Maiali, zingari, cicale e formiche nella fattoria degli animali europea

Se riprendiamo in mano i giornali tedeschi o olandesi della seconda metà degli anni Novanta, quando si dibatteva del diritto di questo o quello Stato di entrare nell’euro, vi troviamo gli stessi stereotipi che corrono di nuovo oggi, sull’onda della crisi partita dalla Grecia: PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna = maiali), Club Med e altre simpatiche definizioni di stampo antropologico. Categorie irrazionali ma potentemente radicate nelle opinioni pubbliche e nelle élite, che illustrano il presunto carattere dei vari popoli, echeggiando le teorie di Schumpeter sulla cultura monetaria come espressione della cultura nazionale. Quindici anni dopo, senza dracma né peseta né lira ma con l’euro in mano, siamo ancora a questo genere di polemica etnomonetaria. Un razzismo soft. Alla faccia dell’ affratellamento europeo che l’euro avrebbe inevitabilmente generato.

Lucio Caracciolo, “L’Europa è finita?”, 2010

Nessuno ha raccontato ai tedeschi che molte delle misure adottate sinora non servivano per salvare i “fannulloni” greci o spagnoli ma per salvare i sistemi bancari tedesco e francese (che detenevano molti titoli di questi paesi, ndr). Molti dei finanziamenti alla Grecia non sono mai arrivati ad Atene, hanno semplicemente fatto un giro da Francoforte a Francoforte.

Giovanni Dosi, economista della Scuola Superiore Sant’Anna e collaboratore del premio Nobel Joseph Stiglitz alla Columbia University, 28 luglio 2012

I sondaggi dell’eurobarometro indicano che tra l’autunno del 2009 e la primavera del 2012 la fiducia nelle istituzioni europee è crollata dal 48% al 31%; quella nei governi e parlamenti nazionali è al 28%. È utile rilevare che il presidente meno amato della storia americana, George W. Bush, non è mai sceso sotto il 33% nel livello di fiducia tra i cittadini statunitensi. Nell’Europa del dopoguerra non si è mai registrata una crisi di legittimità così imponente. Solo il 52% dei cittadini europei difende l’euro e il 51% sente che la distanza dai cittadini degli altri paesi dell’Unione Europea sta continuando a crescere, invece di diminuire. È assai probabile che questa crescente distanza sia dovuta ad una serie di errate percezioni delle cause e della natura della crisi dell’eurozona.

Lo scrittore e giornalista austriaco Robert Misik, in un articolo pubblicato dalla Tageszeitung il 12 luglio del 2012 (“A ranghi serrati dietro la cancelliera”) denunciava la litania di stereotipi, luoghi comuni, frasi fatte e scorciatoie logiche che imperversavano sui media di lingua tedesca influenzando pesantemente la comprensione della crisi tra i cittadini di lingua tedesca ed alimentando sfiducia, paura, rancore, risentimento e sentimenti razzisti.

È opportuno fare chiarezza in merito e ristabilire la verità perché non è sulle interpretazioni di comodo che tirano acqua al proprio mulino che si fa buona politica.

Anche gli economisti Massimo D’Angelillo e Leonardo Paggi (cf. “Deutschland, Deutschland …Über Alles”, in “Oltre l’austerità”, 2012) si sono domandati come sia possibile che sui media tedeschi la pretesa lassitudine degli Europei meridionali abbia finito per eclissare le responsabilità dei mercati finanziari nella creazione della bolla e nel convogliamento delle risorse pubbliche degli stati europei verso il salvataggio di banche improvvide? E, non secondariamente, come sia possibile che il tracollo verticale dell’economia greca, la disoccupazione di massa, l’aumento dei suicidi, l’implosione del sistema sanitario nazionale, le centinaia di migliaia di bambini denutriti in un paese con meno di 11 milioni di abitanti, la forte crescita dei neonazisti greci, la redistribuzione concentrativa delle ricchezze greche nelle mani di pochi capitali privati greci e stranieri che hanno lucrato sulle privatizzazioni siano considerati effetti indesiderati ma necessari di misure peraltro giudicate ancora insufficienti?

Uno dei massimi esperti di geopolitica in Italia, Lucio Caracciolo (“La guerra virtuale dell’Eurozona”, Limes 6/11) ha puntato il dito contro gli architetti dell’eurozona, che hanno più o meno consapevolmente indebolito le fondamenta dell’Unione Europea, imponendo una camicia di forza monetaria a nazioni sensibilmente diverse per cultura e storia fiscale, vocazioni e strutture economiche, dinamiche sociali e demografiche, in omaggio ad una peculiare concezione della valuta, cara a Joseph Schumpeter, secondo il quale la moneta esprime quel che un popolo vuole, compie, soffre, è; “la spiritualità della moneta: per noi latini, un concetto avvolto nelle nebbie nibelungiche”, è il commento sardonico di Caracciolo.

Se le cose stessero così, non si capirebbero come mai nel 2000 l’economia tedesca sia stata salvata da un gigantesco bail-out da parte della Banca Centrale Europea, in seguito all’esplosione della bolla speculativa precedente, quella della cosiddetta “New Economy” (cf. Richard Koo, capo-economista dell’Istituto di Ricerca Nomura, la più grande agenzia di consulenza giapponese nel settore IT, intervistato da Joe Weisenthal, Business Insider, 19 giugno 2012).

Inoltre, la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) ha certificato che la Germania e la Grecia hanno ricevuto lo stesso sostegno finanziario nel corso della crisi, almeno fino al 2012:

Nei milioni di parole scritte sulla crisi del debito in Europa, la Germania è in genere presentata come l’adulto responsabile e la Grecia come il figliol prodigo. La prudente Germania, dice la storia, è riluttante a salvare la Grecia scroccona, che ha preso in prestito più di quanto poteva permettersi e ora deve subire le conseguenze. Vi sorprenderebbe sapere che in Europa i contribuenti hanno fornito alla Germania lo stesso sostegno finanziario offerto alla Grecia? Lo suggerisce un esame dei flussi monetari Europei e dei bilanci delle banche centrali (Bloomberg, “Hey, Germany: You Got a Bailout, Too”, 24 maggio 2012).

Nonostante questo, l’ideologia che domina la percezione di questa crisi è che ci sono nazioni spericolate e dissolute e nazioni prudenti ed efficienti, popolate da cittadini rigorosi, puntuali e precisi. La ripetizione di questo mantra è quasi nauseante nella sua monotonia e sorvola sul fatto che le nazioni prudenti sono anche quelle che hanno continuato a prestare soldi alle nazioni imprudenti e che alcune delle loro maggiori banche si sono comportate a dir poco temerariamente e continuano a farlo, come se nulla fosse. Ma ai mercati conviene che faccia presa una nozione di colpa storica, di stampo razziale, un revival della dottrina del Volksgeist e di quella dei malati contagiosi che vanno messi in quarantena. È nella natura del capitalismo creare polarizzazioni che consentano di massimizzare i profitti di una parte a spese delle altre. Diversamente, non potrebbe auto-perpetuarsi e crescere.

Poco importa se questa propaganda, che sarebbe stata inconcepibile fino al 2008, renda impossibile un’ulteriore integrazione europea e metta i popoli gli uni contro gli altri. I media ed i politici euro-americani non si sono lasciati frenare dalle inibizioni del politicamente corretto ed hanno dato fondo alla retorica nordista di una presunta superiorità culturale rispetto al sud, esaltando l’azione salvifica di Germania, Olanda, Danimarca e Finlandia ed invocando la rieducazione dei popoli del sud alla scuola stoica, puritana ed innovatrice del nord (neoliberista, con un deciso voltafaccia rispetto alla tradizione socialdemocratica). Contemporaneamente politici e media del Sud, invece di descrivere la realtà in maniera più obiettiva, non hanno mancato di invitare all’emulazione, anche quando questa sfociava in un discutibile servilismo. Così 130 milioni di sudisti si sono sentiti etichettare come pigri, scialacquatori, corrotti, inefficienti, improduttivi, non sufficientemente ambiziosi ed industriosi, maiali (PIGS, oppure GIPSI, cioè a dire “zingari”) che si affollano intorno alla mangiatoia europea. Il Nord è ragionevole, ligio alle regole, rispettoso della legge, obiettivo, neutrale, disciplinato, attento. Il Sud è irrequieto, insofferente a regole e disciplina, soggettivo, parziale, emotivo, impetuoso. Questo ha creato una massiccia frattura psicologica tra nord e sud, con i sudisti costretti a riesaminare il loro ruolo e status in seno alla famiglia europea.

L’eurozona non è divisa tra formiche nordiche e cicale meridionali. Cicale e formiche si trovano a nord, come a sud. Le formiche hanno lavorato duramente senza sapere che su di loro incombeva una crisi che avrebbe permesso alle cicale di privatizzare i profitti e socializzare le perdite, mettendo alcune formiche contro le altre ed accumulando ricchezze nei paradisi fiscali. Non è difficile immaginare come mai milioni di Greci onesti, sentendosi accusare dai Tedeschi di essere disonesti, corrotti, dissipatori, imprevidenti, ecc. abbiano finito per riesumare i terribili ricordi dell’occupazione nazista, cadendo nell’altrettanto infelice trappola del più vieto stereotipo anti-tedesco. Invece la fiaba di Esopo aveva il fine di mettere in guardia dai rispettivi eccessi – e relativi risentimenti – sia le formiche sia le cicale. La formica, nella sua inestinguibile smania di accumulazione, non si faceva scrupoli di sottrarre alle altre formiche le loro scorte.

Frédéric Lordon, sociologo ed economista francese, ravvisando la stessa deriva razzista a livello mediatico, ricorda ai lettori di Le Monde Diplomatique (“Au-delà de la Grèce : déficits, dettes et monnaie”, 17 febbraio 2010; “Euro, terminus?”, 24 maggio 2012) che la natura umana è una sola e che il razzismo delle élite non ha nulla da invidiare a quello del “popolino”, stigmatizzato da quegli stessi media che indulgono nelle più funeste e squallide generalizzazioni. Con buona pace delle promesse di abolizione della guerra in Europa e di eterna amicizia tra i popoli europei, sta prendendo piede un “clima ideale per i nemici dell’Europa e per chi alla democrazia liberale e alla società aperta antepone il richiamo delle piccole patrie, delle tecnocrazie autoritarie e dei razzismi” (Lucio Caracciolo, “Euro: una moneta senza Stato”, la Repubblica, 7 maggio 2010).

Lucio Caracciolo, “L’Europa è finita?” (considerazioni di immenso buon senso sull’Europa, sull’Italia e su altro ancora)

Estratti da “L’Europa è finita?”, di Enrico Letta, Lucio Caracciolo. Torino : Add, 2010.

Lucio Caracciolo scrive:

18-19: L’Europa che vorrei dovrebbe essere anzitutto un grande spazio di democrazia, di libertà e di protezioni sociali nei limiti in cui demografia ed economia ce lo permetteranno. Sotto il profilo istituzionale, non penso a un’Ue-Stato. Vedo semmai diversi sottogruppi europei, alcuni più, altri meno integrati. I primi potrebbero sviluppare delle confederazioni europee, cioè degli Stati con diversi livelli di sovranità concordata, gli altri svilupperebbero l’integrazione attuale, approfondendone gli aspetti economici (per esempio riguardo alla mobilità della forza lavoro), a istituzioni politiche più o meno costanti.

20-21: Penso a una Confederazione europea nell’Unione europea, che comprenda i sei Paesi fondatori (Italia, Francia, Germania, Olanda, Lussemburgo e Belgio) più Spagna, Portogallo, Austria. Aggiungerei la Svizzera, se mai gli elvetici dovessero cambiare idea sull’Europa, cosa di cui dubito fortemente. Escludo quindi le isole britanniche, la cui storia si fonda sull’idea di impedire l’unità europea. Ed escludo anche nuovi o risorti Stati dell’Europa centrale e orientale, la cui priorità attuale non è l’integrazione comunitaria ma il consolidamento della recuperata sovranità nazionale. In termini diacronici, sono nazioni risorgimentali. Alcune delle quali ancora in cerca di confini stabili.

21-22: Alcuni popoli europei – penso ai catalani piuttosto che ai fiamminghi o agli scozzesi – usano l’Europa come grimaldello per emanciparsi, in prospettiva, dai rispettivi Stati (multi)nazionali, o almeno per conquistare autonomie sempre più accentuate.

L’attuale crisi economica, che è sempre più una crisi sociale, rischia poi di mettere in questione il senso concreto degli Stati nazionali, a cominciare dal nostro. Quando i tedeschi riscoprono l’Euronucleo come insieme riservato ai Paesi connessi all’economia e alla cultura monetaria germanica, constatiamo che ne risulta rafforzata la tesi «padana» per cui il Nord Italia pertiene a questo spazio, il Sud niente affatto.

22: Non so fino a dove si spingeranno fra vent’anni i confini dell’Unione europea, se ancora esisterà. In ogni caso mi pare difficile che possa recuperare una funzione integrativa, mentre probabilmente si acccentuerà la tendenza opposta. Ne risulterà una geopolitica più complessa, quindi di più ardua gestione.

25: Il mio timore è che l’Ue finisca per delegittimare le democrazie nazionali – le uniche di cui disponiamo – senza produrre una democrazia europea.

26: Se per fare l’Europa dobbiamo negare il cittadino, tengo il cittadino e butto l’Europa.

31: Infatti la Germania non pensava a un euro per tutta l’Europa – roba da europeismo ingenuo – quanto a una moneta dell’ area del marco: un vestito europeo per la moneta tedesca.

33: Se riprendiamo in mano i giornali tedeschi o olandesi della seconda metà degli anni Novanta, quando si dibatteva del diritto di questo o quello Stato di entrare nell’euro, vi troviamo gli stessi stereotipi che corrono di nuovo oggi, sull’onda della crisi partita dalla Grecia: PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna = maiali), Club Med e altre simpatiche definizioni di stampo antropologico. Categorie irrazionali ma potentemente radicate nelle opinioni pubbliche e nelle élite, che illustrano il presunto carattere dei vari popoli, echeggiando le teorie di Schumpeter sulla cultura monetaria come espressione della cultura nazionale. Quindici anni dopo, senza dracma né peseta né lira ma con l’euro in mano, siamo ancora a questo genere di polemica etnomonetaria. Un razzismo soft. Alla faccia dell’affratellamento europeo che l’euro avrebbe inevitabilmente generato.

42-43: Un’Europa per non con gli europei, elaborata da un club di ottimati nei loro inaccessibili laboratori. Quell’ europeismo si considerava figlio di una filosofia della storia che avrebbe prodotto l’Europa per surrogazione tecnocratica, non per effetto di una scelta politica discussa e condivisa, ritenuta impossibile. Un tentativo titanico, che meriterebbe un’ analisi aperta e approfondita, invece dei mascheramenti che tuttora lo occultano. Un orizzonte talmente astratto dalle dinamiche storiche da contenere in nuce le premesse della sua irrealizzabilità.

45-46: Trovo…straordinariamente affascinante e originale il ragionamento dell’ europeismo «alto». Quello che nonostante tutto continua a crederci davvero. O almeno non sa rinunciare a credere. Questi, più che rispettabili politici e pensatori, mi ricordano Tertulliano: credo quia absurdum. È una fede. Una fede, per me paradossale, nelle virtù salvifiche delle crisi. La tesi: dobbiamo stare molto male per diventare buoni. Più costruiamo meccanismi imperfetti – l’euro senza Europa -, più ci costringiamo a perfezionarli. A questo può portare la sfiducia degli eletti nei cittadini europei, o futuri tali. Soffrire fa bene all’Europa? Non condivido. Confesso di non essere obiettivo nella mia analisi, perché il cilicio continua a sembrarmi una forma di perversione anziché un veicolo di perfezionamento. Dunque non mi convince la teoria dell’ europeismo classico, fondata sulla speranza nell’effetto maieutico delle crisi. Tu stesso hai citato l’esempio della seconda guerra mondiale o dell’ attuale crisi economica. La crescente consapevolezza del deficit politico dell’Europa prodotta dalla crisi dell’ euro sarebbe destinata a produrre più Europa. Mi pare un’idea catastrofica. In senso tecnico. Per me le catastrofi sono catastrofi, le crisi crisi. Punto. E non sono affatto certo che mi o ci migliorino. Tanto meno che facciano l’Europa. È semmai durante le crisi che emergono i nostri lati peggiori: nefandezze collettive talvolta riscattate dall’ eroismo di pochi. Egoismi, diffidenze, chiusure, tentazione di scaricare sui più deboli i problemi dei forti (e viceversa). In ogni caso, anche se la teoria delle catastrofi potesse un giorno molto futuro rivelarsi corretta e dunque produrre davvero l’Europa, preferirei non rischiare l’esperimento. Invoco il principio di precauzione.

46-47: il vincolo esterno. Tu ne hai fatto le lodi. lo non ci riesco proprio…Un riflesso pericoloso perché fondato sulla radicale sfiducia in noi stessi. Nell’Italia e negli italiani. Ma se non siamo capaci di governarci da soli, in che senso saremmo una repubblica e una democrazia? Se non ci fidiamo di noi stessi, dobbiamo per forza cercare qualche soggetto esterno che abbia tempo da perdere con l’Italia, per eterodirigerla.

47: Ci poniamo volutamente in una condizione di inferiorità che non ci permette di essere percepiti come pari da chi si considera al cuore del progetto europeo. Ciò rende paradossale il nostro europeismo, perché è tanto più spinto quanto più grave è la sfiducia in noi stessi. È l’esatto contrario dell’idea di Europa dei Paesi più forti: l’Europa come moltiplicatore della propria potenza, non come compensazione della propria impotenza. Il vincolo esterno è la dichiarazione di non-europeità dell’Italia.

48: Se l’Italia vorrà avere un ruolo di rilievo in Europa nei prossimi anni, dovrà prima di tutto occuparsi di se stessa, recuperando un’idea sufficientemente forte di unità nazionale.

49: In un Paese dove efficienza e legittimazione dello Stato non solo sono storicamente deficitarie ma decrescenti, parlare di federalismo significa lavorare per lo smantellamento di quel poco di istituzioni comuni di cui ancora disponiamo. Significa produrre un patchwork di regioni semi-indipendenti molto dissimili tra loro sotto ogni profilo, che dovrebbero essere tenute assieme miracolosamente da un centro sempre più delegittimato. E come per l’europeismo, il federalismo all’italiana non esprime un progetto.

49: Il paradosso è che invece di utilizzare lo slancio europeo per costruire un’Italia che si tenga in piedi con le proprie gambe e dia, in quanto tale, un proprio contributo alla costruzione dell’Europa, con il mito del vincolo esterno abbiamo contribuito a decostruire quel poco che rimane del nostro Stato democratico.

56: SULLE PECCHE DELA GRECIA: Il pericolo è fare di questa giusta critica un argomento etnico. Un razzismo appena mascherato. Questa forse è la peggiore delle derive della tecnocrazia, che tendendo a esautorare la politica riporta in auge gli stereotipi culturali. Come se vi fossero Paesi geneticamente dediti a spendere e spandere, e altri Paesi costitutivamente dediti alla virtù. In ogni stereotipo, come in ogni leggenda, c’è una base di verità. Farne però la regola immutabile, il destino di un popolo, è la fine della politica. Nel caso dell’ euro, concepire come hanno fatto e tendono di nuovo a fare i tedeschi, un Euronucleo di Paesi automaticamente virtuosi, è un modo di ragionare antipolitico. Una sorta di etnomonetarismo. Trascurando, come tu ricordavi, che la stessa Germania, oltre naturalmente alla Francia, ha allegramente deviato dalle presunte virtù e dalle regole scritte in più di un’ occasione. E dimenticando che gli altri europei hanno pagato un prezzo molto alto per l’unificazione tedesca, contribuendo allo sforzo di Berlino volto a riempire il buco nero della Rdt con enormi trasferimenti finanziari, dai risultati peraltro discutibili. E purtroppo questo etnomonetarismo si sposa con analoghe tendenze interne agli Stati membri. Penso anzitutto al Belgio, ma anche all’Italia, alla propaganda leghista sull’inconciliabilità fra Nord e Sud.

74: Noi tendiamo purtroppo a rimuovere il nostro passato recente. E a immaginarci come un continente spontaneamente democratico. Noi pensiamo di essere più democratici degli altri. Come se la democrazia fosse nel nostro Dna.

75: Che tale vincolo sia eterno, ne dubito. Continuando a minare la logica della politica democratica, potremmo risvegliare le bestie intolleranti che animarono i nostri avi.

79: Contesto che esista un’opinione pubblica europea. Niente affatto. Esistono diverse opinioni pubbliche nazionali in Europa. La prova? Ogni volta che si tenta di varare un medium europeo, non funziona. Non si riesce a vendere lo stesso giornale a Cipro e a Dublino, a Roma e a Riga, a Londra e a Lubiana, a Parigi e a Berlino (nemmeno a Berlino e a Francoforte). Le culture e i gusti di queste popolazioni, tutte orgogliosamente rivendicanti la loro radice europea, sono troppo diverse.

84: L’altro protagonista ad avere le idee chiare sull’ allargamento a est era la Gran Bretagna. In parte perché condivideva la russofobia di quei Paesi; in parte perché vedeva l’ex Est come un’ area da non lasciare al predominio esclusivo della Germania; e in parte perché, come gli americani, voleva collegare gli ex satelliti di Mosca al mondo atlantico più che al mondo europeo. Londra non voleva «europeizzare» l’ex Est, voleva «atlantizzarlo» anche attraverso Unione europea. Con ciò rendendo complessivamente l’Ue meno europea e più atlantica. E ha vinto. L’allargamento battezzato da Bruxelles è stato un grande successo di Londra e Washington.

107-108: Il tuo ragionamento mi sembra uno sviluppo radical-utopistico del funzionalismo, per cui istituzioni e funzioni che si scoprono imperfette devono essere surrogate da autorità non-statuali e non legittimate da meccanismi democratici condivisi. Sicché le attuali istituzioni democratiche nazionali dovrebbero finire per autocommissariarsi per il bene della nostra moneta. Mi sembra politicamente difficile. Con tutto quello di buono che l’esperimento della moneta «unica» (nell’Ue ne circolano altre undici, ma continuiamo a chiamarla così, misteri dell’ eurogergo) può aver prodotto sotto il profilo economico, dobbiamo prendere atto che abbiamo raggiunto e superato il limite entro il quale il funzionalismo aveva un effetto integrativo. Adesso ha una funzione disintegrativa.

109-110: Stiamo chiedendo in nome dell’Europa sacrifici che i cittadini europei non sono disposti a concedere. Diamo così alimento alle teorie cospirative degli estremisti, che vedono un solo grande complotto mondiale di speculatori, banchieri e loro tirapiedi politici [Beh, è così: 1% contro 99%, ma l’1% non è compatto, per fortuna – NdR]. Con l’Europa pallido vampiro che affonda i denti nei nostri corpi infiacchiti dalla recessione. Temo che presto potremo trovarci di fronte a rivolte di piazza, a ondate di violenza, quanto meno a una protesta diffusa e rabbiosa che metterà sotto pressione le nostre istituzioni democratiche. Credo che il «rigore» così astrattamente concepito sia una risposta sbagliata, che avrebbe un effetto deprimente sulla stessa idea di Europa, per quel che ne resta. Non penso solo alla Grecia, ma anche all’Italia, una volta che alcuni ammortizzatori sociali avranno terminato o ridotto il loro effetto.

Se Europa non vorrà più dire pace e benessere, ma violenza e deflazione, chi oserà più difenderla?

121-122:   Un incendio è un incendio; molti incendi sono molti incendi. E la crisi che stiamo vivendo a mio avviso non ha nulla di positivo. Anzi, nasce proprio dall’ assenza di una prospettiva comune tra i principali Paesi europei sul da farsi. Insomma, se vogliamo parlare di unione politica dobbiamo parlare di politica.

Ascoltandoti, e conoscendo il tuo carattere moderato, mi colpisce l’impronta rivoluzionaria del tuo ragionamento. Quando parli di Europa mi sembri un bolscevico, che si augura che la crisi finaale del capitalismo diffonda nelle masse la consapevolezza dell’ oppressione di classe, spingendole ad affidarsi al Partito per conquistare il socialismo. Perché questo è il destino dell’umanità scoperto da Marx. Sostituisci Europa a socialismo e hai il ritratto dell’ideologia europeista.

lo non credo che la crisi che stiamo vivendo renda gli europei più consapevoli della necessità dell’Europa. Però il tuo ragionamento è interessante, perché lo sento ripetere ormai da molto tempo e da persone di diverso orientamento politico, che si riconoscono in tale presunta necessità della storia. Ora, non vedo alcuna necessità della storia, né nel caso europeo né in alcun altro caso. Sarò troppo ottimista, ma resto convinto che la storia non sia data ma sia anche frutto delle nostre azioni, spesso involontarie, nei brevi limiti della nostra esistenza e scontando l’inerzia formidabile del passato.

121-122: L’Europa che sogno è uno Stato confederale, dotato quindi di vari livelli di sovranità, dall’Europa al comune. I suoi confini saranno quelli dell’Europa centro-occidentale che ho sopra evocato. Questa Confederazione europea sarà una potenza attiva su scala globale. E sarà parte della molto più vasta e lasca Unione europea, da estendere a sud-est, verso la Turchia e il Nord Africa, che chiamerei quindi Unione euromediterranea.

Come si avvicina questo sogno? Non certo a partire dalle istituzioni comunitarie, perché non hanno la legittimità né l’autorità per farlo. Qualsiasi proposta per l’Europa futura non può che partire dalle autorità nazionali, le sole titolate a organizzare il consenso dei cittadini.

123-124: Se davvero si costituisse un Euronucleo paracarolingio, forse ne saremmo esclusi. In tal caso metteremmo a rischio l’unità nazionale. Perché se il criterio di quel nucleo è l’appartenenza alla sfera economica tedesca, Fino a Verona ci siamo, più a sud molto meno. Bossi avrebbe buon gioco a rispolverare i suoi argomenti secessionisti. Per la Lega l’Euronucleo torneerebbe a rivelarsi la leva per dividere l’Italia, non per unire l’Europa. E l’unica reazione possibile è quella di metterci definitivamente insieme come europei.

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https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/07/22/contro-i-miti-etnici-alla-ricerca-di-un-alto-adige-diverso-un-libro-preveggente/

Nord vs Sud – Germania vs Italia

 

La tesi è quella classica: il sistema capitalistico tende per sua natura a produrre differenziali locali e globali (crescenti polarizzazioni) ed una moneta unica (o cambi fissi) porterà, nel lungo termine, alla deindustrializzazione dell’area geostrategicamente svantaggiata (il baricentro economico europeo è nel Mare del Nord, non nel Mediterraneo). Un’altra ragione per cui il neoliberismo è suicida: servono pianificazioni su vasta scala e a lungo termine per organizzare socio-economicamente milioni di cittadini.

Questo articolo del Sole 24 Ore va letto tenendo conto di quest’altro, che riguarda l’eurozona:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/06/28/un-tecnico-degli-anni-ottanta-parla-della-crisi-delleuro-di-andreotti-e-della-deindustrializzazione-italiana/

“Sono passati 150 anni dall’Unità nazionale, ma l’Italia rimane ancora un Paese a due velocità. Dal 1861 al 2010 il Pil del Mezzogiorno, a prezzi costanti, è cresciuto di 18 volte, anche grazie agli interventi degli anni ’60. Ma allo stesso tempo anche il divario con il Centro-Nord è aumentato, soprattutto a causa della carenza di occupazione. Lo rivela il volume «150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011», edito da Il Mulino e presentato oggi alla Camera dall’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, Svimez.

Per il presidente di Svimez, Adriano Giannola, non è vero che oggi «c’è un problema di crescita che riguarda soprattutto il Sud», mentre da solo il Nord «sarebbe una molla pronta a scattare al primo segno di ripresa: il Mezzogiorno si propone come opportunità strategica del sistema Italia».

Il Pil del Sud vale il 60% di quello del Nord. Dal 1950 cresce anche il gap occupazionale. L’emigrazione di ieri e di oggi

Ma il divario fra le due aree persiste: nel 1861 il Pil pro capite del Sud era all’incirca lo stesso del Nord, per poi subire un vero e proprio crollo sino al 1951, per poi registrare una crescita discontinua negli anni seguenti con una lieve ripresa a partire dal ’99. Oggi il Pil del Sud vale solo il 60% di quello del Nord. Anche il tasso di occupazione del Sud, dal 1950 ad oggi, ha visto crescere progressivamente il gap con il Nord. Un divario, ha spiegato il vicedirettore di Svimez Luca Bianchi, che si è ampliato soprattutto a partire dal 1973. Da quella data, «si sviluppa soprattutto l’industria del Nord e i posti di lavoro che si perdono nell’agricoltura non si riescono a recuperare negli altri settori». La situazione non è esplosa «solo grazie allo sfogo dell’emigrazione che ha visto in quegli anni andare via oltre 2 milioni e mezzo di persone» e che oggi portano nuovamente i talenti lontano.

Fino al 1860 sviluppo industriale alla pari fra Nord e Sud, poi il sorpasso

Dopo il grande sviluppo degli anni compresi fra il 1952 e il 1973, grazie alla grande industria e alla Cassa del Mezzogiorno, quando il pil pro capite crebbe del 4,6% all’anno nel Sud, rispetto al 4,8 del Centro-Nord, in seguito alla brusca battuta d’arresto avvenuta dopo gli anni ’70, quando i grandi impianti delle aziende più importanti del Paese cominciano a chiudere i battenti dopo aver alimentato la speranza di un nuovo futuro, il Sud comincia a perdere terreno: «Nel 1860 – ha affermato Bianchi – in realtà c’era una quantità di insediamenti industriali simile tra Nord e Sud. Poi alla fine dell’Ottocento e ai primi del Novecento inizia lo sviluppo del grande triangolo industriale (Milano-Torino-Genova) e da quel momento il Mezzogiorno non riesce più a tenere il passo. L’unica fase di recupero è tra gli anni ’50 e il ’73. Poi comincia a perdere di nuovo e comunque il tasso di industrializzazione del Mezzogiorno resterà la metà di quello del Centro-Nord».

Un trend simile sugli investimenti: a partire dalla metà degli anni ’80 subiscono un calo quando la politica per il Sud cambia natura e viene dirottata «verso interventi di carattere assistenziale» che non guardano allo sviluppo del territorio.

Ma il Sud recupera in qualità della vita e istruzione

Nel 1910 il divario tra Nord e Sud per speranza di vita era molto forte: in Veneto si viveva 4 anni in più che in Campania (47,8 rispetto a 43,6), 8 anni più che in Puglia (47,8 rispetto a 39,2). Nel 1970 la speranza di vita al Sud arrivava invece a 69,9 anni contro i 69 della media nazionale, due anni in più del Nord-Ovest (68).

Dal punto di vista dell’istruzione, nel 1861 gli analfabeti al Sud erano l’87% della popolazione, contro il 67% del Centro-Nord. Nel 1951 erano scesi al 24,4%. Quanto al tasso di scolarizzazione, la rincorsa ha fatto addirittura segnare un sorpasso: nel 2009 il tasso di iscrizione all’Università era del 33,5% al Sud e del 33,1% al Centro-Nord (nel 2009 51,5% contro 42%). Guardando agli anni di istruzione pro capite, la differenza tra Mezzogiorno e Centro-Nord nel 2010 si era ridotta a mezzo punto percentuale (9,6 anni contro 10,1).

Infrastrutture: il caso Ferrovie

Situazione altalenante sul fronte del trasporto ferroviario: se nel 1861 il divario tra le due aree era enorme in tutto il Mezzogiorno (i km di ferrovie erano soltanto 184, contro i 2.336 del Centro-Nord), nel 1912 i km di binari erano aumentati di 5 volte al Centro-Nord, arrivando a 10.274, mentre al Sud l’aumento era stato di ben 70 volte, arrivando a 7.101km. Guardando però alla percentuale di km di ferrovie su 1.000 km di superficie, già nel 1938 il Sud superava il Nord, con 76,8 km rispetto a 73,7. Situazione di sostanziale pareggio venti anni dopo, nel 1958, con 71 km di ferrovie su 1.000 di superficie al Centro-Nord e 72,1 al Sud.

Interessante notare le tendenze degli ultimi anni: nel 2009 i km di ferrovie al Centro-Nord erano 10.895, pari a 61,1 su 1.000 di superficie. al Sud, invece, 5.731, pari a 46,6 km ogni 1.000.

Strategie sul Mediterraneo, politica fiscale e industriale per rilanciare il Sud

«Il Mezzogiorno – ha concluso Bianchi – è partito con condizioni di assoluto svantaggio che erano legate ad indicatori sociali che hanno pesato e condizionato la crescita nel primo secolo dopo l’Unità d’Italia. Dal dopoguerra ad oggi si evidenzia una prima fase di forte recupero quando c’era una politica nazionale orientata al riequilibrio dei territori che però poi dagli anni ’80 si è interrotta e stiamo ancora aspettando di ridefinire un quadro organico di interventi per il Sud. Nel frattempo il Sud è cresciuto ed è cambiato: gli indicatori sociali infatti sono più o meno gli stessi rispetto al Nord, ma a questo non ha corrisposto una crescita degli indicatori economici». Se non si saprà porre rimedio «il Paese nel suo complesso non può crescere. La nostra storia ci insegna che le due aree crescono insieme e declinano insieme».

Oggi il Mezzogiorno si propone come «opportunità strategica del Sistema Italia», ha detto il presidente dello Svimez, Giannola, secondo il quale però è necessario puntare su tre direttrici: centralità del Mediterraneo, fiscalità differenziata, politica industriale centrata su logistica e fonti energetiche alternative e tradizionali. Senza un progetto Sud forte e condiviso, infatti, il rischio è che, se non contrastato, il «silenzioso tsunami demografico ci consegnerà nel giro di poco più di trent’anni un Sud spopolato, anziano, cronicamente e ben più “patologicamente dipendente” di oggi per l’ effetto congiunto di un declino nella fertilità, del progredire della speranza di vita e di una ben peculiare ripresa dell’emigrazione».

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-05-30/nord-anni-economie-confronto-130630.shtml?uuid=Aazf1obD

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