Una persona davvero amabile, appassionata, briosa e colta.
Lieto di averlo intervistato.
Questo mio pezzo gli è piaciuto e allora lo condivido.
“Sinora si è agito all’insegna del motto olimpico citius, altius, fortius – più veloce, più alto, più forte – che meglio di ogni altra sintesi rappresenta la quintessenza dello spirito della nostra civiltà, dove l’agonismo e la competizione non sono la mobilitazione sportiva di occasioni di festa, bensì la norma quotidiana ed onnipervadente. Se non si radica una concezione alternativa, che potremmo forse sintetizzare, al contrario, in lentius, profundius, suavius – più lento, più profondo, più dolce -, e se non si cerca in quella prospettiva il nuovo benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo dall’essere ostinatamente osteggiato, eluso o semplicemente disatteso”.
Questa saggia esortazione di Alexander Langer è sempre più attuale e vale per ogni contesto, anche per il nostro rapporto con il territorio, al centro della rassegna intitolata “Paesaggio in Movimento”, che è il tema dell’edizione di quest’anno del laboratorio permanente “Futuro Presente”. Intellettuali, filosofi, architetti, scrittori, fotografi dialogheranno con il pubblico approfondendo quattro filoni: architettura e urbanistica, letteratura e reportage, cinema e documentari e, infine, fotografia.
La chiave di lettura di questi incontri è la ricerca di un futuro possibile che scaturisca da una soluzione ai mali del presente che sia assennata. Una via di mezzo tra il regresso nel passato del neotradizionalismo e la fuga in avanti di quello sperimentalismo sensazionalistico che produce quelle che al profano sembrano stanze per bimbi giganti sospese nel cielo, mostruose creature cristalline che sbucano da una dimensione parallela per divorare edifici storici, fortezze crepuscolari insofferenti alla luce, astronavi in attesa di decollare. Un architetto-star, Daniel Libeskind, arriva a descrivere l’architettura come “la macchina che produce l’universo che a sua volta produce gli dèi”.
L’alternativa, più mite e sensibile, che non rinuncia alla modernità e non ricorre a furbi mimetismi, prende il nome di landscape sensitive design (un design sensibile e attento al contesto paesaggistico) e ce l’ha spiegata in un’intervista Pino Scaglione, architetto e urbanista che insegna alla facoltà di ingegneria di Trento. Calabrese di nascita e trentino di adozione, sarà protagonista dell’incontro dal titolo “Architettura e arti nella costruzione del paesaggio della modernità in Trentino”, che si terrà OGGI a Rovereto, nella Sala conferenze del Mart, alle 18.00 esi soffermerà sul periodo fascista; non per fare del revisionismo apologetico, ma per far capire ai contemporanei che, per un accidente del caso, all’Italia toccò in sorte di provare a creare un paesaggio moderno, compatibile con la natura e la cultura, proprio durante il fascismo ed è un peccato che ciò abbia gettato un’ombra su una sperimentazione che andrebbe recuperata e aggiornata.
“L’errore che si è commesso nel dopoguerra”, afferma Scaglione, “è stato quello di fagocitare il paesaggio nella convinzione che fosse sovrabbondante. Poi, dopo averlo martoriato, siamo corsi ai ripari. La questione è di enorme importanza, perché occuparsi di paesaggio vuol dire occuparsi del futuro, in un ciclo economico che si chiude per l’insostenibilità del consumismo a tutti i livelli, incluso quello del paesaggio”.
Per Scaglione “il paesaggio è il nostro contesto di vita, l’insieme di tutto ciò che ci circonda e quindi anche le opere umane come le boscaglie, i vigneti, i prati, che richiedono un uso intelligente del territorio per trovare un equilibro con la natura, equilibrio che è esiziale, ma che si è perso”.
Né museificazione della natura, né abuso dissennato: una via di mezzo che ci faccia ritrovare la bussola.
Cita “Pensiero meridiano” di Franco Cassano, che deve molto alle riflessioni di Albert Camus sul giusto mezzo, l’equilibrio delle forze, il disciplinamento delle proprie pulsioni. Rileva che la recente traduzione inglese sta avendo un successo strepitoso proprio nei “celerissimi” Stati Uniti. Parla di lentezza come valore, di un uso della tecnologia che non deve per forza accelerare le nostre vite e farci mettere da parte il senso estetico e l’attenzione al mondo. Menziona Mosè Ricci, autore di “Nuovi paradigmi”, che illustra la transizione da un sistema incentrato sulla quantità ad uno pregno di valori che emergono dal basso, da una sensibilità popolare sempre più orientata al rispetto, alla cura, all’attenzione a ciò che si mangia, ciò che si consuma, ciò che si butta, alla sostenibilità del luogo in cui si risiede e quindi al paesaggio, che è insieme di valori nei quali ci identifichiamo.
“Non si fanno più piani urbanistici guidati dall’idea che il territorio è infinitamente disponibile, ma si comincia a capire che il paesaggio va re-introdotto nel contesto. Le arti disvelano le diverse forme del paesaggio e delle sensibilità e, come nel caso dei trentini Armani, Perini e Salvotti, lottano, magari donchisciottescamente, contro un sistema che quantifica e sacrifica la qualità.
Fortunatamente, constata Scaglione, “il contesto alpino, gelosamente possessivo nei confronti del territorio, ha retto meglio di altre realtà e questo è particolarmente vero in Svizzera, come potrà capire chi, il 16 giugno, andrà ad ascoltare Michael Jakob, sempre al Mart, in un incontro dal titolo “Costruire nuovi paesaggi: architettura contemporanea nelle Alpi”.
Grillo non ha sposato la decrescita, ma molti elettori ed eletti del M5S sì
Maurizio Pallante
Non sono assolutamente a favore della decrescita; io sono per una crescita qualitativa e per un calcolo del Pil diverso come ha provato a dimostrare Joseph Stiglitz
Diffido della decrescita come idea ma apprezzo la portata etica del richiamo al cambiamento degli stili di vita, occorre fare meglio con meno e in modo sostenibile per le nuove generazioni.
Walter Ganapini, co-fondatore di Legambiente, ex presidente di Greenpeace Italia
Sinora si è agito all’insegna del motto olimpico “citius, altius, fortius” (più veloce, più alto, più forte) che meglio di ogni altra sintesi rappresenta la quintessenza dello spirito della nostra civiltà, dove l’agonismo e la competizione non sono la mobilitazione sportiva di occasioni di festa, bensì la norma quotidiana ed onnipervadente. Se non si radica una concezione alternativa, che potremmo forse sintetizzare, al contrario, in “lentius, profundius, suavius” (più lento, più profondo, più dolce), e se non si cerca in quella prospettiva il nuovo benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo dall’essere ostinatamente osteggiato, eluso o semplicemente disatteso.
Alexander Langer
Prima di tutto, riflettete: gli oligarchi che governano il mondo si sono dimostrati a favore della crescita o dell’austerità (1929-2014)? Hanno favorito il progresso tecnologico (es. fusione fredda) o l’hanno ostacolato? Hanno favorito la diffusione della conoscenza o l’hanno ostacolata (es. brevetti e accesso salatissimo a riviste scientifiche)? Si sono comportati come signorotti feudali oscurantisti oppure come emancipatori dei singoli e dell’intero genere umano? Una società privata di reali prospettive di crescita è più facile o difficile da controllare, rispetto a una società in crescita, che sa quanto vale e avanza rivendicazioni che considera intrinsecamente legittime (quante rivoluzioni/rivolte/insubordinazioni di massa in Europa e Stati Uniti – quante nel Terzo Mondo)? Almeno su quest’ultimo punto, Marx aveva completamente ragione.
Chi ha lanciato il meme “decrescita”? Uno studio commissionato dal Club di Roma che ne ripudiò le conclusioni, ma non riuscì mai a dissociare il suo nome dal sensazionalismo che circondò quella che divenne presto la Bibbia dell’ecologismo.
I “decrescisti” non si curano di chi gli darà un lavoro, chi pagherà le loro pensioni e ricoveri quando saranno vecchi, o i loro sussidi di disoccupazione. Latouche vada un po’ a sentire cosa ne pensano della decrescita (austerità pianificata e volontaria) gli immigrati, i rifugiati, i profughi, i precari, i disoccupati, gli abitanti dei paesi in via di sviluppo.
I decrescisti raccomandano una decrescita gestita al posto dell’austerità subita, ma non è chiaro che tipo di “governance” abbiano in mente e come questa potrebbe essere democratica. È possibile, lecito e morale vietare ad ogni imprenditore, centro di ricerche, agricoltore, commerciante, artigiano, giovane coppia, ecc. di intraprendere una qualunque iniziativa espansiva per evitare che l’effetto cumulato sia quello di una crescita? In che senso ciò sarebbe diverso dal programma di Pol Pot e dei Khmer rossi? Sarebbe, suo malgrado e con le migliori intenzioni, una società totalitaria, determinata a conservare ogni essere umano allo stato di bonsai.
La legatura dei piedi e il bonsai sono efficaci metafore per illustrare il tipo di restrizioni che dovrebbero prevenire il ritorno alla crescita e quindi all’espressione concreta dell’eccellenza dei singoli. Sarebbe una distopia falsamente egalitaria che abolirebbe per decreto e in nome di una presunta utilità collettiva tutto ciò che potrebbe distinguere una persona dall’altra, sancendo che il mero atto di far valere la propria personalità e dar forma materiale alla propria creatività e ai propri talenti è intrinsecamente sbagliato e disdicevole; in altre parole, che qualcosa è andato storto nell’evoluzione umana se ci si ostina a voler crescere.
L’alternativa al capitalismo globalista sfrenato ed insostenibile è solo un’autarchia localista incapace di garantire un reddito a tutti? Non ci sono alternative tra un estremo e l’altro? Bianco o Nero? Obesità o anoressia?
Non è forse vero che l’ossessione crescista dipende dal fatto che le risorse non circolano e non vengono ridistribuite ma si concentrano nelle mani di pochi? Il benessere della civiltà umana dipende dal costante flusso di energia/risorse: la decrescita lo bloccherebbe allo stesso modo in cui lo bloccano le oligarchie del nostro tempo.
Il fatto che, dal 2011 in poi, sia sempre più difficile trovare interviste di Latouche (a proposito, se ama così tanto il mondo contadino e nel suo decalogo chiede una moratoria sull’innovazione tecnico-scientifica, perché continua a risiedere a Parigi?) in inglese, francese (!!!), spagnolo o tedesco, mentre abbondano in italiano, è significativo: provinciali eravamo e provinciali siamo rimasti – ci meritiamo proprio un profeta del localismo. Mi auguro solo che, prima o poi, anche l’Italia sappia recuperare il terreno perduto, superando questa fase di immaturità culturale ed intellettuale.
La differenza tra austerità recessiva e decrescita “felice” è quella che passa tra dissanguamento e donazione del sangue. La sera vai a letto presto in entrambi i casi, perché non ti reggi in piedi
[Sono in disaccordo con Bagnai sull’euro, ma qui non posso che sottoscrivere tutto il suo ragionamento: e cita pure Piga! ;o)].
Non potete permettervi di avere figli a causa dell’austerità? E’ un’ottima cosa per il bilancio demografico mondiale.
Il vostro datore di lavoro vi lascia a casa perché è costretto a contrarre la produzione? Perfetto: è esattamente quel che bisognerebbe fare comunque, crisi o non crisi.
Niente ferie quest’anno? Meglio! Meno inquinamento, meno consumi superflui. Il mondo vi sarà grato.
Pochi clienti nel vostro ristorante? Convertitelo in una trattoria ecosostenibile come quella in Danimarca che ha eliminato l’olio d’oliva italiano e il formaggio francese per sostituirli con l’olio di colza e lo yogurt skyr: poco importa se la gente è stufa dei sapori locali e, se decide di uscire la sera, è per provare qualcosa di diverso.
Se volete un esempio eclatante di dove conduca questa ideologia farneticante:
Più che di federalismo, si dovrebbe più correttamente parlare di localismo. Il paradigma perfetto di un localismo sano, non razzista ma neppure scioccamente egualitarista, si può trovare nella seguente formula: è cittadino con pieni diritti chi si prende cura del luogo che abita. Non tutti i residenti possono dirsi veri cittadini se non hanno una coscienza di luogo e non la mettono in pratica con la partecipazione attiva alle decisioni. Patrioti della propria città, della propria valle, del proprio monte, della propria regione storica e naturale: ecco i buoni localisti. Chi si estrania come se ciò che lo circonda non lo riguardasse dovrebbe perdere, ad esempio, i diritti politici…un’economia il più possibile locale, basata su filiere circoscritte, su una mobilità ridotta al minimo e sul recupero e ripopolamento della campagna agricola. http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=11941
Non stupitevi: per loro stessa orgogliosa ammissione il patrono dei decrescisti è J.J. Rousseau (mito del buon selvaggio, Parigi = Sodoma e Gomorra, Sparta = società ideale, morte agli atei, plebiscitarismo). Ecco un’utile descrizione del pensiero di Rousseau (da Michel Onfray, “Illuminismo estremo. Controstoria della filosofia IV”, p. 13): “discredito gettato contro l’invenzione della stampa, colpevole di aver reso possibile la pubblicazione di tanti libri pericolosi; odio per il teatro che infiacchisce le coscienze e i corpi; genealogia difettosa della scienza e di tutte le arti; elogio dell’ignoranza; volontà di mantenere il popolo nell’obbedienza; messa in guardia contro ogni desiderio rivoluzionario; elogio di Sparta; difesa della pena di morte; esaltazione della rusticità, del lavoro manuale, dell’ignoranza, della fede e della religione, della disciplina militare; il tutto accompagnato da una critica dei lavori intellettuali, della filosofia e della metafisica. Un autentico breviario oscurantista”.
Scrive un’amica FB: “Ormai è come se ci fosse solo una grande area grigia in cui non si distingue più nulla. Tutto è opinabile. Tutti sono uguali. Se non riusciamo a recuperare qualche riferimento, rischiamo di non trovare più la via d’uscita“.
Purtroppo è in queste fasi che gli apprendisti stregoni possono avere successo. Maurizio Pallante [che è chiaramente animato dalle migliori intenzioni: ma la strada per l’inferno è lastricata di buone ed ingenue intenzioni] si ostina a ripetere che si può essere contro la decrescita solo se non la si conosce. Ma lui stesso classifica come misure di decrescita quelle che sono misure di sviluppo sostenibile (es. lotta agli sprechi, tutela dell’ambiente, riproducibilità delle risorse energetiche, qualità anteposta alla quantità, disciplinamento dell’avidità, del materialismo consumistico, dell’edonismo, giustizia sociale e ridistribuzione/condivisione delle risorse del pianeta):
Dopo aver convenientemente rimosso l’esistenza di un intero campo di ricerche multidisciplinari che include diversi premi Nobel, tra i quali Elinor Ostrom, l’economista dei beni comuni e della sostenibilità, tanto amata dalla sinistra riformista, proclama che la scelta è tra la decrescita (come la intende lui) e il turbocapitalismo. Il resto è fuffa. L’UNESCO è fuffa. Stiglitz (Nobel 2001) è fuffa. Amartya Sen (Nobel 1998) è fuffa. 3 premi Nobel non valgono nulla.
I decrescisti citano Robert F. Kennedy e la sua critica al feticcio del PIL come se fosse stato un paladino della decrescita. Ma né lui, né suo fratello avevano stilato programmi economici finalizzati alla “decrescita felice”: sarebbero stati presi per dei venditori di fumo o degli squilibrati. Quello in cui credevano era lo sviluppo sostenibile, come farebbe qualunque persona non superficiale, in grado di analizzare obiettivamente la realtà e che non scelga di schierarsi con la decrescita perché fa fico, perché è moralmente giusta, perché è ovvio che non ci sono alternative. Ci vuole l’umiltà di informarsi prima di prendere posizione ed informarsi significa esaminare le tesi al centro della controversia, non decidere che lo sviluppo sostenibile è una sciocchezza o un complotto degli industriali solo perché l’ha detto Pallante.
A questo punto l’obiezione diventa: “non è solo Pallante a dirlo, ma Nicholas Georgescu-Roegen”. Georgescu-Roegen, un economista rumeno-americano giustamente piombato nell’oblio (GOMBLODDO!! SVEGLIAAAA!!!11!): pensava che la Terra fosse un sistema chiuso– “La difficoltà principale consiste allora nell’impossibilità che le innovazioni continuino all’infinito in un sistema chiuso”. Non esistono sistemi chiusi nell’universo a noi noto:
Le menti umane e il nostro pianeta non sono sistemi chiusi, in quanto scambiano energia con l’esterno e riducono l’entropia (aumentano la complessità, la diversità). Diversamente non ci sarebbe evoluzione. Perciò la premessa fondamentale della decrescita è assolutamente infondata: è un articolo di fede confutato dalla fisica (e astrofisica), dalla biologia (e astrobiologia) e dall’esperienza. Il decrescismo è un culto come tanti altri.
Un ispiratore di ben altro calibro del movimento per la decrescita è nientemeno che il biologo Paul Ehrlich. Oltre quaranta anni fa vendette circa 3 milioni di copie di un suo libercolo apocalittico intitolato “La bomba demografica” (1968) in cui (traduzione mia) dichiarava: “La battaglia per nutrire l’umanità è finita. Negli anni Settanta il mondo sarà colpito da carestie – centinaia di milioni di persone moriranno di fame a dispetto di tutti i programmi emergenziali intrapresi in questi anni… Non possiamo più permetterci di trattare solamente i sintomi del cancro della crescita della popolazione, il cancro stesso deve essere estirpato. Il controllo della popolazione è l’unica risposta”.
3 milioni di copie vendute!
La decrescita piace solo a chi non ha capito cosa sia e cosa implica.
Non solo non può risolvere i problemi del presente, ma è il perfetto strumento per trincerare lo status quo che vogliamo sovvertire introducendo un nuovo feudalesimo (N.B. il feudalesimo è il modello sociale antesignano del neoliberismo, con i feudi al posto degli oligopoli economico-finanziari).
Infatti Serge Latouche è diventato contemporaneamente un guru di CasaPound, dei Giovani Padani e di una certa sinistra amante delle idee più che della realtà quotidiana. Maurizio Pallante,intellettuale di riferimento del M5S per la decrescita, desidera che tutti divengano contadini, in quanto “quella contadina è l’unica civiltà“, un classico topos della destra reazionaria e filo-nazista (es. Jean Giono).
Come il collaborazionista Giono (quello de “L’ussaro sul tetto” e de “L’uomo che piantava gli alberi”), Latouche predica il ritorno al localismo, all’orticoltura, alla borgata autarchica sia dal punto di vista alimentare, sia da quello economico e finanziario.
Serge Latouche (parole sue), profeta della decrescita, auspica l’avvento di una dittatura che bandisca o spinga alla bancarotta multinazionali, grande distribuzione, industrie automobilistiche, compagnie aeree, agenzie turistiche, industria alberghiera, allevamento intensivo, agricoltura intensiva, trasporti merci, gran parte delle banche, borse, industria del lusso e della moda, le agenzie pubblicitarie.
Il commercio sarà limitatissimo, principalmente confinato alla propria “bioregione”, con valuta bioregionale. Il turismo sarà inesistente perché “bisogna avere i piedi ben piantati in terra” e “l’immaginazione ha le ali”, specialmente grazie a internet (almeno quello resta). Non dovendo camminare molto, si potrà anche fare a meno di quel mucchio di scarpe che abbiamo: due, tre paia sono sufficienti. Ma il numero giusto sarà stabilito dalla comunità.
Sì, Latouche ci vuole ridurre allo stile di vita delle tribù che ha studiato da etnografo, per “recuperare l’abbondanza perduta delle società di raccoglitori-cacciatori”, oppure riportare alle epoche oscure dopo la caduta dell’Impero Romano (decrescita felice al tempo delle carestie, epidemie, bande di predoni, guerre, anarchia, ecc.?).
Il problema è che a quel tempo eravamo molto meno numerosi, noi umani. Così suggerisce che la soluzione ideale sarebbe avere una popolazione mondiale ridotta a 3 miliardi di persone (c’è un surplus del 60-70% di umani: poco male). Ma si può anche provvedere a stabilizzare la crescita demografica e costringere la gente a mangiare molta meno carne (peccato che proprio la crescita economica e del benessere siano il fattore determinante per il calo demografico).
Felicissimi i russi e i cubani dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quando il loro tenore di vita è sprofondato, causando un collasso demografico che la Russia deve ancora riassorbire (!), mentre Cuba (-35% del PIL tra 1989 e 1993), si è salvata da un analogo disastro solo grazie a Cina, Venezuela ed al turismo. Giulivi anche i cambogiani deportati da Phnom Penh nelle campagne dai Khmer rossi e morti a decine di migliaia.
Felicissimi i lavoratori europei, specialmente quelli tedeschi, di dover subire una costante riduzione del salario reale, cosicché tedeschi ed italiani si trovano assieme ai giapponesi in fondo alla classifica mondiale per tasso di natalità. L’asse delle culle vuote. Serge Latouche si compiace che i giapponesi siano stati felici di decrescere e che il buddhismo li abbia aiutati. Pensa che il confucianesimo possa attutire l’impatto psicologico della decrescita per i cinesi. I Giapponesi sono certamente molto lieti di non potersi permettere di pagare le pensioni per via del declino demografico che, nei prossimi decenni, si porterà via circa un milione di abitanti l’anno (!!!).
L’ideologia della decrescita non è altro che una dottrina neo-malthusiana che non si sostiene su un singolo dato socio-economico e storico. Scoprirete che la letteratura scientifica citata serve unicamente a dimostrare che l’attuale sistema è folle e completamente insostenibile. Non che la cosa ci colga di sorpresa. Di contro, nessun esempio storico di decrescita viene preso in esame per capire se la decrescita possa essere essa stessa sostenibile. Si dà per scontato che non ci possa essere uno sviluppo sostenibile, mentre la decrescita lo è per definizione. Un po’ come dire che la morte è più sostenibile della vita. Non è scienza, è dogma. Anzi, è verosimilmente apologia di genocidio.
La vita è crescita, la decrescita è atrofia e morte. L’intelletto decresce con l’invecchiamento, le civiltà decrescono con la decadenza e la scomparsa. La decrescita del Sole lo trasformerà in una nana nera. La decrescita di una specie la porta facilmente all’estinzione.
La decrescita del nostro sistema non sarebbe possibile senza un collasso demografico (es. catastrofe globale) o una dittatura planetaria che decretasse la composizione delle famiglie e decidesse chi può consumare cosa e a quali servizi pubblici (limitatissimi) può accedere.
Istruzione, sanità, previdenza sociale, trasporti, infrastrutture, ordine pubblico, energia, poste e telecomunicazioni, ecc.: ogni servizio considerato essenziale sarebbe ridotto ai minimi termini. Per non parlare della ricerca nel settore dell’energia nucleare (es. fusione fredda), delle rinnovabili, del risparmio energetico, dei nuovi materiali, della medicina, dei trasporti, dell’alimentazione, della tutela ambientale, delle esplorazioni spaziali, delle scienze cognitive. Non è chiaro come la Rete potrebbe essere alimentata.
Chi già possiede terreni (i ricchilatifondisti come il principe Carlo e tanti altri aristocratici europei non propriamente progressisti ed umanitari) sarà avvantaggiato, la gente comune urbanizzata dovrà accontentarsi di “quel che passa il convento”, morire d’inedia o suicidarsi. Gli abitanti delle megalopoli del terzo mondo morirebbero come mosche.
Il sindaco di Parma Federico Pizzarotti, socio fondatore del circolo del Movimento per la Decrescita Felice di Parma risponde alla domanda: “Pensa che il cambiamento di paradigma culturale proposto da Mdf sia davvero realizzabile?”
Tutti i cambiamenti non si possono fare da un giorno all’altro. Puoi promuovere correttamente gli orti sociali, giusto per fare un esempio, o i mercatini a km-zero (ne abbiamo aperti già due ma ne vorremmo attivare degli altri), oppure lo Scec, che stiamo cercando di lanciare, o ancora cercare modi per sostenere l’economia locale, ma è tutto collegato alla disponibilità di tempo. Per fare l’orto, infatti, hai bisogno di tempo; per andare a fare la spesa nei mercatini bio devi avere tempo; per occuparti dei figli o dei parenti anziani senza doverli affidare ad altri a pagamento perché tu sei sempre al lavoro hai bisogno di tempo. Si possono dare alle persone gli strumenti, ma se poi la maggior parte di queste, per vari motivi, non ce la fa (o non vuole), rischia di essere tutto vano.
mmmmh…
Mi accadde diverse volte di scorgere nei suoi occhi un’espressione di dolore e disappunto quando la realtà non corrispondeva alle idee romantiche che si era fatto, o quando qualcuno che amava o ammirava non riusciva a dimostrarsi all’altezza dei suoi inarrivabili standard.
Graham Greene, “Un Americano Tranquillo”
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La sindrome di Peter Pan è quella situazione psicologica in cui si trova una persona che si rifiuta o è incapace di crescere, diventare adulta e di assumersi delle responsabilità. La sindrome è una condizione psicologica patologica in cui un soggetto rifiuta di operare nel mondo “degli adulti” in quanto lo ritiene ostile e si rifugia in comportamenti ed in regole comportamentali tipiche della fanciullezza.
L’autore, nel ruolo di un personaggio, suggerisce attraverso motivazioni economiche ed un convinto moralismo, di trasformare il problema della sovrappopolazione tra i cattolici irlandesi nella sua stessa soluzione. La proposta dell’autore consiste nell’ingrassare i bambini denutriti e darli da mangiare ai ricchi proprietari terrieri anglo-irlandesi. I figli dei poveri potrebbero essere venduti in un mercato della carne all’età di un anno per combattere la sovrappopolazione e la disoccupazione. Così facendo si risparmierebbe alle famiglie il costo del nutrimento dei figli fornendole una piccola entrata aggiuntiva, si migliorerebbe l’alimentazione dei più ricchi e si contribuirebbe al benessere economico dell’intera nazione.
L’autore offre un supporto statistico per le sue asserzioni e fornisce dati specifici sul numero di bambini da vendere, il loro peso, il prezzo ed i possibili modi di consumazione. L’autore suggerisce alcune ricette per preparare questo «delizioso» tipo di carne ed è sicuro che questa cucina innovativa darà spunto per ulteriori piatti. Anticipa, inoltre, che le pratiche di vendita e di consumo di bambini avranno positivi effetti sulla moralità familiare: i mariti tratteranno le loro mogli con più rispetto ed i genitori valuteranno i loro bambini in modi finora sconosciuti. La sua conclusione è che l’implementazione di questo progetto aiuterà a risolvere i problemi complessi dell’Irlanda in materia sociale, politica ed economica più di ogni altra misura finora proposta.
Quest’opera è ritenuta il più grande esempio di ironia nella storia della letteratura inglese.
Jonathan Swift, “Una modesta proposta: per evitare che i figli degli Irlandesi poveri siano un peso per i loro genitori o per il Paese, e per renderli un beneficio per la comunità”
Un uomo che nasce in un mondo già occupato, se non può ottenere di che sussistere dai suoi genitori, verso cui è portatore di una giusta domanda, e se la società non vuole il suo lavoro, non ha il diritto di pretendere la più piccola porzione di cibo, e, di fatto, è di troppo in questo mondo. Nel grande banchetto della natura, non c’è alcun coperto vacante per lui.
Thomas R. Malthus, “Saggio sul principio della popolazione”, ed. 1803
Un prato con molti fiori diversi è più bello di un prato dove cresce una sola varietà di fiori
Franjo Komarica, vescovo di Banja Luka
Chi parla di apartheid a proposito della situazione altoatesina non viene quasi mai preso sul serio e, quando ciò avviene, è spesso solo per esprimere la propria indignazione nei confronti di chi stabilisce un parallelo così infelicemente indelicato nei confronti di chi ha sofferto realmente a causa del regime segregazionista sudafricano. In pratica si accusa il provocatore di avere poche idee e pure confuse a proposito di entrambe le realtà. In passato io stesso ho usato il termine apartheid per definire la segmentazione etnica altoatesina e, pur essendo perfettamente consapevole della necessità di avanzare numerosi e doverosi distinguo, ritengo che chi afferma di non dovere neppure prendere in considerazione il confronto non sia pienamente al corrente delle sostanziali affinità tra le radici del pensiero razziale sudafricano e quelle del patriottismo etnicista sudtirolese. È bene dunque dedicare un capitolo a questa disputa perché altrimenti si continuerà pervicacemente a credere che, in tempi ragionevoli, in Alto Adige si potrà un giorno giungere alla separazione finale tra autonomismo e segmentazione etnica, preludio di una scelta di autodeterminazione politica più matura e persino condivisibile. Queste, secondo me, sono vane illusioni giacché, localmente, autonomia ed etnicismo (ossia razzismo) esistono e si sostengono vicendevolmente in una relazione simbiotica. Solo la libera e determinata scelta di migliaia di residenti di varcare il confine etnico, cioè di “contaminare” deliberatamente la propria appartenenza originaria ed abbracciare una pluriappartenenza potrà cambiare le cose. Quanti sono stati disposti a farlo finora? Solo alcune migliaia di persone in poco meno di ottant’anni di convivenza forzata. Inoltre si può prevedere che il continuo afflusso di immigrati causerà un ulteriore irrigidimento dei confini etnici – come dimostrano i successi delle destre etnopopuliste nell’area alpina di lingua tedesca. Ci vorrà del tempo, come ci è voluto molto tempo per abbattere il regime segregazionista, ma l’etnocrazia altoatesina è destinata ad essere spazzata via dalla Storia. La questione è come far sì che ciò avvenga senza spargimenti di sangue.
Possiamo iniziare prendendo in esame la questione demografica. Israele, la popolazione bianca sudafricana, i Figiani, gli abitanti del Québec, i Sudtirolesi e tanti altri popoli dove il criterio dell’ethnos non è ancora stato sostituito da quello del demos, sono accomunati dalla paura di essere numericamente schiacciati da una maggioranza etnicamente diversa, che metterebbe a repentaglio la stabilità del modello socio-amministrativo etnocratico che hanno messo in piedi per tutelare i propri interessi collettivi. Solo in Sudafrica e negli stati confederati statunitensi questa paura si è tradotta in specifiche misure di vera e propria segregazione etnica, ma il potenziale per una deriva analoga sono presenti in tutte queste realtà e, paradossalmente, proprio in virtù del richiamo ai diritti inviolabili dei popoli, tra i quali quello all’integrità e l’autenticità, estensione del discorso dei diritti naturali. Questo tipo di interpretazione comunitarista dei diritti naturali in pratica giustifica una serie di interferenze o violazioni della sfera privata nella misura in cui questo possa portare dei benefici ai gruppi in questione. Tuttavia se ogni diritto comporta un dovere, come si può assegnare alcun tipo di responsabilità ad un gruppo per la condotta dei suoi membri? Nessun sistema penale avanzato lo potrebbe prendere nella pur minima considerazione. Giungiamo così al pericoloso paradosso che le persone hanno maggiori diritti se sono etnicamente definite senza che ciò comporti maggiori responsabilità verso l’esterno, ma piuttosto un esubero di doveri collettivi (verso il gruppo stesso), a discapito della creatività, del diritto al dissenso e, nel complesso, del progresso civile e morale. Questo è un paradosso intrinseco al rapporto tra democrazia e diritti umani. Infatti la democrazia non è di per sé favorevole alla tutela e promozione dei diritti umani in ogni circostanza. Al contrario, la Storia insegna che “il popolo”, usando discrezionalmente i poteri dello Stato, non ha perso molte occasioni per imporre la sua volontà a chi non ne faceva parte, etichettato come inferiore o nocivo. Dunque, come raccomanda Jack Donnelly, uno dei massimi studiosi mondiali di diritti umani e relazioni internazionali, “gli attivisti per i diritti umani devono essere almeno tanto diffidenti del popolo quanto lo sono degli Stati e nel contempo devono servirsi dello Stato per proteggersi dalle passioni popolari e dai pregiudizi” (Donnelly, 1999: p. 403). L’unico modo per riuscirvi è trasformare lo Stato “da uno strumento nelle mani di un gruppo dominante – e non solo quando si tratta di una piccola aristocrazia ereditaria, un potente gruppo di capitalisti plutocrati, l’esercito, o un partito totalitario, ma anche quando è la maggioranza di una società ad essere politicamente dominante – ad un guardiano dei diritti umani di ogni cittadino” (ibid. p. 404).
Cerchiamo di capire meglio come questo paradosso fondamentale prese forma nel Sudafrica del secondo dopoguerra, dove per popolo s’intendeva la minoranza bianca. Il Partito Nazionale (che rappresentava i nazionalisti Afrikaner) salì al potere nel 1948 e s’incaricò di istituire il cosiddetto “apartheid”. L’idea di questo modello di struttura organizzativa era nata negli anni Trenta, quando i leader afrikaner proclamarono che la visione del mondo del loro popolo non si poteva conciliare con i principi del liberalismo occidentale e con il suo laicismo e si riconobbero sempre più in certi valori comunitaristi promossi dal fascismo e poi dal nazismo[1]. Il futuro dell’Afrikanerdom doveva essere all’insegna della purezza etnico-razziale, dell’autenticità della tradizione e della lingua, della difesa dei valori cristiani e, più in generale, della strenua difesa di società e cultura contro la loro progressiva americanizzazione. Insomma l’apartheid non va ridotto solo ad una mera questione razziale, vi era anche il netto rifiuto del modello economico e sociale anglo-americano e della lingua inglese che stava diventando egemone e contaminava l’afrikaans. Il principio cardine dell’apartheid, come suggerisce il suo nome – un neologismo che significa “separatezza” – era una nozione dogmatica di divisione e distanziamento culturale e sociale che trovava la sua fonte di legittimazione nell’ideologia nazionalista e nel neo-Calvinismo del teologo e politico olandese Abraham Kuyper (1837-1920). Specialmente nella “teoria delle sfere di sovranità” (souvereiniteit in eigen kring in olandese, soewereiniteit in eie kring in afrikaans), secondo cui potere ed autorità sono stati assegnati ai popoli da Dio per tramite del Cristo, in modo tale da essere distribuiti equamente tra le varie sfere, o istituzioni, dell’esistenza umana, ognuna di pari dignità rispetto alle altre, sovrana su se stessa ed indipendente dalle altre (Norval, 1996). Da qui nasce il principio dell’uguaglianza – formale, non certo sostanziale –, tra la cultura bianca, quella nera e quella delle altre minoranze, che andavano separate per preservarne i tratti caratteristici e permetterne un’evoluzione “libera” e distinta, nei tempi e nei modi più idonei a ciascuna sfera o dominio (eiesoortigheid, “propriezza”). Il contenuto delle sfere non doveva essere diluito o contaminato, ma rispettato e valorizzato, perchè l’elezione divina coincideva con quella culturale (Templin, 1984; Thompson, 1985). Anche in Sud Africa, come in Israele e in Alto Adige, ritroviamo quindi il motivo dell’Alleanza con Dio che garantisce al Popolo Eletto il diritto di insediamento su una Terra Promessa (Sion) e lo protegge dai suoi nemici interni ed esterni. Ritroviamo la dottrina della separazione tra uguali, dove alcuni gruppi sono più uguali degli altri e a ciascuno è assegnato un destino esclusivo (Johnson, 1983). Inoltre vanno segnalate la creazione di un sistema scolastico separato, l’uso obbligatorio della madrelingua nelle scuole e la rimozione degli scolari Afrikaners dalle scuole inglesi (Louw, 2004). È piuttosto ironico, ma anche emblematico di un certo modo di pensare i rapporti tra gruppi umani, che l’apartheid fosse stato concepito dai suoi promotori come l’espressione di una politica umanitaria, che ripudiava la società castale precedente. Una separazione verticale era infatti preferibile ad una separazione orizzontale. Il sistema castale generava amarezza, frustrazione, risentimento ed avrebbe finito per causare scontri interrazziali. Invece in questo modo i neri si vedevano riconosciuto il diritto di sviluppare la propria specifica identità politico-culturale, evitando così l’approccio assimilatorio, considerato troppo paternalistico (Louw, 2005). Per questo non mancavano ipocrite affermazioni di solidarietà interrazziali con i Bantù, le cui sofferenze sotto il giogo coloniale erano poste sullo stesso piano delle inquietudini prodotte dalle pressioni globalizzanti in seno alla società bianca sudafricana. Così teorici dell’apartheid quali Diederichs, Cronje e Du Plessis denunciavano il capitalismo sfrenato ed il cosmopolitismo liberale che avrebbero portato all’estinzione la ricca diversità etnica sudafricana sostituendola con una scialba uniformità culturale (Louw, op. cit.). J.B.M Hertzog, generale e poi primo ministro dell’Unione del Sudafrica, dichiarò che “il dovere del nativo non è quello di diventare un europeo nero, ma di diventare un nativo migliore, con ideali e con una cultura che siano i suoi” (Dubow, 1989). In realtà, naturalmente, il vero motivo non era quello di rispettare gli usi e costumi altrui, ma quello di evitare un’impura mescolanza etno-razziale (mengelmoes) e conservare il potere politico e l’egemonia socio-culturale.Altrimenti non si capisce perchè questo intervento radicale di ingegneria sociale avrebbe dovuto separare i gruppi etnici anche negli hotel, nei ristoranti, negli ospedali, sulle spiagge, nelle associazioni sportive e culturali, nei treni, ecc. e proibire i matrimoni interrazziali (inclusi quelli con le minoranze indiane e cinesi). Dietro la retorica dell’incompatibilità culturale e della deleteria ibridazione si celava il consueto tentativo di puntellare ideologicamente un sistema di potere delegittimato. L’imperativo della protezione della propria identità rendeva necessaria l’adozione di misure per rafforzare la coscienza etnica. Tra queste c’erano un sistema corporativo di stampo populista (Volkskapitalisme) e la celebrazione rituale del Great Trek dei Voortrekker boeri con la rievocazione storica in costume della migrazione dei pionieri e l’esaltazione degli eroi del passato. I paralleli con la realtà sudtirolese sono numerosi: l’esaltazione delle virtù contadine, la lotta contro la modernità globalizzante, la ricerca dell’autarchia, lo spirito indipendentista, un’intensa religiosità, la guerriglia per bande contro gli invasori guidati da generali “barboni”, l’etnopopulismo ed il patriottismo localista.
Quel che è interessante rilevare è che mentre in Sudafrica questo modello di monoculturalismo plurale portò all’apartheid, in Olanda lo stesso principio organizzativo, ma spogliato di qualunque componente razziale, si manifestò nella forma del verzuiling, o “pluralismo verticale”. Tra gli anni Venti e gli anni Sessanta la società olandese, per consentire alla popolazione di continuare a vivere nelle proprie comunità chiuse a dispetto dell’avanzare della globalizzazione, fu spezzettata in quattro diversi blocchi verticali, o pilastri (zuilen), ciascuno con la propria ideologia di riferimento (socialismo, calvinismo, cattolicesimo, liberalismo, ecc.) e collegati solo dall’intreccio delle rispettive elite e dalla volontà di raggiungere una serie di compromessi per il bene della nazione. In questo modo ogni cittadino poteva vivere in un mondo familiare, ordinario, omogeneo, fatto di banche, mezzi d’informazione, sindacati, partiti, scuole, ospedali, biblioteche, università, associazioni sportive e culturali, bar e chiese ideologicamente corretti e congrui (Wintle 1987). Il motto era “vivere separati ma assieme”, su base egalitaria. Di conseguenza i membri di un pilastro (zuil) non avevano necessità di incontrare i membri degli altri pilastri. Questa auto-segregazione, ufficialmente giustificata dal bisogno di trovare un accordo di massima tra persone di mentalità diversa, servì ad accrescere le distanze sociali tra gruppi di cittadini proprio quando le specificità culturali s’indebolivano a causa della loro prossimità fisica. Nella piena certezza della giustezza delle proprie idee e della erroneità di quelle altrui, si preferì evitare un confronto diretto piuttosto che vedere nel disaccordo e nel contrasto risorse da mettere a frutto per il progresso del paese (Wintle, 2000). Solo la spinta libertaria della fine degli anni Sessanta, che in Olanda non si è ancora fermata, riuscì ad abbattere questo sistema coercitivo, che trova paralleli in società notoriamente instabili ed autoritarie come il Libano, la Malesia, Mauritius, le Figi, l’Irlanda del Nord e Cipro. Ma la nozione stessa di una segmentazione sociale non è morta nei Paesi Bassi. Ancora oggi le etnie minoritarie immigrate sono state inquadrate in un modello multiculturalista molto simile a quello del verzuiling, come se questo fosse l’unico modo di evitare seri conflitti sociali. In realtà anche in passato la segregazione ha funzionato, almeno in parte, solo per una serie di circostanze eccezionali: (a) l’assenza del feudalesimo e quindi il precoce emergere di una società aperta ed egalitaria ostile ad comunità gerarchizzate; (b) un costante, secolare flusso di immigrati; (c) comunità di fedeli di dimensioni comparabili; (d) la tradizionale cooperazione tra le elite; (e) l’emigrazione di un’ampia sezione della popolazione più fondamentalista verso il Michigan ed il Sudafrica; (f) un’economia tradizionalmente fondata su di un intenso commercio marittimo (Pettigrew & Meertens 2003). In seguito i processi di laicizzazione, individuazione e mondializzazione hanno eroso il consenso attorno a questo modello sociale e oggi è finalmente possibile affermare che la celebre tolleranza olandese è stata raggiunta non grazie a, ma nonostante il verzuiling (Pettigrew & Meertens, op. cit.).
Se riesaminiamo quanto detto possiamo notare che in queste società l’interculturalità non era intesa come un valore e che l’enfasi sull’unità nella diversità genera un collage di comunità autoperpetuantesi e per quanto possibile indifferenti le une rispetto alle altre, invece che una società nel senso proprio del termine – un insieme organizzato di individui associati. Notiamo anche che sebbene questo approccio sia in grado di limitare temporaneamente il ricorso alla violenza da parte dei cittadini e dello stato, le tensioni rimangono, e non sono sempre latenti. Se a ciò aggiungiamo il carattere coercitivo nei confronti delle libere scelte individuali, siamo costretti a concludere che questo modello dovrebbe avere un’applicazione limitata nel tempo e nella portata. L’alternativa ad un Giardino di Rose (Stato Razziale) o ad uno zoo di gabbie separate (etnocrazia) è un parco botanico come quello di Castel Trauttmansdorff (democrazia liberale) che riunisce la flora locale e quella di tutto il mondo, realizzando un’integrazione di ibridazioni, non discriminatoria e non intimorita dalle eventuali contaminazioni. Questa è la direzione intrapresa, non senza tentennamenti e difficoltà, dalla Repubblica di Mauritius, ma anche dalla maggior parte dei paesi del Nord Europa e Nord America. Vi si parlano diverse lingue ed è nata una lingua franca creola, si celebrano capodanni e feste religiose assieme, si convive, invece di esistere separatamente. E tutto questo in un paese dove il discorso ufficiale, nella politica come nell’educazione, è stato per lungo tempo primordialista, l’ibridità era vista come una piaga sociale e ci sono casi di politici che, come Langer, hanno rifiutato pubblicamente l’obbligo di identificarsi con un gruppo etnico specifico. La società civile mauriziana ha, in buona parte, ignorato le pretese di politici ed imprenditori etnici (ossia chi ha interesse a sottolineare differenze e separazioni) per amor del quieto vivere. Almeno in questo, e forse non solo in questo, Mauritius è più progredita e civile dell’Alto Adige, a dispetto dell’enorme divario nelle risorse, infrastrutture, alfabetizzazione e sostegno internazionale. Immagino sia questo il cammino da percorrere, quello che conduce ad un luogo dell’anima dove la storia e la cultura del mio prossimo sono anche parte della mia identità, eterogenea, sovrabbondante, plurale di chi non è più uno, non è più una monade, ma più di uno; è eccedente, è poroso, espansivo, comprensivo, senza nel contempo perdere di vista il suo giroscopio interiore, la sua bussola morale, ossia senza abiurare la sua individualità. Dove la mia gente è la gente che considero tale, a prescindere dalle classificazioni ufficiali. La destinazione è il luogo dell’incredibile simmetria, la palintonos harmonia, l’armonia degli opposti eraclitea, dove tutto quel che dissolve unisce, tutto quel che distanzia e separa ricongiunge.
Tenuto conto del fatto che le identità forti sono la conseguenza e non la causa dei conflitti, l’unico modello praticabile è quello di una società aperta, libera da tabù, tribalismi e vincoli imposti dall’alto, dove le scelte sono consapevoli e critiche (Amselle, 2001). Quante speranze ci sono che ciò avvenga? Poche, molto poche, almeno nel breve periodo. In ogni caso, bisognerebbe quantomeno evitare di commettere lo stesso errore dell’Impero Austro-Ungarico che, nell’intento di censire i suoi sudditi su base etnica, finì per indebolire il sentimento di comune appartenenza ad un organismo sovranazionale e potenziò le spinte centrifughe e le dispute tra le varie nazionalità, collassando infine sotto il peso di egoismi e rivendicazioni localistiche più o meno giustificate (Zeman, 1990). Secondo me l’attuale modello autonomista rischia di perpetuare quest’irragionevole contrapposizione tra localismo ed universalismo. Lo smarrimento identitario altoatesino avrebbe potuto essere un terreno fertile per una politica interculturale favorevole alle contaminazioni di idee e stili di vita. Invece gli studi periodici dell’Istituto provinciale di statistica di Bolzano confermano che per i giovani altoatesini i confini etnici rimangono poco permeabili e circa un terzo di loro (con picchi prossimi al 50% tra quelli di lingua italiana)non è soddisfatto dell’attuale modello di convivenza etnica. Ancora fino a pochi anni fa gli Altoatesini di lingua italiana ponevano quelli di lingua tedesca sui gradini più bassi nella scala delle preferenze, dopo Cinesi ed Africani e prima di Tirolesi, Albanesi e Zingari (Kohr et al. 1994; Buzzi et al., 2004). Nell’elaborare il presente modello autonomistico si è pensato che siccome il bersaglio di violenze ed abusi sono spesso i “gruppi umani” allora sono questi che vanno tutelati e risarciti, come se la volontà individuale costituisse una presenza disturbatrice. Ad una violenza semplificatrice della complessità del reale si è opposta una giustizia parimenti semplificatrice ed arbitraria che ha mortificato la libertà di scelta dei singoli, costretti ad auto-amputare la propria identità plurale. A livello politico, poi, questo stato di cose è stato riaffermato da un moralismo manicheo imperniato sull’eroica lotta contro l’oppressore, sia esso di etnia “tedesca” o “italiana”. Proporzionali e censimenti etnici possono funzionare per un paio di generazioni al massimo, quando gli umori della popolazione sono orientati allo scontro. Poi diventano inevitabilmente parte del problema, in quanto mantengono i conflitti latenti, invece di sanarli. La proporzionale etnica tende a spersonalizzare gli individui e stereotipizzare i gruppi e, quando a ciò si aggiunge la competizione per le risorse, le tensioni che ne derivano innescano un meccanismo di identificazione automatica dell’individuo con il suo gruppo di riferimento che sopprime le discrepanze tra identità personale ed identità collettiva. In altre parole nessuna vera riconciliazione è possibile in una democrazia su base etnica. Essa non è casa per nessuno, è cronicamente instabile e giace su un pendio che conduce al baratro della distopia e dello scontro interetnico. Gli esempi che possono servire a minare il dogma dell’etnocrazia sudtirolese sono innumerevoli: Israele, Cipro e Yugoslavia, Myanmar, Malesia, Sri Lanka, Québec, Fiji, Rwanda, Cambogia, Estonia e Slovacchia, oltre ad un eventuale Iraq etnicamente tripartito. Per quanto tempo ancora continueremo ad illuderci? Questo tipo di democrazia etnocratica rimane in vita solo perché una maggioranza di cittadini ha paura di quel che avverrebbe con la sua scomparsa e perché si identifica così fortemente con la patria che qualunque critica all’ideologia dominante nella sua patria è vista come un attacco personale. Erich Fromm aveva già notato che chi criticava la Germania durante il nazismo spingeva sempre più tra le braccia di Hitler anche quei Tedeschi in disaccordo con lui. Questo è il risultato di quel morbo che è il patriottismo, l’assudditarsi del devoto ad un idolo.
[1] Anche se solo una minoranza simpatizzò per Hitler.
Essere liberi di scegliere la propria fede, la propria visione del mondo, indirizzo politico e concezione filosofica, di esprimerle e metterle in pratica pubblicamente, è oggi forse uno dei pochi valori riconosciuti come tali da quasi tutti i movimenti. Nasce anche da questa pluralità, innegabilmente feconda, l’incontro, il dialogo, che si espande alla dialettica e che spesso conduce ad una sintesi, a partire dalle iniziali contrapposizioni.
Alex Langer, Pluralismus und Einheit 1 aprile 1965. Da: skolast Nr. 4-5
In cosa consiste tuttavia la libertà di cui godono le genti di questa aristocrazia guerriera? Non si tratta assolutamente d’una libertà coincidente con l’indipendenza e neppure della libertà attraverso la quale si rispettano gli altri. La libertà di cui usufruiscono i guerrieri germanici è essenzialmente la libertà dell’egoismo, dell’avidità. Coincide con il gusto della battaglia, col gusto della conquista e della rapina. La libertà di questi guerrieri non è quella che procede dalla tolleranza e dall’uguaglianza, ma è una libertà che può essere esercitata solo attraverso la dominazione. Ciò significa che essa, lungi dall’essere una libertà che nasce dal rispetto, è una libertà della ferocia. (…) la libertà sarà equivalente a una ferocia che è gusto del potere e avidità determinata; incapacità di servire e desiderio sempre pronto ad assoggettare.
Michel Foucault, “Difendere la società” (sulla visione politica di Nietzsche), pp. 101-102
Il male è, e resta, ciò che tu sai che non dovresti fare. Ma per disgrazia l’uomo, a questo proposito, si sopravvaluta: crede di essere libero di scegliere il bene o il male…in realtà, considerando la grandezza di questi opposti, è troppo piccolo e impotente per scegliere l’uno o l’altro volontariamente e in qualsiasi circostanza.
Carl Jung a Erich Neumann (1957), cf. Erich Neumann, “Psicologia del profondo e nuova etica”, p. 133
Altiero Spinelli descriveva la sua visione della libertà in questi termini: “non è riuscito a trovare alla libertà nessun’altra base più solida della forza con cui chi ha da realizzare qualcosa si mette all’opera e non si fa sopraffare dagli altri. Non ama la libertà degli altri in virtù di un astratto ideale di libertà. Chi vuol fare una cosa tende a calpestare gli altri” (Graglia 2008, p. 140).
Questa, a mio parere, è una falsa idea di libertà, è la libertà del forte di prevalere sul debole, di far trionfare la sua volontà, sempre e comunque, è la libertà dell’anarchismo di destra, del pensiero libertario della frontiera americana. Si è più liberi quante più persone si relegano sotto di noi. Lo stesso Piero Graglia, che pure è un biografo particolarmente generoso nei suoi confronti, concede: “Può sorgere naturale il dubbio, fondato, che Spinelli in fin dei conti nutra un malcelato disprezzo per la pratica democratica e per il sistema rappresentativo” (Graglia, 1993, p. 55).
Questa è un’idea di libertà diversa da quella di Spinelli e, sempre a mio avviso, più consona ad una democrazia matura.
La libertà pone al centro l’individuo come principio e come valore. È uno dei capisaldi del pensiero umanista. “Ti determinerai la tua natura secondo il tuo arbitrio”, scrive Giovanni Pico della Mirandola nell’orazione “De hominis digitate” (1486). “Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa” confermerà Cesare Beccaria, tre secoli più tardi, nel 1764. Infine, nella sua stesura preliminare, l’articolo terzo della Costituzione della Repubblica, ingiungeva: “È compito perciò della società e dello Stato eliminare gli ostacoli di ordine economico-sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza degli individui, impediscono il raggiungimento della piena dignità della persona umana e il completo sviluppo fisico, economico, culturale e spirituale di essa”.
La libertà è lo svincolamento da forze e circostanze che oggettificano l’umano, che impongono ad una persona la passività e prevedibilità della materia grezza. Gli oggetti hanno cause, i soggetti hanno motivazioni e ragioni complesse e anche contraddittorie.
Il filosofo russo Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev considerava la libertà un valore aristocratico: “In realtà, la libertà è aristocratica, non democratica. Dobbiamo riconoscere, sconfortati, che la libertà è cara solo a chi pensa creativamente. Non è necessaria per chi non dà valore al pensiero. Nelle cosiddette democrazie, che si fondano sul principio della sovranità popolare, una proporzione considerevole della cittadinanza non possiede ancora la consapevolezza di essere libera, di recare con sé la dignità della libertà” (“Regno dello Spirito e Regno di Cesare”, 1951).
È difficile dargli torto. È probabile che tante persone che non si curano della libertà di pensiero, di opinione, di associazione e di stampa lo facciano non tanto perché temono il carico di responsabilità implicito in ogni libertà o perché sentono la necessità di una tutela paternalistica, ma perché non sanno cosa farsene, non ne vedono l’utilità, perché non hanno nulla di significativo da esprimere e non prestano molta attenzione a ciò che altri potrebbero dire. È un peccato, perché ciascuno di noi è libero solo se si cura di proteggere la libertà altrui e questa libertà, una volta persa, non la si riguadagna facilmente. La storia ne è testimone.
Il libero arbitrio e la libertà d’espressione sono diritti inalienabili perché sono il prodotto della conoscenza di cui disponiamo e costituiscono una forma di libertà spirituale, la libertà di non essere governati da menti altrui. Ogni individuo dovrebbe idealmente godere della medesima libertà interiore e personale. La libertà interiore comprende la dimensione intellettuale e spirituale della vita umana, cioè l’autodeterminazione etica degli esseri umani, la loro capacità di assumersi la responsabilità delle proprie parole, azioni ed esistenze.
Cosa sarebbe l’essere umano senza libertà creativa e realizzativa? Un automa, uno strumento. Lo sviluppo dell’immaginazione è accrescimento di vita, mentre la sua limitazione è una riduzione di vita, un impulso di morte. La libertà è la dimensione di apertura illimitata che consente all’essere umano di trascendere la finitezza. È una condizione d’esistenza indispensabile allo sviluppo della psiche e della coscienza. Essere libero, libero di essere onesto con me stesso, di pensare senza dovermi chiedere ogni volta cosa gli altri penseranno di me, di vivere pienamente ed abbondantemente.
Non c’è umanità senza libertà di scegliere, non esiste morale e maturazione spirituale se una persona non può essere libera di compiere il male. Quella persona sarebbe un’arancia meccanica, un congegno, non un essere vivente. Per questo nei campi di sterminio il suicidio e lo sciopero della fame erano proibiti e severamente puniti, anche se acceleravano la morte dei detenuti. Ogni atto di autodeterminazione era bandito.
Tutto ciò che penso, che dico, che faccio, ha un significato ed ha un valore perché sono libero. Solo in questa condizione di libertà la mia vita, i miei pensieri, le mie decisioni, i miei sentimenti sono realmente miei. Diversamente, sarei una marionetta. Solo un essere umano traumatizzato sarebbe disposto a rinunciare volontariamente alla libertà. Di norma, chi la sacrifica, ne sacrifica solo una parte, perché non sa cosa farsene dell’altra. Che cosa me ne faccio della libertà di parola se non ho niente da dire?
Ma la libertà è un bene troppo prezioso per essere sacrificato a qualunque astrazione di ordine inferiore. Chi la libertà l’ha persa, come Viktor Frankl, sopravvissuto all’Olocausto, rammenta che la lezione più importante che ne trasse fu che l’uomo ha sempre una scelta: o un’incrollabile, socratica saldezza d’animo, o la sottomissione ad un potere che intende spogliarti della dignità e dell’indipendenza interiore, trasformandoti in un oggetto in balia delle circostanze.
Per essere effettiva, la libertà esige di poter agire in base alla consapevolezza delle alternative reali e delle loro conseguenze. Per diventare realmente consapevoli è indispensabile poter operare in una società dove le informazioni circolino liberamente e dove tutte le idee possano essere dibattute.
Non si dovrebbe avere paura di questa libertà, che include anche la libertà di non rispettare le idee altrui (pur rispettando l’interlocutore), di canzonare e di rappresentare un inconveniente per le opinioni altrui.
Un principio cardine della costituzione come la libertà d’espressione non può essere fatto valere in certi casi ed ignorato in altri, anche perché una parola è una parola e non serve dare alle parole più peso di quel che meritano. Non siamo automi che rispondono meccanicamente a sollecitazioni verbali e le nostre personali credenze non sono tutelate da alcun diritto inviolabile a non essere messe in discussione, con tutto il tatto ed il senso di responsabilità necessari. Sono le parole o gli atti che distruggono le persone e le cose? Un effetto indiretto è moralmente equivalente ad un effetto diretto?
Le parole esercitano un’influenza sulle persone solo se queste decidono che così dev’essere, perché attribuiscono credibilità ed autorevolezza a chi le pronuncia e perché vogliono o temono che il messaggio sia vero. Le parole hanno potere solo se chi le ascolta o legge glielo conferisce. Altrimenti sono solo vibrazioni nell’aria. Dunque attribuire uno speciale potere alle parole è una semplice credenza che ciascuno può respingere coscientemente. Se certe parole ci irritano la responsabilità è nostra, perché lasciamo che ciò avvenga. Possiamo forse plasmare il prossimo in modo da costringerlo ad essere più sensibile? Sarebbe giusto? È sbagliato cercare di controllare gli altri, è una forma di manipolazione tanto deprecabile quanto l’uso di parole al fine di ferire la sensibilità altrui. E siccome non è giusto controllare gli altri, finché questi non cercano di controllarci, non è nemmeno giusto censurare gli altri.
Senza la libertà di dire qualcosa di sconveniente non c’è libertà. Se le mie azioni sono giudicate in base alla sconvenienza, potrò fare solo quello che gli altri mi consentono graziosamente di fare e, poiché moltissimi sono suscettibili e permalosi, ciò decreterebbe la morte della libertà.
Le società democratiche sono conflittuali perché sono formate da esseri umani con punti di vista anche molto diversi riguardo alla realtà, ciascuno convinto che il suo sia più corretto. Nessuno di noi è consapevole dell’intera estensione delle sue credenze e convinzioni e ancor meno di quanto unica e peculiare sia la sua percezione della realtà.
La libertà di espressione consente a superstizioni, preconcetti e pregiudizi di essere vagliati, separati e respinti dal maggior numero possibile di persone, che potranno invece avvalersi delle idee originali e promettenti. È quindi nel nostro stesso interesse rispettare la libertà del nostro prossimo di dire la sua, anche quando ci infastidisce, ci sciocca, c’indigna, ci oltraggia, ci disgusta, ci ferisce. Solo difendendo la libertà altrui posso continuare a difendere la mia, anche se questa libertà sarà da loro impiegata per ridursi in un angolo, per scegliere di condurre una vita convenzionale, di rinunciare ad esercitare i propri diritti, di consegnarsi a rapporti vincolanti, affiliazioni soffocanti, appartenenze totalizzanti. Se la ricerca della verità e dell’autenticità li conduce in quei paraggi, allora hanno la prerogativa di comportarsi di conseguenza senza che una tutela paternalistica li inibisca, senza trattarli come degli infanti plagiabili, plasmabili, eternamente sprovveduti, inculcando in loro il sospetto di esserlo veramente anche quando si tratta di una mera divergenza d’opinioni.
Soprattutto, nessuno osi censurare il prossimo per il mero fatto di essersi permesso di esprimere un punto di vista differente. La casa comune dell’umanità che verrà, dovrà essere tollerante. Se noi stessi decretiamo che un diritto universale non è più universale, ma vale solo quando ci pare a noi, la nostra credibilità ed autorevolezza saranno compromesse, la forza di quel principio sarà compromessa, la possibilità di tutelare le persone vulnerabili in nome di quello stesso principio sarà compromessa.
Se la nostra casa comune avrà timore di idee diverse, allora non avrà un futuro. Un soffio e il castello di carte cadrà.
La libertà che conta è quella da forze e circostanze che trasformano l’uomo in una cosa e la sua vita interiore in un processo meccanico, automatico, prevedibile, inerziale, come la materia stessa. Se la libertà è come un volo, allora più si mozzano le ali delle persone per circoscriverla, più basso ed incerto sarà il volo dell’intera comunità.
Non si può essere sicuri, nel volo. La libertà non è rassicurante, non dà garanzie, ma è l’unico modo che ci è dato di essere autentici (di non limitarci ad essere ciò che gli altri hanno stabilito per noi) e di diventare più vivi (gioia di vivere, abbondanza dell’esistere) e consapevoli; come il prigioniero rilasciato nella parabola della caverna di Platone. A quel punto la sicurezza che si acquista sarà più stabile, più affidabile, ma mai completa.
AUTONOMIA
L’autonomia, o autogoverno, è la libertà calata in un contesto sociale complesso.
Significa vivere la propria vita, agire in base al proprio giudizio, assumere liberamente degli impegni, rispettare delle convenzioni nella consapevolezza che non sono nulla più che convenzioni, far emergere il meglio di sé a beneficio della proprio comunità. Comporta un distanziamento, un distacco dagli altri, una condizione che è raramente possibile per gli altri esseri viventi di questo pianeta. Comporta anche dei rischi, perché solo un essere autonomo si può assumere delle responsabilità e quindi andare incontro alle conseguenze delle sue azioni senza poter dare la colpa a nessun altro.
Ma, nell’autonomia, io conto, le mie decisioni possono fare la differenza, perché sono mie; non sono trascurabile, la mia volontà ha un peso. Mi si devono delle spiegazioni, posso esprimere il mio parere, posso contestare quello altrui, ho diritto di poter ascoltare il parere altrui, di prendere parte alla vita della comunità. In questo risiede la mia dignità, nel fatto che sono imprevedibile perfino a me stesso, sono solo parzialmente determinato dal mio corredo genetico e dal mio ambiente socio-culturale, c’è qualcosa in me che è unico e che è in larga misura inespresso. Sono un progetto, un lavoro in corso, posso e debbo riflettere su chi sono, da dove vengo e su dove voglio andare. Posso scegliere, mi creo e ricreo ogni giorno e non sono un prodotto, un manufatto, una merce, un burattino, un automa. Posso trovare il coraggio di essere me stesso, di vivere consapevolmente e sento che questo enorme beneficio vale per tutti gli altri, che vivrei meglio in una comunità in cui tutti potessero farlo, senza violare l’altrui diritto di poterlo fare. Una comunità di persone libere e responsabili che si sforzano di consentire agli altri di essere nelle condizioni di poter esprimere e migliorare se stesse, di non nascondersi a se stesse ed agli altri, di cambiare, di desistere e ricominciare da capo.
Non sono la proprietà di nessun altro, neppure della mia comunità, di una casta, della società o dello Stato. Nessuno mi può trattare come un bambino o un animale domestico se sono un adulto e mi comporto come tale. Ci sono dei confini che non devono essere violati, ho/abbiamo dei diritti inalienabili che mi/ci permettono di procedere nell’elaborazione del progetto di me stesso, assieme agli altri, coralmente. Mi pongo al servizio del prossimo ma non sono a disposizione degli altri per qualunque cosa, eccezion fatta per le persone che amo e anche lì con dei distinguo.
Devo poter vivere a modo mio anche se le mie scelte sono impopolari e magari persino considerate aberranti (es. poligamia, se contratta liberamente, oppure il neofascismo, se non passa ai fatti), purché non leda il diritto altrui di fare lo stesso e non danneggi il mio prossimo (non certo la sua sensibilità, che è un arbitrio e come tale non merita rispetto a prescindere dalle circostanze e dalla persona).
Lo scopo non è quello di vivere al massimo ma di vivere più onestamente – non come la brutta copia di qualcun altro – e, se possibile, più abbondantemente (cf. il film “Quasi Amici”). Non è solo scegliere un’opzione tra le tante, ma meditare un’azione che si intende compiere, una direzione che si sta pensando di imboccare, vagliare, soppesare, avere il tempo e le possibilità di farlo (cf. il film “Marigold Hotel”).
Ciò è possibile perché io ho la capacità di trascendere i miei peggiori impulsi e le mie abitudine più meschine ed intendo sforzarmi di farlo, pur essendo cosciente, con Paolo di Tarso che “In me c’è il desiderio del bene, ma non c’è la capacità di compierlo. Infatti io non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio” (Romani 7,18-19).
La libertà individuale, con annessa responsabilità personale, a volte ci sembra una zavorra. È più facile delegare le decisioni ad altri ed accusarli di aver sbagliato, se commettono degli errori. È ancora più facile distribuire la responsabilità tra i membri di un’intera comunità, enfatizzando la libertà collettiva e i narcisismi collettivi: “mal comune mezzo gaudio, e comunque tutte queste persone non possono aver torto” (chissà quanti Tedeschi l’hanno pensato o detto durante il nazismo!).
L’idea moderna di autonomia, però, è incentrata sul principio dell’importanza di assumere, almeno in una certa misura, il controllo delle proprie esistenze, coralmente, invece di vivere alla mercé degli agenti esterni, in un infantilismo protratto.
L’idea moderna di autonomia presuppone l’autodeterminazione personale (libertà) in una cornice di autodeterminazione comunitaria (responsabilità).
L’una non esclude l’altra: sono complementari.
Un cittadino adulto, maturo, non ripudia la sua autonomia di giudizio e si batte per espandere questo suo diritto inalienabile (giacché non è un privilegio né una concessione), a partire dalla sua comunità, perché sa che essere circondato da persone consapevoli, libere e responsabili, che sanno decidere in coscienza, va a tutto vantaggio suo e del bene comune. In questo senso la democrazia autonomista, nella sua tensione ideale, prova, per quanto è possibile, a realizzare (inverare) l’ideale delle prime comunità cristiane: la piena autonomia delle personalità nell’unità di un destino comune. Questo ideale, a sua volta, in un circolo virtuoso, si fa spontaneo promotore delle virtù dell’autonomia: la tolleranza (non paternalistica), il dialogo, l’apertura, l’autodisciplina e la disponibilità all’autocritica ed al cambiamento.
Riguardo a quest’ultimo aspetto, non dobbiamo commettere l’errore di ricadere in quello che chiamo “autonomismo tassidermico”, ossia la tendenza a fissare le identità come quando s’impaglia un animale, a bloccare il cambiamento, come i serpenti che cambiano pelle ma rimangono sempre gli stessi. Quella è la strada della morte dell’autonomismo e delle sue istituzioni, che diventano dei morti-viventi che pretendono devozione ed asservimento a beneficio della loro auto-perpetuazione, invece di porsi al servizio dei cittadini, come sarebbero tenute a fare (è quella la loro ragion d’essere).
L’autonomia, l’autonomismo, le comunità autonome, devono poter cambiare nel tempo, come cambiano gli esseri umani, altrimenti diventano ingabbiatori e vampiri, annichilitori della ragione e dignità umana. Un autonomismo etnicamente connaturato, per quanto si sforzi di passare per una crociata in favore dei più deboli, è informato dal principio del diritto del più forte di prevalere, sempre e comunque, ed infantilizza invece di avviare alla maturità. Infatti, nessuno mi può definire, solo io posso assumermi la responsabilità di stabilire chi sono e come gestire questa mia identità mutevole, eterogenea, sfuggente.
Social forecaster, horizon scanner
entrepreneur
Arts and Culture reporter for "Trentino" & "Alto Adige"
social media & community manager
professional translator
editor-in-chief of futurables.com
peer reviewer and contributor for Routledge, Palgrave Macmillan, University of British Columbia Press, IGI Global, Infobase Publishing, M.E. Sharpe, Congressional Quarterly Press, Greenwood Press.
Laurea in Political Science – University of Bologna (2000). Ph.D. in Social Anthropology – University of St. Andrews (2004).
Co-author of “Contro i miti etnici. Alla ricerca di un Alto Adige diverso” (2010)
https://medium.com/@stefano_fait