Padania e Baviera

Affinità e divergenze tra Padani e Bavaresi

di Gabriele Merlini

C’è una storiella fenomenale che torna ciclicamente sui media. Un po’ come l’elezione del cane più brutto del mondo o il cliccatissimo divorzio hollywoodiano. E spesso si presenta in relazione a congressi straordinari, plenarie o estemporanei spazi di confronto (dal monologo alla sfilata di elmi normanni –Nasalhelm in tedesco- quelli senza corna) della Lega Nord. Cioè raffrontare il cosiddetto Carroccio alla CSU bavarese, costola della CDU o Christlich Demokratische Union Deutschlands nazionale. Nonché -per estensione- il nord padano al sud della Germania. Vie d’approccio mediatiche differenti ma parimenti funzionali: una sembrerebbe essere il citare a rotazione qualche esponente promulgatore della idea di unire («confederare») la zona che dalla Bassa conduce a Bressanone quindi Svizzera, Baviera e il Baden-Württemberg (aree che senza dubbio non stanno nella pelle in vista dell’evento)

o rapportarle secondo i crismi di alta produttività, diffuso benessere e status scomodo di motore nazionale. E certo tutto pare pienamente lecito: discutibile che possa suonare, è una teoria. Però l’argomento risulta al tempo stesso scivoloso e tagliente poiché il distratto può pensare male ossia che la Lega (nelle proprie -ormai superate, sicuro- correnti: barbari sognanti e/o cerchio magico) abbia davvero profonde similitudini con la CSU bavarese. Da qui l’idea di un riassuntino/confronto in vista dell’aggiustamento reciproco.

Per dire. La Christlich-Soziale Union in Bayern è un partito tedesco che opera solo in Baviera, che sarebbe un Land della Germania, che sarebbe una repubblica federale. La Lega Nord è un partito italiano che nella norma può operare in qualsiasi regione d’Italia, che non è una repubblica federale.
La CSU bavarese è un partito conservatore dalle posizioni più conservatrici rispetto alla CDU nazionale. La Lega Nord è un partito chissà se più a destra o sinistra o alleato o avversario del Popolo della Libertà, che sarebbe il movimento con il quale ha governato lungamente.

La CSU ha governato in Baviera da quando è stata fondata, e da qui l’appellativo di «partito egemone». Furono esponenti della CSU tutti i primi ministri bavaresi dal cinquantasette a oggi (più dal quarantasei al cinquantaquattro) mentre la Lega ha alternato exploit notevoli a fiaschi tremendi e quando infila qualcuno su qualche scranno ci sta che sia pure rubricato alla voce lista civica.

«Rimodellare il Carroccio sul modello della CSU bavarese» è mantra frequente nei titoli del giornali e dovrebbe infondere un po’ di allegria allo spaesato elettore reduce da tempi complicati: i tedeschi offrono infatti solide garanzie di serietà e meglio accodarsi a loro che a sciagurati concittadini, no? Come e in che modo però rimane un mistero. Farsi un proprio parlamento (la Baviera di fatto ce l’ha)? Strada percorribile e già percorsa ma ahimè le targhe finte su palazzi altrui paiono riscuotere relativo successo. Mala tempora. Allora riguadagnare credibilità attraverso una costante opera di pulizia interna, muniti di scope decorate in verde? Ok tuttavia non prendete in questo caso come modello la CSU, scossa com’è da ricorrenti polemiche e accuse (ultime l’idea di rimettere in giro il Mein Kampf per prevenire una feroce diffusione allo scadere dei diritti, o la sparata del celebratissimo pluri-presidente Edmund Stoiber sulle sorti elettorali della nazione: «non posso accettare che sia di nuovo la Germania Est a decidere chi sarà il prossimo Cancelliere. Non si può permettere che della gente frustrata determini le sorti della Germania.» Eccetera.)

Avanti.

«Ad Assago elezioni plebiscitarie per il nuovo leader del Carroccio. Come modello la CSU bavarese» titola la Padania di lunedì due luglio. «Governatori e sindaci guerrieri il vero esercito padano, che guarda all’Europa dei popoli.»

Europa dei popoli capace di offrire qualche elemento di comunione ai due movimenti, seppure anche qui con talune differenze. Vale a dire sia la Lega che la CSU bavarese -o buona fetta di essa- hanno qualche problemino nei confronti dell’Euro e l’Unione e i popoli, con i primi che ci sparacchiano contro appena possono, mentre i secondi che si limitano a un approccio più soft suggerendo l’uscita di qualche stato membro, poi si vedrà (ultima cronologicamente la Grecia per bocca di Hans-Peter Friedrich: «Atene non ha soltanto un problema di liquidità ma anche problemi strutturali e di crescita. Per questo deve seriamente prendere in considerazione di uscire dall’euro.» Il tutto mentre da Berlino Angela Merkel sosteneva l’esatto opposto alla stampa estera.)
L’avere evitato il gesto dell’ombrello o il dito medio nella redazione dello Spiegel è segno di discontinuità della CSU bavarese con il movimento di via Bellerio. Ma c’è tempo per venirsi incontro.

Sorvolando infine sugli aspetti etici («la CSU è per una politica basata sulla responsabilità cristiana. A ciò si accompagna il rifiuto di progetti utopistici per il futuro» dal sito ufficiale) o religiosi, sebbene ad oggi poco spazio abbiano avuto nel cristianesimo caratterizzante la CSU le divinità fluviali, i soli delle Alpi e druidi. Ma anche qui c’è tempo per venirsi incontro. D’altronde se ne parla da pochissimo («D’Onofrio: facciamo come la CSU bavarese» sul Corriere della Sera, 7 febbraio 1998) e perché affrettarsi?

http://www.eastjournal.net/germania-affinita-e-divergenze-tra-il-compagno-padano-e-noi-cattolici-bavaresi/18891

*****

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/07/22/contro-i-miti-etnici-alla-ricerca-di-un-alto-adige-diverso-un-libro-preveggente/

Lucio Caracciolo, “L’Europa è finita?” (considerazioni di immenso buon senso sull’Europa, sull’Italia e su altro ancora)

Estratti da “L’Europa è finita?”, di Enrico Letta, Lucio Caracciolo. Torino : Add, 2010.

Lucio Caracciolo scrive:

18-19: L’Europa che vorrei dovrebbe essere anzitutto un grande spazio di democrazia, di libertà e di protezioni sociali nei limiti in cui demografia ed economia ce lo permetteranno. Sotto il profilo istituzionale, non penso a un’Ue-Stato. Vedo semmai diversi sottogruppi europei, alcuni più, altri meno integrati. I primi potrebbero sviluppare delle confederazioni europee, cioè degli Stati con diversi livelli di sovranità concordata, gli altri svilupperebbero l’integrazione attuale, approfondendone gli aspetti economici (per esempio riguardo alla mobilità della forza lavoro), a istituzioni politiche più o meno costanti.

20-21: Penso a una Confederazione europea nell’Unione europea, che comprenda i sei Paesi fondatori (Italia, Francia, Germania, Olanda, Lussemburgo e Belgio) più Spagna, Portogallo, Austria. Aggiungerei la Svizzera, se mai gli elvetici dovessero cambiare idea sull’Europa, cosa di cui dubito fortemente. Escludo quindi le isole britanniche, la cui storia si fonda sull’idea di impedire l’unità europea. Ed escludo anche nuovi o risorti Stati dell’Europa centrale e orientale, la cui priorità attuale non è l’integrazione comunitaria ma il consolidamento della recuperata sovranità nazionale. In termini diacronici, sono nazioni risorgimentali. Alcune delle quali ancora in cerca di confini stabili.

21-22: Alcuni popoli europei – penso ai catalani piuttosto che ai fiamminghi o agli scozzesi – usano l’Europa come grimaldello per emanciparsi, in prospettiva, dai rispettivi Stati (multi)nazionali, o almeno per conquistare autonomie sempre più accentuate.

L’attuale crisi economica, che è sempre più una crisi sociale, rischia poi di mettere in questione il senso concreto degli Stati nazionali, a cominciare dal nostro. Quando i tedeschi riscoprono l’Euronucleo come insieme riservato ai Paesi connessi all’economia e alla cultura monetaria germanica, constatiamo che ne risulta rafforzata la tesi «padana» per cui il Nord Italia pertiene a questo spazio, il Sud niente affatto.

22: Non so fino a dove si spingeranno fra vent’anni i confini dell’Unione europea, se ancora esisterà. In ogni caso mi pare difficile che possa recuperare una funzione integrativa, mentre probabilmente si acccentuerà la tendenza opposta. Ne risulterà una geopolitica più complessa, quindi di più ardua gestione.

25: Il mio timore è che l’Ue finisca per delegittimare le democrazie nazionali – le uniche di cui disponiamo – senza produrre una democrazia europea.

26: Se per fare l’Europa dobbiamo negare il cittadino, tengo il cittadino e butto l’Europa.

31: Infatti la Germania non pensava a un euro per tutta l’Europa – roba da europeismo ingenuo – quanto a una moneta dell’ area del marco: un vestito europeo per la moneta tedesca.

33: Se riprendiamo in mano i giornali tedeschi o olandesi della seconda metà degli anni Novanta, quando si dibatteva del diritto di questo o quello Stato di entrare nell’euro, vi troviamo gli stessi stereotipi che corrono di nuovo oggi, sull’onda della crisi partita dalla Grecia: PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna = maiali), Club Med e altre simpatiche definizioni di stampo antropologico. Categorie irrazionali ma potentemente radicate nelle opinioni pubbliche e nelle élite, che illustrano il presunto carattere dei vari popoli, echeggiando le teorie di Schumpeter sulla cultura monetaria come espressione della cultura nazionale. Quindici anni dopo, senza dracma né peseta né lira ma con l’euro in mano, siamo ancora a questo genere di polemica etnomonetaria. Un razzismo soft. Alla faccia dell’affratellamento europeo che l’euro avrebbe inevitabilmente generato.

42-43: Un’Europa per non con gli europei, elaborata da un club di ottimati nei loro inaccessibili laboratori. Quell’ europeismo si considerava figlio di una filosofia della storia che avrebbe prodotto l’Europa per surrogazione tecnocratica, non per effetto di una scelta politica discussa e condivisa, ritenuta impossibile. Un tentativo titanico, che meriterebbe un’ analisi aperta e approfondita, invece dei mascheramenti che tuttora lo occultano. Un orizzonte talmente astratto dalle dinamiche storiche da contenere in nuce le premesse della sua irrealizzabilità.

45-46: Trovo…straordinariamente affascinante e originale il ragionamento dell’ europeismo «alto». Quello che nonostante tutto continua a crederci davvero. O almeno non sa rinunciare a credere. Questi, più che rispettabili politici e pensatori, mi ricordano Tertulliano: credo quia absurdum. È una fede. Una fede, per me paradossale, nelle virtù salvifiche delle crisi. La tesi: dobbiamo stare molto male per diventare buoni. Più costruiamo meccanismi imperfetti – l’euro senza Europa -, più ci costringiamo a perfezionarli. A questo può portare la sfiducia degli eletti nei cittadini europei, o futuri tali. Soffrire fa bene all’Europa? Non condivido. Confesso di non essere obiettivo nella mia analisi, perché il cilicio continua a sembrarmi una forma di perversione anziché un veicolo di perfezionamento. Dunque non mi convince la teoria dell’ europeismo classico, fondata sulla speranza nell’effetto maieutico delle crisi. Tu stesso hai citato l’esempio della seconda guerra mondiale o dell’ attuale crisi economica. La crescente consapevolezza del deficit politico dell’Europa prodotta dalla crisi dell’ euro sarebbe destinata a produrre più Europa. Mi pare un’idea catastrofica. In senso tecnico. Per me le catastrofi sono catastrofi, le crisi crisi. Punto. E non sono affatto certo che mi o ci migliorino. Tanto meno che facciano l’Europa. È semmai durante le crisi che emergono i nostri lati peggiori: nefandezze collettive talvolta riscattate dall’ eroismo di pochi. Egoismi, diffidenze, chiusure, tentazione di scaricare sui più deboli i problemi dei forti (e viceversa). In ogni caso, anche se la teoria delle catastrofi potesse un giorno molto futuro rivelarsi corretta e dunque produrre davvero l’Europa, preferirei non rischiare l’esperimento. Invoco il principio di precauzione.

46-47: il vincolo esterno. Tu ne hai fatto le lodi. lo non ci riesco proprio…Un riflesso pericoloso perché fondato sulla radicale sfiducia in noi stessi. Nell’Italia e negli italiani. Ma se non siamo capaci di governarci da soli, in che senso saremmo una repubblica e una democrazia? Se non ci fidiamo di noi stessi, dobbiamo per forza cercare qualche soggetto esterno che abbia tempo da perdere con l’Italia, per eterodirigerla.

47: Ci poniamo volutamente in una condizione di inferiorità che non ci permette di essere percepiti come pari da chi si considera al cuore del progetto europeo. Ciò rende paradossale il nostro europeismo, perché è tanto più spinto quanto più grave è la sfiducia in noi stessi. È l’esatto contrario dell’idea di Europa dei Paesi più forti: l’Europa come moltiplicatore della propria potenza, non come compensazione della propria impotenza. Il vincolo esterno è la dichiarazione di non-europeità dell’Italia.

48: Se l’Italia vorrà avere un ruolo di rilievo in Europa nei prossimi anni, dovrà prima di tutto occuparsi di se stessa, recuperando un’idea sufficientemente forte di unità nazionale.

49: In un Paese dove efficienza e legittimazione dello Stato non solo sono storicamente deficitarie ma decrescenti, parlare di federalismo significa lavorare per lo smantellamento di quel poco di istituzioni comuni di cui ancora disponiamo. Significa produrre un patchwork di regioni semi-indipendenti molto dissimili tra loro sotto ogni profilo, che dovrebbero essere tenute assieme miracolosamente da un centro sempre più delegittimato. E come per l’europeismo, il federalismo all’italiana non esprime un progetto.

49: Il paradosso è che invece di utilizzare lo slancio europeo per costruire un’Italia che si tenga in piedi con le proprie gambe e dia, in quanto tale, un proprio contributo alla costruzione dell’Europa, con il mito del vincolo esterno abbiamo contribuito a decostruire quel poco che rimane del nostro Stato democratico.

56: SULLE PECCHE DELA GRECIA: Il pericolo è fare di questa giusta critica un argomento etnico. Un razzismo appena mascherato. Questa forse è la peggiore delle derive della tecnocrazia, che tendendo a esautorare la politica riporta in auge gli stereotipi culturali. Come se vi fossero Paesi geneticamente dediti a spendere e spandere, e altri Paesi costitutivamente dediti alla virtù. In ogni stereotipo, come in ogni leggenda, c’è una base di verità. Farne però la regola immutabile, il destino di un popolo, è la fine della politica. Nel caso dell’ euro, concepire come hanno fatto e tendono di nuovo a fare i tedeschi, un Euronucleo di Paesi automaticamente virtuosi, è un modo di ragionare antipolitico. Una sorta di etnomonetarismo. Trascurando, come tu ricordavi, che la stessa Germania, oltre naturalmente alla Francia, ha allegramente deviato dalle presunte virtù e dalle regole scritte in più di un’ occasione. E dimenticando che gli altri europei hanno pagato un prezzo molto alto per l’unificazione tedesca, contribuendo allo sforzo di Berlino volto a riempire il buco nero della Rdt con enormi trasferimenti finanziari, dai risultati peraltro discutibili. E purtroppo questo etnomonetarismo si sposa con analoghe tendenze interne agli Stati membri. Penso anzitutto al Belgio, ma anche all’Italia, alla propaganda leghista sull’inconciliabilità fra Nord e Sud.

74: Noi tendiamo purtroppo a rimuovere il nostro passato recente. E a immaginarci come un continente spontaneamente democratico. Noi pensiamo di essere più democratici degli altri. Come se la democrazia fosse nel nostro Dna.

75: Che tale vincolo sia eterno, ne dubito. Continuando a minare la logica della politica democratica, potremmo risvegliare le bestie intolleranti che animarono i nostri avi.

79: Contesto che esista un’opinione pubblica europea. Niente affatto. Esistono diverse opinioni pubbliche nazionali in Europa. La prova? Ogni volta che si tenta di varare un medium europeo, non funziona. Non si riesce a vendere lo stesso giornale a Cipro e a Dublino, a Roma e a Riga, a Londra e a Lubiana, a Parigi e a Berlino (nemmeno a Berlino e a Francoforte). Le culture e i gusti di queste popolazioni, tutte orgogliosamente rivendicanti la loro radice europea, sono troppo diverse.

84: L’altro protagonista ad avere le idee chiare sull’ allargamento a est era la Gran Bretagna. In parte perché condivideva la russofobia di quei Paesi; in parte perché vedeva l’ex Est come un’ area da non lasciare al predominio esclusivo della Germania; e in parte perché, come gli americani, voleva collegare gli ex satelliti di Mosca al mondo atlantico più che al mondo europeo. Londra non voleva «europeizzare» l’ex Est, voleva «atlantizzarlo» anche attraverso Unione europea. Con ciò rendendo complessivamente l’Ue meno europea e più atlantica. E ha vinto. L’allargamento battezzato da Bruxelles è stato un grande successo di Londra e Washington.

107-108: Il tuo ragionamento mi sembra uno sviluppo radical-utopistico del funzionalismo, per cui istituzioni e funzioni che si scoprono imperfette devono essere surrogate da autorità non-statuali e non legittimate da meccanismi democratici condivisi. Sicché le attuali istituzioni democratiche nazionali dovrebbero finire per autocommissariarsi per il bene della nostra moneta. Mi sembra politicamente difficile. Con tutto quello di buono che l’esperimento della moneta «unica» (nell’Ue ne circolano altre undici, ma continuiamo a chiamarla così, misteri dell’ eurogergo) può aver prodotto sotto il profilo economico, dobbiamo prendere atto che abbiamo raggiunto e superato il limite entro il quale il funzionalismo aveva un effetto integrativo. Adesso ha una funzione disintegrativa.

109-110: Stiamo chiedendo in nome dell’Europa sacrifici che i cittadini europei non sono disposti a concedere. Diamo così alimento alle teorie cospirative degli estremisti, che vedono un solo grande complotto mondiale di speculatori, banchieri e loro tirapiedi politici [Beh, è così: 1% contro 99%, ma l’1% non è compatto, per fortuna – NdR]. Con l’Europa pallido vampiro che affonda i denti nei nostri corpi infiacchiti dalla recessione. Temo che presto potremo trovarci di fronte a rivolte di piazza, a ondate di violenza, quanto meno a una protesta diffusa e rabbiosa che metterà sotto pressione le nostre istituzioni democratiche. Credo che il «rigore» così astrattamente concepito sia una risposta sbagliata, che avrebbe un effetto deprimente sulla stessa idea di Europa, per quel che ne resta. Non penso solo alla Grecia, ma anche all’Italia, una volta che alcuni ammortizzatori sociali avranno terminato o ridotto il loro effetto.

Se Europa non vorrà più dire pace e benessere, ma violenza e deflazione, chi oserà più difenderla?

121-122:   Un incendio è un incendio; molti incendi sono molti incendi. E la crisi che stiamo vivendo a mio avviso non ha nulla di positivo. Anzi, nasce proprio dall’ assenza di una prospettiva comune tra i principali Paesi europei sul da farsi. Insomma, se vogliamo parlare di unione politica dobbiamo parlare di politica.

Ascoltandoti, e conoscendo il tuo carattere moderato, mi colpisce l’impronta rivoluzionaria del tuo ragionamento. Quando parli di Europa mi sembri un bolscevico, che si augura che la crisi finaale del capitalismo diffonda nelle masse la consapevolezza dell’ oppressione di classe, spingendole ad affidarsi al Partito per conquistare il socialismo. Perché questo è il destino dell’umanità scoperto da Marx. Sostituisci Europa a socialismo e hai il ritratto dell’ideologia europeista.

lo non credo che la crisi che stiamo vivendo renda gli europei più consapevoli della necessità dell’Europa. Però il tuo ragionamento è interessante, perché lo sento ripetere ormai da molto tempo e da persone di diverso orientamento politico, che si riconoscono in tale presunta necessità della storia. Ora, non vedo alcuna necessità della storia, né nel caso europeo né in alcun altro caso. Sarò troppo ottimista, ma resto convinto che la storia non sia data ma sia anche frutto delle nostre azioni, spesso involontarie, nei brevi limiti della nostra esistenza e scontando l’inerzia formidabile del passato.

121-122: L’Europa che sogno è uno Stato confederale, dotato quindi di vari livelli di sovranità, dall’Europa al comune. I suoi confini saranno quelli dell’Europa centro-occidentale che ho sopra evocato. Questa Confederazione europea sarà una potenza attiva su scala globale. E sarà parte della molto più vasta e lasca Unione europea, da estendere a sud-est, verso la Turchia e il Nord Africa, che chiamerei quindi Unione euromediterranea.

Come si avvicina questo sogno? Non certo a partire dalle istituzioni comunitarie, perché non hanno la legittimità né l’autorità per farlo. Qualsiasi proposta per l’Europa futura non può che partire dalle autorità nazionali, le sole titolate a organizzare il consenso dei cittadini.

123-124: Se davvero si costituisse un Euronucleo paracarolingio, forse ne saremmo esclusi. In tal caso metteremmo a rischio l’unità nazionale. Perché se il criterio di quel nucleo è l’appartenenza alla sfera economica tedesca, Fino a Verona ci siamo, più a sud molto meno. Bossi avrebbe buon gioco a rispolverare i suoi argomenti secessionisti. Per la Lega l’Euronucleo torneerebbe a rivelarsi la leva per dividere l’Italia, non per unire l’Europa. E l’unica reazione possibile è quella di metterci definitivamente insieme come europei.

*****

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/07/22/contro-i-miti-etnici-alla-ricerca-di-un-alto-adige-diverso-un-libro-preveggente/

Heiliges Land Tirol / Fratelli d’Italia

 

Estratto da Stefano Fait e Mauro Fattor, “Contro i miti etnici: alla ricerca di un Alto Adige diverso“, Raetia, 2010, 224 pagine.

Ti sei mai chiesto cosa sia questa patria, questa nazione? Pure invenzioni di un piccolo gruppo di sciagurati che vogliono governare sui popoli! Quando la Terra venne creata non fu suddivisa in nazioni! …poi vennero gli uomini, con le loro strampalate idee di possedere il territorio, dimenticando, inoltre, che su questa Terra, mentre lei permane, noi veniamo e ce ne andiamo.

Mario Martinelli

 

Dopo lo spettacolare fallimento della moralità convenzionale (di stampo comunitario) nel corso del secolo scorso, la mansueta, meccanica identificazione dell’individuo ad una collettività, sia essa un’etnia, una patria o una corporazione, è estremamente problematica e va trattata come ogni altra forma di idolatria o tribalismo, ossia con il più lucido scetticismo. L’Heimat è un territorio dell’immaginario, non un’entità naturale. Gli esseri umani fanno già abbastanza fatica a non fuggire da se stessi per paura di essere inadeguati e a non essere prevenuti nei confronti degli sconosciuti per paura di scottarsi l’anima: indurli ad amare una finzione che esalta le differenze verso l’esterno ed annulla l’unicità di ciascuno di noi è irresponsabile.

Dunque il valore dell’Heimat/Patria non solo non esercita effetti virtuosi sulla società civile, ma addirittura la danneggia, sia a livello morale sia a livello pratico. Vediamo meglio come e in che misura ciò avvenga nel contesto altoatesino. C’è una significativa testimonianza di Bernhard Pircher che fu intervistato dalla rivista “UnaCittà” quando aveva 19 anni ed era membro della compagnia di Schützen venostana di Glurns/Glorenza (Pircher 1997). Illustrando le ragioni che lo avevano indotto a diventare uno Schütze, Pircher spiega che “Quello che mi affascinò di più era questo essere dalla parte della Heimat, delle tradizioni, della religione e anche del bisogno di coesione, il fatto cioè che ci si raduni per le celebrazioni pubbliche e per marciare insieme. L’ammissione nella compagnia degli Schützen di un nuovo membro deve essere unanime”. Questa scelta fu resa più facile da un evento particolarmente spiacevole, una rissa con degli italiani per futili motivi. Così Pircher confessava di essere stato per lungo tempo anti-italiano: “Adesso però la vedo diversamente. Anche gli italiani sono esseri umani e hanno quindi molto in comune con noi”. Una frase che chiarisce meglio di dozzine di saggi la natura disumana e de-umanizzante, per entrambi i gruppi etnici, della separazione etnica in vigore nella Heimat altoatesina, specialmente per i giovani, inesperti e quindi estremamente influenzabili. E l’Heimat? Cos’era l’Heimat per quel giovane Schütze della Val Venosta? “Heimat è quel luogo in cui ci si sente “a casa”. Qui da noi ci si conosce tutti. Ci si saluta anche se non ci si conosce e si ha fiducia negli altri…Heimat è per me lì dove si sta volentieri. Io nella mia terra posso fare le cose che amo fare…Nella mia Heimat io ho l’aria pura e un ambiente quasi incontaminato, che rispetto”. Per Pircher l’Heimat non è chiusa ai forestieri: “Essa è per tutti, questo lo voglio ben sperare. Anche per quegli italiani che sono nati qui. Io vorrei anche che ognuno si prendesse cura di questa Heimat, anche delle sue tradizioni. Quando ad esempio si preparano i fuochi per il “Sacro Cuore di Gesù”, è bello perché vecchi e giovani si incontrano, salgono insieme sulla montagna e condividono il piacere di queste tradizioni. Si ascoltano storie di tempi passati, e quando poi bruciano i falò, si sente dentro di sé una gioia e un senso di comunione così unico e profondo. Tutti aiutano, tutto il paese si dà da fare affinché queste feste riescano bene. È anche un modo per incontrare persone che altrimenti non si incontrerebbero. È un’alternativa al solito bar, e magari pure alla discoteca in cui i più vecchi in ogni caso non vanno. Anche questi incontri sono Heimat”. O forse no. Forse l’idea di Heimat è una sovrastruttura del tutto superflua. Tant’è che in italiano basta dire – “sentirsi a casa” – senza tanti fronzoli mistici politicamente manipolabili. Heimat non è l’unica risposta, o la migliore, allo spaesamento da globalizzazione. Il paesaggio emotivo tedesco non è poi così diverso da quello latino o slavo. Così in Trentino si possono fare le stesse cose e provare le stesse sensazioni senza che la mente chiami in causa come un automatismo del tipo “stimolo-risposta” la nozione di patria/Heimat. C’è chi si è chiesto come mai una parte del mondo germanico sia così fermamente aggrappata a questa idea di Heimat. Ad esempio Peter Blickle, docente di germanistica presso l’Università del Michigan, ritiene (Blickle 2002) che essa nasca dalla fusione di Romanticismo ed anti-Illuminismo e che il bisogno psicologico derivi in primo luogo dal desiderio di ricavarsi uno spazio idealizzato e protettivo, un’appartenenza di tipo neo-tribale percepita come naturale nella quale perdersi. È una provincia dello spirito che è emanazione di una spiritualità provinciale, locale e che impregna una “individualità collettiva” che “rassicura i germanofoni circa il loro valore, identità e unicità” (Blickle, op. cit., 50). Il sé, come detto, si perde nell’Heimat e diviene un sé diverso da quello descritto da Freud, un sé “preconscio, dipendente dal gruppo e sociale…bisognoso di radici. Un sé sradicato è percepito come sminuito o guastato” (ibidem, 69) che confonde persone e cose, l’errore ontologico del pensiero magico-superstizioso che un tempo si chiamava idolatria pagana.In passato quest’invenzione del pensiero umano è servita a tenere in piedi un sistema di valori, poteri e rapporti umani fortemente lesivo della dignità delle donne e discriminatorio nei confronti dei bambini e delle minoranze.

Inoltre l’aura di innocenza che spira attorno all’Heimat è saldamente legata alla semplice e perniciosa equazione di bello e buono. Se l’Heimat è un idillio di bellezza, innocenza e purezza, allora chi la ama è buono ed irreprensibile per definizione. Anzi, è un eletto. Non è quindi per nulla sorprendente che l’Heimat sudtirolese attiri le personalità narcisistiche. Tutti, anche se in misura diversa, siamo affetti da narcisismo. Il militante etnicista o patriottico va oltre, dando libero sfogo alla sua immaginazione ipertrofica. In talune circostanze la discrepanza tra realtà e immaginazione è tale che questo tipo di narcisista inveterato trova arduo non provare disgusto per ciò che stona, fosse pure una certa classe di esseri umani. Dimostra povertà di spirito e scarsa empatia, tratta gli altri come oggetti utili ad alimentare il proprio bisogno narcisistico, si chiude autisticamente nel suo bozzolo di certezze, nel suo personale universo di riduzionismi che lo deresponsabilizzano e spostano la colpa sui difetti congeniti degli altri. Necessita di ordine e chiarezza e li può trovare nella superstizione del gene onnipotente, della tradizione ordinatrice, dell’identità totalizzante e neo-tribale, cioè nell’idea in quanto tale, immacolata ed omogenea. Il Südtirol o l’Italia come filo a piombo dell’anima (Stecher 2008). Un’idolatria che è anche un terribile auto-inganno e che bolla come minaccia tutto ciò che contamina la purezza dell’idea, arrivando a negare la realtà, come nel risibile “no a un’Italia multi-etnicadi Berlusconi. Se questa minaccia non è opportunamente neutralizzata la condanna è all’alienazione. Un inconscio processo di alienazione è già comunque in atto, perché il narcisista immaginifico è già schiavo delle sue idee fisse. I totalitarismi altro non sono che manifestazioni su vasta scala del medesimo fenomeno, vere e proprie epidemie di narcisismo. Ciò potrà sembrare strano per chi è abituato, erroneamente, a pensare al narcisismo in termini di egocentrismo ed eccessivo amor proprio. In realtà il narcisista, se privato della sua sorgente di conferme e rassicurazioni, si sente vuoto e depresso, inutile, senza scopo, amorfo, ansioso ed insicuro. Soffre di considerevoli oscillazioni nell’autostima e può arrivare a credere che la vita non sia degna di essere vissuta. Per evitare questo tragico epilogo sente l’impulso di aggrapparsi ad una qualche figura o idea dominante che fornisca un sostegno solido. Anela la fama e l’ammirazione, perché queste portano con loro l’universale approvazione. Se non può conseguirla si attacca al culto della celebrità. Molti binomi padrone-servo potrebbero essere tranquillamente invertiti, perché entrambi sono narcisi ed hanno bisogno di quel tipo di rapporto patologico più di quanto necessitino di un certo status. È il vuoto interiore, l’inautenticità, la perdita di senso, l’incertezza del futuro che paventano più di ogni altra cosa. La superficialità non è un problema, il narcisista è in ogni caso antropologicamente pessimista, il suo pensiero non è mai profondo – è arendtianamente banale –, né lo è la sua stima nei confronti degli altri esseri umani, che non sono mai davvero suoi simili e per questo possono essere ordinatamente incasellati in categorie arbitrarie. Il feticismo, l’illusionismo nella sua accezione più ampia è il vizio caratteristico del narcisista. Non potendo contare su una vita ultraterrena, esorcizza lo spettro della morte concentrandosi sull’immagine e sull’idea – la Patria, l’Etnia –, rendendole immortali, e si autoipnotizza, dissipando il suo potenziale. Il suo amor proprio è dunque fragilissimo e la concentrazione su di sé in realtà è molto precaria e può mutarsi molto facilmente in attaccamento fanatico ad un movimento e ad un leader che incarnino le idee fisse che danno senso alla sua esistenza, almeno provvisoriamente. Insomma il narcisista non è autonomo ed indipendente, non ha alcun serio controllo sulla sua esistenza. Al contrario è eterodiretto, e si lascia facilmente assimilare da fazioni, sette, tribù, razze, campanilismi, integralismi e militanze varie, riflessi distorti della realtà. Si intossica di lusinghe, vezzeggiamenti, adulazioni, apprezzamenti di un sé illusorio, falso e privo di valore, che ha bisogno di ripetute conferme e le trova nella grandezza del Gruppo. È una comparsa nella sua vita, non il protagonista, anche se non se ne rende conto e profonde impegno e risorse per rinsaldare ancora di più questo stato di cose.

Oggi, in Alto Adige come in gran parte dell’Europa, la logica etnarchica, – essenzialmente narcisistica – che antepone il particolare all’universale sacrificando il motto Liberté, Égalité, Fraternité sull’altare della Cultura e dell’Identità, è sopravvissuta alla sconfitta del nazismo e del comunismo. Si è tornati a parlare di identità naturali, anche se nessuno ha saputo ancora spiegare cosa ci sia di naturale e di univoco in queste identità. D’altronde quello identitario non è un appello alla ragione, ma alle emozioni, ai sensi di colpa ed alla paura di chi, sentendosi in dovere di appartenere “anima e core” ad un insieme più ampio, non si sente di poter affrontare il giudizio altrui e l’ostracismo degli altri membri del gruppo. La moda etnarchica non va però affrontata in modo sbrigativo. Non è un atavismo incontrollabile ma piuttosto un nobile stimolo umano primordiale (quello al raggruppamento ed alla condivisione di sforzi ed aneliti) che può essere male indirizzato, nel qual caso trova pretesti e razionalizzazioni eminentemente moderne quando il modello universalista segna il passo, cioè ad ogni seria crisi internazionale o sotto la spinta dell’immigrazione di massa.

Essa rimane una strategia fallimentare sotto ogni punto di vista. A livello etico perché non rispetta la dignità intrinseca e l’autonomia delle persone e dissimula la loro unica, comprovabile appartenenza, quella alla specie umana. A livello pratico perché non esiste alcun modo per tenere sotto controllo le forze centrifughe ed atomizzanti messe in moto da una politica della differenziazione identitaria. Ci sarà sempre una minoranza che pretenderà il pieno autogoverno se non riceverà un’adeguata compensazione. Pensiamo a quel che sta avvenendo in Bosnia, dove la Republika Srpska a forte maggioranza serba sta già meditando di seguire l’esempio del Montenegro e Kosovo, distruggendo quindi ogni sforzo pacificatore ed unitario della comunità internazionale in Bosnia. Oppure pensiamo alla contrapposizione tra Scozia ed Inghilterra, tra Catalogna ed Andalusia, tra Fiandre e Vallonia, tra Padania e Meridione. In caso di separazione, il paradigma etnico che la giustifica sarebbe nel contempo il maggiore ostacolo alla realizzazione di una società equa, giusta, e solidale. La maggioranza etnica sarebbe autorizzata a decidere in funzione dell’interesse primario della conservazione della sua egemonia. E non è precisamente quel che avviene in Alto Adige – e in Italia –, con la ben remunerata connivenza di quasi tutti i partiti? Cosa succederebbe in Alto Adige se si arrivasse al distacco dall’Italia? Cosa farebbe la maggioranza italofona di Bolzano e dell’Oltradige-Bassa Atesina? E come si può evitare che degli standard etici locali logorino la coesione dell’Unione Europea attorno ai principi universalistici ereditati dall’ecumenismo cristiano, dall’Umanesimo e dall’Illuminismo? Il separatismo localistico ed il differenzialismo identitario non sono né assennati né moralmente giustificabili. Non possono costituire una risposta ai problemi dell’autogestione territoriale né possono mitigare l’impatto della globalizzazione a livello socio-economico, se non altro perché i movimenti etnopopulistici europei sono sempre ed invariabilmente libertari (di destra), in quanto il loro bacino elettorale si concentra soprattutto nella piccola e media impresa, cioè tra elettori che troppo spesso sono più propensi a pretendere tutele per sé stessi, anche se a discapito del resto della popolazione e degli immigrati che pure loro stessi assumono in gran numero (Tamás 2000). Quel che è scandaloso è che una parte della sinistra, in nome dell’anti-imperialismo, si sia sentita in dovere di combattere la destra su un campo come quello delle identità collettive, che è il terreno naturale della destra stessa.

L’Unione Federalista dei Gruppi Etnici Europei ed un passato nazista che non passa

Non conosco personalmente Martha Stocker, consigliera provinciale per l’SVP nella Provincia di Bolzano, ma per quel che ho potuto capire si tratta di un’ottima persona. È però anche la vicepresidentessa dell’Unione federalista dei gruppi etnici europei (Fuev). Sono spesso le persone migliori a diventare il bersaglio di organizzazioni che cercano di sfruttarne le qualità per fini diversi da quelli esplicitati. Mi auguro sia il caso di Martha Stocker (una persona in buona fede può ravvedersi).

La Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen fa parte della galassia di associazioni e think tank che allarmano Bruno Luverà.

E non solo lui.

Alessandra Zendron, “La Regione e la Fuev”, QuestoTrentino, 21 aprile 2001.

La Regione e la Fuev. 70 milioni di denaro pubblico ad una associazione dalle indubbie nostalgie razziste?

Nonostante la ferma opposizione di chi scrive e le argomentazioni anche scritte contrarie a questa decisione, la giunta regionale continua a finanziare la Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen, la FUEV, con 70 milioni l’anno: molti, visto che non si sa esattamente come vengano spesi (ufficialmente per la normale attività) e che non si capisce quali vantaggi comportino per la comunità regionale (che paga). La Regione paga una quota attraverso la quale diventa socio dell’Union. La Provincia di Bolzano paga circa 20 milioni e ha in cambio una vicepresidenza; la Regione si associa senza avere un suo esponente nel direttivo.

L’associazione è stata negli anni scorsi ripulita dalle relazioni personali e finanziarie pericolose, che l’hanno caratterizzata per decenni, in parte per esaurimento generazionale e in parte per l’intervento delle autorità che han dovuto cedere alle pressioni esercitate nel Parlamento tedesco e dalla stampa che ha svolto una funzione di controllo attenta e approfondita.

Tuttavia manca ancora una chiara dichiarazione di discontinuità con un passato pieno di ombre. Il Manuale dei gruppi etnici, un testo razzista scritto dall’allora Presidente della FUEV insieme ad un secondo autore, è stato diffuso dall’associazione almeno per tutto il 1996, risultandone acquisti e vendite in bilancio, ben oltre dunque la affannate dichiarazioni di presa di distanza degli ultimi tempi. Chi ha detto che si tratta di “cose vecchie di almeno 50 anni” durante un dibattito in Consiglio regionale ha sbagliato i tempi! Ma si tratta del vicepresidente della Regione, che in questi giorni si vanta in numerose interviste dell’impegno di ingenti risorse della Regione “a favore delle minoranze tedesche nell’Europa orientale”, mentre la legge regionale parla di minoranze in generale, non solo di quelle di lingua tedesca. La mancanza di discontinuità è confermata dalle spiegazioni evasive o addirittura non corrispondenti alla verità fornite dalla FUEV alla Regione in un carteggio dell’anno scorso. Dunque è grandemente inopportuno che la Regione spenda denaro pubblico in questa direzione.

Quali sono le caratteristiche organizzative della FUEV? L’assessore provinciale alla cultura di lingua tedesca, che è anche vicepresidente della FUEV, afferma che ne fanno parte i rappresentanti di 75 gruppi etnici. Fu, qualche anno fa, un ex-presidente della FUEV che mise in dubbio l’effettività della rappresentanza, in un’intervista al Dolomiten, dove si parla anche di “molti scheletri negli armadi”.

Alla richiesta di spiegazioni sul fatto che l’associazione ancora diffondeva il vergognoso libro Handbuch der Minderheiten, il manuale razzista sulle minoranze europee, il presidente della FUEV rispose: Considero estremamente riprovevole e deplorevole che sotto l’egida della FUEV possano essere state rese pubbliche certe teorie della razza in un manuale pubblicato negli anni ‘70″. Questa non è una presa di distanza, perché il manuale non fu solo pubblicato sotto l’egida della FUEV, ma fu scritto dal suo presidente di allora!

Diretta è la continuità della rivista della FUEV, Europa Ethnica con Nation und Staat, la rivista antisemita del Terzo Reich. Per chi non lo conosca, il numero 1 della rivista, del 1958, ha due editoriali. Il primo è redazionale e porta il titolo “Da Nation und Staat a Europa Ethnica. Europa Ethnica continua sugli obiettivi ideali di Nation und Staat”. Un’affermazione che smentisce di per sé ogni tentativo di negare la continuità. Ma se ci fossero dubbi, il resto del giornale è occupato interamente dal secondo editoriale, ove si dichiara la linea di politica culturale della rivista. Lungo tre pagine, è scritto dal segretario della FUEV, e parla, fin dal titolo, degli obiettivi della FUEV. Il contenuto è un’esaltazione dell’attività dei Congressi dei popoli, tenuti fra le due guerre, quindi in periodo nazionalsocialista, a favore delle minoranze tedesche all’estero.

Anche un’altra affermazione della difesa, secondo cui fra Europa Ethnica e FUEV non vi sia mai stato alcun rapporto (salvo, affermò il nuovo presidente, durante la presidenza di Christoph Pan, il quale tuttavia smentì di essere stato lui l’iniziatore) è dunque falsa.

Negli ultimi anni l’attività si è concentrata nei nuovi paesi dell’Est europeo, dove manca purtroppo un sistema di mass media sufficientemente agguerriti per poter giudicare quanto accade.

Dunque esistono ragioni forti di opportunità per tenere lontana un’istituzione democratica dalla partecipazione come socia a un’associazione che meno di altre può contribuire a uno sviluppo democratico dell’Europa. L’Unione europea ha fra i suoi obiettivi uno sviluppo federale e un’attenzione verso le minoranze. Affinché lo sviluppo sia democratico queste ultime devono tuttavia diventare protagoniste del loro destino, attraverso forme di rappresentanza reale e diretta, che prevedano il diritto di parola e azione (per questo vedi anche le difficoltà incontrate dai Ladini delle Dolomiti, solo di recente ammessi a far parte della FUEV, dopo che a lungo la loro partecipazione è stata osteggiata) e non tanto attraverso un’associazione che è nata a suo tempo con scopi del tutto diversi e che ancor oggi, al di là delle generiche dichiarazioni statutarie, non si sa bene quali obiettivi concreti porti avanti.

http://www.questotrentino.it/qt/?aid=7317

*****

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/07/22/contro-i-miti-etnici-alla-ricerca-di-un-alto-adige-diverso-un-libro-preveggente/

Come i leghisti interpretano le macroregioni europee

Una macroregione alpina per superare gli stati nazionali a favore di un’Europa dei popoli. È stato firmato a Bad Ragaz, nel cuore della Svizzera, il patto che coinvolge diverse regioni alpine europee tra Italia, Svizzera, Austria, Germania e Francia. Una grande area tra le più ricche ed industrializzate del pianeta, dove vivono circa 70 milioni di persone e sono insediate le principali realtà industriali del vecchio continente. Regioni che vanno dalla Padania leghista alla Baviera, passando per la Carinzia, la Provenza e il Rhone-Alpes, che vogliono attuare politiche comuni, capaci di dare una nuova forma alla collaborazione su base regionale e sovranazionale. Le regioni che partecipano all’iniziativa vogliono fare quadrato e promuovere una comunità di lavoro che intende sviluppare una strategia comune per orientare la programmazione 2014-2020 dell’Unione.

Tra i principali sostenitori del progetto ci sono gli amministratori leghisti delle regioni italiane interessate, da Luca Zaia a Roberto Cota. All’appuntamento di venerdì non è voluto mancare Umberto Bossi, che da mesi annuncia con enfasi l’arrivo dell’accordo, salutandolo come uno dei più grandi risultati nel cammino verso la formazione dell’agognata Europa dei popoli. E alla firma dell’accordo c’era anche Roberto Formigoni, che ha incontrato per la prima volta il presidente del Carroccio dopo le polemiche che stanno coinvolgendo il governatore lombardo, facendo vacillare il suo impero ventennale. Formigoni ha sottolineato come con questo progetto si riaccenda l’ideale politico di “una Europa dei popoli e delle Regioni, com’era originariamente nella visione di Europa dei padri fondatori” strizzando così l’occhio alla Lega Nord, forse nella speranza di riuscire a scongiurare la caduta del governo lombardo: “Questo è un nuovo inizio per il Nord – ha detto Formigoni ai leghisti della delegazione – e una nuova strategia delle nostre regioni verso l’Europa. La macroregione è finalmente la strada giusta per contare in Europa”.

Formigoni ha poi enunciato i pilastri del progetto, che saranno “agricoltura e competitività, energia e ambiente, comunicazioni e trasporti”. Negli intenti dei promotori il campo d’azione non sarà dunque limitato alla protezione e allo sviluppo delle aree montane, ma lo sforzo comune sarà quello di “leggere le aree montane come parte di territori più ampi, per uno sviluppo pienamente integrato”. Secondo il governatore del Veneto, Luca Zaia, l’obiettivo della macroregione alpina “è quello di superare i confini e di portare l’integrazione europea ad un livello più vicino ai cittadini e in linea con lo spirito dei padri fondatori dell’Europa”. I prossimi appuntamenti porteranno i delegati delle varie regioni interessate nel comune svizzero di Poschiavo a settembre, a Innsbruk ad ottobre e a Milano nei primi mesi del 2013. Appuntamenti in cui verranno definiti i livelli di governance e le strategie della macroregione, coinvolgendo anche i rappresentanti degli stati nazionali e la comunità europea, al fine di raggiungere un pieno riconoscimento del ruolo di questa nuova entità.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/07/03/europa-dei-popoli-dalla-padania-alla-baviera-si-allaccordo-voluto-dalla-lega/281524/

Regioni unite per una strategia comune transnazionale sul modello di quelle del Baltico e del Danubio

Italia addio, nasce la macroregione delle Alpi. I presidenti delle Regioni dell’arco alpino italiano (Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia) e delle Province autonome di Trento e Bolzano saranno venerdì a San Gallo, in Svizzera, per incontrarsi con gli altri presidenti delle regioni alpine europee (appartenenti a Svizzera, Francia, Germania e Austria) e sottoscrivere un documento di “iniziativa delle Regioni” per la costruzione di una Strategia macroregionale europea per le Alpi.

Ne danno notizia in un comunicato congiunto i rispettivi presidenti delle Regioni Augusto Rollandin, Roberto Cota, Roberto Formigoni, Luca Zaia, Renzo Tondo, Lorenzo Dellai e Luis Durnwalder (il Friuli sarà rappresentato dal vice presidente con delega alle Politiche per la montagna, Luca Ciriani).
Sul modello delle Strategie macroregionali del Baltico e del Danubio, oggi pienamente operative, le Regioni alpine italiane, al pari di quelle di Svizzera, Francia, Germania, e Austria, si troveranno unite per condividere un percorso di coordinamento delle politiche europee, che riguardano uno spazio significativo nel cuore dell’Europa, un territorio abitato da 70 milioni di persone e costituito dalle regioni più sviluppate e dotate di un tessuto imprenditoriale e di centri di innovazione di prim’ordine.

Le Regioni e le Province autonome italiane, che abbracciano la totalità del versante sud delle Alpi, rappresentano da sole un terzo delle popolazioni del territorio interessato dalla Strategia. Esse «arrivano unite a questo appuntamento – si legge nella nota congiunta -, determinate a dare una spinta decisiva a questa iniziativa comune e a farsene sostenitrici presso il governo nazionale e tutte le istituzioni europee».

NESSUN NUOVO “CARROZZONE”. La Strategia macroregionale non significa nuove strutture od organizzazioni né maggiori spese per i cittadini. Essa rappresenta il modello di una collaborazione interregionale e transnazionale permanente per coordinare le politiche regionali, nazionali ed europee dell’area alpina verso obiettivi comuni di “sviluppo economico in un ambiente intatto”, come recita il documento dell’“iniziativa delle Regioni”. Sviluppo fondato su tre pilastri complessi ma ugualmente fondamentali: innovazione e competitività, ambiente ed energia, accessibilità e trasporti.

Queste saranno le linee di sviluppo del programma comune che sarà proposto venerdì, a nome delle popolazioni alpine europee e nell’applicazione del principio di sussidiarietà alla base della costruzione europea, ai rispettivi governi nazionali e, tramite loro, alle istituzioni europee per essere approvato formalmente.
Nelle intenzioni dei sottoscrittori, la Strategia macroregionale per le Alpi «rappresenterà finalmente il punto di svolta, un’occasione di ripensamento delle politiche per la crescita di un’Europa davvero unita dal basso, a partire dalle realtà locali e territoriali, esaltando la diversità e l’identità di ciascun popolo nella casa comune europea».

L’iniziativa degli amministratori locali padani rappresenta un importante sviluppo sul piano politico della cooperazione transfrontaliera già avviata da tempo con le regioni di confine, ben al di là delle prospettive concepibili a Roma, e dei relativi limiti. Anche a livello europeo, a tutt’oggi manca una politica comunitaria per la montagna che tenga in debito conto peculiarità, risorse e difficoltà di ciascun territorio. Ben venga, dunque, una iniziativa «dal basso» come questa, che si inserisce nel processo di superamento degli ormai vetusti confini nazionali.

A. A.

dalla “Padania” del 26.6.12

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/07/22/contro-i-miti-etnici-alla-ricerca-di-un-alto-adige-diverso-un-libro-preveggente/

Bruno Luverà (Tg1-RAI) sulla jugoslavizzazione d’Italia e la balcanizzazione d’Europa

Murale del famigerato aeroporto di Denver, particolare del ragazzino bavarese

Questo articolo serve a far luce sulla possibilità che qualcuno abbia interesse a disgregare lo stato italiano.

Mi riferisco anche – e forse soprattutto – alla sistematica invasione di campo che, con la scusa della crisi, lo Stato ricerca in ogni momento, con la pretesa di disciplinare ogni aspetto anche organizzativo della vita interna delle nostre comunità. E mi riferisco soprattutto a dichiarazioni, giudizi, esternazioni anche di membri del Governo che sembrano quasi stimolare l’ostilità dell’opinione pubblica nazionale nei nostri confronti, quasi per ricercare una sorta di capro espiatorio attorno al quale canalizzare la rabbia, la preoccupazione, l’inquietudine di un Paese che si avverte privo di bussola e di prospettive.
Lorenzo Dellai, presidente della Provincia Autonoma di Trento, 19 luglio 2012

UNA CITTÀ n. 81 / 1999 Novembre

Intervista a Bruno Luverà

realizzata da Gianni Saporetti

IL RAZZISMO DEL RISPETTO

La diffusione, a partire dalle regioni più ricche, di un etnofederalismo che sogna piccole patrie etnicamente pure e odia la società multietnica. Il razzismo differenzialista fondato sull’incomunicabilità delle culture. L’impegno della Baviera per un’Europa delle regioni raccolta attorno alla Germania e ai suoi confini storici. Intervista a Bruno Luverà.

Bruno Luverà, giornalista, ha pubblicato Oltre il confine. Regionalismo europeo e nuovi nazionalismi in Trentino Alto Adige, Il Mulino 1996 e, Recentemente, per gli Editori riuniti, I confini dell’odio.

La vittoria di Haider può essere considerata un fenomeno isolato?

Io ritengo che Haider non sia un fenomeno isolato perché oggi in Europa è in corso di formazione una nuova famiglia politica, i cui tratti comuni sono un forte populismo, che significa leaderismo, richiamo diretto al popolo e antipartitocrazia, una fede liberista in economia, e soprattutto l’etnonazionalismo. Di questa famiglia politica fanno parte l’austriaco Haider, Bossi, il bavarese Stoiber, e Dillen, il leader del Blocco Fiammingo in Belgio.
L’etnonazionalismo, che ha avuto la sua espressione massima nei Balcani, non è però un fenomeno circoscritto a quell’area geografica, quasi fosse connaturato con la storia di quei popoli. All’interno dell’Unione Europea esso assume la forma di un nuovo regionalismo, sviluppatosi negli ultimi dieci anni, dopo il crollo del Muro di Berlino. Nel nuovo regionalismo europeo ci sono due correnti: il regionalismo autonomista della Svp in Alto Adige o di Pujol in Catalogna, che hanno come idea-guida quella dell’autonomia dinamica, con l’acquisizione di sempre maggiori competenze per arrivare a forme forti di autogoverno, senza però che si arrivi a mettere in discussione la lealtà rispetto allo Stato nazionale, se non in una prospettiva lontana (per esempio, il diritto di autodeterminazione viene posto come valore, ma non se ne chiede l’esercizio immediato). L’altra corrente è quella, invece, micronazionalista, secondo la quale la regione diventa sinonimo di nazione, di piccola nazione, di piccola patria, e il richiamo alla regione serve per creare dei meccanismi di esclusione, serve per innalzare dei muri attorno a un luogo molto facile da controllare, potenzialmente più sicuro, in cui il criterio fondante la cittadinanza è quello dell’omogeneità etnica.

Si rifiuta quindi lo Stato nazionale etnicamente eterogeneo, a favore di un’Europa delle Regioni, che frammenta gli Stati nazionali e rimette in discussione i confini e le frontiere. La filosofia degli etnofederalisti, a livello istituzionale, prevede infatti la nascita di una federazione europea, in cui al posto delle nazioni ci siano Stati regionali fondati sull’omogeneità etnica. Il grande nemico degli etnofederalisti è allora la società multiculturale perché, secondo loro, è la fonte primaria dei conflitti interetnici. Altro nemico è lo Stato nazionale, soprattutto perché lo Stato nazionale liberale, nella forma storica in cui si è sviluppato nel mondo, è sostanzialmente eterogeneo, nel senso che vi convivono cittadini che possono appartenere anche a nazionalità diverse. Infatti, la priorità viene data al diritto dell’individuo e non al diritto del gruppo. Il federalismo etnico invece assegna la priorità ai diritti dei gruppi, per cui l’individuo si realizza pienamente solo all’interno della propria comunità.

[…]

Anche sulla questione delle due velocità, s’è giocata una partita decisiva in Europa. Pensiamo solo a cosa ha voluto dire per la Lega in Italia…
Non c’è dubbio che l’etno-federalismo, questo filone di pensiero che ha ripreso l’ideologia völkisch degli anni ’20 applicandola a una forma istituzionale moderna, è stato tenuto in vita politicamente ed organizzativamente, e logisticamente, grazie all’aiuto della Baviera. Le associazioni in cui questa piccola, ma molto combattiva élite di etnofederalisti, si sono raccolti, trovano nella Baviera fin dalla fine degli anni ’70 il loro punto di riferimento.
La Baviera ha giocato fino in fondo la carta dell’Europa a due velocità perché questa poteva aprire scenari geopolitici interessanti. I quali, guarda caso, sarebbero andati nella direzione dell’Europa delle Regioni. Il punto è che la Baviera vive con grande scetticismo il processo d’integrazione europea. Questo lo disse apertamente il ministro presidente bavarese Stoiber [“Con l’ascesa a Cancelliere di Angela Merkel, Stoiber ha rifiutato il Ministero dell’Economia da lei offertogli e si è ritirato nella sua Baviera”, NdR] nel ’93 in un’intervista alla Süddeutsche Zeitung: “La Germania aveva bisogno dell’Europa fino all’89, perché l’Europa era un succedaneo dell’unità nazionale persa dopo la seconda guerra mondiale. Ma una volta che la Germania si è riunificata, non ha più bisogno dell’Europa e neanche la Baviera ha bisogno dell’Europa. Perché il giorno in cui l’Europa diventasse uno Stato politico federale, la Baviera diventerebbe semplicemente più periferica, perché non sarebbe solo subordinata a Berlino, sarebbe subordinata anche a Bruxelles e a Strasburgo”. Stoiber rifletteva sull’Europa dopo l’89 soprattutto da un punto di vista bavarese, mosso dalla preoccupazione che la Baviera perdesse peso politico, centralità e ruolo all’interno di un grande Stato europeo.
Quindi, da una parte, una posizione di scetticismo rispetto all’Europa, dall’altra una posizione di scetticismo rispetto all’adesione di paesi come la Spagna e l’Italia, più deboli soprattutto a livello economico-monetario. E questo non solo per ragioni di populismo del marco, molto presenti nel messaggio politico bavarese della Csu (la difesa del marco come fattore identitario tedesco e il pericolo che l’adesione della lira lo indebolisse) ma anche perché l’Europa delle due velocità era uno scenario che poteva rimettere in discussione i confini.

A questo proposito era stato commissionato dalla Cancelleria austriaca, a metà degli anni ’90, uno studio all’Accademia delle Scienze di Vienna sugli effetti del regionalismo europeo sull’Austria e all’interno dell’Unione Europea. L’interrogativo era: “Il regionalismo è fattore d’integrazione o di disintegrazione, in vista dell’unione economica-monetaria europea?“. E nello studio dell’Accademia delle Scienze venivano ipotizzati diversi scenari, uno dei quali era quello dell’Europa a due velocità, e degli effetti che questo avrebbe provocato su paesi come l’Italia e la Spagna.
Gli studiosi austriaci facevano vedere come la mancata adesione dell’Italia e della Spagna da subito all’Euro avrebbe prodotto degli effetti disintegrativi all’interno di questi Stati. In particolare le regioni settentrionali italiane e le regioni più ricche della Spagna, la Catalogna, avrebbero chiesto di poter aderire da subito all’Unione Europea. Contemporaneamente, sempre nello scenario austriaco, il movimento delle regioni in Europa, cioè del nucleo duro dei paesi forti che poi ruotano intorno alla Germania, quindi il movimento dei länder, di cui la Baviera è la guida, avrebbe sollecitato una riforma istituzionale dell’Unione Europea per consentire l’adesione all’unione monetaria non solo degli Stati, ma anche delle Regioni e questo avrebbe potuto portare alla possibilità di concedere l’adesione alle regioni settentrionali italiane, alla Padania nel progetto di Bossi, o alla Catalogna di Pujol in Spagna. Si sarebbe così configurata un’Unione Europea con un nucleo duro centrale tedesco, a cui avrebbero aderito anche spezzoni ricchi e forti dei paesi rimasti fuori nell’immediato. La valutazione che facevano gli economisti viennesi era che i paesi, che non avrebbero rispettato da subito i criteri di convergenza, col passare del tempo avrebbero subìto un effetto forbice. Cioè la distanza con il nucleo duro sarebbe aumentata invece che diminuita, da qui l’effetto di disintegrazione e l’aumento di attrattività dei progetti micronazionalisti.
Questo era lo scenario disegnato dall’Accademia delle Scienze di Vienna. E questo fa vedere come la partita politica del regionalismo, giocata anche dalla Baviera, potesse aprire degli scenari imprevedibili: ridisegnare la mappa del vecchio continente, dando la priorità a principi di aggregazione regionali, invece che statuali e la rottura di uno dei principii degli Stati federali e degli Stati democratici oggi in Europa. Cioè il principio di solidarietà verso le regioni più povere.

A questo proposito, c’è da dire, per esempio, che negli ultimi anni più volte, per quello che riguarda la dinamica politica interna tedesca, la Baviera ha cercato di modificare il meccanismo di riequilibrio fiscale all’interno del patto di solidarietà che è proprio del federalismo tedesco. In Germania, infatti, le regioni più ricche compensano il gettito inferiore delle regioni più povere.

Questo per produrre un meccanismo di riequilibrio che consenta poi di avere dei volani di crescita per le regioni che sono più depresse. Più volte, soprattutto nei primi anni dell’ingresso dei cinque nuovi länder dell’Est, quando si discuteva della legge di bilancio dello Stato tedesco, la Baviera ha cercato di modificare il principio di solidarietà, adducendo come motivazione che i bavaresi pagavano di più per compensare i deficit economici dei länder più poveri.
Parlavi di una specie di “internazionale” etnofederalista finanziata e coordinata dalla Baviera…

Gli etnofederalisti si sono raccolti tutti in questa associazione a Monaco di Baviera, l’Intereg, che nasce alla fine degli anni ’70 ed è espressione diretta dell’Ente centrale bavarese d’istruzione politica che, a sua volta, è espressione del governo del Land della Baviera.

Tant’è che, all’inizio, il responsabile dell’Intereg ero lo stesso responsabile dell’Ente centrale d’istruzione politica bavarese. Il compito dell’Intereg, che raccoglie i teorici dell’etnofederalismo, del regionalismo a sfondo etnico, è quello di elaborare i concetti di regionalismo, di tutela delle minoranze, di diritti dei gruppi. Ed è l’Intereg ad elaborare per primo, un anno prima della caduta del Muro di Berlino, nell’88, il progetto di una regione europea transfrontaliera, a Regio Egrensis, che inglobi la regione dei Sudeti, una delle regioni storicamente più sensibili, per i rapporti tra la Germania e l’allora Cecoslovacchia. Ora, l’Intereg nasce su iniziativa della Baviera e dell’Associazione dei profughi tedeschi che raccoglie i profughi cacciati dalle regioni dell’Est dopo la seconda guerra mondiale.

Bisogna considerare che, dei dodici milioni di profughi che raggiunsero la Germania Occidentale dopo la seconda guerra mondiale, due milioni si sono insediati in Baviera e costituiscono un fortissimo bacino elettorale della Csu. E bisogna considerare anche che l’associazione dei profughi non riconosce i confini odierni della Germania, soprattutto quello tedesco-polacco dell’Oder-Neisse. Tra l’altro, il ministro-presidente della Baviera negli anni ’80, Strauss, più volte teorizzò che i veri confini della Germania erano i confini del 1937.

Allora la Csu e l’associazione dei profughi tedeschi, hanno elaborato questo progetto di regione transfrontaliera Egrensis nell’88; nell’89 è caduto il muro; nel ’91 è stata inaugurata la regione transfrontaliera, ma a livello progettuale di collaborazione transfrontaliera. Particolare curioso: la sede centrale della Regio Egrensis è nei Sudeti in un castello, dove ha sede la l’associazione dei profughi tedeschi, associazione revanscista che non riconosce i confini odierni della Germania.

Altro particolare interessante è che, a rilanciare nel ’91 il progetto di una regione transfrontaliera interessata da un altro confine sensibile, il Brennero, in direzione di una regione europea del Tirolo, è un altro professore etnofederalista, Peter Pernthaler, professore a Innsbruck e membro del kuratorium dell’Intereg di Monaco di Baviera. Quindi il think tank etnofederalista è a Monaco di Baviera, ed è lì che nascono i progetti di regione europea della seconda generazione, che interessano tutti i confini sensibili, ancora in parte contestati.

Vale la pena ricordare che il regionalismo transfrontaliero degli anni ’50, ’60, ’70, aveva una forte connotazione economica e dovendo servire soprattutto a superare la collocazione periferica delle rispettive regioni di confine tedesche, olandesi, francesi e del Benelux. Queste regioni europee della seconda generazione sorgono invece lungo frontiere contestate.

Se uno guarda oggi una cartina geografica della Germania, la vede circondata da un cordone ombelicale fatto tutto da regioni europee transfrontaliere che, di fatto, estendono i suoi confini a Ovest verso l’Olanda, il Benelux, la Francia; a Sud verso l’Italia e poi all’Est verso la Polonia. Uno dei due co-direttori, con Caracciolo, di Limes, Korinman, parla di germanoregionalismo e si chiede: “Ma saranno ponti di dialogo o saranno un modo moderno di far correre l’egemonia tedesca verso Est?”.

Ma alla fine cos’è stato decisivo per la spinta all’allargamento? Kohl o la rincorsa dell’Italia e della Spagna?

Alla fine credo sia stata determinante l’Italia, e in particolare il governo Prodi, che è riuscito a conseguire all’interno il risanamento economico e finanziario e a trovare all’esterno un accordo molto stretto con la Francia. La Francia infatti, in un’Europa a due velocità, si sarebbe trovata in un nucleo duro con la Germania e paesi come il Benelux e l’Austria che ruotano comunque intorno alla Germania.

Così, invece, la Francia può confidare in un alleato come l’Italia e in un altro alleato possibile, come la Spagna, con cui, del resto, ha in comune l’affaccio all’area del Mediterraneo che è l’altro polo, se non di espansione, comunque d’interesse dell’Unione Europea.

L’alleanza tra Italia e Francia può bilanciare la tendenza tedesca a fare della Mitteleuropa e dell’Est il polo centrale dell’Unione Europea. Prodi racconta spesso che lui si è reso conto che l’Italia ce l’avrebbe fatta dopo un incontro con Chirac in cui si è sentito dire che l’Europa non sarebbe stata pensabile senza l’Italia. In quel modo veniva riconosciuto all’Italia non solo un ruolo economico, ma anche culturale e politico.

[…]

http://www.unacitta.it/newsite/intervista_stampa.asp?rifpag=homeproblconvivenza&id=398&anno=1999

Il Corriere della Sera pubblica un inno alla jugoslavizzazione dell’Italia: perché?

Premesso che sono categoricamente ostile al patriottismo ed al nazionalismo per una lunga serie di ragioni che ho sviscerato qui

http://www.raetia.com/index.php?id=1518

e che sono decisamente favorevole agli autonomismi per un’altra serie di ragioni esposte qui:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/08/barbara-spinelli-si-sbaglia-di-grosso-riguardo-agli-stati-uniti-deuropa/

e più in genere nella categoria “autonomia” sullo stesso blog; ciò non mi impedisce di vedere il bluff del Corriere della Sera.

Mi riferisco a questa intervista a Marcia Christoff Kurapovna (studiosa indipendente sloveno-americana, residente a Vienna) in cui la suddetta evoca un futuro di staterelli italiani regionali, alla mercé dei grandi poteri globali/oligarchie finanziarie, sul modello dell’Alto Adige/Sudtirolo (!!!!) o della Padania (!!!!):

“…uso l’esempio del Sud Tirolo (l’Alto Adige, ndr). Quando ogni regione si auto-organizza, le cose riprendono a funzionare, come lì. Quando si dà uno stop alle interferenze e alle imposizioni di Roma, intesa come centro dello Stato, l’ innovazione e la crescita lievitano, scompare la paura dello Stato. E la competitività ne guadagna enormemente. Questo, credo, è quello che l’ Italia dovrebbe imparare dalla sua storia”.
“Cosa pensa della Lega Nord? «Confesso che inizialmente l’ho vista con simpatia. Quando è cresciuta mi pare che si sia invece persa, che non abbia più avuto spinta innovativa». Ma lei dunque immagina un’Italia delle regioni, dei comuni? «Come esito finale sì, delle regioni. Il primo passo necessario, probabilmente, sarebbe la separazione tra il Nord e il Sud. Per togliere paura ad ambedue le entità. Poi si dovrebbe andare verso regioni autonome, che si governano da sole. Dopo un po’ si potrebbe introdurre qualcosa che dia un feeling simbolico di identità italiana, ma niente di più. Come in alcuni Paesi è la monarchia».

http://archiviostorico.corriere.it/2012/luglio/14/Ispiratevi_alle_citta_del_Rinascimento_co_8_120714018.shtml

l’intervista è scadente e quindi potrebbe apparire come una boutade. Non lo è. All’origine di questa singolare scelta editoriale c’è quest’analisi della suddetta ricercatrice:

http://online.wsj.com/article/SB10001424052702303919504577522641691745740.html

La quale scrive per il Wall Street Journal, l’International Herald Tribune e l’Economist. Spazio che si è conquistata sul campo, avendo difeso paradisi fiscali come il Liechtenstein (cf. i paradisi fiscali sono il meccanismo che consente ai ricchi di fregarsene delle regole degli stati e della giustizia sociale):

http://courses.wcupa.edu/rbove/eco343/040compecon/Europe%20West/Austria/040421leichtens.txt

ed essendo una convinta neoliberista, ammiratrice di Ljubo Sirc, filosofo ed economista sloveno aderente alla Scuola Austriaca.

La Scuola Austriaca è quella di Ludwig von Mises e Friedrich vonHayek.

Scrive un ammiratore di Mises: “Molti lettori potrebbero essere sorpresi di apprendere che Mises e l’Istituto furono in grado di restare a galla negli anni immediatamente successivi al suo arrivo negli Stati Uniti unicamente grazie alle generose sovvenzioni della Fondazione Rockefeller. In effetti, per i primi anni di Mises negli Stati Uniti, prima della sua nomina a docente a tempo determinato in visita presso la Graduate School of Business Administration alla NewYork University (NYU) nel 1945, era quasi totalmente dipendente da borse di ricerca annuali della Rockefeller Foundation”.

http://www.independent.org/publications/tir/article.asp?a=692

Qui ho illustrato i legami tra i grandi poteri finanziari e i contemporanei paladini della scuola austriaca (es. Tea Party e Oscar Giannino – ma anche Ostellino, Giavazzi, ecc. del Corriere del Sera, o Alberto Bisin e Alessandro De Nicola della Repubblica-l’Espresso):

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/06/25/il-criptofascismo-dei-liberalizzatori-e-dei-privatizzatori/

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/06/10/tea-party-il-totalitarismo-anarchico-alla-conquista-degli-stati-uniti/

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/06/08/oscar-giannino-e-la-svolta-neoliberista-di-repubblica/

Come se tutto questo non bastasse, la Kurapovna è anche certa che Draza Mihajlovic e i Cetnici (!!!)

http://pasudest.blogspot.it/2012/03/i-balcani-e-il-passato-che-non-passa.html

fossero i guardiani dei valori occidentali in Jugoslavia:

http://www.amazon.com/Shadows-Mountain-Resistance-Rivalries-Yugoslavia/dp/0470084561/ref=sr_1_1?ie=UTF8&s=books&qid=1263785138&sr=8-1

(e George W. Bush, guarda caso, lo ha insignito di un’onorificenza postuma)

La sua difesa d’ufficio è stata così efficace da guadagnarsi un posto di rilievo nel sito che glorifica le “imprese” di Mihajlovic:

http://www.generalmihailovich.com/2010/02/shadows-on-mountain-allies-resistance.html

Abbiamo dunque una nazionalista/revanscista serba che, per qualche ragione, afferma che la Serbia ha tutte le ragioni di esistere come stato nazionale (per la sua presunta ma inesistente omogeneità etnica?), mentre non si sogna di difendere la ragione di esistere della Jugoslavia e cerca di delegittimare il diritto di esistere della Grecia e dell’Italia, due nazioni che stanno subendo l’attacco dei neoliberisti che le governano (Monti è dichiaratamente ed orgogliosamente neoliberista), con le loro privatizzazioni forsennate del patrimonio pubblico / beni comuni, e che speculano contro di esse (cf. spread e agenzie di rating).

Questo fenomeno va letto nel quadro del progetto di un’Europa a due velocità (a geometria variabile – cf. Luigi Zingales, Angela Merkel) che consenta all’area economica tedesca di non rinunciare alle aree produttive dei paesi del Mediterraneo, senza però accollarsi il fardello di quelle “più arretrate” ( = meno inclini a vivere per lavorare).

Un progetto, questo, che piaceva molto agli economisti tedeschi degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso e che si è realizzato tra l’8 settembre 1943 ed il 29 agosto 1944 (liberazione di Parigi). Un progetto fortemente voluto dagli etnofederalisti nazistoidi bavaresi.

Dunque, attenzione! Questo progetto è l’antitesi del processo di unificazione europea voluto da Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi e Robert Schuman.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: