L’Africa, i diversamente bianchi, i diversamente umani

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Negli ultimi dieci anni, 6 delle 10 economie a crescita più rapida al mondo erano africane.

ONU – rapporto finale sull’Agenda di Sviluppo Post-2015

Un continente ricchissimo di risorse naturali di ogni genere e di terreni agricoli inutilizzati, giovanissimo, dinamico: l’Africa, assieme al Brasile, è il futuro.

Il suo sviluppo sostenibile sarà garanzia del nostro sviluppo sostenibile. La sua capacità di lasciarsi alle spalle un passato fatto di tribalismi, schiavitù, colonialismo e neocolonialismo economico-finanziario, disuguaglianza e patriarcato sarà la miglior prova del fatto che ci meritiamo un futuro. Gli africani dovranno essere pienamente coinvolti nella gestione del pianeta e considerati come dei nostri pari, con gli stessi diritti alla condivisione delle risorse del pianeta. Su questo pianeta non dovranno più esistere assetti castali, secessioni interne al genere umano che assegnano un trattamento preferenziale a chi ha la pelle più chiara e un conto in banca più cospicuo: slavi, greci e napoletani, per fare alcuni esempi, sono da alcuni (molti leghisti e nordeuropei) considerati meno bianchi degli altri bianchi; i bianchi sotto la soglia di povertà sono grigi e diversi neri benestanti sono “meno neri” degli altri e fanno di tutto per mostrarlo. Le stesse donne bianche sono meno bianche degli uomini bianchi. Ci sono molte persone diversamente bianche. Nessuno dovrebbe essere diversamente umano.

L’immigrato africano è pagato meno e licenziato prima. Se è donna le cose possono andare anche peggio. I suoi figli difficilmente riceveranno un’educazione pari a quella dei loro coetanei bianchi.

La legittimazione di queste forme di discriminazioni ha impedito che, a livello globale, le classi disagiate (bianche e “colorate”) facessero fronte comune, presentassero delle precise rivendicazioni e riuscissero gradualmente a costruire una società meno iniqua e meno feroce.

L’Africa può aiutarci a superare questo impasse, a capire che quando parliamo di extracomunitari stiamo parlando di noi stessi, della comune sorte della specie umana e che battersi per un mondo migliore significa battersi per la pari dignità di tutti gli esseri umani, dato che solo così sarà possibile spianare un po’ la piramide sociale che ci accompagna e vessa almeno dai tempi dei faraoni. Battersi per chi è diverso da noi significa battersi per noi stessi: un mondo in cui le donne, gli omosessuali, i musulmani, i “colorati”, gli animali e l’ambiente nel suo complesso sono tutelati è un mondo migliore per tutti, tranne relativamente pochi milioni di privilegiati che subiranno una perdita di status.

La civiltà umana non sarà completa, non sarà civile e non sarà sostenibile senza l’Africa, senza una classe media africana che guidi il continente e che lo renda protagonista.

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COSA SCRUTIAMO NEL NOSTRO ORIZZONTE?

Tutti, a prescindere dai colori politici, ci siam chiesti,
ha senso la vita nel mondo che appar così balordo?!
Sono necessari innanzitutto ideali virtuosi ed onesti,
con una meta, senza aver l’atteggiamento beffardo!

Prima conosciam la porta che conduce al nostro IO,
che consiste nel saper crescere imparar e cambiare,
rispettando il prossimo, la Terra, per chi crede, DIO.
Solo così avrà un valore esistere, senza vivacchiare!

La chiave non è da ricercare fuori, ma dentro di noi.
se la ritroviam, l’età, le crisi, non faranno più paura!
Si sa, sto mondo è pieno di camaleonti e di avvoltoi
meschini opportunisti, pronti a depredarci con cura!

Molti sono determinati a dirigersi verso la saggezza,
così probabilmente anche i ricordi rimarranno soavi:
ad ogni angolo del mondo vedremo arte e bellezza!
Se ci sarà il premio OK,comunque diverremmo savi.

Son in tanti che “vedono” il nostro futuro su Marte!
Perché piuttosto non cerchiam di rigenerar la Terra,
di farne un giardino che sia davver un opera d’arte,
con una primaria, equilibrata barriera:l’effetto serra.

Perché no, molti sperano in un nuovo rinascimento,
dove,con nuove scoperte scientifiche e con legalità,
con disarmo, ci sia pace, stabilità, pure se a rilento.
I giovani poi han idee che esaltan parte di umanità!

Molti, nonostante la grave crisi non solo economica,
auspican ci sia un rinnovato orizzonte per i loro figli,
con l’acqua del mare (da cui proviene la vita) amica,
e che tenebre degli abissi non occultin fatali “artigli”.

Giorgio Ombrini

Lo schiavismo imprigiona anche gli schiavisti (per molte generazioni)

Montesquieu mon amour

Il grande filosofo Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu (1689-1755) – nella foto, in uno dei suoi momenti più ispirati ;o) – fu un celebre intellettuale illuminista. Non fu certamente privo di difetti e non tutti suoi giudizi sarebbero condivisibili, ai nostri occhi, ma qui io voglio celebrare unicamente la sua grandezza, nella speranza che funga da modello anche per molti altri.

Pochi sanno che cominciò la sua brillante carriera, in qualità di consigliere e poi presidente del parlamento di Bordeaux, agli inizi del diciottesimo secolo, difendendo la dignità di una casta di reietti, i cagots. Fu in quell’occasione che formulò le sue idee egalitarie, seguendo questo ragionamento (pseudo-sillogismo): le tirannie si fondano sulla paura > i cagots sono temuti > l’uguaglianza e la democrazia dovranno servire ad abolire la paura.

I cagots (variamente denominati Cagots, Gézitain, Chrestians, Gahets, Capots, Agots) della regione pirenaica Francese e Spagnola rappresentano il primo e uno dei più formidabili ed atroci esempi di biologizzazione di una categoria umana. Questi sfortunati esseri umani furono trasformati in una sub-specie, una casta di intoccabili segregati ed ostracizzati dal resto della popolazione.

Questo episodio della storia del razzismo è importante perché mostra che il razzismo era presente anche nei paesi mediterranei di tradizione greco-romana ed è possibile che in qualche modo questo fenomeno fosse collegato al tentativo di biologizzare le differenze culturali di Mori ed Ebrei nella Spagna dell’Inquisizione. Sappiamo infatti che l’Inquisizione impiegò medici spagnoli per determinare il grado di purezza razziale degli imputati (Alcalà, 1984) e lo stesso avvenne nella Germania nazista, quando ai medici genetisti (Erbarzt) venne richiesto di stabilire la proporzione di “ebraicità” dei certi cittadini tedeschi.

È tuttavia importante tenere a mente che la segregazione non fu codificata dalle autorità spagnole e francesi, eredi della giurisprudenza romana che rifiutava recisamente di adottare un  parametro biologico per la definizione della persona giuridica. Anche gli statuti di limpieza de sangre spagnoli furono avversati persino da numerosi inquisitori e di conseguenza essi vennero raramente adottati, ed ancor più raramente osservati (Kamen 1998, Baud 2001).

Tornando ai nostri cagots, è possible che questo termine possa essere emerso nel Medioevo a partire da un termine della parlata béarnais che stava ad indicare i lebbrosi. Dunque, più che ad una tara ereditaria, esso si riferiva al rischio di contagio ad essi associato. Tuttavia, sembra abbastanza certo che non di lebbrosi si trattasse, ma di reietti, gozzuti, ed asociali. La ragione principale di questa discriminazione è ancora incerta, e la credenza popolare la faceva risalire ad una remota discendenza gotica, celtica o saracena, ossia ad una distinzione etno-razziale che aveva reso possibile l’arbitraria creazione di una race maudite, a dispetto dei dubbi e delle obiezioni sollevati da un certo numero di medici, molti dei quali confessavano di non poter distinguere i cagots dai “normali”.

Questo tipo di apartheid pre-moderno durò per diversi secoli. I cagots non potevano frequentare i “normali” e potevano solo lavorare come carpentieri e pastori, essendo però costretti a lasciare i centri abitati al calar del sole. Non potevano portare armi e possedere terre, delle sezioni delle chiese erano loro riservate in modo da non porli in contatto con gli altri fedeli, dovevano portare sulle vesti dei contrassegni che li identificassero e non potevano essere seppelliti nei cimiteri ufficiali. Poi, a partire dalla fine del diciassettesimo secolo, i magistrati ed amministratori locali più illuminati, come Montesquieu, appunto (Bériac 1990; Kingston 1996), cominciarono a lottare per l’abolizione di queste aberrazioni sociali, anche in virtù delle dichiarazioni sempre più egalitarie ed anti-razziste di medici e chirurghi.

Fu quest’esperienza ad indirizzare il pensiero di Montesquieu verso l’attivismo universalista e democratico. Furono gli insegnamenti che ne trasse a guidarlo nella composizione delle “Lettere Persiane” (1721), in cui esaltava la diversità di ogni singolo essere umano e denunciava il desiderio di irreggimentare questa varietà, di armonizzarla in un’uniformità di caratteri, estinguendone la rigogliosità. Uno dei temi centrali dell’opera è che la persona può realizzarsi solo assieme alle altre persone, non a loro spese. Il che implica che per godere del prossimo, debbo rispettare la sua autenticità (e lui o lei deve rispettare la mia). Come recita l’adagio: “il mondo è bello perché è vario”. Il che causa la dissoluzione dell’istinto di possesso reciproco ma anche della rigidità identitaria: nessuna personalità è intrinsecamente più inestimabile delle altre, dunque nessuna identità è essenziale per garantire il successo nella vita. Posso recitare una molteplicità di ruoli nel corso della mia esistenza; anzi, è nel mio interesse farlo, se è questa la mia vocazione, ciò che mi rende autentico.

Fu così che cominciò ad affermarsi la democrazia moderna, che non si fonda sull’idea che l’uomo comune o medio, non particolarmente competente, andrebbe riformato in linea con le aspettative dei grandi pianificatori, bensì sulla premessa che uomini e donne, per quanto inevitabilmente imperfetti, siano capaci di compiere le loro scelte, di coltivare una propria autonomia di giudizio, di saper gestire i conflitti che immancabilmente ne derivano.

Montesquieu recupera e proietta verso il futuro l’umanesimo universalista di Pico della Mirandola, Erasmo da Rotterdam e Bartolomé de las Casas.

Per la stessa ragione, nel capitolo intitolato “Sull’Impero della Cina” (“Lo spirito delle leggi”, 1748), il Nostro approva il giudizio dell’ammiraglio Anson sulla società cinese, schierandosi contro i padri gesuiti che, ammaliati dall’autoritarismo imperiale cinese e dai loro obiettivi, idealizzano quella nazione:

Ci parlano i nostri missionari del vasto impero della Cina, come d’un governo ammirabile, che mescola insieme nel suo principio il timore, l’onore e la virtù. Adunque ho io piantata una vana distinzione, allorché ho stabiliti i principi dei tre governi. Ignoro che cosa sia questo onore, di cui si parla presso a popoli ai quali nulla si fa fare se non a forza di bastone. Inoltre se ne fanno poco i nostri commercianti di questa idea di virtù di cui parlano i missionari; si possono interrogare a proposito delle estorsioni per mano dei mandarini…Non potrebbe essere che i missionari fossero stati ingannati da un’apparenza d’ordine; che avesse lor fatto colpo quel continuo esercizio del volere d’un solo da cui sono governati essi stessi, e che tanto amano di trovare nelle corti dei re indiani? Poiché essi vi si recano con nessun’altra mira che quella di effettuarvi dei grandi cambiamenti, è loro più agevole convincere i principi che possono tutto, che persuadere i popoli che tutto possono soffrire”.

I contemporanei apprezzano Montesquieu per la sua passione per il pluralismo, che lo porta a formulare la “teoria dei corpi intermedi”, ossia a perorare la tesi che tra sovrano e cittadini siano necessario l’inserimento di gradi intermedi di distribuzione del potere che tutelino questi ultimi dalle forme dispotiche del suo esercizio. Per Montesquieu, come per James Madison, uno dei padri del costituzionalismo americano, una società democratica moderna non può fare a meno di un meccanismo di bilanciamento delle forze antagonistiche, degli interessi contrastanti, per diluire gli impulsi coercitivi ed autoritari.

M. afferma che nessuna società può rendere felici gli esseri umani se non garantisce il diritto fondamentale di ogni uomo e donna a poter essere se stesso/a, ad esprimere e coltivare la propria personalità, nel rispetto delle leggi. Questa concezione dell’individualità democratica prende le mosse dal presupposto che se tutte le persone sono messe nella posizione di poter realizzare le proprie finalità personali (in forme legittime, ossia che tutelino il diritto altrui di fare lo stesso) il fine e la volontà di qualcuno in particolare non potrà contare più di quello degli altri (come invece avviene nelle oligarchie e nelle monarchie).

Per M. l’effetto benefico della città è quello di smantellare la fissità dei ruoli imposti dalle società tradizionali, una rigidità mortificante.

Se la società cerca di reprimere la varietà prodotta in natura la conseguenza non potrà che essere una legittima rivolta.

Una posizione, questa, fortemente avversata da Rousseau, paladino della “volontà generale” che tanto piace ai fautori della democrazia diretta: se il popolo è sovrano, la sua volontà è legge ed ogni interesse divergente non ha ragione di esistere. Oggigiorno questa si chiamerebbe “tirannia della maggioranza”. Pur con tutti i nostri difetti, abbiamo fatto molti, importanti passi in avanti sulla strada dell’affermazione della dignità umana. La strada, però, è ancora lunga e passa per il rafforzamento e consolidamento della dignità degli immigrati e di tutti gli esseri viventi.

Montesquieu era convinto che il commercio fosse una scuola di tolleranza. Infatti la compravendita di beni insegnava alle persone che era possibile accordarsi su un certo numero di regole di base, pur conservando opinioni anche radicalmente antitetiche sulle cose della vita. Mettendo a contatto genti di estrazione sociale e provenienza diversa, il commercio non poteva fare a meno di distruggere il particolarismo e promuovere la tolleranza per le diversità.

Per questo soleva dire: “Sono necessariamente uomo…e francese solo per caso”.

Montesquieu era anche convinto che la certezza della pena avesse un potere di deterrenza molto maggiore della sua severità. Il che è indubbiamente vero (pena di morte docet).

Trauttmansdorff o Rosengarten? A proposito di apartheid

Estratto da

Stefano Fait e Mauro Fattor, “Contro i miti etnici: alla ricerca di un Alto Adige diverso“, Raetia, 2010, 224 pagine.

Un prato con molti fiori diversi è più bello di un prato dove cresce una sola varietà di fiori

Franjo Komarica, vescovo di Banja Luka

Chi parla di apartheid a proposito della situazione altoatesina non viene quasi mai preso sul serio e, quando ciò avviene, è spesso solo per esprimere la propria indignazione nei confronti di chi stabilisce un parallelo così infelicemente indelicato nei confronti di chi ha sofferto realmente a causa del regime segregazionista sudafricano. In pratica si accusa il provocatore di avere poche idee e pure confuse a proposito di entrambe le realtà. In passato io stesso ho usato il termine apartheid per definire la segmentazione etnica altoatesina e, pur essendo perfettamente consapevole della necessità di avanzare numerosi e doverosi distinguo, ritengo che chi afferma di non dovere neppure prendere in considerazione il confronto non sia pienamente al corrente delle sostanziali affinità tra le radici del pensiero razziale sudafricano e quelle del patriottismo etnicista sudtirolese. È bene dunque dedicare un capitolo a questa disputa perché altrimenti si continuerà pervicacemente a credere che, in tempi ragionevoli, in Alto Adige si potrà un giorno giungere alla separazione finale tra autonomismo e segmentazione etnica, preludio di una scelta di autodeterminazione politica più matura e persino condivisibile. Queste, secondo me, sono vane illusioni giacché, localmente, autonomia ed etnicismo (ossia razzismo) esistono e si sostengono vicendevolmente in una relazione simbiotica. Solo la libera e determinata scelta di migliaia di residenti di varcare il confine etnico, cioè di “contaminare” deliberatamente la propria appartenenza originaria ed abbracciare una pluriappartenenza potrà cambiare le cose. Quanti sono stati disposti a farlo finora? Solo alcune migliaia di persone in poco meno di ottant’anni di convivenza forzata. Inoltre si può prevedere che il continuo afflusso di immigrati causerà un ulteriore irrigidimento dei confini etnici – come dimostrano i successi delle destre etnopopuliste nell’area alpina di lingua tedesca. Ci vorrà del tempo, come ci è voluto molto tempo per abbattere il regime segregazionista, ma l’etnocrazia altoatesina è destinata ad essere spazzata via dalla Storia. La questione è come far sì che ciò avvenga senza spargimenti di sangue.

Possiamo iniziare prendendo in esame la questione demografica. Israele, la popolazione bianca sudafricana, i Figiani, gli abitanti del Québec, i Sudtirolesi e tanti altri popoli dove il criterio dell’ethnos non è ancora stato sostituito da quello del demos, sono accomunati dalla paura di essere numericamente schiacciati da una maggioranza etnicamente diversa, che metterebbe a repentaglio la stabilità del modello socio-amministrativo etnocratico che hanno messo in piedi per tutelare i propri interessi collettivi. Solo in Sudafrica e negli stati confederati statunitensi questa paura si è tradotta in specifiche misure di vera e propria segregazione etnica, ma il potenziale per una deriva analoga sono presenti in tutte queste realtà e, paradossalmente, proprio in virtù del richiamo ai diritti inviolabili dei popoli, tra i quali quello all’integrità e l’autenticità, estensione del discorso dei diritti naturali. Questo tipo di interpretazione comunitarista dei diritti naturali in pratica giustifica una serie di interferenze o violazioni della sfera privata nella misura in cui questo possa portare dei benefici ai gruppi in questione. Tuttavia se ogni diritto comporta un dovere, come si può assegnare alcun tipo di responsabilità ad un gruppo per la condotta dei suoi membri? Nessun sistema penale avanzato lo potrebbe prendere nella pur minima considerazione. Giungiamo così al pericoloso paradosso che le persone hanno maggiori diritti se sono etnicamente definite senza che ciò comporti maggiori responsabilità verso l’esterno, ma piuttosto un esubero di doveri collettivi (verso il gruppo stesso), a discapito della creatività, del diritto al dissenso e, nel complesso, del progresso civile e morale. Questo è un paradosso intrinseco al rapporto tra democrazia e diritti umani. Infatti la democrazia non è di per sé favorevole alla tutela e promozione dei diritti umani in ogni circostanza. Al contrario, la Storia insegna che “il popolo”, usando discrezionalmente i poteri dello Stato, non ha perso molte occasioni per imporre la sua volontà a chi non ne faceva parte, etichettato come inferiore o nocivo. Dunque, come raccomanda Jack Donnelly, uno dei massimi studiosi mondiali di diritti umani e relazioni internazionali, “gli attivisti per i diritti umani devono essere almeno tanto diffidenti del popolo quanto lo sono degli Stati e nel contempo devono servirsi dello Stato per proteggersi dalle passioni popolari e dai pregiudizi” (Donnelly, 1999: p. 403). L’unico modo per riuscirvi è trasformare lo Stato “da uno strumento nelle mani di un gruppo dominante – e non solo quando si tratta di una piccola aristocrazia ereditaria, un potente gruppo di capitalisti plutocrati, l’esercito, o un partito totalitario, ma anche quando è la maggioranza di una società ad essere politicamente dominante – ad un guardiano dei diritti umani di ogni cittadino” (ibid. p. 404).

Cerchiamo di capire meglio come questo paradosso fondamentale prese forma nel Sudafrica del secondo dopoguerra, dove per popolo s’intendeva la minoranza bianca. Il Partito Nazionale (che rappresentava i nazionalisti Afrikaner) salì al potere nel 1948 e s’incaricò di istituire il cosiddetto “apartheid”. L’idea di questo modello di struttura organizzativa era nata negli anni Trenta, quando i leader afrikaner proclamarono che la visione del mondo del loro popolo non si poteva conciliare con i principi del liberalismo occidentale e con il suo laicismo e si riconobbero sempre più in certi valori comunitaristi promossi dal fascismo e poi dal nazismo[1]. Il futuro dell’Afrikanerdom doveva essere all’insegna della purezza etnico-razziale, dell’autenticità della tradizione e della lingua, della difesa dei valori cristiani e, più in generale, della strenua difesa di società e cultura contro la loro progressiva americanizzazione. Insomma l’apartheid non va ridotto solo ad una mera questione razziale, vi era anche il netto rifiuto del modello economico e sociale anglo-americano e della lingua inglese che stava diventando egemone e contaminava l’afrikaans. Il principio cardine dell’apartheid, come suggerisce il suo nome – un neologismo che significa “separatezza” – era una nozione dogmatica di divisione e distanziamento culturale e sociale che trovava la sua fonte di legittimazione nell’ideologia nazionalista e nel neo-Calvinismo del teologo e politico olandese Abraham Kuyper (1837-1920). Specialmente nella “teoria delle sfere di sovranità” (souvereiniteit in eigen kring in olandese, soewereiniteit in eie kring in afrikaans), secondo cui potere ed autorità sono stati assegnati ai popoli da Dio per tramite del Cristo, in modo tale da essere distribuiti equamente tra le varie sfere, o istituzioni, dell’esistenza umana, ognuna di pari dignità rispetto alle altre, sovrana su se stessa ed indipendente dalle altre (Norval, 1996). Da qui nasce il principio dell’uguaglianza – formale, non certo sostanziale –, tra la cultura bianca, quella nera e quella delle altre minoranze, che andavano separate per preservarne i tratti caratteristici e permetterne un’evoluzione “libera” e distinta, nei tempi e nei modi più idonei a ciascuna sfera o dominio (eiesoortigheid, “propriezza”). Il contenuto delle sfere non doveva essere diluito o contaminato, ma rispettato e valorizzato, perchè l’elezione divina coincideva con quella culturale (Templin, 1984; Thompson, 1985). Anche in Sud Africa, come in Israele e in Alto Adige, ritroviamo quindi il motivo dell’Alleanza con Dio che garantisce al Popolo Eletto il diritto di insediamento su una Terra Promessa (Sion) e lo protegge dai suoi nemici interni ed esterni. Ritroviamo la dottrina della separazione tra uguali, dove alcuni gruppi sono più uguali degli altri e a ciascuno è assegnato un destino esclusivo (Johnson, 1983). Inoltre vanno segnalate la creazione di un sistema scolastico separato, l’uso obbligatorio della madrelingua nelle scuole e la rimozione degli scolari Afrikaners dalle scuole inglesi (Louw, 2004). È piuttosto ironico, ma anche emblematico di un certo modo di pensare i rapporti tra gruppi umani, che l’apartheid fosse stato concepito dai suoi promotori come l’espressione di una politica umanitaria, che ripudiava la società castale precedente. Una separazione verticale era infatti preferibile ad una separazione orizzontale. Il sistema castale generava amarezza, frustrazione, risentimento ed avrebbe finito per causare scontri interrazziali. Invece in questo modo i neri si vedevano riconosciuto il diritto di sviluppare la propria specifica identità politico-culturale, evitando così l’approccio assimilatorio, considerato troppo paternalistico (Louw, 2005). Per questo non mancavano ipocrite affermazioni di solidarietà interrazziali con i Bantù, le cui sofferenze sotto il giogo coloniale erano poste sullo stesso piano delle inquietudini prodotte dalle pressioni globalizzanti in seno alla società bianca sudafricana. Così teorici dell’apartheid quali Diederichs, Cronje e Du Plessis denunciavano il capitalismo sfrenato ed il cosmopolitismo liberale che avrebbero portato all’estinzione la ricca diversità etnica sudafricana sostituendola con una scialba uniformità culturale (Louw, op. cit.). J.B.M Hertzog, generale e poi primo ministro dell’Unione del Sudafrica, dichiarò che “il dovere del nativo non è quello di diventare un europeo nero, ma di diventare un nativo migliore, con ideali e con una cultura che siano i suoi” (Dubow, 1989). In realtà, naturalmente, il vero motivo non era quello di rispettare gli usi e costumi altrui, ma quello di evitare un’impura mescolanza etno-razziale (mengelmoes) e conservare il potere politico e l’egemonia socio-culturale.Altrimenti non si capisce perchè questo intervento radicale di ingegneria sociale avrebbe dovuto separare i gruppi etnici anche negli hotel, nei ristoranti, negli ospedali, sulle spiagge, nelle associazioni sportive e culturali, nei treni, ecc. e proibire i matrimoni interrazziali (inclusi quelli con le minoranze indiane e cinesi). Dietro la retorica dell’incompatibilità culturale e della deleteria ibridazione si celava il consueto tentativo di puntellare ideologicamente un sistema di potere delegittimato. L’imperativo della protezione della propria identità rendeva necessaria l’adozione di misure per rafforzare la coscienza etnica. Tra queste c’erano un sistema corporativo di stampo populista (Volkskapitalisme) e la celebrazione rituale del Great Trek dei Voortrekker boeri con la rievocazione storica in costume della migrazione dei pionieri e l’esaltazione degli eroi del passato. I paralleli con la realtà sudtirolese sono numerosi: l’esaltazione delle virtù contadine, la lotta contro la modernità globalizzante, la ricerca dell’autarchia, lo spirito indipendentista, un’intensa religiosità, la guerriglia per bande contro gli invasori guidati da generali “barboni”, l’etnopopulismo ed il patriottismo localista.

Quel che è interessante rilevare è che mentre in Sudafrica questo modello di monoculturalismo plurale portò all’apartheid, in Olanda lo stesso principio organizzativo, ma spogliato di qualunque componente razziale, si manifestò nella forma del verzuiling, o “pluralismo verticale”. Tra gli anni Venti e gli anni Sessanta la società olandese, per consentire alla popolazione di continuare a vivere nelle proprie comunità chiuse a dispetto dell’avanzare della globalizzazione, fu spezzettata in quattro diversi blocchi verticali, o pilastri (zuilen), ciascuno con la propria ideologia di riferimento (socialismo, calvinismo, cattolicesimo, liberalismo, ecc.) e collegati solo dall’intreccio delle rispettive elite e dalla volontà di raggiungere una serie di compromessi per il bene della nazione. In questo modo ogni cittadino poteva vivere in un mondo familiare, ordinario, omogeneo, fatto di banche, mezzi d’informazione, sindacati, partiti, scuole, ospedali, biblioteche, università, associazioni sportive e culturali, bar e chiese ideologicamente corretti e congrui (Wintle 1987). Il motto era “vivere separati ma assieme”, su base egalitaria. Di conseguenza i membri di un pilastro (zuil) non avevano necessità di incontrare i membri degli altri pilastri. Questa auto-segregazione, ufficialmente giustificata dal bisogno di trovare un accordo di massima tra persone di mentalità diversa, servì ad accrescere le distanze sociali tra gruppi di cittadini proprio quando le specificità culturali s’indebolivano a causa della loro prossimità fisica. Nella piena certezza della giustezza delle proprie idee e della erroneità di quelle altrui, si preferì evitare un confronto diretto piuttosto che vedere nel disaccordo e nel contrasto risorse da mettere a frutto per il progresso del paese (Wintle, 2000). Solo la spinta libertaria della fine degli anni Sessanta, che in Olanda non si è ancora fermata, riuscì ad abbattere questo sistema coercitivo, che trova paralleli in società notoriamente instabili ed autoritarie come il Libano, la Malesia, Mauritius, le Figi, l’Irlanda del Nord e Cipro. Ma la nozione stessa di una segmentazione sociale non è morta nei Paesi Bassi. Ancora oggi le etnie minoritarie immigrate sono state inquadrate in un modello multiculturalista molto simile a quello del verzuiling, come se questo fosse l’unico modo di evitare seri conflitti sociali. In realtà anche in passato la segregazione ha funzionato, almeno in parte, solo per una serie di circostanze eccezionali: (a) l’assenza del feudalesimo e quindi il precoce emergere di una società aperta ed egalitaria ostile ad comunità gerarchizzate; (b) un costante, secolare flusso di immigrati; (c) comunità di fedeli di dimensioni comparabili; (d) la tradizionale cooperazione tra le elite; (e) l’emigrazione di un’ampia sezione della popolazione più fondamentalista verso il Michigan ed il Sudafrica; (f) un’economia tradizionalmente fondata su di un intenso commercio marittimo (Pettigrew & Meertens 2003). In seguito i processi di laicizzazione, individuazione e mondializzazione hanno eroso il consenso attorno a questo modello sociale e oggi è finalmente possibile affermare che la celebre tolleranza olandese è stata raggiunta non grazie a, ma nonostante il verzuiling (Pettigrew & Meertens, op. cit.).

Se riesaminiamo quanto detto possiamo notare che in queste società l’interculturalità non era intesa come un valore e che l’enfasi sull’unità nella diversità genera un collage di comunità autoperpetuantesi e per quanto possibile indifferenti le une rispetto alle altre, invece che una società nel senso proprio del termine – un insieme organizzato di individui associati. Notiamo anche che sebbene questo approccio sia in grado di limitare temporaneamente il ricorso alla violenza da parte dei cittadini e dello stato, le tensioni rimangono, e non sono sempre latenti. Se a ciò aggiungiamo il carattere coercitivo nei confronti delle libere scelte individuali, siamo costretti a concludere che questo modello dovrebbe avere un’applicazione limitata nel tempo e nella portata. L’alternativa ad un Giardino di Rose (Stato Razziale) o ad uno zoo di gabbie separate (etnocrazia) è un parco botanico come quello di Castel Trauttmansdorff (democrazia liberale) che riunisce la flora locale e quella di tutto il mondo, realizzando un’integrazione di ibridazioni, non discriminatoria e non intimorita dalle eventuali contaminazioni. Questa è la direzione intrapresa, non senza tentennamenti e difficoltà, dalla Repubblica di Mauritius, ma anche dalla maggior parte dei paesi del Nord Europa e Nord America. Vi si parlano diverse lingue ed è nata una lingua franca creola, si celebrano capodanni e feste religiose assieme, si convive, invece di esistere separatamente. E tutto questo in un paese dove il discorso ufficiale, nella politica come nell’educazione, è stato per lungo tempo primordialista, l’ibridità era vista come una piaga sociale e ci sono casi di politici che, come Langer, hanno rifiutato pubblicamente l’obbligo di identificarsi con un gruppo etnico specifico. La società civile mauriziana ha, in buona parte, ignorato le pretese di politici ed imprenditori etnici (ossia chi ha interesse a sottolineare differenze e separazioni) per amor del quieto vivere. Almeno in questo, e forse non solo in questo, Mauritius è più progredita e civile dell’Alto Adige, a dispetto dell’enorme divario nelle risorse, infrastrutture, alfabetizzazione e sostegno internazionale. Immagino sia questo il cammino da percorrere, quello che conduce ad un luogo dell’anima dove la storia e la cultura del mio prossimo sono anche parte della mia identità, eterogenea, sovrabbondante, plurale di chi non è più uno, non è più una monade, ma più di uno; è eccedente, è poroso, espansivo, comprensivo, senza nel contempo perdere di vista il suo giroscopio interiore, la sua bussola morale, ossia senza abiurare la sua individualità. Dove la mia gente è la gente che considero tale, a prescindere dalle classificazioni ufficiali. La destinazione è il luogo dell’incredibile simmetria, la palintonos harmonia, l’armonia degli opposti eraclitea, dove tutto quel che dissolve unisce, tutto quel che distanzia e separa ricongiunge.

Tenuto conto del fatto che le identità forti sono la conseguenza e non la causa dei conflitti, l’unico modello praticabile è quello di una società aperta, libera da tabù, tribalismi e vincoli imposti dall’alto, dove le scelte sono consapevoli e critiche (Amselle, 2001). Quante speranze ci sono che ciò avvenga? Poche, molto poche, almeno nel breve periodo. In ogni caso, bisognerebbe quantomeno evitare di commettere lo stesso errore dell’Impero Austro-Ungarico che, nell’intento di censire i suoi sudditi su base etnica, finì per indebolire il sentimento di comune appartenenza ad un organismo sovranazionale e potenziò le spinte centrifughe e le dispute tra le varie nazionalità, collassando infine sotto il peso di egoismi e rivendicazioni localistiche più o meno giustificate (Zeman, 1990). Secondo me l’attuale modello autonomista rischia di perpetuare quest’irragionevole contrapposizione tra localismo ed universalismo. Lo smarrimento identitario altoatesino avrebbe potuto essere un terreno fertile per una politica interculturale favorevole alle contaminazioni di idee e stili di vita. Invece gli studi periodici dell’Istituto provinciale di statistica di Bolzano confermano che per i giovani altoatesini i confini etnici rimangono poco permeabili e circa un terzo di loro (con picchi prossimi al 50% tra quelli di lingua italiana)non è soddisfatto dell’attuale modello di convivenza etnica. Ancora fino a pochi anni fa gli Altoatesini di lingua italiana ponevano quelli di lingua tedesca sui gradini più bassi nella scala delle preferenze, dopo Cinesi ed Africani e prima di Tirolesi, Albanesi e Zingari (Kohr et al. 1994; Buzzi et al., 2004). Nell’elaborare il presente modello autonomistico si è pensato che siccome il bersaglio di violenze ed abusi sono spesso i “gruppi umani” allora sono questi che vanno tutelati e risarciti, come se la volontà individuale costituisse una presenza disturbatrice. Ad una violenza semplificatrice della complessità del reale si è opposta una giustizia parimenti semplificatrice ed arbitraria che ha mortificato la libertà di scelta dei singoli, costretti ad auto-amputare la propria identità plurale. A livello politico, poi, questo stato di cose è stato riaffermato da un moralismo manicheo imperniato sull’eroica lotta contro l’oppressore, sia esso di etnia “tedesca” o “italiana”. Proporzionali e censimenti etnici possono funzionare per un paio di generazioni al massimo, quando gli umori della popolazione sono orientati allo scontro. Poi diventano inevitabilmente parte del problema, in quanto mantengono i conflitti latenti, invece di sanarli. La proporzionale etnica tende a spersonalizzare gli individui e stereotipizzare i gruppi e, quando a ciò si aggiunge la competizione per le risorse, le tensioni che ne derivano innescano un meccanismo di identificazione automatica dell’individuo con il suo gruppo di riferimento che sopprime le discrepanze tra identità personale ed identità collettiva. In altre parole nessuna vera riconciliazione è possibile in una democrazia su base etnica. Essa non è casa per nessuno, è cronicamente instabile e giace su un pendio che conduce al baratro della distopia e dello scontro interetnico. Gli esempi che possono servire a minare il dogma dell’etnocrazia sudtirolese sono innumerevoli: Israele, Cipro e Yugoslavia, Myanmar, Malesia, Sri Lanka, Québec, Fiji, Rwanda, Cambogia, Estonia e Slovacchia, oltre ad un eventuale Iraq etnicamente tripartito. Per quanto tempo ancora continueremo ad illuderci? Questo tipo di democrazia etnocratica rimane in vita solo perché una maggioranza di cittadini ha paura di quel che avverrebbe con la sua scomparsa e perché si identifica così fortemente con la patria che qualunque critica all’ideologia dominante nella sua patria è vista come un attacco personale. Erich Fromm aveva già notato che chi criticava la Germania durante il nazismo spingeva sempre più tra le braccia di Hitler anche quei Tedeschi in disaccordo con lui. Questo è il risultato di quel morbo che è il patriottismo, l’assudditarsi del devoto ad un idolo.


[1] Anche se solo una minoranza simpatizzò per Hitler.

“Contro i miti etnici” – un libro “preveggente” ed in offerta speciale (-20%) per i lettori del blog

Seguimi su FACEBOOK e nel gruppo FB “Contro i Miti Etnici”

Preveggente e lucido – (modestia a parte ;o)

Nelle annotazioni precisate che siete lettori del blog di Stefano Fait ed otterrete lo sconto (offerta valida fino al 31 agosto):
http://www.raetia.com/index.php?id=522&no_cache=1&lang=it&title=CONTRO%20I%20MITI%20ETNICI

Stefano Fait/Mauro Fattor
CONTRO I MITI ETNICI
Alla ricerca di un Alto Adige diverso

Osservandolo dall’esterno, l’Alto Adige appare una realtà molto particolare. Nel mezzo dello spettacolare scenario delle Dolomiti, due, anzi tre culture condividono un piccolo fazzoletto di terra, parlano tre lingue diverse e costituiscono un ponte tra nord e sud. Un’immagine che purtroppo, per ragioni storiche, non rispecchia la realtà. Stefano Fait e Mauro Fattor ritraggono l’Alto Adige da una prospettiva esterna e, (pur essendo) consapevoli del contesto storico mostrano che la “Matrix sudtirolese” si basa su principi troppo chiusi e rigidi, spesso interpretati erroneamente. Volk/popolo, Heimat/patria, Kultur/cultura sono concetti da ridefinire per il futuro di questa regione. Secondo gli autori, il presupposto per una pacifica convivenza è andare oltre il culturalismo.

Un’analisi corrosiva e spietata degli idoli e dei miti etnici che frenano la società sudtirolese e non solo. Dall’ideologia del Bergbauer/contadino al dispotismo degli idoli identitari, il libro è il tentativo di mettere a nudo la retorica della patria e del “tempo degli eroi” attraverso il filtro di un’analisi rigorosa che tocca sociologia, antropologia, politica, storia, filosofia.

Premio Itas 2011

del Libro di Montagna

 

SEGNALATO

dalla Giuria

 

59° Trentofilmfestival Montagna Esplorazione Avventura

 

 

 

 

Voci correlate al libro

“Se Fattor e Fait sono due utopisti, sono anche sufficientemente realisti da sapere che la distruzione del paradigma etnico è solo un lato della medaglia. Per questo non si limitano alla demolizione del mito etnico, ma anche a smontare la falsa consapevolezza che deriva dal rendere reale una costruzione sociale.”
Günther Pallaver

 

“È a questa Europa di minoranze in cammino e di identità mutabili che dovremmo affidare il futuro della nostra bella terra. Orgogliosi dell’autogoverno ma al tempo stesso responsabili nel costruire.”
Michele Nardelli

 

Eco della stampa

In Sudtirolo si scrive molto di Sudtirolo. Monografie e saggi di carattere politico e storico, talvolta assai ben documentati, non mancano. Con un piccolo, significativo, difetto. Una riflessione su questa terra pensata e redatta in lingua italiana stenta a decollare, oppure è consegnata alla fugacità di interventi giornalistici che non consentono il necessario approfondimento. Contrastando in modo programmatico questa tendenza, il volume “Contro i miti etnici”, uscito per l’attivissima casa editrice “Raetia” di Bolzano, colma questa lacuna e propone un punto di vista critico sul “modello Südtirol” con il quale è senz’altro utile confrontarsi. Il saggio, utilizzando un linguaggio accessibile a tutti e risultando con ciò comprensibile anche a chi non sia particolarmente esperto di problematiche locali, lancia la sua provocazione e vuol far discutere: decostruire le mitologie che innervano e condizionano un discorso pubblico tuttora impostato sulla prevalenza dei gruppi, proponendo – in opposizione – il senso di una progettualità più vicina alle esigenze degli individui.
Corriere dell’Alto Adige

Il volume di Fait e Fattor è un atto di accusa contro il “doping identitario” della politica locale. (…) Il libro è tanto un saggio quanto un pamphlet.
Alto Adige

Il libro è molto interessante e merita di essere letto con attenzione.
Corriere dell’Alto Adige, Gabriele di Luca

Stefano Fait und Mauro Fattor analysieren die ethnischen Mythen und versuchen die Mechanismen und Beweggründe hinter der patriotischen Rhetorik freizulegen.
Der Brixner

Quello di Fait e Fattor è un coraggioso tentativo di rendere fruibile ad un pubblico di non addetti ai lavori, quello che nasce come uno studio di natura sociale ed antropologica della società altoatesina.
dislivelli, Daniela Zecca

Un libro fondamentale, assolutamente da leggere, forse il testo più “vero” e doloroso mai scritto sull’Alto Adige.
Reinhard Christanell, franzmagazine

INTRODUZIONE

“Vi hanno detto che senza le radici non si costruisce il futuro, che senza un’identità collettiva la vita non ha senso, che l’atto di togliere il crocifisso dai luoghi pubblici è un’offesa a ciascuno di voi, prima ancora che a Dio, che ognuno dovrebbe essere orgoglioso della propria patria/Heimat ed è tenuto ad amare la propria lingua. Tutto questo lo si deve fare a prescindere. Un po’ come le Tavole della Legge donate da Geova a Mosè sul Sinai: “Io sono il Signore, tuo Dio… Non avere altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine… Non ti prostrerai davanti a quelle cose…ecc.” I Comandamenti sono stati debitamente aggiornati e la loro osservanza è dovuta. È curioso che l’unico animale terrestre nato per essere libero abbia trascorso la sua storia escogitando ogni possibile mezzo e metodo per ingabbiarsi. Eppure, per noi umani, non esiste a questo mondo nulla di inevitabile, tranne la morte. Geni, ambienti familiari, culture, lingue, estrazione sociale, ecc. non programmano la nostra esistenza. È estremamente facile provarlo…”
CONTINUA QUI

Come sono avanti i Bosniaci, rispetto all’Alto Adige

Segregazione scolastica, un tribunale dice basta alla divisione fra croati e musulmani

di Giorgio Fruscione

“Adesso basta. È quello che ha detto il tribunale di Mostar in merito all’odiosa questione “due scuole sotto lo stesso tetto (dvije škole pod jednim krovom). Il tribunale della capitale erzegovese, che ha giurisdizione su tutto il cantone dell’Erzegovina-Narenta, ha infatti stabilito che il fenomeno rappresenta una violazione della legge sul divieto di discriminazione.

La sentenza dei giudici è arrivata lo scorso 27 aprile, stabilendo altresì che il Ministero dell’istruzione, della scienza, della cultura e dello sport del suddetto cantone ha tempo fino al primo di settembre 2012 per rimuovere questo “sistema scolastico”, che di fatto segrega gli alunni delle scuole elementari sulla base dell’appartenenza nazionale in due ali distinte degli edifici scolastici.

Questo singolare sistema scolastico, che ricorda tanto l’apartheid sudafricano, è stato istituito alla fine della guerra e tuttora affligge 34 scuole delle municipalità di 3 dei 10 cantoni in cui è divisa l’amministrazione della federazione “croato-musulmana”. Questi 3 cantoni (Bosnia centrale; Zenica-Doboj; e appunto dell’Erzegovina-Narenta) sono quelli in cui si concentra la maggior parte dei croato-bosniaci e in cui non esiste di fatto una maggioranza nazionale. Con la scusa di difendere la propria cultura dal pericolo di assimilazione nazionale, i rappresentanti politici della comunità croata in primis (i due HDZ ), ma anche di quella bosgnacca, hanno perseverato nel difendere ad oltranza la necessità di avere scuole diverse per “bambini diversi”, fino al caso estremo della scuola di Čapljina, dove nemmeno a ricreazione è consentito il minimo contatto tra bimbi cattolici e musulmani.

Quello che suona ancora più assurdo è pensare che molti bosgnacchi a loro volta credano che questo sistema sia la garanzia del rispetto della cultura nazionale in quanto, per esempio, alcune di queste 34 scuole sono passate al sistema “due in uno” per ovviare alla monopolizzazione scolastica adottata dalla comunità democratica croata alla fine della guerra costituendo, come a Jajce, scuole elementari in cui si studiava esclusivamente la storia, la geografia e la letteratura di un paese che di fatto non è quello di appartenenza (per non dire addirittura paese straniero).

Creare una segregazione nazionale non può essere considerato come uno stadio d’arrivo ma piuttosto come uno dei punti centrali da cui far partire necessarie riforme. Facendo della scuola il luogo in cui un nome e un cognome di diversa “estrazione nazionale” non costituiscano una barriera, ma piuttosto la sede educativa per antonomasia dove apprendere i principi della convivenza e della condivisione. Sembrano parole scontate ma nella Bosnia odierna nulla è dato per scontato.
La sentenza di Mostar impone infatti anche al resto della Bosnia Erzegovina il dovere morale di cambiare in questa direzione, scolarizzando una cultura nazionale che non scada nel nazionalismo e che non sia altro che lo specchio della società bosniaca tutta.

Oltretutto, l’ottica europea nella quale gravita o vorrebbe gravitare Sarajevo impone quei cambiamenti strutturali nell’ingrovigliato apparato statale bosniaco erzegovese – dai cantoni alle entità, fino ad arrivare allo stato centrale – da cui il sistema d’istruzione non si esenta.
Come si potrebbe permettere d’altronde di avere altri muri, altre linee di demarcazione, altre emarginazioni in un’ Europa unita? Anche questa volta la risposta verrà data giuridicamente, come a Mostar, affinchè una singola sentenza sia presa ad esempio e ispiri un processo di evoluzione che liberi la Bosnia dai fantasmi e ne esalti le particolarità culturali.

Dal canto suo, l’Europa, dopo aver dimostrato 20 anni fa di voler essere unita partendo dalla distruzione di un muro che divideva la bella e ricca Berlino, dovrà dimostrare le proprie capacità anche nel rimuovere un recinto che divide il cortile di una scuola nella brutta e povera Čapljina”.

http://www.raetia.com/index.php?id=1518

L’ultimo anniversario di Israele?

 

Israele ha appena festeggiato i 64 anni dal giorno della sua creazione. Ormai reputo quasi certo che, a causa delle politiche dell’attuale governo israeliano, questo sia anche l’ultimo anno della breve ma intensissima storia di Israele.

Un commentatore del mio vecchio blog mi ha chiesto se conosco Gilad Atzmon. Confesso di non averlo mai letto e so solo che è detestato dagli antisionisti quasi quanto lo è dai sionisti. La cosa mi ha colpito, perché è un po’ quel che è successo a me e Mauro Fattor dopo la pubblicazione del nostro libro sull’Alto Adige e i suoi miti identitari.
Ho trovato quest’intervista, che credo possa esemplificare il suo pensiero.

Silvia Cattori: Il suo libro è stato appena pubblicato in Francia. Pur senza aver avuto una campagna promozionale, si sta vendendo bene, nonostante che i membri della Unione Ebraica Francese per la Pace (UJFP) e della International Jewish Antizionist Network (IJAN) abbiano lanciato una campagna contro di lei, all’interno del mondo della sinistra e dei movimenti di solidarietà con la Palestina, addirittura sei mesi prima dell’uscita della traduzione francese. È stupito da questi attacchi?

Gilad Atzmon: Come lei sa bene, sono anni che sono fatto oggetto di questo genere di campagne vili da parte degli ebrei antisionisti. È evidente come io sia percepito come un guastafeste. Non c’è da stupirsi: io sono contro qualunque forma di politica identitaria ebraica poiché le considero, tutte quante, esclusiviste e razziste. Purtroppo, allo stesso modo dei sionisti, molti gruppetti politici ebraici antisionisti sono apertamente impegnati in politiche altrettanto tribali, altrettanto razziste, altrettanto esclusiviste.

Ma esiste anche un problema ideologico. Io affermo apertamente che tutta la terminologia che loro usano è sbagliata. Il sionismo non è colonialismo, Israele non pratica l’Apartheid, e gli Israeliani non sono assimilabili ai sionisti. Il sionismo non è colonialismo: infatti, lo Stato ebraico dei coloni è privo di metropoli. Israele non è Apartheid: lo Stato ebraico non cerca di sfruttare i Palestinesi ma semplicemente di sbarazzarsene. In effetti, Israele si regge sulla filosofia dello spazio vitale, del Lebensraum. Detto in altre parole, lo Stato ebraico ha adottato l’ideologia razzista ed espansionista nazista. Ma gli ebrei che sono parte del nostro movimento [di solidarietà con i Palestinesi], non amano la similitudine con la Germania nazista. Di più, Israele non è esattamente il sionismo, e gli Israeliani non sono necessariamente sionisti. Israele è il prodotto dell’ideologia sionista e l’Israeliano è fondamentalmente un prodotto post-rivoluzionario. Ne consegue che il dibattito sionismo/antisionismo è molto poco pertinente con Israele, o nel quadro della politica israeliana. Riassumendo, tutta la terminologia che utilizziamo è ambigua, o addirittura fuorviante. E poiché io lo denuncio, immagino che sia del tutto naturale che alcuni vorrebbero eliminare il portatore di questo messaggio.

Silvia Cattori: In tanti la riconoscono come un pensatore serio e sincero in seno a questo movimento. La rispettano e ammirano. Lei ha il coraggio di incendiare il dibattito, infrangere i tabù, e di confrontarsi coi suoi detrattori con argomentazioni solide. Il fatto che l’UJFP in Francia e l’IJAN in Svizzera, per esempio, siano in grado di intimidire quanti l’apprezzano, pubblicano e invitano, non conferma forse la veridicità della sua posizione?

Gilad Atzmon: Queste officine ebraiche antisioniste non fanno che promuovere una causa tribale e marginale, raggruppano pochissime persone ma sono capaci di fare molto rumore. È chiaramente nell’interesse dei propugnatori del giudeo-centrismo mantenere in vita delle organizzazioni ebraiche dissidenti affinché detengano l’egemonia ebraica sul movimento di solidarietà con la Palestina e oltre. Tragicamente, ed è indubbio che sia così, questi movimenti non avranno mai alcuna possibilità di diventare movimenti di massa. Il loro messaggio è troppo esoterico. Così, ad esempio, perché mai una persona seria dovrebbe entrare in un gruppo di solidarietà se uno dei suoi principali obiettivi è la «lotta contro l’antisemitismo»? Se le persone sono realmente interessate al discorso della solidarietà con i Palestinesi, devono assicurarsi che si tratti di un movimento che sta diventando universale, un movimento guidato dalla compassione e da considerazioni etiche.

Forse vi sorprenderò. Io vorrei davvero vedere il maggior numero di ebrei possibile in questi movimenti; ma dovrebbero interessarsi di quelli che sono i veri problemi, cioè il calvario dei Palestinesi e la natura del potere politico ebraico. Fondamentalmente io studio il potere ebraico, è il mio oggetto di studio prediletto. Analizzo l’identità e la politica ebraica. Ed è del tutto sorprendente che i primi ad attaccarmi e a tentare di ridurmi al silenzio siano precisamente coloro che rivendicano di essere «attivisti ebrei della solidarietà con i Palestinesi». Già solo questo fornisce l’impressione che tali persone non sono affatto ciò che pretendono di essere, militanti della solidarietà. No, queste persone non sono altro che un’altra forma della AntiDefamation League.

Ma, lo sa, io sono felice di dibattere su questi temi. Se vogliono dibattere, che vengano a confrontarsi con me, a Londra o Parigi… se pensate che ho torto, venite a dibattere con me! Se sono in errore, venite a dimostrarmi le pecche del mio ragionamento: le mie informazioni sono erronee? Le mie argomentazioni parziali? No: in realtà nessuno è stato in grado di evidenziare il minimo errore nelle mie argomentazioni o nei fatti di cui parlo. Sanno solo ricorrere ad una trita tattica rabbinica, lanciare anatemi (herem). Perché ricorrono alla tattica talmudica? Perché probabilmente è esattamente ciò che sono, appartenenti al «popolo del libro» che perpetuano un orrido autodafé. Penso che se avessero potuto crocefiggermi, l’avrebbero fatto.

Silvia Cattori: I suoi detrattori sono determinati ad escluderla dal dibattito. È facile convincere quelli che non sanno nulla di come stanno le cose sostenendo che il suo polemizzare su giudaismo e antisionismo ebraico sarebbe alimentato da «razzismo» per il fatto che attribuisce «ad un intero gruppo di persone dei criteri negativi al fine di screditarli». Ma sono seri?

Gilad Atzmon: Allora, è sicuro che non sono seri. Io non mi occupo del giudaismo. Non critico niente del giudaismo anche se mi permetto di criticare talune interpretazioni che sono fatte dagli ebrei. Nemmeno critico con virulenza, in maniera generica, la politica ebraica, e l’antisemitismo ebraico in particolare. Ma le prime domande da sollevare qui riguardano il sapere perché a qualcuno dovrebbe essere interdetto dibattere sul giudaismo, la politica ebraica o l’antisemitismo ebraico. Il giudaismo è forse al di sopra di qualunque critica? La politica ebraica è forse intrinsecamente innocente? Gli antisionisti ebrei sono forse perfetti? È evidente che i miei detrattori aderiscono a questo giudizio, che più banale e inquietante non si potrebbe, secondo cui gli ebrei sono, in un modo o in un altro, dei prescelti, degli eletti, che il giudaismo è incontestabile e la politica ebraica intangibile. Ovviamente io non accetto questo approccio alle cose. Considerando l’impatto negativo che hanno le lobby politiche ebraiche nel fomentare una nuova guerra mondiale, criticare la politica ebraica significa amare davvero la pace.

Ci tengo inoltre a sottolineare che le preoccupazioni relative la «etnicità» o la «razza» sono estranee al mio lavoro. Nella totalità dei miei scritti non c’è il minimo riferimento agli ebrei in quanto «razza» o «etnia». Critico la cultura e l’ideologia ebraica in ragione del fatto che le organizzazioni IJAN, UJFP, ADL, la Zionist Federation, e compagnia, agiscono in quanto gruppi riservati ai soli ebrei e che le loro motivazioni sono ben lontane dall’essere universali o morali.

Silvia Cattori: Che mi dice «dell’antisemitismo classico» che le attribuiscono?

Gilad Atzmon: Dipende da cosa si intende per «antisemitismo classico». È vero che il XIX secolo ha prodotto una scuola di pensiero altamente critica nei confronti della cultura ebraica. Conosciamo bene questo dibattito tra Atene e Gerusalemme. Per quanto mi riguarda, era (e rimane) un dibattito molto interessante ed illuminante. Ha quanto meno avuto il merito di condurre generazioni di ebrei verso la riforma, l’umanesimo, la tolleranza.

In ogni caso siamo tutti d’accordo nel sostenere che l’antisemitismo è diventato un pensiero molto problematico, vile e criminale, nel momento in cui ha adottato una posizione biologica determinista. È dunque diventato fondamentalmente un discorso razzista darwinista. Ma, in un modo particolarmente scioccante, la politica ebraica (che sia di sinistra, destra o centro) si è imbevuta di questa sorta di attitudine razzista. Lei potrebbe, Silvia, aderire a uno di questi gruppi unicamente composti da ebrei che si pretendono «progressisti»? Io non credo. E sa perché? Non corrisponde affatto al profilo razziale indispensabile per esservi ammessa.

Silvia Cattori: Cosa risponde alle ricorrenti accuse di negazionismo?

Gilad Atzmon: Il negazionismo è, in tutta evidenza, una nozione sionista. Nessuno nega l’Olocausto, anche se alcune persone mettono in dubbio taluni elementi sul piano storico. Personalmente non prendo parte a dibattiti storici perché non sono uno storico. Tuttavia penso che la Storia debba rimanere un discorso aperto. Se qualcuno pensa che ho torto nell’affermare questo, che questa persona avanzi un argomento convincente. Ma attenzione: lui o lei dovrà anche spiegare cosa è inammissibile nella legge israeliana che riguarda la Naqba.

Silvia Cattori: Nel momento in cui si afferma che lei «attacca tanto gli antisionisti ebrei che i religiosi ebrei in termini razzisti », dunque, si mente?

Gilad Atzmon: Certo che si mente! È falso, è una totale deformazione dei miei scritti e del mio lavoro di ricerca. In tutti i miei scritti non si troverà alcuna critica del giudaismo o degli ebrei in quanto popolo, in quanto razza o in quanto etnia. Io non mi riferisco che alla sola ideologia, non al popolo. Sono irremovibile verso tutte le organizzazioni politiche riservate ai soli ebrei.

Considero taluni ebrei antisionisti e taluni ebrei di sinistra come «antisionisti sionisti» perché vedono nel loro essere giudei una qualità politica primaria. L’eminente sionista Haïm Weizmann ha detto: «Non esistono ebrei francesi, britannici, tanto meno americani. Ci sono solo ebrei che vivono in Francia, che vivono in Gran Bretagna o in America». Ciò significa che, nell’ideologia sionista, essere giudeo è una qualità primaria. Gli ebrei antisionisti o gli ebrei per la pace vedono chiaramente nel loro essere giudei una qualità primaria. Se non lo considerassero una qualità primaria, entrerebbero nel movimento per la pace e nel movimento per la solidarietà con la Palestina come tutti gli altri. Le ideologie ebraiche sono molto diverse le une dalle altre su numerose questioni. Ma tutte quante concordano su taluni punti fondamentali: l’Elezione, l’esclusivismo, la segregazione. La sola cosa in cui credono tutte, a l’unanimità, è che gli ebrei sono, in un modo o in un altro, il popolo eletto. Del resto, se gli ebrei non avessero niente di speciale, perché agirebbero attraverso gruppi in cui solo gli ebrei sono ammessi?

Silvia Cattori: Le rimproverano anche di suggerire l’idea che «l’oppressione colonialista israeliana non è frutto del sionismo ma il risultato del giudaismo».

Gilad Atzmon: Di nuovo, una caricatura. Per cominciare, lo ripeto, io non parlo del giudaismo, destrutturo l’ideologia ebraica. Posso arrivare a domandarmi quali siano le tracce giudaiche in una ideologia ebraica contemporanea. Per esempio, mi domando in che modo il Deuteronomio influenzi l’ideologia ebraica. Oppure chiedermi quale sia il significato del Libro di Esther. Tuttavia, del resto, affermo non essere il «sionismo» a far soffrire il popolo palestinese, ma lo Stato ebraico. E lo Stato ebraico lo fa in nome del popolo ebraico. Se Israele si autodefinisce come Stato ebraico, se i suoi carri armati sono decorati dai simboli ebraici, dobbiamo essere autorizzati a chiederci chi siano gli ebrei, o no? O ancora cosa sia il giudaismo e l’essere giudei. Nel mio lavoro io faccio un distinguo tra il sionismo e il discorso israeliano. Affermo che Israele non è guidato dal sionismo e che il sionismo è un discorso della diaspora ebraica che sta perdendo ogni rapporto con l’oppressione che subisce il popolo palestinese.

[…]

Silvia Cattori: La sua motivazione profonda non è, dunque, solo quella di allertare i Goyim (i non ebrei) e invitarli a smetterla di essere guidati dal senso di colpa, a cessare di sottomettersi, cessare di lasciarsi umiliare. Ma anche di far comprendere che, fin tanto che non ci sarà libertà di parola, Israele può continuare a guadagnare tempo per rendere la sua morsa sulla Palestina irreversibile?

Gilad Atzmon: Ai miei occhi non esiste differenza tra ebrei e non ebrei. Il mio desiderio più grande è di poter dire quello che voglio dire. Penso che il mio messaggio sia veramente cruciale per tutti quelli che cercano la pace, siano essi ebrei o Goyim. Per me, è evidente che Israele e le lobby pro-Israele spingono incessantemente e sempre più verso il conflitto. Israele e i gruppi di pressione rappresentano ormai la più grande minaccia per la pace mondiale. È chiaro, anche, ai miei occhi, che le comunità ebraiche non frenano né Israele né le lobby. E il messaggio, per noi, è molto chiaro: è nostra l’incombenza di salvare il pianeta. Questo pianeta, dove viviamo. Siamo seduti su una bomba a orologeria. Dobbiamo svegliarci, dobbiamo esprimerci, prima che sia troppo tardi.

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