Lui è tornato – Er ist wieder da – Look Who’s Back
9 Maggio 2016 a 22:27 (Verità scomode)
Tags: Cthulhu, David Wnendt, eterno nazismo, fascismo, intolleranza, Lovecraft, Lui è tornato, Mulisch, nazismo, neonazismo, razzismo, ritorno di Hitler, Servatius, Timur Vermes
Poi sono venuti per i musulmani, ma io non ho parlato perché non ero un musulmano
9 luglio 2013 a 09:28 (Antropologia, Etnofederalismo/Etnopopulismo, Verità scomode)
Tags: Alloni, Cile, coloni israeliani, colpo di stato, compatibilità, cristianismo, democrazia, destra cristiana, dialogo, Egitto, fanatismo, fardello dell'uomo bianco, fedi, fondamentalismo, fondamentalismo cristiano, golpe, identità, imperialismo, imperialismo culturale, integralismo, intolleranza, Islam, islamismo, islamofobia, lobby, mano invisibile del mercato, Marco Alloni, media occidentali, modernità, Morsi, Mubarak, musulmani, paura, Pinochet, pluralismo, pregiudizi, razzismo, rispetto, salafiti, scontro di civiltà, sionismo, tolleranza, turchi
https://twitter.com/stefanofait
Francia 1943: 30-40% della sua economia controllato dai nazisti
Egitto 2013: 30-40% della sua economia controllato dall’esercito
CECI N’EST PAS UN COUP
Anche in Italia c’è chi alimenta il mito che NON si tratti di un colpo di stato militare appellandosi agli emotivismi del consumatore mediatico medio, senza minimante degnarsi di prendere in considerazione anche una singola argomentazione di chi non la pensa come lui e sa ancora usare gli occhi e l’intelletto per vedere oltre la cortina fumogena delle versioni ufficiali (es. vede anche gli eccidi, gli arresti di massa, la censura, le espulsioni di giornalisti, la sospensione della costituzione, la militarizzazione del Cairo, il controllo dell’economia egiziana nelle mani delle forze armate, il ritorno al potere delle stesse facce che c’erano al tempo di Mubarak e di tecnocrati neoliberisti che neanche Monti…). Marco Alloni ne ha piene le tasche degli analisti egiziani che non la pensano come lui:
http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/07/09/marco-alloni-egitto-basta-parlare-di-golpe/
Fortunatamente, con il passare del tempo e il moltiplicarsi dell’evidenza del fatto che all’esercito egiziano non gliene può fregar di meno dei manifestanti di piazza Tahrir, i “negazionisti” del golpe (uso questo vocabolo allusivamente) sono rimasti davvero in pochi. Per questo sono furiosi, come Alloni.
Robert Fisk, uno dei giornalisti internazionali più competenti in materia, non la pensa come lui:
Per la prima volta nella storia un golpe non è un golpe. L’esercito depone e incarcera un presidente democraticamente eletto, sospende la costituzione, arresta i soliti sospetti, si impadronisce di tutte le stazioni televisive e fa scendere le truppe per le strade della capitale. Ma la parola ‘golpe’ non può e non deve uscire dalla bocca di Barack Obama. E nemmeno l’impotente segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon osa mormorare una simile sconveniente parola. Non che Obama non sappia cosa sta accadendo. Questa settimana al Cairo i cecchini hanno ucciso 15 egiziani sparando dal tetto di quella stessa università nella quale Obama nel 2009 pronunciò il famoso discorso al mondo islamico… L’Occidente aspira a distruggere Assad, ma non muove un dito se l’esercito egiziano rovescia un presidente eletto, ma colpevole di essersi schierato dalla parte dei nemici di Assad….
Morsi è stato eletto con elezioni svoltesi sotto il controllo dell’Occidente. Certo ha ottenuto poco più del 50% dei voti, ma ha vinto. E George W. Bush ha vinto veramente le prime elezioni presidenziali? Morsi senza dubbio gode dell’appoggio di una percentuale più ampia della popolazione rispetto a Cameron. Ha perso ogni legittimazione democratica tradendo la volontà della maggioranza degli egiziani. Ma questo vuol forse dire che gli eserciti occidentali possono assumere il controllo del governo ogni qual volta l’indice di gradimento del primo ministro scende al di sotto del 50%? E, tanto per essere chiari: i Fratelli Musulmani potranno partecipare alle prossime elezioni? E cosa accadrà se parteciperanno e il loro candidato vincerà di nuovo?… Israele comunque può essere soddisfatto. Sa benissimo che di golpe si tratta e può riprendere il ruolo, tanto caro agli israeliani, di ‘unica democrazia’ del Medio Oriente avendo al potere in Egitto i governanti che più le vanno a genio: i militari. E visto che i militari egiziani percepiscono dagli Usa un miliardo e mezzo di dollari l’anno, certo non faranno nulla per mettere in discussione il trattato di pace con Israele per quanto impopolare possa essere tra la gente.
Robert Fisk
I Fratelli Musulmani hanno vinto 3 elezioni, ma l’establishment egiziano ha deciso che la democrazia va bene solo quando vincono i tuoi (ossia quelli guidati dalla Mano Invisibile del Mercato, un diverso dio monoteista). Ora decine (centinaia?) di sostenitori di Morsi sono stati uccisi dall’esercito e dalle forze dell’ordine (perché erano “terroristi”, sic!), la leadership del partito è stata incarcerata, i media censurati, i giornalisti stranieri espulsi o tenuti a debita distanza, la costituzione sospesa: Morsi non ha mai fatto nulla di anche solo lontanamente paragonabile alle azioni dei golpisti. Infatti Tony Blair – il criminale di guerra (cf. Gustavo Zagrebelsky, “”La felicità della democrazia: un dialogo”) – approva il golpe o lo definisce “indispensabile”.
Cosa ne pensano i manifestanti per la libertà di piazza Tahrir? Cosa ne pensano i filo-golpisti di casa nostra?
I diritti dei fratelli musulmani valgono meno della metà di quelli degli altri?
Il governo laico appoggiato dall’esercito va bene in Egitto per tenere lontani gli islamisti dal potere, mentre in Siria non va bene: addirittura lì forniamo armi a migliaia di guerriglieri legati ad Al-Qaeda perché effettuino un cambio di regime.
Il colpo di stato militare anti-teocratico in Egitto (i Fratelli Musulmani sono islamisti moderati) va bene, mentre l’invasione cinese del Tibet, giustificata usando le stesse motivazioni (in Tibet la teocrazia c’era e c’era anche lo schiavismo e molte altre cose spiacevoli), non va bene.
“Ma in Egitto ci saranno elezioni libere nel 2014!”.
Sì, va beh…
Dopo il golpe militare che ha abbattuto Morsi, non sono mancate le esternazioni islamofobe e sinistramente autoritarie, anche nel giornalismo mainstream.
Il New York Times ha pubblicato un articolo in cui in sostanza si definivano gli egiziani inadatti alla democrazia: “Non è che l’Egitto non abbia la ricetta per una transizione democratica, è che gli egiziani sembrano proprio essere carenti negli ingredienti a livello mentale” (David Brooks, 4 luglio 2013). Analoghe argomentazioni potrebbero essere indirizzate alla destra cristiana americana, o alle lobby dei coloni israeliani che controllano, direttamente o indirettamente, una buona parte dei processi decisionali su questioni di estremo rilievo, nei rispettivi paesi.
Ancora più virulento l’attacco del Wall Street Journal di Murdoch, che auspica l’avvento di un Pinochet egiziano che governi la transizione e sani l’economia egizia con tagli ed austerità, seguendo l’esempio del dittatore cileno (4 luglio 2013).
In generale i media occidentali hanno accusato Morsi di essere autocratico ed islamista, anche se la fazione islamista – i salafiti – gli aveva voltato le spalle giudicandolo troppo moderato, manifestando contro di lui, era costretto a governare a forza di decreti perché la magistratura nominata da Mubarak poteva sciogliere il parlamento a sua discrezione e le forze armate avevano dissolto il primo parlamento dell’era post-Mubarak. Il presidente egiziano non era neppure stato in grado di garantire la scorta ai membri del suo partito, non aveva potuto incidere sugli oligopoli delle forze armate in vari settori dell’economia egiziana (controllano fino al 40% dell’economia egiziana), non aveva potuto respingere le “terapie” neoliberiste del Fondo Monetario Internazionale, non godeva della lealtà dei funzionari pubblici, si era detto disponibile ad un governo di unità nazionale con l’opposizione e attendeva il verdetto delle elezioni di settembre che avrebbero rinnovato il Parlamento. Un “dittatore” abbastanza patetico.
Quel che più di tutto infastidisce è il ritorno della dottrina del “fardello dell’uomo bianco”, per cui gli altri popoli “inferiori” dovrebbero imitarci il più possibile invece di cantare con la propria voce. Preoccupante è anche la virulenza islamofobica che spinge persone altrimenti ragionevoli a pretendere che 14 secoli di islam egiziano siano un dettaglio. Nel giro di un anno 85 milioni di egiziani, in gran parte contadini, avrebbero dovuto completare un percorso che a noi ha richiesto secoli (e abbiamo ancora tanta strada da fare). I turchi sono ancora a metà del guado e hanno iniziato un secolo fa.
La verità è che in Egitto è successo che gli egiziani non hanno votato per il tipo di politica e politici che volevamo.
La cosa era prevedibile. Nei paesi musulmani è in atto un processo di islamizzazione politica, legato ad aspirazioni identitarie che si riaffermano nelle fasi di forte crisi. Non sta a noi giudicarle, ma non possiamo ignorarle. Le società evolvono e ciascuno ha il diritto di scegliere il proprio destino. Non è certo colpa dei partiti islamici se sono le uniche forze nei paesi arabi che si occupano veramente delle questioni sociali, che cercano di attutire l’impatto della globalizzazione del capitalismo finanziario, di ridurre per quanto possibile le disparità. Non è colpa dei partiti islamici se le classi dirigenti occidentali hanno appoggiato oligarchie corrotte ed autocratiche per decenni, anche a dispetto della contrarietà delle rispettive opinioni pubbliche, perché ne ricavavano qualche vantaggio sostanziale. Essere musulmani non è una colpa, come non lo è essere nati in un certo luogo ed essere stati allevati in una certa cultura.
Con buona pace dei teorici dello scontro di civiltà, non c’è alcun conflitto tra modernità e mondo arabo, tra progresso e Islam. Non esiste una peculiare natura dell’Islam che lo indirizza verso la violenza e il fanatismo. Ci sono solo le forze sociali e storiche che stanno condizionando una regione con problemi complessi.
Quando è sotto gli occhi di tutti che un miliardo di musulmani vive la sua fede serenamente, come si può immaginare che l’Islam possa essere di per sé un fattore di intolleranza? Lo può fare solo chi non è in grado di osservare obiettivamente la realtà. Purtroppo sono precisamente i pregiudizi ad ostacolare il diffondersi di quel rispetto e tolleranza – da entrambe le parti – che possono fermare l’odio e la violenza di una sparuta minoranza.
Nessuno desidera vivere in un mondo accecato dalla paura. Il fondamentalismo è il prodotto di un incontro non riuscito tra due mondi, un fallimento spesso dettato dalla diffidenza, dai malintesi e dal cinismo. Si nutre di ingiustizia e di ignoranza, non di religione. Sgorga da identità ferite, in Occidente come in Oriente; quelle di chi non riesce a trovare il suo posto. L’integralismo è proprio di coloro che si sentono rifiutati, superati e reagiscono con un rifiuto uguale e contrario, e con una collera crescente. Intere popolazioni ora si sentono ignorate, fuori tempo rispetto alla danza del mondo.
Per questo sono meritori tutti gli sforzi che qualunque governo, anche locale, profonde per ristabilire un nuovo rapporto con tutti i popoli e le culture: sono testimonianza di una indispensabile fiducia nell’umanità. Non dobbiamo accettare che un governo sfrutti la paura degli altri, paura degli immigrati, la paura dello straniero, paura dell’Islam, negando la nostra nuova vocazione, conquistata dopo secoli di intolleranza (verso gli ebrei, i protestanti, le “streghe”, i socialisti, ecc.).
Hans Karl Peterlini, “Capire l’altro. Piccoli racconti per fare memoria sociale” (2012)
15 dicembre 2012 a 08:01 (Alto Adige / Sudtirolo, Antropologia, Etnofederalismo/Etnopopulismo, Miti da sfatare, Recensioni, Verso un Mondo Nuovo)
Tags: 2012, Alto Adige, Amburgo, amore, Andreas Hofer, associazionismo, Benetton, Brennero, Capire l'altro, carta d’identità, Coca Cola, comunitario, comunità, Contro i miti etnici, cosmopolitismo, Dagmar Lafogler, diktat, etnocentrismo, etnonazionalismo, etnopopulismo, eurozona, extracomunitari, Franco Angeli, globalismo, Hans Karl Peterlini, Heimat, identitarismo, identità, Ingo Hört, Innsbruck, integrazione, intolleranza, Johann Ebner, Johnny, Kriemhild Astfäller, Lana, memoria sociale, musulmani, Napoleone, nazionalismo, passaporto, patria, patrioti, patriottismo, Pianura Padana, Priska, provincia di Bolzano, razzismo, recensione, Schützen, sentimentalismo, separatismi, Sigmar Decarli, social networks, società civile, stereotipi, Sudtirolo, telefonia mobile, tirolesità, Tirolo, tribalismi, troika, umanitarismo, Val d’Ultimo, Val Pusteria, Vienna, xenofobia
“Capire l’altro. Piccoli racconti per fare memoria sociale”, di Hans Karl Peterlini (2012), è un testo magnifico ed evocativo. L’Alto Adige diverso che auspicavamo io e Mauro Fattor (2010) traspare con forza nella sua analisi e nelle interviste mirate, ripetute ad una decina di anni di distanza per esplorare il cambiamento dell’orizzonte psicologico e morale (della coscienza) di alcuni giovani sudtirolesi che avevano scelto di diventare Schützen.
Oggi quelle stesse persone che, in precedenza, “guardavano il mondo da un oblò (etnonazionalista)” dimostrano di riuscire ad amare con autentico e commovente trasporto la propria terra senza essere patrioti, senza chiusure etnocentriche, aggressive e regressive. Riescono ad amare il prossimo, l’umanità ed il pianeta nelle sue espressioni locali e nei luoghi del mondo in cui hanno posato il loro cuore, senza scadere nel sentimentalismo umanitario globalista e dozzinale tipico dello stile pubblicitario della Benetton, Coca Cola, dei gestori della telefonia mobile, delle campagne virali sui social networks, spesso viziate da secondi fini.
Questi giovani stanno parlando di persone in carne ed ossa, di cose concrete, palpabili, di buon senso, non di astrazioni vuote, fredde o senza spessore, non di mondi fittizi da usare come ripari emotivi o come compensazioni narcisistiche. Il loro è un cosmopolitismo ancorato alla realtà vissuta (il Lebenswelt), non agli slogan edificanti, edonistici o consumistici.
La vista delle montagne è quello che dà loro i brividi, ma è una cosa che succede anche a mia moglie, extracomunitaria e non certo amante dell’escursionismo, quando rientra dalla Pianura Padana, pur vivendo a Trento solo da pochi anni.
Peterlini constata una vera e propria rivoluzione nella consapevolezza di Sigmar Decarli, rispetto a 10 anni prima (1997/1998). Ha esplorato altri paesi, ha fatto amicizia con degli italiani ed extracomunitari e si è anche trovato una ragazza di lingua italiana. Così si è allontanato dalla posizioni oltranziste del padre e del fratello minore. È diventato interculturale e si sente soffocare in un ambito orgogliosamente monoculturale.
Ingo Hört ha capito che, per continuare ad esplorare il Tirolo e la “tirolesità”, “non serve nessuna divisa e non serve nemmeno difendere in continuazione il proprio onore…Per me la questione se un confine passa da lì o da là non ha nessuna importanza. Mai potrei dire che il Sudtirolo è la mia Heimat, perché per esempio della Val Pusteria conosco forse un due per cento, ci sarò stato lì da bambino…ma intanto conosco certe parti tra il confine italiano e Vienna meglio che non la Val d’Ultimo. Perché me ne dovrei preoccupare della mia carta d’identità? Se non dovessi averla per legge, potrei anche buttarla via….l’identità è una cosa totalmente individuale…potresti scrivere che sono io stesso la mia Heimat” (p. 92)
Dagmar Lafogler era una sfegatata ammiratrice di Andreas Hofer con fortissimi pregiudizi contro gli extracomunitari. Oggi resta la diffidenza verso gli extracomunitari, ma si è trasferita a Lana e ha delle amiche extracomunitarie (una musulmana): “E sai perché? Perché la gente di Lana, quelli che sono nati qui…quelli trattano me, sì me, come se fossi un’extracomunitaria. Capisci?” (p. 106). Suo figlio l’ha chiamato André. Un po’ in onore di Andreas Hofer, ma con la pronuncia francese, perché ha scoperto che il suo cognome risale ad un tale Laffolier, un soldato napoleonico – un nemico di Hofer, uno di quelli che era tenuto ad ucciderlo, se ne avesse avuto la possibilità – rimasto in Alto Adige dopo la sconfitta dell’eroe tirolese.
Kriemhild Astfäller era vigorosamente pantirolista. Oggi Innsbruck rimane la sua città del cuore, ma spiega che “servire la Heimat può essere anche dare la vita a dei figli ed educarli bene, può essere la tutela dell’ambiente, della tradizione…E può anche significare: andare via e tornare con nuove idee ed un sapere arricchito” (p. 120).
Johann “Johnny” Ebner non ha più una Heimat ubicata in un luogo preciso: “Per me non ha alcuna importanza a che Stato appartiene il Sudtirolo. Nel mio passaporto c’è scritto Italia, ma anche se ci fosse scritto Uruguay, per me non farebbe differenza….Alla Heimat non appartiene tutta quella roba radicale, quelle cose, diciamo, esagerate, no, non hanno niente a che fare con la Heimat….è sempre un danno quando si esagera” (p. 133). “Qui è la Heimat” ed indica il tavolo, la casa, la ragazza e la vita che stanno cercando di costruire assieme. Questa sua ragazza, Priska, comincia a sentirsi a casa quando supera il Brennero entrando in Sudtirolo e avverte certe sensazioni piacevoli anche quando arriva da sud: “ma in quel caso ero sempre in Italia, allora non lo sento così forte” (p. 139). Si stupisce che il suo amato Johnny non senta alcun legame con la Heimat. Gli chiede: “Ma per te essere ad Amburgo o qui è la stessa cosa?”. E lui ribatte: “Perché no? Se è bello perché non dovrei sentirmi a casa…non mento. Basta che sia bello, che stia insieme a gente simpatica, allora può essere bello ovunque”.
In “Contro i miti etnici” ho condannato senza appello ogni genere di patriottismo, dedicandovi lunghe riflessioni che, da allora, hanno trovato molte più conferme che smentite e che sono diventate ancora più attuali alla luce del dibattito sui separatismi negli stati dell’eurozona più duramente colpiti dai diktat della troika. Ma nel frattempo ho imparato anch’io una cosa: il patriottismo contiene in sé un sentimento comunitario che può essere messo a frutto (non si butta il bambino con l’acqua del bagnetto). Un corso d’acqua può spazzare via tutto sulla sua strada quando esonda ma, se viene curato, disseta i campi ed illumina le città. Allo stesso modo, i tribalismi, se convogliati nella giusta direzione e senza eccessive impetuosità dalla politica, dai media, dall’associazionismo e dall’intellettualità, può aiutare chi non sa o non si sente o non vuole essere cosmopolita ad integrarsi in un mondo inevitabilmente cosmopolita senza sviluppare risentimento, voglia di rivalsa, rancore ed alienazione.
Non è facile, ma va fatto. Purtroppo la società civile non sempre aiuta; anzi, spesso ostacola questo processo di integrazione (Peterlini, op. cit. 144):
“Sarebbe troppo bello se da questa ricerca risultasse che la vita pone riparo a tutto. La vita aggiusta sicuramente tanto, ma gli eventi, le esperienze condotte nel mondo della vita non portano automaticamente a miglioramenti di sistema; anzi, certe ombre contenute nel sistema, certe immagini del nemico, certi stereotipi, certe minacce più psicotiche che reali sopravvivono anche quando sono fortemente contraddette nel mondo della vita. Lo dimostra in modo eclatante lo studio del caso di Dagmar, che nonostante le sue amiche musulmane e dell’Europa dell’Est, in linea di principio rimane ferma sulle sue posizioni contro gli immigrati”.
Cosa spinge Netanyahu verso il baratro? (il rapporto con un padre molto particolare)
22 novembre 2012 a 08:43 (Antropologia, Controrivoluzione e Complotti, Terza Guerra Mondiale e Secondo Olocausto)
Tags: Ahmed Al-Jabari, arabi, arabi israeliani, armi anticarro, beduini, Benjamin Netanyahu, Benzion Netanyahu, Bibbia, Bibi Netanyahu, colonialismo, Ebraismo, Egitto, escalation, forche, forza, fosse comuni, Gaza, Germania nazista, Hamas, Hezbollah, imperialismo, impiccagioni, intolleranza, Israele, Morsi, nazionalismo, nazismo, Netanyahu, ordigno nucleare, ottomani, Palestina, pogrom, pregiudizi, primavera araba, pulizia etnica, razzismo, razzista, Shalit, sionismo, sionisti, Territori Occupati, violenza, xenofobia
Israele NON è la Germania nazista – come qualunque persona assennata può capire da sé -, ma certe logiche che guidano le sue azioni non se ne discostano abbastanza e il rischio è che il circolo vizioso in cui si è cacciato lo porti a diventare quel che non avrebbe mai desiderato essere: un paria internazionale abbandonato da tutti ed assediato da una coalizione di interventisti umanitari (come la Germania nazista, appunto).
Intanto i sionisti continuano a scavarsi una gigantesca fossa comune e a porre le premesse per dei pogrom:
http://www.ilgiornale.it/news/figlio-sharon-bisogna-radere-suolo-gaza-857323.html
Ahmed Al-Jabari è stato assassinato dagli attacchi Israeliani a Gaza. Uno dei leader di Hamas, Al-Jabari era responsabile del rapimento del soldato israeliano Shalit, ma ha avuto il merito di tenerlo in vita (altri lo volevano morto) e di restituirlo in buone condizioni. Inoltre era uno dei massimi promotori di un accordo che potesse portare alla cessazione del lancio di razzi da Gaza su Israele. Era diventato un uomo di pace ed è stato ucciso.
Una per me convincente analisi del suo ruolo e delle negoziazioni che erano (sono?) in corso (dietro le quinte) per arrivare ad una pace mediorientale:
http://www.laboratoriolapsus.it/contributi/gaza-trattativa/
Tutto indica che Netanyahu non sia minimamente interessato alla pace ma solo a procedere con la soluzione finale del problema palestinese: la pulizia etnica. L’attacco a Gaza è servito ad Israele per testare il suo sistema di difesa antimissile e misurare le reazioni occidentali, arabe ed israeliane, credo in vista di operazioni su più vasta scala, in Libano/Siria e contro l’Iran.
In questa partita a scacchi con l’Egitto, Netanyahu ha dimostrato che, se mai lo è stato, non è più un leader in grado di prendere decisioni razionali e sensate. La sua strategia non tiene conto del fatto che:
* i carri armati e gli aeroporti militari israeliani sono estremamente vulnerabili alle armi in dotazione ad Hamas ed Hezbollah (vedi sconfitta in Libano): http://www.paginedidifesa.it/2006/baschiera_060823.html
* c’è stata la primavera araba e il mondo arabo non assisterà passivamente a carneficine di civili arabi: l’escalation è certa;
Cosa farà Netanyahu quando si accorgerà che i suoi sforzi producono una miriade di effetti boomerang? Userà ordigni nucleari che contamineranno gran parte di Israele?
Chi fermerà questo folle? Solo la caduta del suo governo o la minaccia di Obama di tagliare gli aiuti economici americani ad Israele. Il cessate il fuoco è una vittoria per Morsi (che, in breve tempo, grazie al completo sostegno di Obama, si è affermato ormai come un leader mondiale e uomo di pace e stabilizzazione del Medio Oriente) e per Hamas, ma non è una sconfitta sufficiente a far cadere Netanyahu. In cambio, l’avvicinamento tra Stati Uniti ed Egitto e le aperture di Obama all’Iran aumenteranno il risentimento del governo israeliano e potrebbero spingerlo a commettere altri errori ancora più gravi.
Ma, più di tutto, perché Netanyahu si comporta così?
Karl Vick, “Received Wisdom? How the Ideology of Netanyahu’s Late Father Influenced the Son”, Time, 2 maggio 2012
D. quanto pensa di aver influenzato il suo punto di vista?
R. [Benzion Netanyahu] mi sono fatto l’idea che Bibi possa avere i miei stessi obiettivi ma che tenga per sé le modalità con cui intende raggiungerli, perché se li rendesse pubblici, espliciterebbe anche gli obiettivi.
D. è quel che lei vuole credere?
R. No, penso solo che le cose possano stare così, perché è uno sveglio, perché è molto accorto, perché ha un suo modo di porsi. Sto parlando di tattiche riguardanti teorie che la gente che segue ideologie differenti potrebbe non accettare. È per quello che non le divulga: per via delle reazioni dei suoi nemici e di quelle persone di cui cerca l’appoggio. È una congettura, ma potrebbe essere vero.
Benzion Netanyahu, nel prosieguo dell’intervista dichiara:
* “nella Bibbia non si trova una figura peggiore del beduino. E perché? Perché non ha alcun rispetto per la legge. Perché nel deserto può fare quel che gli pare”;
* “la tendenza al conflitto è intrinseca all’arabo. È un nemico nella sua essenza. La sua personalità non gli permetterà mai di raggiungere un compromesso o un accordo. Poco importa che genere di resistenza incontrerà, che prezzo dovrà pagare. La sua esistenza sarà quella di una guerra perpetua”;
* “la soluzione dei due stati non esiste. Non ci sono due popoli. C’è un popolo ebraico ed una popolazione araba…non c’è alcun popolo palestinese, perciò uno non crea uno stato per una nazione immaginaria…si definiscono popolo solo per poter combattere gli ebrei”;
* “l’unica soluzione è la forza. Una forte autorità militare. Ogni sommossa arrecherà agli arabi enormi patimenti. Non si deve aspettare che cominci un grande ammutinamento, bisogna invece agire immediatamente, con grande forza, per impedire che continuino”;
* “penso che dovremmo parlare agli arabi israeliani nell’unica lingua che capiscono ed ammirano, quella della forza. Se agiamo con forza contro ogni crimine che commettono, capiranno che non mostriamo alcuna clemenza. Se avessimo usato questa lingua fin dall’inizio sarebbero stati più attenti”;
* [sull’uso ottomano delle forche] Gli arabi furono così maltrattati da non rivoltarsi. Naturalmente non è che sto raccomandando impiccagioni dimostrative come facevano i turchi, voglio solo mostrare che l’unica cosa che possa smuovere gli arabi dalla loro posizione di rigetto è la forza”;
Lucio Caracciolo, “L’Europa è finita?” (considerazioni di immenso buon senso sull’Europa, sull’Italia e su altro ancora)
27 luglio 2012 a 10:09 (Economia e Società, Etnofederalismo/Etnopopulismo, Resistenza e Rivoluzione, Stati Uniti d'Europa, Territoriali#Europei, Verso un Mondo Nuovo)
Tags: ammortizzatori sociali, atlantizzazione, autocommissariamento, autoritarismo, élite, Belgio, capro espiatorio, cilicio, cittadinanza euromediterranea, club di ottimati, commissariamento, confederazione, Contro i miti etnici, credo quia absurdum, crisi, delega, democraticità, democrazia, derive tecnocratiche, diffidenze, dissimulazioni, egoismi, elitismo, Enrico Letta, eterodirezione, etnicismo, Etnofederalismo/Etnopopulismo, etnomonetarismo, euro, euronucleo, Euronucleo paracarolingio, Europa, Europa a due velocità, Europa a geometria variabile, europeismo, fanatismo, federalismo, fiamminghi, Grecia, infantilizzazione, intolleranza, Lega Nord, leghisti, Lucio Caracciolo, marxismo, mascheramenti, Mezzogiorno, minorazione, miti etnici, moneta unica, NATO, oligarchie, opinione pubblica europea, ottimati, Padani, Padania, razzismo, razzismo soft, redenzione, rivolte, russofobia, sofferenza, Stati Uniti, stereotipi, Sud, tecnocrati, Tertulliano, teutonismo, titanismo, Unione euromediterranea, Unione Europea, valloni, vincolo esterno, violenza
Estratti da “L’Europa è finita?”, di Enrico Letta, Lucio Caracciolo. Torino : Add, 2010.
Lucio Caracciolo scrive:
18-19: L’Europa che vorrei dovrebbe essere anzitutto un grande spazio di democrazia, di libertà e di protezioni sociali nei limiti in cui demografia ed economia ce lo permetteranno. Sotto il profilo istituzionale, non penso a un’Ue-Stato. Vedo semmai diversi sottogruppi europei, alcuni più, altri meno integrati. I primi potrebbero sviluppare delle confederazioni europee, cioè degli Stati con diversi livelli di sovranità concordata, gli altri svilupperebbero l’integrazione attuale, approfondendone gli aspetti economici (per esempio riguardo alla mobilità della forza lavoro), a istituzioni politiche più o meno costanti.
20-21: Penso a una Confederazione europea nell’Unione europea, che comprenda i sei Paesi fondatori (Italia, Francia, Germania, Olanda, Lussemburgo e Belgio) più Spagna, Portogallo, Austria. Aggiungerei la Svizzera, se mai gli elvetici dovessero cambiare idea sull’Europa, cosa di cui dubito fortemente. Escludo quindi le isole britanniche, la cui storia si fonda sull’idea di impedire l’unità europea. Ed escludo anche nuovi o risorti Stati dell’Europa centrale e orientale, la cui priorità attuale non è l’integrazione comunitaria ma il consolidamento della recuperata sovranità nazionale. In termini diacronici, sono nazioni risorgimentali. Alcune delle quali ancora in cerca di confini stabili.
21-22: Alcuni popoli europei – penso ai catalani piuttosto che ai fiamminghi o agli scozzesi – usano l’Europa come grimaldello per emanciparsi, in prospettiva, dai rispettivi Stati (multi)nazionali, o almeno per conquistare autonomie sempre più accentuate.
L’attuale crisi economica, che è sempre più una crisi sociale, rischia poi di mettere in questione il senso concreto degli Stati nazionali, a cominciare dal nostro. Quando i tedeschi riscoprono l’Euronucleo come insieme riservato ai Paesi connessi all’economia e alla cultura monetaria germanica, constatiamo che ne risulta rafforzata la tesi «padana» per cui il Nord Italia pertiene a questo spazio, il Sud niente affatto.
22: Non so fino a dove si spingeranno fra vent’anni i confini dell’Unione europea, se ancora esisterà. In ogni caso mi pare difficile che possa recuperare una funzione integrativa, mentre probabilmente si acccentuerà la tendenza opposta. Ne risulterà una geopolitica più complessa, quindi di più ardua gestione.
25: Il mio timore è che l’Ue finisca per delegittimare le democrazie nazionali – le uniche di cui disponiamo – senza produrre una democrazia europea.
26: Se per fare l’Europa dobbiamo negare il cittadino, tengo il cittadino e butto l’Europa.
31: Infatti la Germania non pensava a un euro per tutta l’Europa – roba da europeismo ingenuo – quanto a una moneta dell’ area del marco: un vestito europeo per la moneta tedesca.
33: Se riprendiamo in mano i giornali tedeschi o olandesi della seconda metà degli anni Novanta, quando si dibatteva del diritto di questo o quello Stato di entrare nell’euro, vi troviamo gli stessi stereotipi che corrono di nuovo oggi, sull’onda della crisi partita dalla Grecia: PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna = maiali), Club Med e altre simpatiche definizioni di stampo antropologico. Categorie irrazionali ma potentemente radicate nelle opinioni pubbliche e nelle élite, che illustrano il presunto carattere dei vari popoli, echeggiando le teorie di Schumpeter sulla cultura monetaria come espressione della cultura nazionale. Quindici anni dopo, senza dracma né peseta né lira ma con l’euro in mano, siamo ancora a questo genere di polemica etnomonetaria. Un razzismo soft. Alla faccia dell’affratellamento europeo che l’euro avrebbe inevitabilmente generato.
42-43: Un’Europa per non con gli europei, elaborata da un club di ottimati nei loro inaccessibili laboratori. Quell’ europeismo si considerava figlio di una filosofia della storia che avrebbe prodotto l’Europa per surrogazione tecnocratica, non per effetto di una scelta politica discussa e condivisa, ritenuta impossibile. Un tentativo titanico, che meriterebbe un’ analisi aperta e approfondita, invece dei mascheramenti che tuttora lo occultano. Un orizzonte talmente astratto dalle dinamiche storiche da contenere in nuce le premesse della sua irrealizzabilità.
45-46: Trovo…straordinariamente affascinante e originale il ragionamento dell’ europeismo «alto». Quello che nonostante tutto continua a crederci davvero. O almeno non sa rinunciare a credere. Questi, più che rispettabili politici e pensatori, mi ricordano Tertulliano: credo quia absurdum. È una fede. Una fede, per me paradossale, nelle virtù salvifiche delle crisi. La tesi: dobbiamo stare molto male per diventare buoni. Più costruiamo meccanismi imperfetti – l’euro senza Europa -, più ci costringiamo a perfezionarli. A questo può portare la sfiducia degli eletti nei cittadini europei, o futuri tali. Soffrire fa bene all’Europa? Non condivido. Confesso di non essere obiettivo nella mia analisi, perché il cilicio continua a sembrarmi una forma di perversione anziché un veicolo di perfezionamento. Dunque non mi convince la teoria dell’ europeismo classico, fondata sulla speranza nell’effetto maieutico delle crisi. Tu stesso hai citato l’esempio della seconda guerra mondiale o dell’ attuale crisi economica. La crescente consapevolezza del deficit politico dell’Europa prodotta dalla crisi dell’ euro sarebbe destinata a produrre più Europa. Mi pare un’idea catastrofica. In senso tecnico. Per me le catastrofi sono catastrofi, le crisi crisi. Punto. E non sono affatto certo che mi o ci migliorino. Tanto meno che facciano l’Europa. È semmai durante le crisi che emergono i nostri lati peggiori: nefandezze collettive talvolta riscattate dall’ eroismo di pochi. Egoismi, diffidenze, chiusure, tentazione di scaricare sui più deboli i problemi dei forti (e viceversa). In ogni caso, anche se la teoria delle catastrofi potesse un giorno molto futuro rivelarsi corretta e dunque produrre davvero l’Europa, preferirei non rischiare l’esperimento. Invoco il principio di precauzione.
46-47: il vincolo esterno. Tu ne hai fatto le lodi. lo non ci riesco proprio…Un riflesso pericoloso perché fondato sulla radicale sfiducia in noi stessi. Nell’Italia e negli italiani. Ma se non siamo capaci di governarci da soli, in che senso saremmo una repubblica e una democrazia? Se non ci fidiamo di noi stessi, dobbiamo per forza cercare qualche soggetto esterno che abbia tempo da perdere con l’Italia, per eterodirigerla.
47: Ci poniamo volutamente in una condizione di inferiorità che non ci permette di essere percepiti come pari da chi si considera al cuore del progetto europeo. Ciò rende paradossale il nostro europeismo, perché è tanto più spinto quanto più grave è la sfiducia in noi stessi. È l’esatto contrario dell’idea di Europa dei Paesi più forti: l’Europa come moltiplicatore della propria potenza, non come compensazione della propria impotenza. Il vincolo esterno è la dichiarazione di non-europeità dell’Italia.
48: Se l’Italia vorrà avere un ruolo di rilievo in Europa nei prossimi anni, dovrà prima di tutto occuparsi di se stessa, recuperando un’idea sufficientemente forte di unità nazionale.
49: In un Paese dove efficienza e legittimazione dello Stato non solo sono storicamente deficitarie ma decrescenti, parlare di federalismo significa lavorare per lo smantellamento di quel poco di istituzioni comuni di cui ancora disponiamo. Significa produrre un patchwork di regioni semi-indipendenti molto dissimili tra loro sotto ogni profilo, che dovrebbero essere tenute assieme miracolosamente da un centro sempre più delegittimato. E come per l’europeismo, il federalismo all’italiana non esprime un progetto.
49: Il paradosso è che invece di utilizzare lo slancio europeo per costruire un’Italia che si tenga in piedi con le proprie gambe e dia, in quanto tale, un proprio contributo alla costruzione dell’Europa, con il mito del vincolo esterno abbiamo contribuito a decostruire quel poco che rimane del nostro Stato democratico.
56: SULLE PECCHE DELA GRECIA: Il pericolo è fare di questa giusta critica un argomento etnico. Un razzismo appena mascherato. Questa forse è la peggiore delle derive della tecnocrazia, che tendendo a esautorare la politica riporta in auge gli stereotipi culturali. Come se vi fossero Paesi geneticamente dediti a spendere e spandere, e altri Paesi costitutivamente dediti alla virtù. In ogni stereotipo, come in ogni leggenda, c’è una base di verità. Farne però la regola immutabile, il destino di un popolo, è la fine della politica. Nel caso dell’ euro, concepire come hanno fatto e tendono di nuovo a fare i tedeschi, un Euronucleo di Paesi automaticamente virtuosi, è un modo di ragionare antipolitico. Una sorta di etnomonetarismo. Trascurando, come tu ricordavi, che la stessa Germania, oltre naturalmente alla Francia, ha allegramente deviato dalle presunte virtù e dalle regole scritte in più di un’ occasione. E dimenticando che gli altri europei hanno pagato un prezzo molto alto per l’unificazione tedesca, contribuendo allo sforzo di Berlino volto a riempire il buco nero della Rdt con enormi trasferimenti finanziari, dai risultati peraltro discutibili. E purtroppo questo etnomonetarismo si sposa con analoghe tendenze interne agli Stati membri. Penso anzitutto al Belgio, ma anche all’Italia, alla propaganda leghista sull’inconciliabilità fra Nord e Sud.
74: Noi tendiamo purtroppo a rimuovere il nostro passato recente. E a immaginarci come un continente spontaneamente democratico. Noi pensiamo di essere più democratici degli altri. Come se la democrazia fosse nel nostro Dna.
75: Che tale vincolo sia eterno, ne dubito. Continuando a minare la logica della politica democratica, potremmo risvegliare le bestie intolleranti che animarono i nostri avi.
79: Contesto che esista un’opinione pubblica europea. Niente affatto. Esistono diverse opinioni pubbliche nazionali in Europa. La prova? Ogni volta che si tenta di varare un medium europeo, non funziona. Non si riesce a vendere lo stesso giornale a Cipro e a Dublino, a Roma e a Riga, a Londra e a Lubiana, a Parigi e a Berlino (nemmeno a Berlino e a Francoforte). Le culture e i gusti di queste popolazioni, tutte orgogliosamente rivendicanti la loro radice europea, sono troppo diverse.
84: L’altro protagonista ad avere le idee chiare sull’ allargamento a est era la Gran Bretagna. In parte perché condivideva la russofobia di quei Paesi; in parte perché vedeva l’ex Est come un’ area da non lasciare al predominio esclusivo della Germania; e in parte perché, come gli americani, voleva collegare gli ex satelliti di Mosca al mondo atlantico più che al mondo europeo. Londra non voleva «europeizzare» l’ex Est, voleva «atlantizzarlo» anche attraverso Unione europea. Con ciò rendendo complessivamente l’Ue meno europea e più atlantica. E ha vinto. L’allargamento battezzato da Bruxelles è stato un grande successo di Londra e Washington.
107-108: Il tuo ragionamento mi sembra uno sviluppo radical-utopistico del funzionalismo, per cui istituzioni e funzioni che si scoprono imperfette devono essere surrogate da autorità non-statuali e non legittimate da meccanismi democratici condivisi. Sicché le attuali istituzioni democratiche nazionali dovrebbero finire per autocommissariarsi per il bene della nostra moneta. Mi sembra politicamente difficile. Con tutto quello di buono che l’esperimento della moneta «unica» (nell’Ue ne circolano altre undici, ma continuiamo a chiamarla così, misteri dell’ eurogergo) può aver prodotto sotto il profilo economico, dobbiamo prendere atto che abbiamo raggiunto e superato il limite entro il quale il funzionalismo aveva un effetto integrativo. Adesso ha una funzione disintegrativa.
109-110: Stiamo chiedendo in nome dell’Europa sacrifici che i cittadini europei non sono disposti a concedere. Diamo così alimento alle teorie cospirative degli estremisti, che vedono un solo grande complotto mondiale di speculatori, banchieri e loro tirapiedi politici [Beh, è così: 1% contro 99%, ma l’1% non è compatto, per fortuna – NdR]. Con l’Europa pallido vampiro che affonda i denti nei nostri corpi infiacchiti dalla recessione. Temo che presto potremo trovarci di fronte a rivolte di piazza, a ondate di violenza, quanto meno a una protesta diffusa e rabbiosa che metterà sotto pressione le nostre istituzioni democratiche. Credo che il «rigore» così astrattamente concepito sia una risposta sbagliata, che avrebbe un effetto deprimente sulla stessa idea di Europa, per quel che ne resta. Non penso solo alla Grecia, ma anche all’Italia, una volta che alcuni ammortizzatori sociali avranno terminato o ridotto il loro effetto.
Se Europa non vorrà più dire pace e benessere, ma violenza e deflazione, chi oserà più difenderla?
121-122: Un incendio è un incendio; molti incendi sono molti incendi. E la crisi che stiamo vivendo a mio avviso non ha nulla di positivo. Anzi, nasce proprio dall’ assenza di una prospettiva comune tra i principali Paesi europei sul da farsi. Insomma, se vogliamo parlare di unione politica dobbiamo parlare di politica.
Ascoltandoti, e conoscendo il tuo carattere moderato, mi colpisce l’impronta rivoluzionaria del tuo ragionamento. Quando parli di Europa mi sembri un bolscevico, che si augura che la crisi finaale del capitalismo diffonda nelle masse la consapevolezza dell’ oppressione di classe, spingendole ad affidarsi al Partito per conquistare il socialismo. Perché questo è il destino dell’umanità scoperto da Marx. Sostituisci Europa a socialismo e hai il ritratto dell’ideologia europeista.
lo non credo che la crisi che stiamo vivendo renda gli europei più consapevoli della necessità dell’Europa. Però il tuo ragionamento è interessante, perché lo sento ripetere ormai da molto tempo e da persone di diverso orientamento politico, che si riconoscono in tale presunta necessità della storia. Ora, non vedo alcuna necessità della storia, né nel caso europeo né in alcun altro caso. Sarò troppo ottimista, ma resto convinto che la storia non sia data ma sia anche frutto delle nostre azioni, spesso involontarie, nei brevi limiti della nostra esistenza e scontando l’inerzia formidabile del passato.
121-122: L’Europa che sogno è uno Stato confederale, dotato quindi di vari livelli di sovranità, dall’Europa al comune. I suoi confini saranno quelli dell’Europa centro-occidentale che ho sopra evocato. Questa Confederazione europea sarà una potenza attiva su scala globale. E sarà parte della molto più vasta e lasca Unione europea, da estendere a sud-est, verso la Turchia e il Nord Africa, che chiamerei quindi Unione euromediterranea.
Come si avvicina questo sogno? Non certo a partire dalle istituzioni comunitarie, perché non hanno la legittimità né l’autorità per farlo. Qualsiasi proposta per l’Europa futura non può che partire dalle autorità nazionali, le sole titolate a organizzare il consenso dei cittadini.
123-124: Se davvero si costituisse un Euronucleo paracarolingio, forse ne saremmo esclusi. In tal caso metteremmo a rischio l’unità nazionale. Perché se il criterio di quel nucleo è l’appartenenza alla sfera economica tedesca, Fino a Verona ci siamo, più a sud molto meno. Bossi avrebbe buon gioco a rispolverare i suoi argomenti secessionisti. Per la Lega l’Euronucleo torneerebbe a rivelarsi la leva per dividere l’Italia, non per unire l’Europa. E l’unica reazione possibile è quella di metterci definitivamente insieme come europei.
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Andateci piano col glutine
16 giugno 2012 a 09:35 (Salute)
Tags: avena, celiachia, celiaci, cereali, Cesare Rizzi, evoluzione, farro, frumento, glutenine, glutine, intolleranza, kamut, neurotossine, orzo, prolamina, prolamine, segale, sensibilità, spelta, triticale
Il glutine contiene prolamina:
http://www.treccani.it/vocabolario/prolamina/
La prolamina del frumento viene denominata gliadina, mentre proteine simili, con i medesimi effetti si trovano anche in orzo, segale, farro, spelta, kamut, triticale ed avena.
“È da tempo noto che il trigger necessario ad innescare la patologia è l’ingestione di proteine contenute nelle cariossidi dei cereali come grano, frumento, orzo, segale, farro ed altri. Denominato in modo generico “glutine”, in realtà questo è una miscela di proteine che include due principali tipi di proteine: le glutenine (molecole polimeriche acido-solubili, unite da ponti disolfuro, ad alto o basso peso molecolare) e le prolamine (molecole alcool-solubili monomeriche, ricche in glutammina (Gln) e prolina (Pro))”
http://www.openstarts.units.it/dspace/bitstream/10077/3036/1/tesi_Quaglia_Sara.pdf
NON SERVE ESSERE CELIACI PER SUBIRE GLI EFFETTI DEL GLUTINE A LIVELLO NEUROLOGICO.
Se avete anche solo una sensibilità al glutine (10% della popolazione), funzionerà come una NEUROTOSSINA, ossia vi renderà stupidi:
http://jnnp.bmj.com/content/77/11/1262.abstract
E’ probabile che i nostri organismi non siano evolutivamente adattati al massiccio consumo di cereali tipico delle diete contemporanee:
http://www.greenmedinfo.com/page/dark-side-wheat-new-perspectives-celiac-disease-wheat-intolerance-sayer-ji
https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/05/24/oetzi-il-paleouomo-che-non-faceva-la-paleodieta-e-si-vede/
Hitler: “Vi spiego io perché la gente continua a mettersi reverentemente a 90!”
12 aprile 2012 a 10:13 (Controrivoluzione e Complotti, Verità scomode)
Tags: Adolf Hitler, bugie, calunnie, disinformazione, Hitler, intervista ad Adolf Hitler, intolleranza, Israele, manipolazione, Mein Kampf, menzogne, propaganda
In occasione del tentativo (fallito) dell’Associazione degli Scrittori Israeliani di far togliere il premio Nobel a Günter Grass, preludio al rogo delle sue opere, abbiamo intervistato il noto Adolf Hitler, che di intolleranza ed autoritarismo se ne intende.
Signor Hitler, l’impressione diffusa è che lei non abbia un’alta considerazione delle folle. È così?
“L’arte della propaganda si basa su una tecnica fondamentale: trovare la via del cuore delle grandi masse; capire ed esprimere il loro mondo, rappresentare i loro sentimenti…Il modo di sentire del popolo non è tortuoso ma semplice ed elementare. Mancano in esso sfumature sottili o articolazioni composite; lo schema di interpretazione del mondo ha solo due poli: positivo o negativo, vero o falso, giusto o ingiusto, bene o male”.
[cf. angelismo].
Sembra quasi che lei creda che più grandi sono le bugie, più facilmente la gente le crederà vere.
“Può darsi che il popolo sia corrotto, fin nelle pieghe più nascoste del suo sentimento, ma esso non è mai consapevolmente malvagio. È dunque assai più facile coinvolgerlo in una grande piuttosto che in una piccola bugia, appunto per la semplicità del suo modo di sentire. Anche la massa, infatti, è spesso bugiarda nelle piccole cose, ma si vergognerebbe certo di esserlo in quelle importanti. Se la menzogna è di proporzioni iperboliche, alla gente non verrà neanche in mente che sia possibile architettare una così profonda falsificazione della verità”. [cf. menzogne in Libia, Kony 2012, per quanto ancora abuserete, climategate II, vaccinazioni, Occidente minaccia per l’umanità, traduzione del discorso di Ahmadinejad, Assange]
La accusano di essere un po’ ripetitivo. Cosa risponde ai suoi detrattori?
“Le grandi masse hanno una capacità di ricezione assai limitata, un’intelligenza modesta, una memoria debole. Perché una propaganda sia efficace deve basarsi quindi su pochissimi punti, ripetuti incessantemente, finché anche l’uomo più rozzo sia indotto a ripeterli di continuo così da imprimerli nel profondo della sua coscienza innocente”.
[cf. infinocchiamento perpetuo, le tecniche con cui ci manipolano].
A volte lei sembra accanirsi immotivatamente contro certe categorie di persone? Ci vuole spiegare perché?
“Non bisogna esitare a scatenare sull’avversario un fuoco continuo di menzogne e calunnie, fino a provocare uno stato di isterismo collettivo: a questo punto, per riottenere la pace, il popolo sarà disposto a sacrificare la vittima prescelta”.
[cf. falsi invalidi, basta prendersela con i Tedeschi, antisionismo].
Fonte: Mein Kampf
http://abasto-mscaini.blogspot.it/2012/04/la-resistibile-ascesa-di-arturo-ui.html