Se le grandi regioni italiane sono strumenti più rinomati/celebrati/amati, il Trentino Alto Adige è probabilmente un’ocarina. Eppure un’ocarina ben suonata può dare il suo contributo nell’unità di diversità che è l’orchestra d’Italia.
15 luglio 2014 a 12:29 (Antropologia, Verso un Mondo Nuovo)
Tags: Alto Adige, Italia, ocarina, Trentino, unità nella diversità
Se le grandi regioni italiane sono strumenti più rinomati/celebrati/amati, il Trentino Alto Adige è probabilmente un’ocarina. Eppure un’ocarina ben suonata può dare il suo contributo nell’unità di diversità che è l’orchestra d’Italia.
28 ottobre 2013 a 19:22 (Territoriali#Europei, Verso un Mondo Nuovo)
Tags: Alto Adige, civiltà umana, comunità, DBR, Donata Borgonovo Re, ecosfera, elezioni, era planetaria, fare comunità, fare rete, glocale, hybris, Irochesi, l'albero dei desideri, l'unione fa la forza, mors tua vita mea, risultati, settima generazione, sostenibilità, sviluppo, Trentino, trionfo, tutti per uno uno per tutti, uno per tutti tutti per uno, villaggio globale
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Il mio attivismo pro-Donata Borgonovo Re è cominciato in tempi non sospetti, oltre un anno fa
Ci sono stati momenti di sconforto e momenti di “estasi”, come spesso accade quando l’individuo si dona a una causa più grande di lui (senza sospendere il necessario distacco critico, perché io e DBR abbiamo background diversi).
Donata, tenendo fede al suo nome, ha incarnato questa causa.
Impara insegnando e insegna imparando; guida chiedendo indicazioni; è sensibile ma determinatissima e coraggiosa.
È il tipo di persona che voglio vedere in politica. Il tipo di persona che può cambiare le cose in meglio.
Non si è accontentata di vincere, ha stravinto. 10543 preferenze.
Comincia una nuova epoca politica per il Trentino. Ora gli elettori sanno che “si può fare”. Lo faranno di nuovo.
10500 voti per 1750 euro: come fare meglio, con meno
Ora, io non ho scritto il mio desiderio su quell’albero. Non c’era spazio per i pensieri lunghi ;o)
Desidero un Trentino nuovo, un nuovo Trentino che si contrapponga a una Mega-Macchina infermale che ci vuole divorare
https://versounmondonuovo.wordpress.com/2013/10/24/candidati-trentini-dite-la-verita-agli-elettori-il-loro-mondo-sta-per-cambiare-e-non-possiamo-tirare-a-campare/
Può una piccola comunità resistere agli assalti dei mercati e di chi li governa?
No. Solo un povero stolto o un ingannatore potrebbe rispondere affermativamente.
I piccoli vengono mangiati, in un mondo organizzato in modo tale da favorire i potenti senza scrupoli.
Il Trentino (come l’Alto Adige) non ha alcuna chance.
E allora? E allora occorre far rete al più presto, perché non voglio essere ingurgitato.
Ugo Rossi è un unificatore, o almeno si considera tale. Ammira Helmut Kohl.
Ho grande stima per chi unisce l’umanità e mi batto contro di chi la divide. Ho scritto un libro con questo chiodo fisso in testa
http://www.raetia.com/it/shop/item/1567-contro-i-miti-etnici.html
https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/07/22/contro-i-miti-etnici-alla-ricerca-di-un-alto-adige-diverso-un-libro-preveggente/
E sto continuando questa battaglia, con ogni mezzo.
La regione Trentino Alto Adige si è fatta strumento di pace e riconciliazione, all’interno e all’esterno, e potrà consolidare questo ruolo dando vita a coordinamenti più ampi di comunità.
Non basta agire localmente e pensare globalmente, è giusto difendere e valorizzare ciò che è locale, restando però consci del fatto che se non facciamo rete tutto diventerà molto più difficile. Parlo di una rete che trascenda la matrix sociopatica dei mercati e di un modello di “sviluppo” che è involutivo, poiché ci lascia sempre meno tempo per riflettere e sempre meno spazio per sperimentare alternative, essendo all’insegna dell’hybris, della tracotanza.
Abbiamo bisogno di una comunità che ragioni in termini planetari, di interesse generale dell’umanità, dell’ecosfera e delle generazioni future.
Non abbiamo bisogno di sottomettere gli altri e non abbiamo bisogno di separarci dagli altri.
Se l’idea di villaggio globale o famiglia umana ci spaventa perché sembra fare il gioco di chi accarezza l’idea di “un pianeta, un sistema” (mors tua, vita mea), non c’è problema: possiamo comunque esplorare modi di allearci, federativamente, con chi si oppone, non solo a parole, a questo tipo di futuro. Tenendo a mente che l’unione fa la forza e “uno per tutti, tutti per uno”.
La pace si costruisce con una comunità che non sia coriacea, che non abbia ispessito la sua pelle come una corazza, che attraversi la vita “senza pelle”, senza filtri, per sentire il piacere ma anche il dolore degli altri, il peso delle ingiustizie, il calore degli affetti, per comprendere intimamente il significato della regola d’oro “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” e per capire che siamo tutti, realmente, sulla stessa barca.
Più chiaramente percepiamo, più siamo partecipi delle vicende del pianeta e della civiltà umana, più la nostra assunzione di responsabilità si riverbera, ha ramificazioni planetarie, fa comunità su scala globale. Fa la pace.
Questo è il Trentino che desidero e so di non essere il solo a volerlo realizzare.
Al momento parrà utopico, tra non molto sembrerà l’unica via di uscita (“follia è fare sempre la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi”).
14 ottobre 2013 a 10:54 (Alto Adige / Sudtirolo, Controrivoluzione e Complotti, Etnofederalismo/Etnopopulismo)
Tags: Alto Adige, Athesia, Dolomiten, Hubert Frasnelli, Kompatscher, Michl Ebner, Mitteleuropa, Ottone d'Asburgo, Paneuropa, SVP, Toni Ebner
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Su Arno Kompatscher in quanto persona non posso pronunciarmi, giacché come Landeshauptmann non l’ho ancora visto all’opera. Quello che posso dire, però, è che la sua candidatura è stata favorita dal quotidiano Dolomiten, e dunque della famiglia Ebner. E qui siamo proprio nuovamente davanti a uno di quei nodi del sistema che io critico nel mio libro: gruppi d’interesse, lobby, personaggi influenti legati ad altri personaggi influenti, soprattutto nel campo dell’economia. In questo modo vengono create vere e proprie bolle di consenso tutt’altro che trasparenti. In un certo senso, pensando a Kompatscher, il mio libro esercita allora un ammonimento: attento, stai molto attento a non farti stritolare.
Hubert Frasnelli
http://www.salto.bz/it/article/14102013/hubert-frasnelli-il-sistema-ce-ancora
Ottone d’Asburgo Lorena e Michl Ebner
Ottone d’Asburgo Lorena (1912-2011) è uno degli eroi della destra sudtirolese, che include l’ala economica della SVP guidata, tra gli altri, da Michl Ebner. Ebner, fratello di Toni Ebner, direttore del Dolomiten, di gran lunga il maggior quotidiano di lingua tedesca dell’Alto Adige, è un ex senatore ed ex europarlamentare, amministratore delegato del più grande gruppo editoriale dell’alto Adige (Athesia), presidente della Camera di Commercio della provincia di Bolzano, vicepresidente della Banca di Trento e Bolzano, regionalista e nemico del melting pot (fusione di culture, tradizioni e destini), come spiega in un intervista per “Il Cristallo” (“Regioni e Unione Europea”, 2011), pur tuttavia fautore del plurilinguismo “per comunicare efficacemente con clienti e fornitori all’estero” (Alto Adige, 5 novembre 2012).
Ebner è stato amico, collega e collaboratore di Ottone d’Asburgo.
Il pensiero economico dell’ultimo arciduca ereditario d’Austria e d’Ungheria non era particolarmente raffinato, ma s’inseriva a pieno diritto nella tradizione della scuola austriaca, fondata da Carl Menger (1840-1921), rampollo della piccola nobiltà boema, fondatore della scuola austriaca di economia, consulente economico presso la casa d’Austria, nonché tutore, confidente ed amico intimo del principe ereditario Rudolf. Da Menger si dipana un filo rosso neoliberista (Younkins 2005) che, passando per Hayek (ammiratore di Pinochet), von Mises (ammiratore dei cancellieri austriaci integralisti cattolici e proto fascisti Ignaz Seipel ed Engelbert Dollfuss), Ayn Rand – arcinemica dello stato sociale e dei poveri, finché la salute cagionevole non la indusse ad avvalersene – e Milton Friedman (implacabile critico della democrazia, teorico dell’“economia dello shock”, anche nota come “capitalismo dei disastri”), arriva alla destra radicale statunitense dei Tea Party Patriots (il loro referente per l’Italia è Oscar Giannino) ed alle politiche di austerità della troika, criticate da ben 8 premi Nobel per l’economia e, paradossalmente, da una mezza dozzina degli stessi analisti del FMI e della Banca Mondiale.
Il lettore prenda nota: il Ludwig von Mises Institute ed il Cato Institute, due think tank neoliberisti, hanno dimostrato nella loro storia una marcata simpatia per le privatizzazioni, i secessionismi e i confederati (quelli che fortunatamente hanno perso la guerra civile). Giusto per inquadrare il retroterra ideologico degli aderenti a questa scuola di pensiero.
Dopo essere fuggito dall’Europa in quanto ebreo perseguitato, Von Mises sopravvisse fino al 1969 negli Stati Uniti solo grazie ai finanziamenti della Rockefeller Foundation e del mecenate Lawrence Fertig, che gli pagava il salario da docente all’Università di New York. Prima di poter insegnare a New York ricevette un incarico da Ottone d’Asburgo, anch’egli in esilio negli Stati Uniti, nel Comitato Nazionale Austriaco, che riuniva espatriati austriaci nostalgici dell’impero e che riuscì, grazie al suo lobbismo, a cancellare la complicità dell’Austria nel Terzo Reich, creando il mito della prima vittima di Hitler:
La cosa non riguarda solo ambienti dell’estrema destra o conservatori: qui è tutta la cultura politica austriaca, le forze politiche che hanno governato nel secondo dopoguerra a considerare l’Austria solo come una vittima del nazismo, assolutamente incolpevole. Non c’è motivo perché debba fare i conti con il proprio passato nazista perché l’Austria non è stata nazista. Ora questa è una falsificazione storica colossale, perché si sa benissimo che l’adesione degli austriaci al nazismo è stata più radicale, più convinta di quella dei tedeschi al Terzo Reich. Il libro di Hillberg lo dimostra molto chiaramente: fra i funzionari della macchina di sterminio la presenza austriaca è fortissima, Eichmann non è affatto un caso isolato. Così Hillberg documenta molto bene come il primo sistematico sterminio di ebrei avvenne in Serbia intorno al ’41, prima, cioè, che venisse lanciata la soluzione finale, e fu compiuto direttamente dagli austriaci della Wehrmacht. Questi sono dati che troppo facilmente vengono oscurati e dimenticati (Pier Paolo Poggio 2000).
Mises continuò a rivolgersi a Ottone chiamandolo “Sua Altezza Imperiale” anche negli anni Sessanta. Negli anni Quaranta, in un suo rapporto sulla possibilità di una restaurazione della monarchia in Austria dopo la sconfitta del nazismo, Mises concluse che sarebbe stata fattibile ed accettabile, se la popolazione l’avesse approvata con un referendum, perché solo un sovrano eletto avrebbe potuto garantirsi una base di consenso sufficientemente ampia da potergli permettere di regnare. Questa, e non una qualche irrefrenabile vocazione democratica, è la sconveniente origine della tanto acclamata fede referendaria-plebiscitaria di Ottone d’Asburgo (Hulsmann 2007).
Il Dolomiten del suo carissimo amico e strettissimo collaboratore all’europarlamento Michl Ebner (come gli altri media conservatori di entrambe le sponde dell’Atlantico), ha celebrato le gesta di un uomo che aveva come scopo precipuo nella sua vita quello di riprendersi ciò che riteneva gli spettasse di diritto: la sovranità sulla Mitteleuropa.
Non che abbia mai cercato di nasconderlo in alcun modo. Nel 1976, in uno dei suoi tanti saggi – “Idee Europa: Angebot der Freiheit” – scriveva: “L’idea imperiale risorgerà nella forma dell’unificazione europea” (Die reichische Idee wird in Gestalt der europäischen Einigung neu erstehen).
Carlo, figlio di Ottone, destinato a portare avanti la crociata del padre, ha assicurato che “i principi dell’idea di Impero come ordine sovranazionale, assieme al principio di sussidiarietà come struttura a base cristiana della nostra società, possono costituire il piano regolatore per il futuro” (Cardini et al. 2008, p. 6).
Nel 1999 Ottone si recò in Alabama, al Ludwig von Mises Institute di Auburn, per omaggiare l’economista al quale è stato intitolato l’istituto (“The Mises I Knew”, 5-6 febbraio 1999), raccontando come l’aveva conosciuto, che impressione se n’era fatto e quale lascito teorico ne aveva ricavato.
Il militante mitteleuropeista esordiva ripetendo per l’ennesima volta la frottola che aveva raccontato per oltre 50 anni, ossia che l’Austria era stata conquistata dai nazisti contro la sua volontà e ne era la prima vittima; inoltre lui si era dovuto battere come un leone per ristabilire la verità storica contro quelli che chiamava i “fanatici politici di alcune nazioni confinanti con l’Austria” ed anche contro certi politici austriaci in esilio pronti a tradire (dal suo punto di vista) l’Austria. Secondo lui Von Mises – che nel 1922 celebrava la riuscita della Marcia su Roma – era un eroe che aveva affrontato la tempesta, senza seguire l’esempio dei traditori.
Lo definiva un faro nella notte, un aristocratico nel vero senso della parola, per i servigi che aveva reso al suo paese ed al mondo. Di quel tipo di aristocrazia che rappresenta un nuovo genere di nobiltà che stava emergendo già allora, indipendentemente dall’ordinamento dello stato in cui viveva. La paragona al sistema feudale giapponese, un’evidente, seppure implicita, allusione a “Un’utopia moderna” di H.G. Wells (“A Modern Utopia”, 1905), un romanzo che l’autore britannico aveva concepito anche come un programma politico di edificazione di uno stato mondiale diretto da un’élite di samurai – così li chiamava – una nobiltà volontaria di tecnocrati specialisti nella gestione dei problemi globali che ricevono speciali privilegi ed onori nell’adempimento dei propri compiti.
È molto probabile che il favore con cui guardava agli auspici di Wells gli fosse stato trasmesso da Richard Coudenhove-Kalergi, aristocratico per parte paterna e materna (la madre era giapponese, discendente di samurai, legata agli ambienti della potentissima setta Soka Gakkai), ideologo di un’Europa neo-aristocratica, vicino all’austrofascismo, fervente nietzscheano, ostile al suffragio universale, fondatore di Paneuropa, collega, amico e sostenitore di Ludwig von Mises.
Nel suo primo articolo, Platons Staat und die Gegenwart (1919), Coudenhove-Kalergi, esprimeva la sua ammirazione per il progetto platonico di una società guidata da un’oligarchia di esperti (una tecnocrazia).
In seguito divenne fautore di un progetto di riforma politica dall’alto che prevedeva: (a) il superamento dello stato-nazione, principale responsabile dell’abolizione dell’aristocrazia; (b) la concentrazione del potere nelle mani di intrecci di poteri privati; (c) la restaurazione di una società aristocratica capace di sposare la tradizione con la volontà di potenza di stampo nietzscheano (Gusejnova 2012).
Ottone/Otto, suo amico e discepolo, proseguirà questo stesso progetto, guarnendolo con una generosa spolverata di neoliberismo, acquistata all’ingrosso della Mont Pelerin Society.
Nel suo intervento, Ottone descriveva la Mont Pelerin Society, di cui fece parte, come un’organizzazione quasi decisiva per le sorti del mondo. È un centro studi della destra liberista neoconservatrice – quella, per intenderci, di Reagan, Pinochet, Thatcher, Bush padre e figlio, Sarah Palin, del laissez-faire darwinista sociale, nemica delle campagne per i diritti civili e contraria alle proteste contro le guerre. Estremamente ostile alle politiche economiche espansive di F.D. Roosevelt e di Charles De Gaulle.
Molti dei suoi membri partecipavano anche alle iniziative di Paneuropa, l’associazione presieduta da Ottone d’Asburgo, che caldeggiava il sorgere di un’Europa delle Regioni che smantellasse gli stati.
Non è per un accidente del caso che l’Istituto von Mises sia stato inaugurato nello stato più razzista e reazionario degli Stati Uniti, l’Alabama: come detto, i neoliberisti, salvo rare eccezioni, simpatizzano per i Confederati, ossia per i difensori della schiavitù, della supremazia bianca, del latifondismo, del patriarcato, di una società castale ed iper-competitiva, ma priva di qualunque rete di salvataggio e pezza di appoggio per chi non ce la fa (Mirowski/Plehwe 2009).
La partecipazione alle riunioni della Mont Pelerin Society, ricordava quel giorno del 1999 “mi fornì quelle conoscenze economiche di base che sono indispensabili per cominciare una carriera politica”.
Osservava come nella metropolitana di Vienna la vista di un nero fosse diventata una cosa normale, ma aggiungeva che ciò avrebbe creato enormi problemi, tensioni internazionali di incredibile gravità.
Per porre rimedio alla crescente confusione del mondo, concludeva il suo intervento auspicando più democrazia diretta, elezione diretta dei capi di stato, la frammentazione del mondo in piccole comunità, perché la libertà è meglio protetta in piccole entità. “Le grandi federazioni del futuro saranno grandi condomini con tanti piani e tanti appartamenti”, annunciava profetico, “solo così sarà possibile togliere di mezzo tremendi dittatori come Slobodan Milosevic e Saddam Hussein e ristabilire la pace nel mondo”.
Il pensiero politico ed economico di Ottone d’Asburgo armonizza perfettamente i due filoni della destra, che hanno l’obiettivo comune di prendersi una rivincita sulla Rivoluzione Francese, sul socialismo e sul costituzionalismo repubblicano (Luverà 1999; Caramani/Mény 2005; Salzborn, 2005).
Paneuropa, nel corso degli anni, si è così riproposta di realizzare l’unità del mondo cristiano europeo (1953); ha ammonito che “se la cristianità dovesse scomparire dal continente, l’Europa morirebbe a sua volta, perché non è la Croce ad aver bisogno dell’Europa, ma l’Europa ad aver bisogno della Croce” (1976); ha ribadito che la cristianità è l’anima d’Europa (1980); si è incaricata, dagli anni Novanta in poi, di portare avanti la ri-evangelizzazione del continente (Neuevangelisierung).
Ottone d’Asburgo, integralista cattolico, legato agli ambienti oligarchici ed etnonazionalistici più reazionari è stato commemorato per 13 giorni in Austria e per una settimana sul Dolomiten, come se fosse morto un imperatore ed un padre dell’Europa futura. L’Europa futura di Ottone d’Asburgo sembra però piuttosto una proiezione delle fantasie di chi vorrebbe riesumare un passato che non vuole passare, in cui le élite governano le masse senza incontrare resistenze, il cattolicesimo funge da collante e disinnesca le tensioni causate dalle disparità sociali e dall’autoritarismo, le gerarchie tra i popoli, le classi, le razze, le culture, i sessi sono stabilite una volta per tutte, inamovibili. È un mondo patriarcale, vetero-testamentario, sessista, omofobo, anti-democratico, xenofobo, al servizio dei grandi poteri privati, omologante in cui l’utile giustifica quasi ogni mezzo. Ma tutto questo viene mascherato da un ossequio di facciata al multilinguismo, ai diritti fondamentali (dei popoli, non dei singoli), all’unificazione europea, al consociativismo come baluardo contro la tirannia dei mercati, all’universalismo cattolico (che però esclude la pari dignità dei non-cattolici).
Nel 2000, al parlamento della Repubblica Ceca, il figlio di Ottone, Carlo (Karl von Habsburg), studioso del conservatorismo di Edmund Burke – uno dei massimi oppositori della rivoluzione francese e del carattere liberal-progressista di quella americana – ha pronunciato un peana per il suo mentore Russell Kirk, uno studioso che, negli Stati Uniti, incarna la quintessenza del pensiero conservatore. Reaganiano indomabile, è l’autore di “The Conservative Mind: From Burke to Santayana” (1953), in cui riassume i valori fondativi della mentalità contro-rivoluzionaria ed anti-illuminista. Per questi ideologi il mondo non è stato creato accidentalmente, ma con un fine preciso, provvidenziale. Lo stesso vale per la struttura della società. Il riformismo sociale è contrario alla volontà divina (o della natura) ed è destinato a fallire perché la nostra comprensione è limitata. Ogni cambiamento dovrebbe essere modulato in modo tale da limitarne gli effetti sociali. La società è governata da un’aristocrazia naturale composta dagli individui migliori e più potenti. L’unico diritto naturale è quello della proprietà privata. La democrazia minaccia la proprietà privata attribuendo poteri al volgo. Istinti e pregiudizi hanno una funzione importante e debbono guidare il comportamento umano: infatti una persona può anche essere stolta, ma la specie è saggia. Ne consegue che la tradizione non può e non deve essere sovvertita da un gruppo di riformisti.
Karl ha avuto come precettore Thomas Chaimowicz (Università di Salisburgo e Istituto Internazionale di Studi Europei “Antonio Rosmini” di Bolzano), un cosiddetto paleo-conservatore (persino Kirk definisce “arcaica” la sua visione del conservatorismo), amico personale e consigliere di Ottone d’Asburgo, al quale si rivolgeva chiamandolo, pure lui, “imperatore”.
Michl Ebner, al centro di un importante conflitto di interessi in Alto Adige, è un neoliberista fautore di un’Europa che superi la forma organizzativa degli stati-nazione e che si componga di regioni con un profilo etnolinguistico fortemente radicato (intervista al “Cristallo”, LIII 1, 2011).
La festa di compleanno per i suoi 60 anni e per i 40 anni di attività all’Athesia si è svolta nientemeno che nell’abbazia di Stams, in Austria, legata alla figura del suo fondatore, il conte Mainardo II, considerato il progenitore della nazione tirolese. Centinaia di invitati, due ore circa di liturgia solenne celebrata dall’abate stesso, alla presenza delle élite di Tirolo, Trentino, Slovenia, Croazia e di politici giunti direttamente da Roma, Vienna e Bruxelles. Un’aristocratica pomposità auto-celebrativa che non si vedeva dai tempi dell’impero asburgico o, meglio ancora, da quello carolingio, in un luogo che fu impiegato dai nazisti per accogliere gli optanti sudtirolesi per il Reich.
C’è la speranza che queste ritualità non siano in alcun modo collegate ad un eventuale progetto di restaurazione di un ente sovranazionale, nato sulle ceneri dell’Unione Europea. Una sorta di impero multinazionale (multi-comunitario), federalista, regionalista e, soprattutto, cristiano, sul modello asburgico, ma anche carolingio, però declinato secondo le sensibilità contemporanee: la famosa terza via tra l’imperialismo mercantile ed il nazionalismo.
http://www.diploweb.com/La-fin-de-l-Etat-Nation-Surprise.html
È un’idea che circola da tempo negli ambienti politologici della cosiddetta Nuova Destra ed è stata elaborata, tra gli altri, da Alain de Benoist, Franco Cardini, Guy Héraud e Ottone d’Asburgo.
L’europarlamentare Biagio De Giovanni, nell’apprendere i contorni di questo progetto dei democristiani tedeschi, denunciò nel corso del dibattito svoltosi a Strasburgo il 28 settembre 1994 la forzatura che si stava programmando di mettere in atto:
“L’Europa unita non può nascere dall’interno dell’egemonia di un direttorio politico o di un imperialismo federativo. Si tratta di una forzatura politico-culturale che va contro il Trattato di Maastricht, si tratta dell’affermazione di un’Europa carolingia che registra i rapporti di forza e li stabilizza così come sono, rafforzandoli anche per il futuro secondo una progressione geometrica”.
Un paio di anni dopo, in occasione di una conferenza tenuta a Praga nel gennaio del 1996 (l’intervento era intitolato “La NATO in Jugoslavia. Perché?” ed è facilmente reperibile in rete) Sean Gervasi, già consulente economico nell’amministrazione Kennedy – rassegnò le sue dimissioni in segno di protesta per la disastrosa tentata invasione di Cuba del 1961 – e docente alla London School of Economics ed all’Università di Parigi-Vincennes, nonché Consulente del Comitato delle Nazioni Unite sull’Apartheid, prefigurò precisamente il tipo di evoluzione del progetto europeo paventato da De Giovanni:
“Il centro sarà la regione più sviluppata da tutti i punti di vista: sarà la più avanzata tecnologicamente e la più ricca; avrà i livelli salariali più alti e i redditi pro capite maggiori; si dedicherà esclusivamente alle attività economiche più profittevoli, quelle che la pongono in posizione di comando del sistema. La Germania si occuperà perciò di pianificazione industriale, progettazione, sviluppo tecnologico, ecc., di tutte le attività insomma di programmazione e coordinamento dell’economia delle altre regioni. Via via che ci si allontana dal centro, i vari cerchi concentrici avranno livelli di sviluppo, ricchezza e redditi più bassi. […]. La Germania dunque, coll’appoggio degli Stati Uniti, punta a una razionalizzazione capitalista di tutta l’economia europea intorno a un potente nucleo tedesco. La crescita e gli alti livelli di ricchezza del nucleo devono essere sostenuti dalle attività subordinate della periferia. La periferia deve produrre generi alimentari, materie prime e prodotti industriali per l’esportazione verso il nucleo e i mercati d’oltremare.…Gran parte dell’Europa orientale e dell’ex Unione Sovietica è dunque destinata a rimanere un’area permanentemente arretrata o relativamente sottosviluppata. Realizzare la nuova divisione del lavoro in Europa significa vincolare per sempre queste regioni a una condizione di arretratezza economica”.
La crisi dell’eurozona ha reso molto più concreta questa prospettiva, che Lucio Caracciolo (Caracciolo 2010, p. 56) ha condannato senza appello:
Questa forse è la peggiore delle derive della tecnocrazia, che tendendo a esautorare la politica riporta in auge gli stereotipi culturali. Come se vi fossero Paesi geneticamente dediti a spendere e spandere, e altri Paesi costitutivamente dediti alla virtù. In ogni stereotipo, come in ogni leggenda, c’è una base di verità. Farne però la regola immutabile, il destino di un popolo, è la fine della politica. Nel caso dell’euro, concepire come hanno fatto e tendono di nuovo a fare i tedeschi, un Euronucleo di Paesi automaticamente virtuosi, è un modo di ragionare antipolitico. Una sorta di etnomonetarismo. Trascurando..che la stessa Germania, oltre naturalmente alla Francia, ha allegramente deviato dalle presunte virtù e dalle regole scritte in più di un’ occasione. E dimenticando che gli altri europei hanno pagato un prezzo molto alto per l’unificazione tedesca, contribuendo allo sforzo di Berlino volto a riempire il buco nero della Rdt con enormi trasferimenti finanziari, dai risultati peraltro discutibili. E purtroppo questo etnomonetarismo si sposa con analoghe tendenze interne agli Stati membri. Penso anzitutto al Belgio, ma anche all’Italia, alla propaganda leghista sull’inconciliabilità fra Nord e Sud.
Un piano di ingegneria istituzionale su scala continentale che non si discosta da quello già rifiutato da Luigi Einaudi circa un secolo fa perché “[una tale federazione] avrebbe corso il rischio di essere dominata dalla Germania e in tal modo si sarebbe riproposto lo schema di una Mitteleuropea sotto l’egemonia tedesca, che era il progetto di tanti intellettuali e politici degli Imperi Centrali” (cit. Cressati, 1990, p. 27).
3 settembre 2013 a 09:03 (Alto Adige / Sudtirolo, Etnofederalismo/Etnopopulismo, Umorismo)
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Visto che molti lettori potrebbero non essere ben informati sulla reale situazione, preciso che la vignetta è divertente ma ingannevole, in quanto il Tirolo austriaco, per molti versi, ha rapporti migliori con il Trentino che con l’Alto Adige-Sudtirolo. Il movimento pantirolese è davvero debole, per il momento (la scissione dell’eurozona lo rinvigorirebbe certamente)
16 agosto 2013 a 08:56 (Alto Adige / Sudtirolo, Antropologia, Controrivoluzione e Complotti, Etnofederalismo/Etnopopulismo, Miti da sfatare)
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Nel Terzo Millennio, il solito, volgare refrain; il solito manicheismo
Volendo preservare l’unità spirituale e culturale del Tirolo ed il suo patrimonio storico…
Proposta di Costituzione per lo Stato Libero del Sudtirolo, a cura dei Freiheitlichen
Tra sfide e rancori in India nasce un nuovo stato, il Telangana…la scelta del Congresso sta già ottenendo un effetto boomerang negli altri territori dove ci si batte per l’indipendenza. A Kokrajhar gli animi sono surriscaldati…per una protesta dei separatisti del Bodoland, Karbi e Anglong che vogliono divorziare dall’Assam. Incidenti anche nel Darjeeling per i sostenitori del Gorkhaland, mentre in Uttar Pradesh la ex premier Mayawati Kumari ha rilanciato la sua idea di dividere in quattro il più popoloso stato indiano.
Raimondo Bultrini, il Venerdì, 16 agosto 2013
L’offensiva filo-separatista della stampa angloamericana ha raggiunto il suo culmine nella seconda metà del 2012. Il 12 luglio 2012 Marcia Christoff Kurapovna, neoliberista sloveno-americana residente a Vienna, pubblica sul Wall Street Journal un peana in favore della dissoluzione di Grecia e Italia in piccole città-stato. Ambrose Evans-Pritchard, figlio di un antropologo invischiato nella strategia del divide et impera dell’imperialismo britannico, preconizza la jugoslavizzazione della Spagna (Telegraph 25 settembre 2012). Il New York Times pubblica un articolo di due indipendentisti catalani dal titolo “prigionieri della Spagna” (2 ottobre 2012). Il blog Charlemagne dell’Economist prevede rivolte tra i giovani catalani se i loro sogni indipendentisti non saranno soddisfatti (26 novembre 2012). Quello stesso giorno, sulle colonne del Wall Street Journal, Raymond Zhong esorta i catalani a creare un loro stato più snello, più generoso verso le imprese, più pragmatico, più parsimonioso (leggi: meno welfare, più precariato, licenziamento dipendenti pubblici e congelamento dei salari).
François Thual, expert en géopolitique , qui présenté son dernier ouvrage “Géostratégie du crime” (éd. Odile Jacob), co-écrit avec Jean-François Gayraud, commissaire divisionnaire en poste au Conseil supérieur de la formation et de la recherche stratégique: « Nous ne sommes plus dans la série noire d’après-guerre ; désormais, sous l’action de puissances criminelles, les États eux-mêmes se trouvent contestés dans leur existence et doivent parfois battre en retraite. C’est la survie de nos démocraties qui est en jeu » : pour Jean-François Gayraud et François Thual, les phénomènes criminels sont bien loin d’échapper aux effets de la mondialisation, on le voit.
Pourquoi la grande criminalité internationale a augmenté de façon exponentielle ; comment la lutte contre le terrorisme et le recul de l’État un peu partout l’ont favorisée ; quelles sont les luttes de territoires entre organisations ; comment des empires criminels se constituent, menaçant l’équilibre des États ; comment l’argent sale pèse sur l’économie mondiale ; pourquoi les élites sont fragilisées : deux spécialistes croisent criminologie et géopolitique pour nous révéler les vrais dangers de demain et peut-être déjà d’aujourd’hui !
Conseiller du président du Sénat pour les affaires stratégiques, François Thual est professeur au Collège interarmées de défense (ex-Ecole de guerre). Il est l’auteur de nombreux ouvrages sur la géopolitique dont certains ont connu un succès mondial.
La sovranità è onerosa, per questo si cerca di condividerla. La fascinazione quasi maniacale e consumistica per la sovranità particolaristica sovraccarica i contribuenti; frammenta l’umanità depotenziandola e intensificando screzi, frizioni, timori, risentimenti; moltiplica la già abnorme pletora di staterelli a sovranità limitata; condanna le entità politiche minori a una pressoché istantanea ed irrevocabile subordinazione clientelare nei confronti degli stati maggiori: rafforza chi è già forte e indebolisce chi è già debole (divide et impera). In primo luogo le oligarchie mafiose transnazionali – ufficiali e non ufficiali – come spiega François Thual.
federalismo sì
separatismo no
La cultura è il grimaldello usato per abbattere lo stato di diritto (da parte di certi interessi criminali) e ogni progetto federalista (da parte di certi interessi geostrategici), facendo leva su sentimenti originariamente innocenti e positivi, ma che vengono pervertiti, esasperati.
Non esiste una cultura padana, trentina, italiana, o una cultura americana, cinese, ebrea, indiana, bantù. Gli esseri umani non sono automi che eseguono un programma culturale (software) caricato nel loro cervello (hardware) alla nascita. Non esistono due italiani che usano la lingua italiana allo stesso modo e non esistono due sudtirolesi che saprebbero mettersi d’accorso su cosa si debba intendere per cultura sudtirolese e Heimat. Ogni cultura è una narrazione e ogni individuo è un narratore che la interpreta, la racconta a modo suo, declinandola secondo le sue sensibilità, aggiungendo qualcosa qui e lì, e togliendo qualcos’altro altrove. La cultura è un prodotto dell’immaginazione umana ed ogni mente, essendo diversa, contribuisce a renderla porosa, flessibile, incessantemente mutevole, eterogenea. Ogni persona narra la “sua” cultura ponendosi in relazione con altre persone che narrano la loro e solo Dio potrebbe cogliere la narrazione complessiva nella sua interezza, senza sacrificarne la complessità. La cultura non è un’essenza o un oggetto, le culture non si scontrano tra loro, non si confrontano, non conversano, non agiscono: non sono degli esseri viventi che operano per nostro conto.
La cultura è una relazione dinamica tra soggetti che non hanno come priorità la conservazione della medesima, ma il vivere pienamente, al meglio delle proprie possibilità. Per farlo, tutti noi usiamo la cultura come uno strumento e apprendiamo ad adoperare altri strumenti, perché lo troviamo utile e piacevole, e talvolta ci inganniamo e trasformiamo la narrazione in una tavola delle leggi, in un fine e non un mezzo.
Ci inchiniamo alla lettera delle presunte “leggi culturali” anche quando esse sono interpretate in modo tale da tradirne lo spirito. Chiunque rilevi un’eventuale discrepanza è accusato di tradimento. È una degenerazione patologica dell’idolatria, una dipendenza che ci vincola a degli idoli al posto dei significati che sono chiamati a rappresentare. Si chiama razzismo culturalista e non è diverso o migliore del razzismo su basi biologiche. È una patologia della coscienza che sclerotizza e mortifica (rende morto) ciò che è vivo, imbalsama ciò che è mutevole e variabile, reifica un parto della fantasia umana. Una patologia che dissemina superstizione, paura e violenza ed ostacola la naturale disposizione dei singoli a fiorire, maturare, emergere, trascendere le proprie circostanze, eccellere, ciascuno secondo le proprie inclinazioni.
Come la lettera delle leggi subisce un processo di decadimento (entropia), mentre il suo spirito resta immortale, perché si basa su ciò che è giusto, così le culture possono decadere, se si allontanano dal loro spirito, che è quello di riflettere la comune, universale esperienza umana.
22 febbraio 2013 a 08:51 (Alto Adige / Sudtirolo, Etnofederalismo/Etnopopulismo, Territoriali#Europei)
Tags: 2011, 2014, 2016, adesione, Alto Adige, autodeterminazione, autogoverno, autonomia, campanilismo, Consiglio d'Europa, Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, Corte Europea per i Diritti Umani, devoluzione, etnopopulismo, indipendentismo, indipendenza, Inghilterra, Lega Nord, leghismo, nazionalismo, nazionalismo scozzese, nazionalisti scozzesi, petrolio, referendum, Regno Unito, risoluzione 1832, risorse, Scozia, Scozzesi, secessionismo, separatismo, Shetland, sondaggi, sovranità, Sudtirolo, Unione Europea
L’indipendenza scozzese: panem et circenses
Le promesse dei nazionalisti scozzesi diventano ogni giorno più fantastiche. La cosa non deve sorprendere: i sondaggi li danno in ripiegamento.
Brian Wilson, Guardian, 7 febbraio 2013
“Si tende ad essere benevoli verso i nazionalismi altrui, quando li si guarda da una certa distanza. Diversa è la cosa se si vive in una realtà nazionalista. Quando però si recuperano le proprie facoltà critiche, è chiaro che tutti i nazionalismi hanno una cosa in comune: dividono le persone per categorie identitarie e creano confini laddove non ne esistevano.
Questo è lo scenario che la Scozia deve ora affrontare. Non vi è alcun marcato aumento di richiesta di indipendenza, e ancor meno giustificazioni. Tranne che nella testa di qualche paranoico, non siamo perseguitati, derubati, discriminati o esclusi. Dal punto di vista sociale ed economico abbiamo le stesse ragioni di lamentarci di molte altre parti del Regno Unito.
Lo zoccolo duro dell’indipendentismo scozzese si attesta a circa il 20%, ma vi è anche una significativa domanda di poteri più decentrati. Se si sottopone all’attenzione degli scozzesi un elenco di problemi che li riguardano, questi danno le stesse risposte degli inglesi, con le modifiche costituzionali che arrancano molto dietro ai soliti apripista – posti di lavoro, la salute, l’istruzione e una dozzina di altre questioni.
La differenza è che la Scozia ora deve rispondere a una domanda che solo una minoranza vorrebbe fosse posta: “La Scozia dovrebbe diventare una nazione indipendente?” E questo perché, due anni fa, il 21% degli scozzesi ha votato per i nazionalisti, dando loro la maggioranza assoluta. Il SNP (partito nazionalista scozzese) ha in mano le leve del potere e ha il diritto di usarle. Di qui il referendum.
Questa settimana sono andati un po’ oltre. Pur non avendo ancora fissato una data per il referendum, hanno annunciato che l’”Independence Day” [giorno della proclamazione dell’a sovranità] si terrà nel marzo del 2016. Il circo è già organizzato, mentre altri dovranno preoccuparsi del pane. L’intenzione è quella di creare un’aria di inevitabilità alla marcia per l’indipendenza, e in questo sono assistiti dalla disposizione delle notevoli risorse del governo devoluto.
I sondaggi indicano che la campagna separatista è in stallo.
Quando le opzioni sono ridotte a due, il sostegno per l’indipendenza sale al 25-30%. Ma sarebbe sciocco supporre che rimarrà lì. Giocando sul lungo periodo, lo SNP conta sul fatto che entro la fine del 2014 la scelta sarà tra l’indipendenza e la probabilità di un altro governo conservatore, il che potrebbe alterare significativamente lo stato d’animo prevalente.
Quelli di noi che non vogliono frantumare la Gran Bretagna non sono del tipo che si commuove nel veder garrire la bandiera dell’unione. Noi crediamo che staremo meglio insieme che divisi, e che non c’è alcuna ragione credibile per dissolvere 300 anni di storia comune. Sappiamo che ogni cambiamento progressivo che ha beneficiato la gente comune in tutto il Regno Unito è stato conquistato e votato da persone a Newcastle e Liverpool tanto quanto a Glasgow e Edimburgo.
E sappiamo che se lo SNP ce la farà, non sarà solo la Scozia a pagarne il prezzo, a prescindere dagli ipotetici benefici che sono stati promessi. Saranno anche i nostri amici, familiari e compagni ad essere abbandonati alla loro sorte in un “resto del Regno Unito” politicamente sbilanciato, in un paesaggio molto più ostile [la Scozia è una regione “rossa”, NdT]. Non c’è nulla di lontanamente progressista, per nessuno di noi, in questo.
Questa settimana il governo scozzese ha allegramente promesso che, se la gente voterà per l’indipendenza della Scozia, il tutto si risolverà nel giro di 18 mesi [tra il 2014 ed il 2016, appunto, NdT]. Non possono dirci che valuta sarà impiegata o che tassi di interesse saranno fissati, però possono dirci quanto dureranno i negoziati.
La loro intera argomentazione economica si basa sulla richiesta della maggior parte dei ricavi delle risorse energetiche del Mare del Nord, ma presuppongono che un benevolo governo Tory [conservatori] sia disposto a sottoscrivere tranquillamente ogni aspetto della separazione dei beni che sarà loro proposta, al fine di agevolare il grande party al castello di Edimburgo. Basano la loro politica energetica sull’assunto che i consumatori inglesi sovvenzioneranno le energie rinnovabili scozzesi mentre la Scozia si appropria dei proventi del petrolio [NB cosa succederebbe se le isole Shetland votassero per l’indipendenza dalla Scozia e poi reclamassero una parte di quegli stessi proventi, in quanto ricavati dalle proprie acque territoriali? NdT]. Sono stati presi in castagna quando mentivano spudoratamente in merito all’automatica adesione all’UE che, è ormai chiaro, non sarebbe tale.
A sostegno della loro tesi che il processo richiederebbe solo 18 mesi, – e ricordate che questo è un documento ufficiale del governo, non una nota di partito – hanno fatto riferimento a quei 30 paesi che hanno ottenuto un divorzio all’acqua di rose dai vicini o dai loro signori coloniali: dal Mali al Montenegro, alle isole Kiribati nel mare del sud.
L’idea che esista un paragone pertinente con la dissoluzione di 300 anni di relazioni, istituzioni condivise ed interdipendenza economica nel Regno Unito può essere assurda, ma è indicativo dell’approccio nazionalista. Sanno che dovranno limitarsi ad ingannare la maggior parte delle persone per un singolo giorno, nell’autunno del 2014, e il futuro apparterrà a loro. Si tratta di un grande trofeo, e il fine sarà utilizzato senza pietà per giustificare i mezzi”.
http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2013/feb/07/scottish-nationalists-bread-and-circuses
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Non esiste una nazione in cui gli elettori ottengono ciò che vogliono, anche solo occasionalmente. Anche se vincono i “nostri”, l’azione di governo dovrà comunque tener conto delle esigenze di tutti. L’infantilizzazione della società contemporanea ha però indotto molti a credere che se i propri desideri non vengono esauditi, allora è giusto che ciascuno se ne vada per la sua strada. Ci si divide in gruppi sempre più piccoli, alla ricerca di una crescente conformità di vedute che è tossica per la mente, per la coscienza, per la società e per la civiltà umana. I miti della cultura, della patria, della lingua, della fede, ecc. sono solo espressione di coscienze immature che antepongono al benessere collettivo il benessere della propria parrocchia e campanile, o l’interesse personale. L’egoismo è all’origine dell’attuale Depressione (la chiama Depressione anche Paul Krugman, Nobel per l’Economia, ne “Il ritorno dell’economia della depressione”, 2013), l’egoismo degli speculatori, delle caste, delle categorie, delle nazioni, delle classi, e così via.
Con la risoluzione 1832 (2011) concernente “la sovranità nazionale e lo stato di diritto nel diritto internazionale contemporaneo: necessità di un chiarimento”, il Consiglio d’Europa – che non è un’istituzione dell’Unione Europea, ma include la Corte Europea per i Diritti Umani ed è la fonte della “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” – ha dato priorità all’integrità degli stati stabilendo che questa può cessare solo in caso di oppressione e violenze che impediscano una riconciliazione pacifica tra le parti. Il diritto all’ autodeterminazione non dà luogo a un diritto automatico alla secessione. Il rapporto che accompagna la risoluzione afferma quanto segue:
“all’infuori del processo di decolonizzazione, l’opinione prevalente non vede nel diritto all’autodeterminazione un fatto costitutivo del diritto per ogni gruppo minoritario regionale di addivenire alla secessione da uno stato esistente. L’autodeterminazione delle minoranze dovrebbe essere piuttosto realizzata per mezzo della partecipazione al governo dello Stato nel suo complesso, e attraverso la devoluzione del potere con lo sviluppo dell’autonomia regionale, vale a dire l’auto-governo in questioni come l’istruzione, la cultura, ecc., ad esclusione dell’indipendenza”.
Il governo britannico non era tenuto a concedere la possibilità di votare per l’indipendenza, ma l’ha fatto. Difficile considerarlo un governo oppressivo e violento.
http://www.raetia.com/it/shop/item/1567-contro-i-miti-etnici.html
4 novembre 2012 a 08:28 (Alto Adige / Sudtirolo, Controrivoluzione e Complotti, Economia e Società, Resistenza e Rivoluzione, Stati Uniti d'Europa, Verità scomode)
Tags: abbandono dell'euro, Alto Adige, aristocratico inglese, Bagnai, Banca d'Inghilterra, bancomat, Baviera, BCE, Bootle, Bundesbank, ByoBlu, contro-rivoluzione, corsa agli sportelli bancari, crollo del PIL, default, dracma, Economist, euro, euronucleo, Europa a due velocità, Europa a geometria variabile, eurozona, Fatto Quotidiano, Financial Times, FMI, fuga di capitali, Giavazzi, Grecia, Grexit, grillismo, Grillo, guerra civile, hedge fund, indipendentismo, indipendentisti, inflazione, lealismo, lealisti, Lega Nord, leghisti, lira, Messora, morte dell'Unione Europea, neoliberismo, New Deal, Padania, peseta, PIIGS, PIL, Policy Exchange, potere d’acquisto, Premio Wolfson, referendum, riduzione dei salari, risparmi, rivoluzione, Schäuble, secessionismo, secessionisti, separatismo, separatisti, spread, Sudtirolo, Syriza, Tabacci, Tony Blair, Trentino, troika, Tsipras, Unione Europea, uscita dall'eurozona, Varoufakis, Wolfson, Yanis Varoufakis
Bruno Tabacci (economista ed esperto di politiche industriali, oltre che politico) ha ragione e mi spiace che l’abbiano tagliato per dare spazio solo a Bagnai.
Bagnai dovrebbe leggere quel che cita, cosa che io ho fatto e dovrebbe rendersi conto che gli hedge fund stanno attaccando l’eurozona per distruggere l’Unione Europea e l’élite europea li sta aiutando.
Il responsabile principale della crisi dell’eurozona non è l’euro ma sono il sistema finanziario globale e la classe dirigente europea. Tsipras ha ragione da vendere a voler restare nell’euro creando una coalizione di paesi PIIGS (e non solo) che spingano con determinazione per delle riforme strutturali radicali, salvando l’Unione Europea. Chi preme per la sua frantumazione sta facendo il gioco di oligarchie interessate unicamente ad addivenire ad una separazione tra Europa di serie A (teutonica) e quella di serie B (le merdacce private di pressoché ogni margine di sovranità), che per di più provocherebbe la disgregazione di Italia e Spagna (Padania e Alto Adige chiederebbero di andarsene al più presto, la cosa non avverrebbe pacificamente ed il Trentino, una provincia complessivamente lealista, si troverebbe presa in mezzo)
E’ scandaloso che Messora e Bagnai, pur di restare fedeli alle loro posizioni, siano disposti a non investigare su chi siano i loro compagni di viaggio.
Ecco chi sono.
A luglio del 2012 l’equipe di analisi diretta da Roger Bootle, economista neoliberista (ex HSBC), ha vinto le 250,000 sterline del Premio Wolfson per l’Economia con uno studio su come spezzare l’eurozona conservando un euronucleo forte e riesumando le vecchie valute di Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia e Grecia.
Secondo l’analisi la riconfigurazione economicamente ottimale della zona euro vedrebbe il mantenimento di un nucleo nordico (neo-carolingio, NdR) che incorpori Germania, Austria, Paesi Bassi, Finlandia e Belgio, paesi che hanno strutture economiche compatibili e possono formare un’area valutaria ottimale. La Vallonia potrebbe però essere sacrificata e la Francia verrebbe accettata solo per ragioni di opportunità politica. Non ci sarebbe un’eurozona di serie B perché i paesi esclusi non avrebbero interesse a coordinarsi e non hanno rapporti economici tali da giustificare una qualche sorta di unione. In alternativa, il nucleo neocarolingio potrebbe abbandonare l’attuale eurozona, dotandosi di un proprio euromarco.
Sempre secondo il parere di questi analisti finanziari neoliberisti, i divari sono tali che è altamente improbabile che il nuovo assetto possa essere provvisorio. Nessun escluso potrà rientrare dal retro, neppure dopo le più drastiche “terapie” di austerità.
L’evento, che viene definito paragonabile al collasso dell’Impero Austro-Ungarico o dell’Unione Sovietica, avverrebbe all’insaputa dei cittadini dei suddetti paesi (!!!) per “evitare il caos” (fuga di capitali, corse agli sportelli bancari) e non è prevista la consultazione referendaria dei cittadini. Cittadini che non sarebbero troppo felici di vedere un crollo del PIL del 10-20%, un analogo balzo dell’inflazione (con il costo dell’energia alle stelle), la massiccia riduzione dei salari e del potere d’acquisto, l’evaporazione dei propri risparmi (con il blocco dei bancomat per evitare che possano tirar fuori quanti più euro sia possibile finché sono in tempo) e l’umiliazione di essere trattati come dei paria dalle altre nazioni europee.
Questi sono piani che sembrano ideati da “intelligenze artificiali” prive di compassione, umanità e radicalmente utilitaristiche.
In questo scenario, entro non più di un anno, io e milioni di altri cittadini dei paesi PIIGS saremmo costretti a rubare per vivere o a sfasciare tutto (= rivoluzione).
Questo è lo studio che, criminalmente, Bagnai cita a sostegno della sua tesi che i PIIGS dovrebbero abbandonare l’euro! Bagnai ha riserve d’argento e oro nascoste da qualche parte? Lo sa che sono metalli non commestibili?
Il premio Wolfson, dell’ammontare di 250mila euro, assegnato a chi avesse trovato il modo di smantellare l’eurozona nel modo meno doloroso possibile, è stato indetto da un barone e finanziere inglese neoliberista che l’ha intitolato a se stesso, per il tramite del più influente think tank di destra in Gran Bretagna (Policy Exchange)! Tra i 5 valutatori: FRANCESCO GIAVAZZI (iperliberista consulente del FMI), un ex consulente della Banca d’Inghilterra, un ex consulente della Bundesbank e del governo tedesco, un ex consigliere di Tony Blair, il criminale di guerra.
A Bagnai va bene tutto questo? E’ in sintonia con GIAVAZZI e la Bundesbank? Ha letto quello studio prima di citarlo favorevolmente? Con che coscienza propone agli Italiani di prendere decisioni drammatiche, potenzialmente catastrofiche, contestando i suoi critici con questo tipo di supporti teorici, non a caso divulgati ampiamente dal Financial Times e dall’Economist, che fin dall’inizio si sono schierati dalla parte degli avvoltoi degli hedge fund? Non gli è squillato un campanello d’allarme in testa?
Il premio Wolfson è assegnato dall’élite a chiunque compiaccia le aspettative dell’élite. Era davvero così difficile dedicare 5 minuti del proprio tempo sulla rete per capire chi lo assegna e a chi è stato assegnato? Perché proprio i politici bavaresi e Wolfgang Schäuble, che sono i più accesi fautori dell’euromarco, non hanno fatto altro che perorare la causa dell’espulsione della Grecia? Vogliono il bene dei Greci?
Oppure poteva informarsi sulle ragioni per cui Tsipras, invece di guadagnare migliaia di voti facili, ha insistentemente rifiutato di inserire nel suo programma l’uscita della Grecia dall’eurozona. Gli economisti greci che hanno formulato il programma economico di Syriza sono dei fessi o dei mostri che se ne infischiano delle sofferenze dei loro concittadini e delle loro famiglie? Come mai Syriza e Tsipras sono detestati da tutti i maggiori quotidiani finanziari internazionali e demonizzati dalla troika se in effetti sono i massimi responsabili della continua presenza della Grecia nell’eurozona, che in teoria dovrebbe incontrare i loro favori?
Bagnai (e Messora e gli altri) avrebbe anche potuto chiedersi come mai oltre tre quarti dei Greci, nonostante tutto quel che stanno patendo da anni, siano ancora intenzionati a restare nell’eurozona. Tutti fessi? E perché allora sostenere che hanno impedito ai Greci di votare per l’uscita dall’eurozona? Il referendum avrebbe visto il trionfo del no all’uscita. Perché queste cose Bagnai non le dice? Dov’è l’onestà intellettuale? A che gioco sta giocando il Fatto Quotidiano?
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Ettore Livini, “Grecia, il ritorno della dracma costerebbe 11mila euro all’anno per ogni europeo”
Il ritorno della dracma, se mai succederà, “non sarà indolore né per la Grecia né per la Ue”, ha garantito Per Jansson, numero due della Banca di Svezia (che non è parte in causa, NdR).
IL PRIMO ATTO
Il primo atto del possibile Calvario è già scritto: un fine settimana, a mercati chiusi, Atene formalizzerà a Bruxelles la sua uscita dalla moneta unica. Poi sarà il caos. La Banca di Grecia convertirà dalla sera alla mattina depositi, crediti e debiti in dracme, agganciandoli al vecchio tasso di cambio con cui il Paese è entrato nell’euro nel 2002: 340,75 dracme per un euro. Si tratta di un valore virtuale: alla riapertura dei listini, prevedono gli analisti, la nuova moneta ellenica si svaluterà del 40-70 per cento. Per evitare corse agli sportelli (i conti correnti domestici sono già calati da 240 a 165 miliardi in due anni), Atene sarà costretta a sigillare i bancomat, limitare i prelievi fisici allo sportello e imporre rigidi controlli ai movimenti di capitali oltrefrontiera.
IL PIL GIU’ DEL 20%
L’addio all’euro costerà carissimo ai greci: il Prodotto interno lordo, calcolano alcune proiezioni informali del Tesoro, potrebbe crollare del 20 per cento in un anno. I redditi andrebbero a picco, l’inflazione rischia di balzare del 20 per cento. Il vantaggio di competitività garantito dal “tombolone” della dracma sarà bruciato subito. La Grecia – che a quel punto non avrebbe più accesso ai mercati – sarà costretta a finanziare le sue uscite (stipendi e pensioni) solo con le entrate (tasse) senza potersi indebitare. E non potrà più contare né sui 130 miliardi di aiuti promessi dalla Trojka, nei sui 20,4 miliardi di fondi per lo sviluppo stanziati da Bruxelles. Di più: i costi delle importazioni (43 miliardi tra petrolio e altri beni di prima necessità nel 2011) schizzerebbero alle stelle mettendo altra pressione sui conti pubblici. Un Armageddon che rischia di far passare il memorandum della Trojka per una passeggiata. Il colpo di grazia per una nazione in ginocchio, reduce da cinque anni di recessione che hanno bruciato un quinto della sua ricchezza nazionale e con la disoccupazione al 21,7 per cento.
TORNANO I DAZI
In questa tragedia greca, l’Europa non avrà solo il ruolo di spettatore. Il pedaggio a carico del Vecchio continente – che un minuto dopo il ritorno della dracma potrebbe imporre dazi alle merci elleniche – è salatissimo. L’effetto contagio, tanto per cominciare, si tradurrà in una Caporetto per i mercati e una via crucis per Italia e Spagna. Gli spread, calcolano gli algoritmi di Sungard, potrebbero salire del 20 per cento, le borse scendere del 15 per cento. Ma è solo l’antipasto. La Grecia – dove le banche saranno nazionalizzate – smetterà di pagare i debiti anche ai privati e così lo tsunami della dracma travolgerà diversi istituti di credito e molte imprese continentali. Una matassa inestricabile (anche legalmente), molto peggio di quella della Lehman che nel 2008 ha mandato in tilt il mondo.
I CALCOLI DI UBS
Italiani e spagnoli, ha calcolato Ubs un anno fa, pagherebbero tra i 9.500 e gli 11.500 euro a testa all’anno per l’addio all’euro di Atene. I tedeschi poco meno. Le cifre vanno aggiornate al rialzo: il debito di Atene a fine 2009 (301 miliardi) era tutto controllato da privati. Ora, grazie alla ristrutturazione, è sceso a 266 miliardi. E ben 194 sono in mano a paesi Ue, Bce e al Fondo Monetario. Se la Grecia non onorerà i suoi impegni come ha fatto l’Argentina, l’Apocalisse europea è belle e servita.
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PREVISIONI DI NOMURA
http://www.forexinfo.it/Grecia-fuori-dall-euro-Nomura-fa
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“La mancanza di un processo costituzionale (o permesso da un trattato) per uscire dalla zona euro ha una solida logica solida alle spalle. Il punto di creare la moneta comune era quello di convincere i mercati che si trattava di un’unione permanente che avrebbe assicurato perdite enormi per chiunque avesse osato scommettere contro la sua solidità. Una singola uscita basta ad abbattere questa solidità percepita. Come una piccola crepa in una possente diga, un’uscita greca porterà inevitabilmente al collasso l’edificio…Nel momento in cui la Grecia viene spinta fuori accadranno due cose: una massiccia fuga di capitali da Dublino, Lisbona, Madrid, ecc, seguita dalla riluttanza della BCE e di Berlino ad autorizzare liquidità illimitata alle banche e stati. Questo comporta il fallimento immediato di interi sistemi bancari, nonché dell’Italia e della Spagna. A quel punto, la Germania dovrà affrontare una terribile dilemma: mettere a repentaglio la solvibilità dello stato tedesco (devolvendo alcune migliaia di miliardi di euro per salvare ciò che resta della zona euro) o salvare se stessa, abbandonando la zona euro. Non ho alcun dubbio che sceglierà la seconda. E poiché questo significa strappare una serie di trattati e carte dell’UE e della BCE, l’Unione Europea, di fatto, cesserà di esistere”.
http://yanisvaroufakis.eu/2012/05/31/interviewed-by-fxstreet-com-on-grexit/
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L’uscita dall’eurozona sarebbe una catastrofe pazzesca e, soprattutto, è esattamente quel che vogliono gli hedge fund, che puntano proprio a quell’esito per spolpare le carcasse degli stati lasciati dietro. Non per altro hanno cominciato attaccando proprio quelli. È quel che fanno i predatori: separano le prede più deboli dal branco e poi le aggrediscono assieme.
Bagnai & co sbagliano e se la gente li prenderà sul serio ci porteranno alla catastrofe.
La troika va combattuta dall’interno dell’eurozona e le riforme strutturali si dovranno fare assieme, con i PIIGS che finalmente fanno fronte comune, dopo essersi liberati delle attuali classi dirigenti corrotte ed incompetenti, e pretendono i cambiamenti necessari.
Yanis Varoufakis: “Questo significa che la Grecia dovrebbe sorridere e sopportare la misantropa idiozia del pacchetto di salvataggio-austerità imposto dalla troika (UE-BCE-FMI)? Certo che no. Dovremmo certamente fare il default. Ma all’interno della zona euro. (Vedi qui per questo argomento.) E utilizzare la nostra disponibilità al default come una strategia di contrattazione con la quale realizzare un New Deal per l’Europa (nel modo che ho descritto qui )”.
http://vocidallestero.blogspot.it/2012/05/per-varoufakis-la-grecia-non-puo.html
Qui la sua proposta di soluzione (eminentemente ragionevole)
IN ITALIANO (ACCENNI): https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/11/04/la-modesta-proposta-per-superare-la-crisi-delleuro-di-yanis-varoufakis/
IN INGLESE (TESTO COMPLETO):
Se seguiremo i consigli di Bagnai ci sarà una rivoluzione (con relativa contro-rivoluzione) entro pochi anni e tutte le peggiori tipologie umane si sfideranno per arrivare al potere.
http://fanuessays.blogspot.it/2012/01/se-incontrate-questo-tipo-di.html
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UNA POSTILLA
Qualcuno che conosce Alberto Bagnai (goofynomics) può spiegargli che trattare come sterco tutto quello che non è in linea con il suo pensiero e come degli imbecilli quelli che non la pensano come lui diminuisce il potere persuasivo dei suoi articoli?
Mi rendo conto che, in una certa misura, sia un rischio che corriamo (e una trappola in cui caschiamo) tutti noi che ci troviamo a combattere contro un paradigma dominante palesemente errato e criminale ma tenuto in vita dai media; tuttavia su goofynomics si esagera e c’è davvero pochissimissimo spazio e rispetto per visioni alternative.
Quando gli amici FB mi chiedono di leggerlo mi domandano un vero e proprio sacrificio, perché davvero faccio fatica ad esaminarlo obiettivamente, mi mette subito a disagio e mi irrita. Sono sicuro di non essere il solo. Non saprei dire se Bagnai sia peggiorato o sia io ad essere diventato sempre più sensibile, ma sta diventando un problema.
Questo sfogo nasce dalla lettura del seguente articolo:
http://goofynomics.blogspot.ch/2012/11/piccoli-prodi-friniscono.html
Anch’io, come lui, ho poca pazienza per diversi aspetti del grillismo, però qui mi pare ci sia cattiveria gratuita (anche nel dibattito che segue), un livore che eccede i limiti della disputa e che comincia davvero a mostrare dinamiche da cultismo, da inquisizione puritana. La cosa non mi piace per niente perché lo vedo succedere sempre più spesso in diverse sedi e mi spaventa l’idea di finire così.
19 settembre 2012 a 15:30 (Alto Adige / Sudtirolo, Antropologia, Diritti umani e bioetica, Economia e Società, Etnofederalismo/Etnopopulismo, Territoriali#Europei, Verso un Mondo Nuovo)
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Le autonomie europee alla sfida dell’immigrazione. Quali diritti-doveri per i nuovi cittadini glocali?
21 settembre 2012, 18.00
Incontro pubblico
La crisi europea offre una grande opportunità per le autonomie locali come Trentino e Alto Adige, ma anche Catalogna, Baviera, Scozia, Paesi Baschi, Corsica. Queste regioni sono protagoniste di un processo di costruzione di una identità propria sempre più fortemente proiettata sullo scenario internazionale. Tale processo crea tuttavia una fortissima tensione attorno al concetto di cittadinanza: aperta all’inclusione degli immigrati come nuovi cittadini delle autonomie europee, o chiusa su una concezione attenta alla difesa della propria identità storica e delle radici etniche e territoriali?
Ne parliamo con Lorenzo Piccoli, Stefano Fait e Piergiorgio Cattani. Introduce Michele Nardelli.
Organizza: Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani
Luogo: Sala Aurora, c/o Sede Consiglio Provinciale – Trento
LINEE GUIDA DEL MIO INTERVENTO
La crisi dell’eurozona e la crisi globale aprono scenari nuovi per il futuro.
Un cambiamento positivo è quello che consente di diventare più liberi, più consapevoli, più responsabili e più miti (ossia meno prevaricatori).
Un cambiamento negativo è quello in cui la piramide sociale diventa più ripida, la dignità delle persone è mortificata, la libertà è compressa, l’iniquità è diffusa, la fratellanza umana è vilipesa.
Al momento attuale il Trentino-Alto Adige, come il resto del mondo, si trova preso tra due fuochi: quello della destra neoliberista, esportato dal mondo anglo-americano (Wall Street e la City di Londra) – il suo verbo è incapsulato in quel “a me non interessano i poveri” di Mitt Romney – , e quello della destra etnopopulista/etnofederalista, particolarmente forte nell’area che si estende tra i confini settentrionali della Baviera ed il Po e che, localmente, preme per la soppressione della regione Trentino-Alto Adige e vuole che il Trentino sia escluso dalla candidatura alle Olimpiadi Invernali del 2022.
Il rischio che corriamo è quello di un ritorno al passato, addirittura ad un sistema neo-feudale su base etnica-sciovinista che si proponga come rimedio (falso) alle catastrofi prodotte dal neoliberismo (vere); cioè a dire, ad una ridotta alpina (Alpenfestung) in un’Europa unita di stampo “imperiale” (“Fortezza Europa” la chiamano i critici), tenuta insieme solo dalla bramosia di potere e risorse e dalla paura di ciò che sta fuori e di ciò che è sgusciato dentro (milioni di immigrati, molti di loro musulmani).
Alcune citazioni aiuteranno a delineare meglio i contorni e la natura del problema.
Vergérus, “L’uovo del serpente”, di Ingmar Bergman:
Il mio esperimento è come un abbozzo di ciò che avverrà nei prossimi anni. Tuttavia nitido e preciso: proprio come l’interno dell’uovo di un serpente. Attraverso la sottile membrana esterna, si riesce a discernere il rettile già perfettamente formato.
Lucio Caracciolo (prefazione a “I confini dell’odio”, 1999):
In discussione non è la dimensione geopolitica, economica o demografica della mia, della vostra, o forse della nostra patria di domani. In gioco è il carattere delle sue istituzioni e della sua società civile. Prima di decidere pro o contro l’Europa – l’Europa delle nazioni, l’Europa delle Regioni, lo Stato europeo o l’Europa ineffabile ed esoterica degli europeisti – dobbiamo decidere per o contro la democrazia liberale. Il resto viene dopo.
La decisione, come abbiamo oramai capito, non è purtroppo così scontata.
Ho parlato di due fuochi.
Gustavo Zagrebelsky (“Simboli al potere”, 2012, pp. 89-90) descrive il primo fuoco:
Noi non sappiamo se la crisi attuale sia una di quelle cicliche che investono il mondo capitalistico, oppure se sia qualcosa di completamente nuovo, come nuove saranno le uscite. In ogni caso, ne constatiamo già gli effetti, più o meno evidenti, nella vita delle nazioni, i cui governi, da rappresentanti delle istanze popolari, decadono a strumenti amministrativi dell’ordine dell’economia finanziaria mondiale. Alla cementificazione del pensiero, all’espulsione delle alternative dal campo delle possibilità, all’omologazione delle aspirazioni, alla diffusione di modelli pervasivi di comportamento, di stili di vita e di status e sex symbol nelle società del nostro tempo, lavorano centri di ricerca, scuole di formazione, università degli affari, accademie, think-tanks, uffici di marketing politico e commerciale, in cui vivono e operano intellettuali e opinionisti che sono in realtà consulenti e propagandisti, consapevoli o inconsapevoli, ai quali la visibilità e il successo sono assicurati in misura proporzionale alla consonanza ideologica. La loro influenza sul pubblico è poi garantita dall’accesso a strumenti di diffusione capillari e altamente omologanti. Non è forse lì che, prima di tutto, si stabiliscono i confini simbolici del legittimo e dell’illegittimo, del pensabile e dell’impensabile, del desiderabile e del detestabile, del ragionevole e dell’irragionevole, del dicibile e dell’indicibile, del vivibile e dell’invivibile? Da qui provengono le forze simboliche potenti che, fino a ora, cercano di tenere insieme le nostre società….come in una religione, per di più monoteista.
Bruno Luverà (“Il razzismo del rispetto”, Una Città, 1999) descrive il secondo fuoco:
Nel nuovo regionalismo europeo ci sono due correnti: il regionalismo autonomista della Svp in Alto Adige o di Pujol in Catalogna, che hanno come idea-guida quella dell’autonomia dinamica, con l’acquisizione di sempre maggiori competenze per arrivare a forme forti di autogoverno, senza però che si arrivi a mettere in discussione la lealtà rispetto allo Stato nazionale, se non in una prospettiva lontana (per esempio, il diritto di autodeterminazione viene posto come valore, ma non se ne chiede l’esercizio immediato). L’altra corrente è quella, invece, micronazionalista, secondo la quale la regione diventa sinonimo di nazione, di piccola nazione, di piccola patria, e il richiamo alla regione serve per creare dei meccanismi di esclusione, serve per innalzare dei muri attorno a un luogo molto facile da controllare, potenzialmente più sicuro, in cui il criterio fondante la cittadinanza è quello dell’omogeneità etnica… La Baviera ha giocato fino in fondo la carta dell’Europa a due velocità perché questa poteva aprire scenari geopolitici interessanti. I quali, guarda caso, sarebbero andati nella direzione dell’Europa delle Regioni; l’Europa delle due velocità era uno scenario che poteva rimettere in discussione i confini.
Lucio Caracciolo, in un dibattito con Enrico Letta (Caracciolo/Letta, 2010, p. 22), illustra il punto di contatto tra i due fuochi: la distruzione del progetto europeo pluralista, democratico e liberal-socialista e degli stessi stati-nazione che lo compongono, attraverso la creazione di un’Europa a due velocità:
L’attuale crisi economica, che è sempre più una crisi sociale, rischia poi di mettere in questione il senso concreto degli Stati nazionali, a cominciare dal nostro. Quando i tedeschi riscoprono l’Euronucleo come insieme riservato ai Paesi connessi all’economia e alla cultura monetaria germanica, constatiamo che ne risulta rafforzata la tesi «padana» per cui il Nord Italia pertiene a questo spazio, il Sud niente affatto. […]. Se davvero si costituisse un Euronucleo paracarolingio, forse ne saremmo esclusi. In tal caso metteremmo a rischio l’unità nazionale. Perché se il criterio di quel nucleo è l’appartenenza alla sfera economica tedesca, fino a Verona ci siamo, più a sud molto meno. Bossi avrebbe buon gioco a rispolverare i suoi argomenti secessionisti. Per la Lega l’Euronucleo tornerebbe a rivelarsi la leva per dividere l’Italia, non per unire l’Europa.
Zbigniew Brzezinski, architetto della politica estera statunitense in Eurasia dagli anni Settanta, mentore del giovane Obama e co-fondatore con David Rockefeller della Commissione Trilaterale, ha espresso la sua approvazione per questo genere di sviluppo, che si integra perfettamente nelle strategie della NATO (Christian Science Monitor, 24 gennaio 2012):
Io credo che, alla fine, la risoluzione della crisi odierna in Europa non funzionerà poi tanto male…Inevitabilmente, una vera unione politica prenderà gradualmente forma, all’inizio probabilmente attraverso un trattato di fatto, che sarà raggiunto con un accordo intergovernativo nel prossimo futuro. Sarà un’Europa a due velocità. Non c’è niente di male in un’Europa che è in parte e contemporaneamente un’unione politica e monetaria nel suo nucleo centrale e che accetta di essere diretta da Bruxelles, circondata da un’Europa più ampia che non fa parte dell’eurozona ma condivide tutti gli altri vantaggi dell’Unione, per esempio la libera circolazione delle persone e delle merci. È un progetto in linea con la visione post-Guerra Fredda di un’Europa in espansione, unita e libera.
Questo è un progetto che piace molto alle fondazioni e think tank neoliberisti e che potenzierebbe a dismisura le spinte secessioniste nei paesi relegati in “serie B”. Catalogna, Paesi Baschi, Scozia, Alto Adige e “Padania” difficilmente tollererebbero l’esclusione.
In un’intervista per il Corriere della Sera (“Ispiratevi alle città del Rinascimento”, 14 luglio 2012), Marcia Christoff Kurapovna, sfegatata paladina del neoliberismo residente a Vienna, ha perciò esortato la Grecia e l’Italia a seguire l’esempio jugoslavo, smembrandosi in piccoli staterelli sul modello dell’Alto Adige/Sudtirolo. Ha sorvolato però sul dettaglio che tali micro-entità sarebbero istantaneamente e completamente alla mercé dei mercati, delle oligarchie finanziarie, delle multinazionali.
Esaminiamo dunque questo progetto di uno Stato Libero del Sudtirolo.
Il politologo Günther Pallaver, intervistato nel febbraio del 2009 da Gabriele Di Luca, in vista di un dibattito pubblico sul tema “Stato libero: una visione” ha dichiarato, in modo piuttosto perentorio:
Chi rivendica il diritto all’autodeterminazione sottolinea in continuazione che gli italiani – in uno Stato autonomo o nell’ambito dello Stato austriaco – sarebbero tutelati come lo sono i tedeschi in Italia. Ciò significa che la tutela attuale non può essere poi così male. Ma se penso a come l’Austria tutela le sue minoranze, allora il mio scetticismo si acuisce. Basta dare uno sguardo alla Carinzia, dove vive la minoranza slovena. Confesso che in uno Stato sovrano avrei paura del nazionalismo tedesco, dei suoi impulsi vendicativi. Solo fino a pochi anni fa gli Schützen dichiaravano che gli italiani sono solo ospiti in questa terra, un’assurdità che contrasta con i diritti fondamentali dell’uomo, poiché ogni cittadino dell’Unione Europea ha il diritto di residenza in tutti i suoi Stati membri. Preferisco dunque le certezze di oggi: garanzie costituzionali e internazionali e una cultura politica europea di democrazia e tolleranza. Alle promesse di un radioso futuro preferisco le sicurezze del presente.
I Freiheitlichen hanno commissionato la stesura della bozza di una possibile costituzione per lo Stato Libero del Sudtirolo. Tale bozza corrobora i timori di Pallaver, stabilendo che lo strumento referendario consentirebbe di emendare la costituzione: il che introduce la prospettiva di una tirannia della maggioranza che stravolga quegli articoli che tutelano i diritti civili di chiunque risieda in Alto Adige – in primis gli immigrati, che non sono particolarmente ben visti –, lasciando intatti quelli più problematici, come quello che consente ai ladini veneti di chiedere l’annessione al nuovo stato, generando ulteriori tensioni con l’Italia e quello che sancisce il diritto per ogni gruppo etnolinguistico di difendere la propria identità, aprendo la strada ad ogni possibile interpretazione. Infatti, molti si ricorderanno della famosa vicenda della rana verde che stringe un boccale di birra ed un uovo tra le zampe, autoritratto dell’artista Martin Kippenberger, torturato dall’alcolismo, la sua croce. Fu esposta al Museion di Bolzano e scatenò la furia di una parte della popolazione locale. Il presidente del Consiglio Regionale, Franz Pahl, arrivò a dire che “la Rana è un oltraggio alla nostra cultura. Se continueremo di questo passo arriveremo alla totale anarchia”. Ora, al di là del fatto che la stessa destra che mandava gli Schützen a presidiare l’accesso al Museion ora bolla come primitivi i musulmani che si sentono ingiuriati da una pellicola trash che ritrae Maometto come un pedofilo-stupratore-pappone-sterminatore, questa è una dichiarazione che esplicita la bizzarra credenza che non insegnare ai bambini la (presunta) verità di una particolare religione equivalga ad educarli al nichilismo. Bizzarra perché c’è da augurarsi che molti concordino nel dire che la fonte più affidabile per una condotta autenticamente morale è imparare a metterci nei panni degli altri – pur tenendo conto dei loro gusti. Chiunque dovrebbe essere in grado di farlo, ma sono proprio le militanze ed identificazioni forti (incluso l’ateismo) ad essere di grave ostacolo. Pichler-Rolle, il presidente del partito di governo in Alto Adige, l’SVP, chiese la rimozione dell’opera perché “troppi sudtirolesi si sono sentiti feriti nei loro sentimenti religiosi”.
Gustavo Zagrebelsky (“Simboli al potere”, 2012, p. 45) ci ragguaglia rispetto al potere dei simboli ed alla necessità di democratizzarli:
“Il simbolo che non è di tutti, ma è solo di qualcuno, cessa di essere simbolo e diventa diabolo. Viene meno ai suoi compiti d’unificazione, di diffusione di sicurezza e di promozione di speranza…Se qualcuno se ne impadronisce, governandone i contenuti, inculcandoli come propaganda o come pubblicità nella testa degli altri, facendone così strumento di governo e di dominio delle coscienze, il simbolo cambia natura…Il simbolo-diabolo può diventare il diapason del potere totalitario”.
Chi controlla certi simboli controlla le coscienze attratte da tali simboli; può così dominare intere nazioni (pensiamo ad Hitler, alla swastika, all’Ariano) e magari perfino interi pianeti.
Quel che vogliono i Freiheitlichen è, molto semplicemente, una piccola fortezza, una ridotta alpina, all’interno della Fortezza Europa.
Proprio sul tema delle fortezze in Alto Adige e della loro vacuità, la celebre scrittrice indiana Arundhati Roy ha qualcosa da dire (da “The Briefing”, Manifesta 7, 2008):
Cosa custodivano qui, care compagne e compagni? Cosa difendevano? Armi. Oro. La civiltà stessa. Questo è ciò che dice la guida…Quando le ossa di pietra di questo leone di pietra saranno interrate nella terra inquinata, quando la Fortezza-che-non-è-mai-stata-attaccata sarà ridotta in macerie e la polvere delle macerie avrà formato dei cumuli, chissà che non nevichi di nuovo.
Per concludere, un intervento (Alto Adige, 25 luglio 2012) di Luigi Gallo, assessore alla Partecipazione, al Personale e ai Lavori Pubblici del comune di Bolzano, che va dritto al cuore del problema. Rispondendo a due lettori impregnati di luoghi comuni xenofobici, mostra il nesso tra i due fuochi, l’immigrazione e l’unica, concreta, attuabile soluzione ai nostri problemi, un autentico viatico verso un Mondo Nuovo:
I due lettori hanno sacrosanta ragione a lamentare una drammatica crisi economica che colpisce giovani, pensionati, lavoratori; ma dovrebbero rivolgere i propri strali verso altri bersagli; mentre loro guardano male il carrello della spesa del vicino immigrato o notano con invidia la marca della sua auto di “seconda mano”, qualche decina di speculatori a livello mondiale – con un clic sulla tastiera di un computer – guadagna miliardi di euro con operazioni di Borsa che mandano sul lastrico interi paesi, Italia compresa; le conseguenze sono poi che i governi di quei paesi devono tagliare gli ospedali, le scuole e le pensioni per risparmiare e pagare interessi astronomici sui titoli di stato. Forse i due lettori potrebbero prendersela con queste politiche economiche che tagliano pensioni e diritti del lavoro mentre gli evasori fiscali rimangono salvi. Certo, è più facile guardare il vicino di casa che viene dal Marocco o dal Pakistan e pensare che sia colpa sua, ma non è così. Piaccia o meno, semplicemente non è così. Avete tante ragioni cari signori ma la guerra fra poveri serve solo a distruggere la solidarietà fra le persone e a far ridere “quelli in alto, ma molto in alto” che decidono la nostra vita. Sta a voi decidere da che parte stare…