (modestia a parte ;o)

Nelle annotazioni precisate che siete lettori del blog di Stefano Fait ed otterrete lo sconto (offerta valida fino al 31 agosto):
http://www.raetia.com/index.php?id=522&no_cache=1&lang=it&title=CONTRO%20I%20MITI%20ETNICI

Stefano Fait/Mauro Fattor
CONTRO I MITI ETNICI
Alla ricerca di un Alto Adige diverso

Osservandolo dall’esterno, l’Alto Adige appare una realtà molto particolare. Nel mezzo dello spettacolare scenario delle Dolomiti, due, anzi tre culture condividono un piccolo fazzoletto di terra, parlano tre lingue diverse e costituiscono un ponte tra nord e sud. Un’immagine che purtroppo, per ragioni storiche, non rispecchia la realtà. Stefano Fait e Mauro Fattor ritraggono l’Alto Adige da una prospettiva esterna e, (pur essendo) consapevoli del contesto storico mostrano che la “Matrix sudtirolese” si basa su principi troppo chiusi e rigidi, spesso interpretati erroneamente. Volk/popolo, Heimat/patria, Kultur/cultura sono concetti da ridefinire per il futuro di questa regione. Secondo gli autori, il presupposto per una pacifica convivenza è andare oltre il culturalismo.

Un’analisi corrosiva e spietata degli idoli e dei miti etnici che frenano la società sudtirolese e non solo. Dall’ideologia del Bergbauer/contadino al dispotismo degli idoli identitari, il libro è il tentativo di mettere a nudo la retorica della patria e del “tempo degli eroi” attraverso il filtro di un’analisi rigorosa che tocca sociologia, antropologia, politica, storia, filosofia.

Premio Itas 2011

del Libro di Montagna

 

SEGNALATO

dalla Giuria

 

59° Trentofilmfestival Montagna Esplorazione Avventura

 

 

 

 

Voci correlate al libro

“Se Fattor e Fait sono due utopisti, sono anche sufficientemente realisti da sapere che la distruzione del paradigma etnico è solo un lato della medaglia. Per questo non si limitano alla demolizione del mito etnico, ma anche a smontare la falsa consapevolezza che deriva dal rendere reale una costruzione sociale.”
Günther Pallaver

 

“È a questa Europa di minoranze in cammino e di identità mutabili che dovremmo affidare il futuro della nostra bella terra. Orgogliosi dell’autogoverno ma al tempo stesso responsabili nel costruire.”
Michele Nardelli

 

Eco della stampa

In Sudtirolo si scrive molto di Sudtirolo. Monografie e saggi di carattere politico e storico, talvolta assai ben documentati, non mancano. Con un piccolo, significativo, difetto. Una riflessione su questa terra pensata e redatta in lingua italiana stenta a decollare, oppure è consegnata alla fugacità di interventi giornalistici che non consentono il necessario approfondimento. Contrastando in modo programmatico questa tendenza, il volume “Contro i miti etnici”, uscito per l’attivissima casa editrice “Raetia” di Bolzano, colma questa lacuna e propone un punto di vista critico sul “modello Südtirol” con il quale è senz’altro utile confrontarsi. Il saggio, utilizzando un linguaggio accessibile a tutti e risultando con ciò comprensibile anche a chi non sia particolarmente esperto di problematiche locali, lancia la sua provocazione e vuol far discutere: decostruire le mitologie che innervano e condizionano un discorso pubblico tuttora impostato sulla prevalenza dei gruppi, proponendo – in opposizione – il senso di una progettualità più vicina alle esigenze degli individui.
Corriere dell’Alto Adige

Il volume di Fait e Fattor è un atto di accusa contro il “doping identitario” della politica locale. (…) Il libro è tanto un saggio quanto un pamphlet.
Alto Adige

Il libro è molto interessante e merita di essere letto con attenzione.
Corriere dell’Alto Adige, Gabriele di Luca

Stefano Fait und Mauro Fattor analysieren die ethnischen Mythen und versuchen die Mechanismen und Beweggründe hinter der patriotischen Rhetorik freizulegen.
Der Brixner

Quello di Fait e Fattor è un coraggioso tentativo di rendere fruibile ad un pubblico di non addetti ai lavori, quello che nasce come uno studio di natura sociale ed antropologica della società altoatesina.
dislivelli, Daniela Zecca

Un libro fondamentale, assolutamente da leggere, forse il testo più “vero” e doloroso mai scritto sull’Alto Adige.
Reinhard Christanell, franzmagazine

INTRODUZIONE

“Vi hanno detto che senza le radici non si costruisce il futuro, che senza un’identità collettiva la vita non ha senso, che l’atto di togliere il crocifisso dai luoghi pubblici è un’offesa a ciascuno di voi, prima ancora che a Dio, che ognuno dovrebbe essere orgoglioso della propria patria/Heimat ed è tenuto ad amare la propria lingua. Tutto questo lo si deve fare a prescindere. Un po’ come le Tavole della Legge donate da Geova a Mosè sul Sinai: “Io sono il Signore, tuo Dio… Non avere altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine… Non ti prostrerai davanti a quelle cose…ecc.” I Comandamenti sono stati debitamente aggiornati e la loro osservanza è dovuta. È curioso che l’unico animale terrestre nato per essere libero abbia trascorso la sua storia escogitando ogni possibile mezzo e metodo per ingabbiarsi. Eppure, per noi umani, non esiste a questo mondo nulla di inevitabile, tranne la morte. Geni, ambienti familiari, culture, lingue, estrazione sociale, ecc. non programmano la nostra esistenza. È estremamente facile provarlo…”
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Durnwalder tiferà per la Spagna in finale? (e chissenefrega?)

“In Alto Adige, terra bilingue italo-tedesca, non tutti tifano per gli azzurri in vista dell’incontro con la Germania. Il governatore Luis Durnwalder, ad esempio, dice di provare simpatia per molti giocatori italiani, incontrati durante i ritiri estivi in montagna: «Ma personalmente tengo per la Germania», dice sulla partita di stasera. Il quotidiano Dolomiten ha interpellato alcuni personaggi di lingua tedesca: non mostra tentennamenti Ulli Mair, segretaria del partito dell’ultradestra Freiheitlichen: «Non importa chi vince – afferma – basta che sia la Germania». Apparentemente più decoubertiniano è Elmar Pichler Rolle, personaggio di spicco della Svp: «Vinca il migliore», dice. Ma poi aggiunge: «In questo caso il migliore è certamente la Germania»”.

http://altoadige.gelocal.it/cronaca/2012/06/28/news/durnwalder-io-tifo-per-la-germania-1.5330681

“L’elemento decisivo non è quindi l’unità amministrativa, ma ritorna con prepotenza in primo piano il richiamo a una supposta e auspicata unità etnolinguistica della propria “parte”.  Si potrebbe inoltre chiosare che in passato fu Magnago ad opporsi decisamente all’idea di definire i sudtirolesi una “minoranza austriaca”. Lui infatti parlava sempre di “minoranza tedesca” o di “lingua tedesca”. Mentre solo con Durwalder il discorso della “minoranza austriaca” pareva diventato il centro di una nuova identificazione culturale e politica.

Certo, sarebbe possibile obiettare che alcuni sudtirolesi tifano Germania, e non Austria, solo perché l’Austria è calcisticamente insignificante e spesso assente dalle grandi competizioni internazionali. Eppure il sospetto che quanto abbiamo appena sottolineato indichi una tendenza non dettata da mero opportunismo rimane. Dobbiamo preoccuparci? No, ammesso che tutta questa faccenda dell’appartenenza legata al calcio sia solo una metafora. Ma le metafore sono “solo metafore”? Comunque la vediate: buona partita a tutti”.

Gabriele Di Luca, Corriere dell’Alto Adige, 28 giugno 2012

http://sentierinterrotti.wordpress.com/2012/06/28/partita-di-calcio-o-metafora/

“Lo storico dell’Università di Pisa Alberto Mario Banti, uno dei massimi esperti italiani del  Risorgimento, è rimasto coinvolto in un’accesa diatriba sulla bontà ed opportunità di questo risveglio neo-risorgimentalista.  Ha vergato una critica  senza appello al nazional-patriottismo di Benigni, che andrebbe letta alla luce delle sue analoghe obiezioni alla narrativa patriottica di Carlo Azeglio Ciampi, contenute nel bel “Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo” (Laterza, 2011).

Da Luis Durnwalder si è preteso un autodafé patriottico, come quando gli inquisitori spagnoli esigevano una dimostrazione di fede dai marrani ebrei e musulmani. Chiederemo agli immigrati di prostrarsi di fronte ad un crocifisso o di recitare a memoria la costituzione?

In prima battuta devo ammettere di aver avuto uno scatto patriottico: l’ho trovato irritante. L’Alto Adige ha avuto notevoli riconoscimenti e benefici economici ed un rappresentante delle istituzioni dovrebbe avere un altro comportamento. A mente fredda, però, non c’è dubbio che se si preme il tasto delle radici si fa il gioco di Benigni, dell’italianità eterna: i Sudtirolesi non hanno potuto esercitare una scelta nel 1919 ed hanno dovuto subire tutto il peso dell’oppressione fascista. Per questo il terreno comune dovrebbero essere la carta costituzionale e lo stato di diritto, non la storia: a tutela di tutte le minoranze. A scuola, come s’impara la matematica e Manzoni, si dovrebbe anche imparare la costituzione e magari si potrebbe anche estendere il giuramento di lealtà alla costituzione a tutti i cittadini, non solo a certe categorie”.

http://ricerca.gelocal.it/trentinocorrierealpi/archivio/trentinocorrierealpi/2011/02/25/AT6PO_AT601.html

La disputa sulle lealtà calcistiche di Durnwalder dimostra che il totemismo è vivo e vegeto nelle società contemporanee. L’aquila americana continua a contrapporsi all’orso russo, l’orso trentino è vilipeso e Durnwalder è già stato trasformato in un totem clanico vivente. Dellai farà verosimilmente la stessa fine in Trentino.

Ci consideriamo moderni, ma non lo siamo. Tra i “primitivi” aborigeni australiani la sopravvivenza della comunità è affidata ad una corretta riproduzione dell’ordine modellato dagli antenati totemici e i loro simboli devono essere fedelmente riproposti, nelle immagini e nelle ritualità. Analogamente, tra noi “moderni” riscontriamo le logiche tribali, il feticismo, il ritualismo elaborato, l’idolatria, il totemismo, la venerazione della natura e degli antenati, lo spirito del clan, i pellegrinaggi, i percorsi iniziatici, la sacra toponomastica e i sacri simboli, la fede nell’Età dell’Oro e nella Terra Promessa, ecc.

È inevitabile: totem e simboli sacrali servono anche a rassicurare una società sulla bontà e validità della sua visione del mondo. Per il celebre etnografo Clifford Geertz l’esistenza stessa dell’uomo sarebbe salvaguardata dai simboli, nei confronti dei quali si è sviluppata una tale forma di dipendenza che il privarsene equivarrebbe alla morte psichica, al caos assoluto. Il che spiega come mai sono in grado di determinare la nostra esistenza.

Durnwalder poteva dire di non essere interessato al calcio e il Dolomiten poteva fare a meno di fare il suo “sondaggio” sugli orientamenti del tifo dei politici sudtirolesi. In una società matura ci sono delle alternative, in Alto Adige non ci sono: è d’obbligo prostrarsi al cospetto del proprio totem. Durnwalder non ha mai avuto una vera scelta: qualunque risposta avesse dato avrebbe creato malumore. Anche astenendosi dal rispondere avrebbe generato sospetti. Durnwalder, come ciascun residente dell’Alto Adige, è ostaggio più o meno consenziente dei totem clanici e dei miti etnici, una condizione particolarmente problematica in un Alto Adige che si trova a cavallo tra un’eurozona forte ma calcisticamente debole ed un’eurozona debole ma calcisticamente forte.

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https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/07/22/contro-i-miti-etnici-alla-ricerca-di-un-alto-adige-diverso-un-libro-preveggente/

L’ultimo anniversario di Israele?

 

Israele ha appena festeggiato i 64 anni dal giorno della sua creazione. Ormai reputo quasi certo che, a causa delle politiche dell’attuale governo israeliano, questo sia anche l’ultimo anno della breve ma intensissima storia di Israele.

Un commentatore del mio vecchio blog mi ha chiesto se conosco Gilad Atzmon. Confesso di non averlo mai letto e so solo che è detestato dagli antisionisti quasi quanto lo è dai sionisti. La cosa mi ha colpito, perché è un po’ quel che è successo a me e Mauro Fattor dopo la pubblicazione del nostro libro sull’Alto Adige e i suoi miti identitari.
Ho trovato quest’intervista, che credo possa esemplificare il suo pensiero.

Silvia Cattori: Il suo libro è stato appena pubblicato in Francia. Pur senza aver avuto una campagna promozionale, si sta vendendo bene, nonostante che i membri della Unione Ebraica Francese per la Pace (UJFP) e della International Jewish Antizionist Network (IJAN) abbiano lanciato una campagna contro di lei, all’interno del mondo della sinistra e dei movimenti di solidarietà con la Palestina, addirittura sei mesi prima dell’uscita della traduzione francese. È stupito da questi attacchi?

Gilad Atzmon: Come lei sa bene, sono anni che sono fatto oggetto di questo genere di campagne vili da parte degli ebrei antisionisti. È evidente come io sia percepito come un guastafeste. Non c’è da stupirsi: io sono contro qualunque forma di politica identitaria ebraica poiché le considero, tutte quante, esclusiviste e razziste. Purtroppo, allo stesso modo dei sionisti, molti gruppetti politici ebraici antisionisti sono apertamente impegnati in politiche altrettanto tribali, altrettanto razziste, altrettanto esclusiviste.

Ma esiste anche un problema ideologico. Io affermo apertamente che tutta la terminologia che loro usano è sbagliata. Il sionismo non è colonialismo, Israele non pratica l’Apartheid, e gli Israeliani non sono assimilabili ai sionisti. Il sionismo non è colonialismo: infatti, lo Stato ebraico dei coloni è privo di metropoli. Israele non è Apartheid: lo Stato ebraico non cerca di sfruttare i Palestinesi ma semplicemente di sbarazzarsene. In effetti, Israele si regge sulla filosofia dello spazio vitale, del Lebensraum. Detto in altre parole, lo Stato ebraico ha adottato l’ideologia razzista ed espansionista nazista. Ma gli ebrei che sono parte del nostro movimento [di solidarietà con i Palestinesi], non amano la similitudine con la Germania nazista. Di più, Israele non è esattamente il sionismo, e gli Israeliani non sono necessariamente sionisti. Israele è il prodotto dell’ideologia sionista e l’Israeliano è fondamentalmente un prodotto post-rivoluzionario. Ne consegue che il dibattito sionismo/antisionismo è molto poco pertinente con Israele, o nel quadro della politica israeliana. Riassumendo, tutta la terminologia che utilizziamo è ambigua, o addirittura fuorviante. E poiché io lo denuncio, immagino che sia del tutto naturale che alcuni vorrebbero eliminare il portatore di questo messaggio.

Silvia Cattori: In tanti la riconoscono come un pensatore serio e sincero in seno a questo movimento. La rispettano e ammirano. Lei ha il coraggio di incendiare il dibattito, infrangere i tabù, e di confrontarsi coi suoi detrattori con argomentazioni solide. Il fatto che l’UJFP in Francia e l’IJAN in Svizzera, per esempio, siano in grado di intimidire quanti l’apprezzano, pubblicano e invitano, non conferma forse la veridicità della sua posizione?

Gilad Atzmon: Queste officine ebraiche antisioniste non fanno che promuovere una causa tribale e marginale, raggruppano pochissime persone ma sono capaci di fare molto rumore. È chiaramente nell’interesse dei propugnatori del giudeo-centrismo mantenere in vita delle organizzazioni ebraiche dissidenti affinché detengano l’egemonia ebraica sul movimento di solidarietà con la Palestina e oltre. Tragicamente, ed è indubbio che sia così, questi movimenti non avranno mai alcuna possibilità di diventare movimenti di massa. Il loro messaggio è troppo esoterico. Così, ad esempio, perché mai una persona seria dovrebbe entrare in un gruppo di solidarietà se uno dei suoi principali obiettivi è la «lotta contro l’antisemitismo»? Se le persone sono realmente interessate al discorso della solidarietà con i Palestinesi, devono assicurarsi che si tratti di un movimento che sta diventando universale, un movimento guidato dalla compassione e da considerazioni etiche.

Forse vi sorprenderò. Io vorrei davvero vedere il maggior numero di ebrei possibile in questi movimenti; ma dovrebbero interessarsi di quelli che sono i veri problemi, cioè il calvario dei Palestinesi e la natura del potere politico ebraico. Fondamentalmente io studio il potere ebraico, è il mio oggetto di studio prediletto. Analizzo l’identità e la politica ebraica. Ed è del tutto sorprendente che i primi ad attaccarmi e a tentare di ridurmi al silenzio siano precisamente coloro che rivendicano di essere «attivisti ebrei della solidarietà con i Palestinesi». Già solo questo fornisce l’impressione che tali persone non sono affatto ciò che pretendono di essere, militanti della solidarietà. No, queste persone non sono altro che un’altra forma della AntiDefamation League.

Ma, lo sa, io sono felice di dibattere su questi temi. Se vogliono dibattere, che vengano a confrontarsi con me, a Londra o Parigi… se pensate che ho torto, venite a dibattere con me! Se sono in errore, venite a dimostrarmi le pecche del mio ragionamento: le mie informazioni sono erronee? Le mie argomentazioni parziali? No: in realtà nessuno è stato in grado di evidenziare il minimo errore nelle mie argomentazioni o nei fatti di cui parlo. Sanno solo ricorrere ad una trita tattica rabbinica, lanciare anatemi (herem). Perché ricorrono alla tattica talmudica? Perché probabilmente è esattamente ciò che sono, appartenenti al «popolo del libro» che perpetuano un orrido autodafé. Penso che se avessero potuto crocefiggermi, l’avrebbero fatto.

Silvia Cattori: I suoi detrattori sono determinati ad escluderla dal dibattito. È facile convincere quelli che non sanno nulla di come stanno le cose sostenendo che il suo polemizzare su giudaismo e antisionismo ebraico sarebbe alimentato da «razzismo» per il fatto che attribuisce «ad un intero gruppo di persone dei criteri negativi al fine di screditarli». Ma sono seri?

Gilad Atzmon: Allora, è sicuro che non sono seri. Io non mi occupo del giudaismo. Non critico niente del giudaismo anche se mi permetto di criticare talune interpretazioni che sono fatte dagli ebrei. Nemmeno critico con virulenza, in maniera generica, la politica ebraica, e l’antisemitismo ebraico in particolare. Ma le prime domande da sollevare qui riguardano il sapere perché a qualcuno dovrebbe essere interdetto dibattere sul giudaismo, la politica ebraica o l’antisemitismo ebraico. Il giudaismo è forse al di sopra di qualunque critica? La politica ebraica è forse intrinsecamente innocente? Gli antisionisti ebrei sono forse perfetti? È evidente che i miei detrattori aderiscono a questo giudizio, che più banale e inquietante non si potrebbe, secondo cui gli ebrei sono, in un modo o in un altro, dei prescelti, degli eletti, che il giudaismo è incontestabile e la politica ebraica intangibile. Ovviamente io non accetto questo approccio alle cose. Considerando l’impatto negativo che hanno le lobby politiche ebraiche nel fomentare una nuova guerra mondiale, criticare la politica ebraica significa amare davvero la pace.

Ci tengo inoltre a sottolineare che le preoccupazioni relative la «etnicità» o la «razza» sono estranee al mio lavoro. Nella totalità dei miei scritti non c’è il minimo riferimento agli ebrei in quanto «razza» o «etnia». Critico la cultura e l’ideologia ebraica in ragione del fatto che le organizzazioni IJAN, UJFP, ADL, la Zionist Federation, e compagnia, agiscono in quanto gruppi riservati ai soli ebrei e che le loro motivazioni sono ben lontane dall’essere universali o morali.

Silvia Cattori: Che mi dice «dell’antisemitismo classico» che le attribuiscono?

Gilad Atzmon: Dipende da cosa si intende per «antisemitismo classico». È vero che il XIX secolo ha prodotto una scuola di pensiero altamente critica nei confronti della cultura ebraica. Conosciamo bene questo dibattito tra Atene e Gerusalemme. Per quanto mi riguarda, era (e rimane) un dibattito molto interessante ed illuminante. Ha quanto meno avuto il merito di condurre generazioni di ebrei verso la riforma, l’umanesimo, la tolleranza.

In ogni caso siamo tutti d’accordo nel sostenere che l’antisemitismo è diventato un pensiero molto problematico, vile e criminale, nel momento in cui ha adottato una posizione biologica determinista. È dunque diventato fondamentalmente un discorso razzista darwinista. Ma, in un modo particolarmente scioccante, la politica ebraica (che sia di sinistra, destra o centro) si è imbevuta di questa sorta di attitudine razzista. Lei potrebbe, Silvia, aderire a uno di questi gruppi unicamente composti da ebrei che si pretendono «progressisti»? Io non credo. E sa perché? Non corrisponde affatto al profilo razziale indispensabile per esservi ammessa.

Silvia Cattori: Cosa risponde alle ricorrenti accuse di negazionismo?

Gilad Atzmon: Il negazionismo è, in tutta evidenza, una nozione sionista. Nessuno nega l’Olocausto, anche se alcune persone mettono in dubbio taluni elementi sul piano storico. Personalmente non prendo parte a dibattiti storici perché non sono uno storico. Tuttavia penso che la Storia debba rimanere un discorso aperto. Se qualcuno pensa che ho torto nell’affermare questo, che questa persona avanzi un argomento convincente. Ma attenzione: lui o lei dovrà anche spiegare cosa è inammissibile nella legge israeliana che riguarda la Naqba.

Silvia Cattori: Nel momento in cui si afferma che lei «attacca tanto gli antisionisti ebrei che i religiosi ebrei in termini razzisti », dunque, si mente?

Gilad Atzmon: Certo che si mente! È falso, è una totale deformazione dei miei scritti e del mio lavoro di ricerca. In tutti i miei scritti non si troverà alcuna critica del giudaismo o degli ebrei in quanto popolo, in quanto razza o in quanto etnia. Io non mi riferisco che alla sola ideologia, non al popolo. Sono irremovibile verso tutte le organizzazioni politiche riservate ai soli ebrei.

Considero taluni ebrei antisionisti e taluni ebrei di sinistra come «antisionisti sionisti» perché vedono nel loro essere giudei una qualità politica primaria. L’eminente sionista Haïm Weizmann ha detto: «Non esistono ebrei francesi, britannici, tanto meno americani. Ci sono solo ebrei che vivono in Francia, che vivono in Gran Bretagna o in America». Ciò significa che, nell’ideologia sionista, essere giudeo è una qualità primaria. Gli ebrei antisionisti o gli ebrei per la pace vedono chiaramente nel loro essere giudei una qualità primaria. Se non lo considerassero una qualità primaria, entrerebbero nel movimento per la pace e nel movimento per la solidarietà con la Palestina come tutti gli altri. Le ideologie ebraiche sono molto diverse le une dalle altre su numerose questioni. Ma tutte quante concordano su taluni punti fondamentali: l’Elezione, l’esclusivismo, la segregazione. La sola cosa in cui credono tutte, a l’unanimità, è che gli ebrei sono, in un modo o in un altro, il popolo eletto. Del resto, se gli ebrei non avessero niente di speciale, perché agirebbero attraverso gruppi in cui solo gli ebrei sono ammessi?

Silvia Cattori: Le rimproverano anche di suggerire l’idea che «l’oppressione colonialista israeliana non è frutto del sionismo ma il risultato del giudaismo».

Gilad Atzmon: Di nuovo, una caricatura. Per cominciare, lo ripeto, io non parlo del giudaismo, destrutturo l’ideologia ebraica. Posso arrivare a domandarmi quali siano le tracce giudaiche in una ideologia ebraica contemporanea. Per esempio, mi domando in che modo il Deuteronomio influenzi l’ideologia ebraica. Oppure chiedermi quale sia il significato del Libro di Esther. Tuttavia, del resto, affermo non essere il «sionismo» a far soffrire il popolo palestinese, ma lo Stato ebraico. E lo Stato ebraico lo fa in nome del popolo ebraico. Se Israele si autodefinisce come Stato ebraico, se i suoi carri armati sono decorati dai simboli ebraici, dobbiamo essere autorizzati a chiederci chi siano gli ebrei, o no? O ancora cosa sia il giudaismo e l’essere giudei. Nel mio lavoro io faccio un distinguo tra il sionismo e il discorso israeliano. Affermo che Israele non è guidato dal sionismo e che il sionismo è un discorso della diaspora ebraica che sta perdendo ogni rapporto con l’oppressione che subisce il popolo palestinese.

[…]

Silvia Cattori: La sua motivazione profonda non è, dunque, solo quella di allertare i Goyim (i non ebrei) e invitarli a smetterla di essere guidati dal senso di colpa, a cessare di sottomettersi, cessare di lasciarsi umiliare. Ma anche di far comprendere che, fin tanto che non ci sarà libertà di parola, Israele può continuare a guadagnare tempo per rendere la sua morsa sulla Palestina irreversibile?

Gilad Atzmon: Ai miei occhi non esiste differenza tra ebrei e non ebrei. Il mio desiderio più grande è di poter dire quello che voglio dire. Penso che il mio messaggio sia veramente cruciale per tutti quelli che cercano la pace, siano essi ebrei o Goyim. Per me, è evidente che Israele e le lobby pro-Israele spingono incessantemente e sempre più verso il conflitto. Israele e i gruppi di pressione rappresentano ormai la più grande minaccia per la pace mondiale. È chiaro, anche, ai miei occhi, che le comunità ebraiche non frenano né Israele né le lobby. E il messaggio, per noi, è molto chiaro: è nostra l’incombenza di salvare il pianeta. Questo pianeta, dove viviamo. Siamo seduti su una bomba a orologeria. Dobbiamo svegliarci, dobbiamo esprimerci, prima che sia troppo tardi.

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