“Mare Calmo” di Nicol Ljubić (Keller editore) – recensione

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https://twitter.com/stefanofait

“Mio padre è accusato di essere coinvolto nell’omicidio di quarantadue persone. Sarebbero state bruciate. Agli occhi della gente è un criminale di guerra. Ti sei innamorato della figlia di un criminale di guerra”.

Ecco una rivelazione che può mettere a  dura prova la vita di coppia.

Accade a Robert, storico tedesco di genitori croati, protagonista di “Mare Calmo”, di Nicol Ljubić, anch’egli tedesco di origini croate. Il romanzo, vincitore del premio Adalbert-Chamisso nel 2011, edito da Keller, ha già entusiasmato migliaia di lettori europei.

Robert si è innamorato di Ana Šimiç, una serba che ha vissuto l’esperienza del bombardamento di Belgrado ed è figlia di Zlatko Šimiç, anglista all’università di Sarajevo e probabilmente il massimo conoscitore jugoslavo di Shakespeare.

Quattordicenne al tempo della guerra civile jugoslava, il giovane protagonista non conosce il serbo-croato e sa poco della tragedia jugoslava, perché il padre ha voluto bruciarsi i ponti alle spalle e risparmiare al figlio il peso di un passato terribile.

Ana non vuole perderlo e per diversi mesi non gli rivela che suo padre è sotto processo all’Aia, accusato dall’unica superstite e testimone, una bambina di 11 anni, di aver ingannato un gruppo di bosniaci per poterli infilare in una trappola mortale.

La famiglia croata di Robert è per lo più convinta che la sua ragazza sia tedesca, “altrimenti – gli assicura il padre – non capirebbero”.

Romeo e Giulietta uniti e divisi dal non-detto e dall’ignorato, da uno stile prevalentemente asciutto nell’affrontare dilemmi profondi, mai banalmente, a tratti anche poeticamente.

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  Perché Zlatko si paragona allo shakespeariano Tito Andronico, il vendicatore per antonomasia, dopo Ulisse? C’entra forse qualcosa la sorte di Lavinia, la più commovente  vittima di questa prima tragedia di Shakespeare, con la nefandezza di cui è imputato al Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia?

Robert vorrebbe capire. Ana vorrebbe al contrario dimenticare. Non insegue una verità forse inconoscibile ma piuttosto, per la verità senza troppa fortuna, la bonaca, il “mare calmo” (in serbo), l’atarassia, uno stoico distacco da emozioni lancinanti.

C’è sfiducia, c’è scontento, c’è risentimento.

Pur innamorati, i due si lasciano.

Temporaneamente?

Robert si reca allora ad assistere al processo di quell’uomo che, visto solo in foto, sperava potesse un giorno diventare suo suocero; e poi in Bosnia, a rivivere pagine di storia non sua, ma che hanno fatto irruzione nella sua vita, imprevedibilmente.

“Scontri di civiltà”, scontri di inciviltà e strategie geopolitiche

Il successo ottenuto dal partito salafita alle elezioni (un quarto dei voti) indica che la corrente più radicale dell’islam egiziano è un fattore con cui i Fratelli – e i militari – devono fare i conti. Se il clima dovesse infiammarsi, a causa dell’ennesima provocazione dei crociati antimaomettani, e se la crisi economica dovesse inasprirsi, gli equilibri allestiti in questi mesi potrebbero saltare. Sempre che non ci pensino gli israeliani, attaccando l’Iran [vedi carta], a riazzerare l’intera partita mediorientale. Una mossa da roulette russa. Con i terroristi islamici che rialzano la testa, Gerusalemme potrebbe invocare una ragione in più per rovesciare il tavolo – e la mal digerita intesa Fratelli musulmani-Stati Uniti.

Lucio Caracciolo

http://temi.repubblica.it/limes/libia-ambasciatore-ucciso-bengasi-droni-navi/38112

Ancora una volta si è levato alto il grido: “Scontro di Civiltà!”

Uno slogan caro al teorico neoconservatore Samuel P. Huntington: che è diventato un mantra ed ottunde i cervelli.

Cosa diceva Huntington?

La mia ipotesi è che la fonte di conflitto fondamentale nel nuovo mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologia né economica. Le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legata alla cultura. Gli Stati nazionali rimarranno gli attori principali nel contesto mondiale, ma i conflitti più importanti avranno luogo tra nazioni e gruppi di diverse civiltà. Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale. Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro”.

Il fatto, evidente a chi sia ancora in grado di usare il cervello che ha ricevuto in dono alla nascita, è che una manica di imbecilli scervellati – integralisti, fondamentalisti, razzisti del genere “supremazia ariana” – non bastano a fare uno scontro di civiltà. Centinaia di milioni di cristiani, musulmani, indù, ebrei, buddhisti, sikh, atei, ecc. sono determinati a vivere la loro vita senza creare problemi agli altri e senza che gli altri ne creino a loro, in ossequio alla regola d’oro: “non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te”.

Quel che invece c’è è uno scontro di inciviltà, ossia una strategia di estremisti islamofobi/razzisti (cf. i nipotini di Oriana Fallaci) che cerca in ogni modo di convincere il mondo che l’Islam è una minaccia e che nessuno vorrebbe avere un musulmano per amico, “perché non si sa mai”.

Un attacco generalizzato all’Islam può solo estraniare quella vasta maggioranza moderata che è la nostra naturale alleata. Se ce la rendiamo ostile sarà solo colpa nostra. Un esempio estremamente indicativo è la vergognosa provocazione della caricatura di Maometto-terrorista-bombarolo pubblicata dal giornale ultraconservatore danese Jyllands Posten, per volontà di Flemming Rose, giornalista e saggista legato agli ambienti euroamericani ed israeliani più reazionari ed anti-islamici, vicini all’amministrazione Bush, che ha espressamente commissionato le famigerate vignette e che, non contento, ha rincarato la dose mettendo in guardia gli Europei dall’elevato tasso di fertilità delle donne musulmane e dalla debolezza delle loro identificazioni con la civiltà europea. Il risultato è stata una futile e disastrosa degenerazione del clima internazionale nella direzione di quello scontro di civiltà annunciato ed auspicato appunto da Samuel Huntington.

Ora è arrivato il film-trash di produzione copto-ebraico-americana che insulta pesantemente Maometto, descrivendolo come stupratore pedofilo e tratta i musulmani come dei ritardati mentali. Il regista, apparentemente un copto che si è fatto passare per un israeliano con doppia cittadinanza residente in California, dopo aver falsamente dichiarato di essere stato finanziato da anonimi mecenati ebrei ha definito l’Islam “un cancro”.

Indipendentemente dal fatto che il film c’entrasse qualcosa con l’attacco, peraltro previsto con 48 ore di anticipo senza che si sia avvertito il “povero” ambasciatore (sacrificato alla realpolitik come un Alden Pyle qualunque?), è emerso che gli attori avevano firmato un contratto per tutt’altra “opera” – una commedia trash – e pare che le loro battute non abbiano nulla a che vedere con l’Islam. Gli attacchi islamofobi sono stati inseriti in fase di doppiaggio, senza farlo sapere agli attori. Nel copione il soggetto non era Maometto, ma un tale Padron George, il titolo dello script era “guerrieri del deserto” ed era ambientato nella Palestina dei tempi di Gesù (!!!). Così scrivono sul Guardian.

Questa vera e propria porcata si inserisce in un clima, in occidente, di strisciante o esplicita islamofobia, che risale a ben prima dell’11 settembre 2001 e che produce una costante serie di provocazioni, ben sapendo che qualcuno, dall’altra parte abboccherà e confermerà gli stereotipi applicati indistintamente a tutte le centinaia di milioni di musulmani del mondo, specialmente se arabi – ma non ai dittatori nostri alleati nella penisola arabica, non ai mujaheddin/talebani che hanno combattuto contro l’URSS prima e Gheddafi poi, né ai salafiti che vogliono abbattere Assad per prendere il potere e che godono dell’appoggio di Al-Qaeda: quelli vanno bene perché sono dalla nostra parte.   

La situazione è esplosa proprio in Libia, il paese più recentemente democratizzato a suon di bombe, dove i fondamentalisti abbattono le moschee sufi senza che le forze dell’ordine intervengano, dove le milizie controllano il paese e stanno provocando un’escalation di violenze (Caracciolo). Proprio il giorno in cui gli eredi “democratici” di Gheddafi stavano per annunciare il nome del nuovo primo ministro, proprio nella città simbolo della rivolta anti-gheddafiana. E proprio il giorno dopo l’ennesima commemorazione del Male Islamico (11 settembre 2001), che ricorda tanto i due minuti d’odio orwelliani.

L’ambasciatore e i suoi tre assistenti sono stati uccisi da razzi sparati contro la loro auto in fuga, cioè sono stati presumibilmente uccisi dagli stessi guerriglieri che hanno armato e guidato alla volta di Tripoli (che ingrati!)

Quando un militante della supremazia ariana, cristiano, veterano dell’esercito americano ha ucciso sei sikh nel Wisconsin, i Sikh non hanno accusato i cristiani di essere sanguinari e mostruosi. Né i parenti delle vittime di Breivik se la sono presa con il protestantesimo. Né i superstiti delle stragi volute da Bush e Blair sembrano girare il mondo uccidendo un cristiano dopo l’altro, anche se entrambi i leader si proclamano ultra-cristiani.

Invece il 99% dei musulmani ha tutto il diritto di chiedersi perché debba essere tormentato ed ucciso dai salafiti (quelli che sono arrivati fino in Bosnia per menare le mani e che hanno ucciso Vittorio Arrigoni), che sono finanziati dalle petromonarchie nostre alleate e che uccidono i cristiani siriani occupandone le chiese.

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/06/24/leader-della-rivolta-anti-assad-condivide-le-mie-preoccupazioni-sulla-siria/

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/06/01/il-caos-siriano-spiegato-dai-missionari-che-non-possono-essere-sospettati-di-complicita-con-iran-russi-e-cinesi/

ORA COSA SUCCEDERÀ?

La destra radicale europea gongolerà. I think tank neoconservatori americani gongoleranno. Breivik gongolerà. I due amiconi Romney e Netanyahu gongoleranno perché potranno dire che avevano ragione nel dire che le politiche israeliane in Medio Oriente sono defensive (scontro di civiltà!). Certi atei militanti avranno buon gioco a fare di tutte le erbe un fascio, accusando ogni persona religiosa di essere potenzialmente più violenta di loro (sebbene Robespierre, Stalin, Mao, Hitler e i Khmer rossi fossero atei/panteisti).

COSA POSSIAMO FARE?

Resistere alla propaganda, difendere gli innocenti, protestare contro ogni futuro conflitto, ostacolare la macchina infernale neoliberista (i think tank che propagandano l’islamofobia sono tutti neoliberisti).

Il dialogo tra le fedi portato avanti dalle maggiori figure religiose del mondo è un ottimo viatico verso un mondo in cui le virtù comuni a tutte le confessioni – carità, solidarietà, benevolenza, opere buone, buona volontà, concordia, pace e prosperità – possano una buona volta prevalere. Le religioni che conosciamo (incluso il buddhismo) sono destinate a perire, perché sono sorpassate, relitti di un passato che non vorrebbe passare; umane, troppo umane per essere adatte al Mondo Nuovo. Ma la religiosità/spiritualità è un bene inestimabile e permanente. L’inciviltà servirà solo a spianarle la strada.

Heiliges Land Tirol / Fratelli d’Italia

 

Estratto da Stefano Fait e Mauro Fattor, “Contro i miti etnici: alla ricerca di un Alto Adige diverso“, Raetia, 2010, 224 pagine.

Ti sei mai chiesto cosa sia questa patria, questa nazione? Pure invenzioni di un piccolo gruppo di sciagurati che vogliono governare sui popoli! Quando la Terra venne creata non fu suddivisa in nazioni! …poi vennero gli uomini, con le loro strampalate idee di possedere il territorio, dimenticando, inoltre, che su questa Terra, mentre lei permane, noi veniamo e ce ne andiamo.

Mario Martinelli

 

Dopo lo spettacolare fallimento della moralità convenzionale (di stampo comunitario) nel corso del secolo scorso, la mansueta, meccanica identificazione dell’individuo ad una collettività, sia essa un’etnia, una patria o una corporazione, è estremamente problematica e va trattata come ogni altra forma di idolatria o tribalismo, ossia con il più lucido scetticismo. L’Heimat è un territorio dell’immaginario, non un’entità naturale. Gli esseri umani fanno già abbastanza fatica a non fuggire da se stessi per paura di essere inadeguati e a non essere prevenuti nei confronti degli sconosciuti per paura di scottarsi l’anima: indurli ad amare una finzione che esalta le differenze verso l’esterno ed annulla l’unicità di ciascuno di noi è irresponsabile.

Dunque il valore dell’Heimat/Patria non solo non esercita effetti virtuosi sulla società civile, ma addirittura la danneggia, sia a livello morale sia a livello pratico. Vediamo meglio come e in che misura ciò avvenga nel contesto altoatesino. C’è una significativa testimonianza di Bernhard Pircher che fu intervistato dalla rivista “UnaCittà” quando aveva 19 anni ed era membro della compagnia di Schützen venostana di Glurns/Glorenza (Pircher 1997). Illustrando le ragioni che lo avevano indotto a diventare uno Schütze, Pircher spiega che “Quello che mi affascinò di più era questo essere dalla parte della Heimat, delle tradizioni, della religione e anche del bisogno di coesione, il fatto cioè che ci si raduni per le celebrazioni pubbliche e per marciare insieme. L’ammissione nella compagnia degli Schützen di un nuovo membro deve essere unanime”. Questa scelta fu resa più facile da un evento particolarmente spiacevole, una rissa con degli italiani per futili motivi. Così Pircher confessava di essere stato per lungo tempo anti-italiano: “Adesso però la vedo diversamente. Anche gli italiani sono esseri umani e hanno quindi molto in comune con noi”. Una frase che chiarisce meglio di dozzine di saggi la natura disumana e de-umanizzante, per entrambi i gruppi etnici, della separazione etnica in vigore nella Heimat altoatesina, specialmente per i giovani, inesperti e quindi estremamente influenzabili. E l’Heimat? Cos’era l’Heimat per quel giovane Schütze della Val Venosta? “Heimat è quel luogo in cui ci si sente “a casa”. Qui da noi ci si conosce tutti. Ci si saluta anche se non ci si conosce e si ha fiducia negli altri…Heimat è per me lì dove si sta volentieri. Io nella mia terra posso fare le cose che amo fare…Nella mia Heimat io ho l’aria pura e un ambiente quasi incontaminato, che rispetto”. Per Pircher l’Heimat non è chiusa ai forestieri: “Essa è per tutti, questo lo voglio ben sperare. Anche per quegli italiani che sono nati qui. Io vorrei anche che ognuno si prendesse cura di questa Heimat, anche delle sue tradizioni. Quando ad esempio si preparano i fuochi per il “Sacro Cuore di Gesù”, è bello perché vecchi e giovani si incontrano, salgono insieme sulla montagna e condividono il piacere di queste tradizioni. Si ascoltano storie di tempi passati, e quando poi bruciano i falò, si sente dentro di sé una gioia e un senso di comunione così unico e profondo. Tutti aiutano, tutto il paese si dà da fare affinché queste feste riescano bene. È anche un modo per incontrare persone che altrimenti non si incontrerebbero. È un’alternativa al solito bar, e magari pure alla discoteca in cui i più vecchi in ogni caso non vanno. Anche questi incontri sono Heimat”. O forse no. Forse l’idea di Heimat è una sovrastruttura del tutto superflua. Tant’è che in italiano basta dire – “sentirsi a casa” – senza tanti fronzoli mistici politicamente manipolabili. Heimat non è l’unica risposta, o la migliore, allo spaesamento da globalizzazione. Il paesaggio emotivo tedesco non è poi così diverso da quello latino o slavo. Così in Trentino si possono fare le stesse cose e provare le stesse sensazioni senza che la mente chiami in causa come un automatismo del tipo “stimolo-risposta” la nozione di patria/Heimat. C’è chi si è chiesto come mai una parte del mondo germanico sia così fermamente aggrappata a questa idea di Heimat. Ad esempio Peter Blickle, docente di germanistica presso l’Università del Michigan, ritiene (Blickle 2002) che essa nasca dalla fusione di Romanticismo ed anti-Illuminismo e che il bisogno psicologico derivi in primo luogo dal desiderio di ricavarsi uno spazio idealizzato e protettivo, un’appartenenza di tipo neo-tribale percepita come naturale nella quale perdersi. È una provincia dello spirito che è emanazione di una spiritualità provinciale, locale e che impregna una “individualità collettiva” che “rassicura i germanofoni circa il loro valore, identità e unicità” (Blickle, op. cit., 50). Il sé, come detto, si perde nell’Heimat e diviene un sé diverso da quello descritto da Freud, un sé “preconscio, dipendente dal gruppo e sociale…bisognoso di radici. Un sé sradicato è percepito come sminuito o guastato” (ibidem, 69) che confonde persone e cose, l’errore ontologico del pensiero magico-superstizioso che un tempo si chiamava idolatria pagana.In passato quest’invenzione del pensiero umano è servita a tenere in piedi un sistema di valori, poteri e rapporti umani fortemente lesivo della dignità delle donne e discriminatorio nei confronti dei bambini e delle minoranze.

Inoltre l’aura di innocenza che spira attorno all’Heimat è saldamente legata alla semplice e perniciosa equazione di bello e buono. Se l’Heimat è un idillio di bellezza, innocenza e purezza, allora chi la ama è buono ed irreprensibile per definizione. Anzi, è un eletto. Non è quindi per nulla sorprendente che l’Heimat sudtirolese attiri le personalità narcisistiche. Tutti, anche se in misura diversa, siamo affetti da narcisismo. Il militante etnicista o patriottico va oltre, dando libero sfogo alla sua immaginazione ipertrofica. In talune circostanze la discrepanza tra realtà e immaginazione è tale che questo tipo di narcisista inveterato trova arduo non provare disgusto per ciò che stona, fosse pure una certa classe di esseri umani. Dimostra povertà di spirito e scarsa empatia, tratta gli altri come oggetti utili ad alimentare il proprio bisogno narcisistico, si chiude autisticamente nel suo bozzolo di certezze, nel suo personale universo di riduzionismi che lo deresponsabilizzano e spostano la colpa sui difetti congeniti degli altri. Necessita di ordine e chiarezza e li può trovare nella superstizione del gene onnipotente, della tradizione ordinatrice, dell’identità totalizzante e neo-tribale, cioè nell’idea in quanto tale, immacolata ed omogenea. Il Südtirol o l’Italia come filo a piombo dell’anima (Stecher 2008). Un’idolatria che è anche un terribile auto-inganno e che bolla come minaccia tutto ciò che contamina la purezza dell’idea, arrivando a negare la realtà, come nel risibile “no a un’Italia multi-etnicadi Berlusconi. Se questa minaccia non è opportunamente neutralizzata la condanna è all’alienazione. Un inconscio processo di alienazione è già comunque in atto, perché il narcisista immaginifico è già schiavo delle sue idee fisse. I totalitarismi altro non sono che manifestazioni su vasta scala del medesimo fenomeno, vere e proprie epidemie di narcisismo. Ciò potrà sembrare strano per chi è abituato, erroneamente, a pensare al narcisismo in termini di egocentrismo ed eccessivo amor proprio. In realtà il narcisista, se privato della sua sorgente di conferme e rassicurazioni, si sente vuoto e depresso, inutile, senza scopo, amorfo, ansioso ed insicuro. Soffre di considerevoli oscillazioni nell’autostima e può arrivare a credere che la vita non sia degna di essere vissuta. Per evitare questo tragico epilogo sente l’impulso di aggrapparsi ad una qualche figura o idea dominante che fornisca un sostegno solido. Anela la fama e l’ammirazione, perché queste portano con loro l’universale approvazione. Se non può conseguirla si attacca al culto della celebrità. Molti binomi padrone-servo potrebbero essere tranquillamente invertiti, perché entrambi sono narcisi ed hanno bisogno di quel tipo di rapporto patologico più di quanto necessitino di un certo status. È il vuoto interiore, l’inautenticità, la perdita di senso, l’incertezza del futuro che paventano più di ogni altra cosa. La superficialità non è un problema, il narcisista è in ogni caso antropologicamente pessimista, il suo pensiero non è mai profondo – è arendtianamente banale –, né lo è la sua stima nei confronti degli altri esseri umani, che non sono mai davvero suoi simili e per questo possono essere ordinatamente incasellati in categorie arbitrarie. Il feticismo, l’illusionismo nella sua accezione più ampia è il vizio caratteristico del narcisista. Non potendo contare su una vita ultraterrena, esorcizza lo spettro della morte concentrandosi sull’immagine e sull’idea – la Patria, l’Etnia –, rendendole immortali, e si autoipnotizza, dissipando il suo potenziale. Il suo amor proprio è dunque fragilissimo e la concentrazione su di sé in realtà è molto precaria e può mutarsi molto facilmente in attaccamento fanatico ad un movimento e ad un leader che incarnino le idee fisse che danno senso alla sua esistenza, almeno provvisoriamente. Insomma il narcisista non è autonomo ed indipendente, non ha alcun serio controllo sulla sua esistenza. Al contrario è eterodiretto, e si lascia facilmente assimilare da fazioni, sette, tribù, razze, campanilismi, integralismi e militanze varie, riflessi distorti della realtà. Si intossica di lusinghe, vezzeggiamenti, adulazioni, apprezzamenti di un sé illusorio, falso e privo di valore, che ha bisogno di ripetute conferme e le trova nella grandezza del Gruppo. È una comparsa nella sua vita, non il protagonista, anche se non se ne rende conto e profonde impegno e risorse per rinsaldare ancora di più questo stato di cose.

Oggi, in Alto Adige come in gran parte dell’Europa, la logica etnarchica, – essenzialmente narcisistica – che antepone il particolare all’universale sacrificando il motto Liberté, Égalité, Fraternité sull’altare della Cultura e dell’Identità, è sopravvissuta alla sconfitta del nazismo e del comunismo. Si è tornati a parlare di identità naturali, anche se nessuno ha saputo ancora spiegare cosa ci sia di naturale e di univoco in queste identità. D’altronde quello identitario non è un appello alla ragione, ma alle emozioni, ai sensi di colpa ed alla paura di chi, sentendosi in dovere di appartenere “anima e core” ad un insieme più ampio, non si sente di poter affrontare il giudizio altrui e l’ostracismo degli altri membri del gruppo. La moda etnarchica non va però affrontata in modo sbrigativo. Non è un atavismo incontrollabile ma piuttosto un nobile stimolo umano primordiale (quello al raggruppamento ed alla condivisione di sforzi ed aneliti) che può essere male indirizzato, nel qual caso trova pretesti e razionalizzazioni eminentemente moderne quando il modello universalista segna il passo, cioè ad ogni seria crisi internazionale o sotto la spinta dell’immigrazione di massa.

Essa rimane una strategia fallimentare sotto ogni punto di vista. A livello etico perché non rispetta la dignità intrinseca e l’autonomia delle persone e dissimula la loro unica, comprovabile appartenenza, quella alla specie umana. A livello pratico perché non esiste alcun modo per tenere sotto controllo le forze centrifughe ed atomizzanti messe in moto da una politica della differenziazione identitaria. Ci sarà sempre una minoranza che pretenderà il pieno autogoverno se non riceverà un’adeguata compensazione. Pensiamo a quel che sta avvenendo in Bosnia, dove la Republika Srpska a forte maggioranza serba sta già meditando di seguire l’esempio del Montenegro e Kosovo, distruggendo quindi ogni sforzo pacificatore ed unitario della comunità internazionale in Bosnia. Oppure pensiamo alla contrapposizione tra Scozia ed Inghilterra, tra Catalogna ed Andalusia, tra Fiandre e Vallonia, tra Padania e Meridione. In caso di separazione, il paradigma etnico che la giustifica sarebbe nel contempo il maggiore ostacolo alla realizzazione di una società equa, giusta, e solidale. La maggioranza etnica sarebbe autorizzata a decidere in funzione dell’interesse primario della conservazione della sua egemonia. E non è precisamente quel che avviene in Alto Adige – e in Italia –, con la ben remunerata connivenza di quasi tutti i partiti? Cosa succederebbe in Alto Adige se si arrivasse al distacco dall’Italia? Cosa farebbe la maggioranza italofona di Bolzano e dell’Oltradige-Bassa Atesina? E come si può evitare che degli standard etici locali logorino la coesione dell’Unione Europea attorno ai principi universalistici ereditati dall’ecumenismo cristiano, dall’Umanesimo e dall’Illuminismo? Il separatismo localistico ed il differenzialismo identitario non sono né assennati né moralmente giustificabili. Non possono costituire una risposta ai problemi dell’autogestione territoriale né possono mitigare l’impatto della globalizzazione a livello socio-economico, se non altro perché i movimenti etnopopulistici europei sono sempre ed invariabilmente libertari (di destra), in quanto il loro bacino elettorale si concentra soprattutto nella piccola e media impresa, cioè tra elettori che troppo spesso sono più propensi a pretendere tutele per sé stessi, anche se a discapito del resto della popolazione e degli immigrati che pure loro stessi assumono in gran numero (Tamás 2000). Quel che è scandaloso è che una parte della sinistra, in nome dell’anti-imperialismo, si sia sentita in dovere di combattere la destra su un campo come quello delle identità collettive, che è il terreno naturale della destra stessa.

Come sono avanti i Bosniaci, rispetto all’Alto Adige

Segregazione scolastica, un tribunale dice basta alla divisione fra croati e musulmani

di Giorgio Fruscione

“Adesso basta. È quello che ha detto il tribunale di Mostar in merito all’odiosa questione “due scuole sotto lo stesso tetto (dvije škole pod jednim krovom). Il tribunale della capitale erzegovese, che ha giurisdizione su tutto il cantone dell’Erzegovina-Narenta, ha infatti stabilito che il fenomeno rappresenta una violazione della legge sul divieto di discriminazione.

La sentenza dei giudici è arrivata lo scorso 27 aprile, stabilendo altresì che il Ministero dell’istruzione, della scienza, della cultura e dello sport del suddetto cantone ha tempo fino al primo di settembre 2012 per rimuovere questo “sistema scolastico”, che di fatto segrega gli alunni delle scuole elementari sulla base dell’appartenenza nazionale in due ali distinte degli edifici scolastici.

Questo singolare sistema scolastico, che ricorda tanto l’apartheid sudafricano, è stato istituito alla fine della guerra e tuttora affligge 34 scuole delle municipalità di 3 dei 10 cantoni in cui è divisa l’amministrazione della federazione “croato-musulmana”. Questi 3 cantoni (Bosnia centrale; Zenica-Doboj; e appunto dell’Erzegovina-Narenta) sono quelli in cui si concentra la maggior parte dei croato-bosniaci e in cui non esiste di fatto una maggioranza nazionale. Con la scusa di difendere la propria cultura dal pericolo di assimilazione nazionale, i rappresentanti politici della comunità croata in primis (i due HDZ ), ma anche di quella bosgnacca, hanno perseverato nel difendere ad oltranza la necessità di avere scuole diverse per “bambini diversi”, fino al caso estremo della scuola di Čapljina, dove nemmeno a ricreazione è consentito il minimo contatto tra bimbi cattolici e musulmani.

Quello che suona ancora più assurdo è pensare che molti bosgnacchi a loro volta credano che questo sistema sia la garanzia del rispetto della cultura nazionale in quanto, per esempio, alcune di queste 34 scuole sono passate al sistema “due in uno” per ovviare alla monopolizzazione scolastica adottata dalla comunità democratica croata alla fine della guerra costituendo, come a Jajce, scuole elementari in cui si studiava esclusivamente la storia, la geografia e la letteratura di un paese che di fatto non è quello di appartenenza (per non dire addirittura paese straniero).

Creare una segregazione nazionale non può essere considerato come uno stadio d’arrivo ma piuttosto come uno dei punti centrali da cui far partire necessarie riforme. Facendo della scuola il luogo in cui un nome e un cognome di diversa “estrazione nazionale” non costituiscano una barriera, ma piuttosto la sede educativa per antonomasia dove apprendere i principi della convivenza e della condivisione. Sembrano parole scontate ma nella Bosnia odierna nulla è dato per scontato.
La sentenza di Mostar impone infatti anche al resto della Bosnia Erzegovina il dovere morale di cambiare in questa direzione, scolarizzando una cultura nazionale che non scada nel nazionalismo e che non sia altro che lo specchio della società bosniaca tutta.

Oltretutto, l’ottica europea nella quale gravita o vorrebbe gravitare Sarajevo impone quei cambiamenti strutturali nell’ingrovigliato apparato statale bosniaco erzegovese – dai cantoni alle entità, fino ad arrivare allo stato centrale – da cui il sistema d’istruzione non si esenta.
Come si potrebbe permettere d’altronde di avere altri muri, altre linee di demarcazione, altre emarginazioni in un’ Europa unita? Anche questa volta la risposta verrà data giuridicamente, come a Mostar, affinchè una singola sentenza sia presa ad esempio e ispiri un processo di evoluzione che liberi la Bosnia dai fantasmi e ne esalti le particolarità culturali.

Dal canto suo, l’Europa, dopo aver dimostrato 20 anni fa di voler essere unita partendo dalla distruzione di un muro che divideva la bella e ricca Berlino, dovrà dimostrare le proprie capacità anche nel rimuovere un recinto che divide il cortile di una scuola nella brutta e povera Čapljina”.

http://www.raetia.com/index.php?id=1518

Piramidi a Visoko, in Bosnia?

A cura di archeoguida.it con la collaborazione di Sara Acconci


foto aerea della piramide del Sole

La località

Questa piccola cittadina a poco meno di 30 km da Sarajevo è stato un noto insediamento neolitico. Il centro abitato accrebbe nel medioevo, diventando la capitale del regno bosniaco di re Tvrtko I e uno dei principali centri della chiesa bosniaca, a torto associata agli eretici bogomili. Con la costruzione di un castello, sulla sommità della collina prospiciente, e con lo sviluppo del borgo, la cittadella medievale di Visoko visse l’avvicendarsi dei vari regni balcanici e del dominio ottomano.

Grazie a scavi archeologici, oggi gode di grande fama essendo divenuta lo scenario del dibattito tra il team di sei archeologi e di molti volontari che stanno scavando alcune presunte piramidi (per conto della fondazione Bosnian Pyramid of the Sun Foundation) e parte della comunità scientifica ancora scettica circa l’esistenza di tali opere architettoniche in Bosnia, risalenti a migliaia di anni fa.

Le piramidi sotto le colline: gli scavi e il tunnel

Semir Osmanagić è un imprenditore serbo-americano, famoso per essere il fondatore della Bosnian Pyramid of the Sun Foundation. Dal 2005 la sua equipe di scavo è in attività a Visoko per disseppellire due delle sette piramidi da lui individuate sotto le colline: si tratta delle cosiddette “Piramide del Sole” e “Piramide della Luna”.


la piramide della Luna come appare alla base della facciata Ovest


sondaggi effettuati nelle campagne di scavo finora


facciata Ovest della Piramide della Luna, come visibile dalla cima


Ricostruzione dell’ubicazione delle piramidi del Sole, della Luna e del Drago

Le rimanenti colline-piramidi invece sono situate in zone di pericolo per la presenza di mine risalenti all’ultimo conflitto armato.

Un canale sotterraneo, il tunnel Ravne, è stato liberato per ora, fino alla lunghezza di 400 metri, dalla terra che vi si era depositata. La presenza di acqua al suo interno sembra esser voluta dai costruttori; ciò è ipotizzabile vista la recente scoperta (2011) dell’esistenza di un canale sotterraneo per lo scorrimento delle acque.


 tunnel per metà invaso dall’acqua


tratto rettilineo del tunnel invaso dall’acqua


un tratto del tunnel


planimetria del tunnel di Ravne


schema del tunnel di Ravne in 3D

Al suo interno sono stati trovati muri realizzati con ciottoli e malta, segni di incisioni alfabetiche simili alla scrittura runica (le cui origini attestate risalgono al I secolo a.C.) e alcuni megaliti con altre incisioni.

Il sito della piramide della Luna ha riportato alla luce una pavimentazione in blocchi di pietra squadrati e accostati. In più punti essi sono sovrapposti a formare più strati pavimentali.

Di diversa composizione sembrerebbe la piramide del Sole: una formazione di blocchi di dimensioni maggiori e di una forma meno regolare rispetto a quelli della piramide precedente. Il materiale litico qui è più poroso.

Problemi di datazione

Le difficoltà nel datare il sito consistono nel fatto che le aree scavate sono prive di stratigrafia. Mancando le unità stratigrafiche (gli strati archeologici), gli esperti che vi lavorano non possono contare su riferimenti cronologici validi per conoscere l’epoca in cui queste strutture vennero realizzate. La squadra di operatori ed archeologi che si occupa dello scavo propende per una datazione: le piramidi risalirebbero a 12.000 anni fa, vale a dire al 10.000 a.C., epoca in cui l’Europa continentale si trovava nella fase di passaggio tra periodo paleolitico ed epipaleolitico (detto anche mesolitico).

I reperti

I reperti archeologici affiorati fino ad ora sono solo alcuni massi con delle figure incise e una matrice litica simile a quelle che si usavano per lo stampo di metalli fusi.


presunto stampo litico

Se fosse attestato l’uso dei metalli presso questa civiltà danubiana allora saremmo davanti a tre possibilità:

  • retrodatare la cronologia dell’Età dei metalli (nei Balcani è circoscrivibile al V millennio a.C. con la fase del Calcolitico o Età del Rame)
  • rivedere la datazione delle piramidi in attesa di nuove scoperte decisive
  • considerare il lungo periodo di attività del sito fino alla scoperta della lavorazione del metallo. Quest’ultima considerazione però implica una problematica ulteriore e cioè quella di come sia possibile estrarre e tagliare la pietra da costruzione senza utensili di metallo.

La diatriba della comunità scientifica

Molti esperti di varie nazionalità e di vari campi scientifici hanno criticato le attività di scavo di Osmanagić e della sua fondazione. Non mancano le critiche alle modalità di scavo, alla mancata scientificità della ricerca e al fatto che Osmanagić non sia un archeologo di professione.

Il problema che divide le due fazioni di pensiero è il seguente: se sotto le colline si celano delle piramidi allora esse sono frutto dell’opera umana. Mancando però elementi datanti e dati archeologici certamente antropici è emersa l’ipotesi che si tratti di grandi strutture naturali che la conformazione geologica del luogo avrebbe modellato fino al giorno d’oggi; in poche parole sarebbero dei banchi rocciosi seppelliti dal terreno depositatosi nei millenni.

Il 2009 e il 2010 sono stati due anni di intensa attività di scavo e di ricerca; infatti l‘esame di campioni delle strutture piramidali sono stati analizzati dal Politecnico di Torino il quale propende ad attribuire i materiali all’attività dell’uomo e quindi alla costruzione di elementi artificiali. Residui di un particolare tipo di calcestruzzo sarebbero l’elemento che potrebbe portare a favore dell’ipotesi che l’area sia stata plasmata da mani umane ma non è facile stabilire in che periodo ciò sia avvenuto.

Il parco archeologico

Gli enti locali hanno realizzando il parco archeologico delle piramidi, con ingresso libero per i turisti, divenuto famoso tramite un efficiente sistema di informazione e sponsorizzazione, anche al di fuori della nazione bosniaca. I volontari delle campagne di scavo, provenienti da molte nazioni, sono divisi in due turni di scavo da 50 persone ognuno.

Gli scavi potrebbero continuare oltre il 2012.

Bibliografia

Nota dell’autore

ringrazio la collega archeologa freelance coordinatrice degli scavi, dott.ssa Sara Acconci, per i dati forniti circa la situazione degli scavi e delle scoperte a Visoko. Tutte le fotografie delle attività in corso di scavo e lo scatto dello stampo litico sono gentile concessione di Sara Acconci. Le restanti sono state prese dai siti in bibliografia.

Galleria fotografica


fig. 11 – muretti di contenimento del tunnel


fig. 12 – muretto in ciottoli nel tunnel


fig. 13 – argine di ciottoli nel tunnel


fig. 14 – un bivio nel tunnel


fig. 15 – presunte incisioni su una pietra nel tunnel


fig. 16 – segni di incisione su una delle pietre di Ravne


fig. 17 – incisoni su una pietra trovata nel tunnel


fig. 18 – monolite con figura triangolare incisa


fig. 19 – segni o incisioni sulla parete del tunnel


resti di strutture nella “piramide della Luna”


l’archeologa Sara Acconci durante un momento dello scavo, piramide della Luna


struttura probabilmente pavimentale presso la piramide della Luna


 particolare delle strutture della cosiddetta Piramide della Luna


palina per la misurazione dell’altezza delle strutture


pavimento litico presso la cosiddetta Piramide della Luna


strutture di pietre squadrate


strutture a livelli paralleli, piramide della Luna


blocchi della cosiddetta piramide del Sole


parte di presunte strutture, piramide del sole


Piramide del Sole


un presunto angolo della cosiddetta Piramide del Sole

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