“Sto con Marchionne”, “Sì al nucleare”, Sì al Tav”, “Io i referendum per l’acqua non li voto” (Matteo Renzi)

Adesso sappiamo chi c’è dietro Matteo Renzi.
Resta solo da capire quante chance abbia di arrivare a guidare un PD di governo.

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2013/07/19/60-domande-per-matteo-renzi/

per Senza Soste, nique la police

31 ottobre 2011

“Prima di parlare dell’immagine di Matteo Renzi bisogna fermarsi telegraficamente agli interessi dai quali l’attuale sindaco proviene e a quelli che intende rappresentare. Dobbiamo infatti considerare che Matteo Renzi è figlio diretto di quel sottobosco politico dal quale oggi dice di volersi liberare. Suo padre Tiziano è stato in fatti un piccolo ras dei pacchetti di voti della declinante Dc toscana degli anni ’80, inizio anni ’90. Le insistenti voci sulle entrature di Tiziano Renzi nella massoneria toscana non sono provate o comunque andrebbero meglio certificate.

Di certo però suo padre si distingue nell’imprenditoria regionale in materia di giornali e di distribuzione pubblicitaria. Non solo, entra in affari con l’impresa Baldassini-Tognozzi-Pontello, oggi rilevata da Impresa Spa, che è  uno dei santuari del mattone toscano. Quindi quando Renzi difende la Tav non è tanto in conflitto ma in convergenza di interessi su un settore non proprio sconosciuto alla sua famiglia. E qui sarà probabilmente un caso quello che vuole la Baldassini-Tognozzi-Pontello vincere la gara d’appalto per la tramvia 2 e 3 a Firenze, come annunciato dallo stesso Renzi.

E quindi, quando Renzi dice di Firenze “basta costruzioni in centro”, c’è solo da capire per quale tipo di costruttori parla.

La polemica sulla discontinuità generazionale nel centrosinistra per Renzi, sulla rottamazione degli “anziani” vale poi ovviamente solo nei confronti di Bersani. Simbolicamente, quando Bersani è andato in visita ufficiale a Firenze, Renzi è andato al compleanno del padre. Nei confronti del padre c’è invece continuità, per così dire, anche nel ramo di impresa. Dove il primo costruisce legami d’affari a livello regionale, il secondo li allarga su una dimensione di influenza nazionale. A prescindere dalle primarie. Comunicazione e grandi opere, rami aperti dal padre, godono della capacità di fare brand su questi temi da parte del figlio che, come stupirsi, ha benedetto ogni Tav di vario ordine e grado. E che inoltre guarda a Mediaset come un possibile partner, strategia non aliena per l’allargamento di interessi editoriali locali del padre, altro che interrogativi sulla centralità della televisione di Berlusconi.

Partendo da questa base materiale, anzi concretissima, i Renzi si candidano ad allargare la base territoriale del proprio core business fino a farla coincidere con il livello nazionale. La politica, come ha fatto un altro imprenditore del cemento e della comunicazione (che ha reso Arcore per adesso molto più famosa della Rignano dei Renzi) è qui sia lo strumento necessario per allargare il ramo di influenza degli affari che un nuovo terreno di business. Per far questo si deve costruire un collettore di grandi flussi elettorali che tuteli le tre tipologie di interessi che si pensa abbiano un futuro nella rappresentanza istituzionale: rendita immobiliare e finanziaria, grandi opere, riduzione del costo del lavoro. Il brand Renzi è questo collettore. Gli interessi non sono proprio nuovissimi, anzi è roba da liberalismo della feroce Italia postunitaria, ma per tutelarli l’immagine deve essere qualcosa di nuovo che intercetti la forte domanda di cambiamento dell’elettorato.

Capita la base materiale dell’immagine di Renzi, e gli interessi che vuole difendere, non resta che dare un’occhiata al potere attrattivo messo in campo dal brand. Il sindaco di Firenze è il primo prodotto nuovo, in senso cronologico, del nesso politica istituzionale-media generalisti che seleziona le candidature reali per le elezioni. Gli altri al più tardi sono entrati in questo circuito nei primi anni ’90. Lo stesso Beppe Grillo ha un’accumulazione originaria di immagine negli spettacoli del sabato sera degli anni ’80. Comunque prima della discesa in campo di Berlusconi. Che così ha anche un ruolo di king maker delle candidature su tutto lo schieramento. Perché è inutile raccontarsela: nonostante twitter, facebook e miriadi di social media il potere di connessione complessivo in Italia è ancora quello della televisione generalista. Quindi se non vai contemporaneamente su Rai e Mediaset come candidato non esisti. Renzi questa selezione l’ha passata, Berlusconi oltretutto non ha mai nascosto o smentito la simpatia nei suoi confronti.  Anche perché gli interessi dei Berlusconi e dei Renzi non sembrano lontanissimi. Ogni modo, l’effetto novità creato dal primo candidato inedito da un quindicennio potrebbe anche farsi valere. Specie in un paese confuso, pronto ad affidarsi al primo messaggio di cambiamento disponibile su piazza. Anche se bisogna considerare che la crisi richiede personaggi capaci di interpretare un certo pathos non personaggi alla Renzi che sembrano proiettati con la macchina del tempo dall’epoca della new economy.

La strategia di Renzi, dal punto di vista dell’immagine, è semplice. Costruire un’immagine ingenua, luminosa e generalista, del giovane che innova nell’interesse del paese nel momento della crisi, per fare da collettore di voti di differenti frammenti di elettorato. Giovani (così si sentono valorizzati), anziani (così hanno l’impressione di fare qualcosa per i figli) di destra (tutti i decisionisti di ogni schieramento politico e i soliti bisognosi di un capo meglio se giovane e forte) e di sinistra (tutti quelli inclini a buttarsi sulla retorica dell’innovazione e quelli privi di rappresentanza).  Dal punto di vista del calcolo fatto da Renzi e dal suo staff i voti presi a destra dovrebbero essere maggiori di quelli persi a sinistra. Spostando il brand Renzi verso un piano di rappresentanza politica forte, compatibile con gli interessi neoliberisti che si vuol rappresentare, ma anche sganciato dalla necessità di tutela di reali interessi materiali di sinistra (diritti e beni comuni, per capirsi).

La convention di Renzi, e i relativi ritorni di immagine per ogni tipologia di elettore, è stata pensata per lanciare tre tipi di messaggio. Il primo, quello da chiacchiera di tutti i giorni,che è necessario per avere un consenso diffuso. Fatto per insinuarsi nei bar, negli autogrill alle stazioni, ovunque si parli di politica (il giovane che scende in campo rappresenta questa tipologia). Un altro, lanciato ad un pubblico più ristretto ma per niente esiguo, quello di chi si occupa di politica come mestiere o come opinione pubblica informata, tutto dedicato alla formula politica ed elettorale (primarie, alleanze, polemica tra personaggi). Un terzo è invece dedicato alle minoranze professionalmente specializzate e riflessive, quelle che lanciano tendenze (e allora vai con l’ostentazione del mac sul palcoscenico da sempreverde teatro off). Come sempre, vale per i manuali più consumati di propaganda elettorale, i tre messaggi possono essere ricevuti separatamente o combinati secondo la tipologia di elettore.

La logica del messaggio di Renzi è stringente e lacerante. Riducibile a questo slogan “togliere ricchezza e diritti a una parte della popolazione per darli a un’altra”. Ma non si tratta dell’antico linguaggio della socialdemocrazia legato al consenso nella redistribuzione sociale. In Renzi non c’è patrimoniale, controllo delle conseguenze sociali delle grandi ricchezze. Si tratta di togliere a chi è già stato abbondantemente attaccato dalla crisi liberista per dare a chi è stato attaccato ancora di più.  In un quarto di secolo questo progetto ha abbondantemente fallito ovunque. Per Renzi si tratta quindi di trovare una vasta platea di pubblico che coincida con la sua, ben interessata, ristrettezza di vedute. Già perché, al di là dello spettacolo, e qui Renzi non emoziona nessuno ma cerca solo di essere simpatico e ragionevole, ci sarebbe anche la politica. E qui si vede che il candidato più che da Firenze viene proprio da Rignano.

Renzi junior non è infatti riuscito a dire una parola che sia una di politica estera, della sua visione dell’Ue, della crisi delle borse, delle relazioni internazionali. A popolarizzare la politica estera, oltre a fissarla nell’agenda di priorità, i democristiani ci riuscivano benissimo. È evidente che le filiazioni successive hanno problemi a parlare del mondo. Del resto cosa direbbe Renzi? Che il suo modello ha fallito ovunque? Che la cancelliera tedesca Merkel, democristiana, ha fatto una proposta pochi giorni fa sul salario minimo che è di ultrasinistra rispetto alle giaculatorie di Renzi sulle categorie protette?
Meglio fare la figura del ragazzo aggiornato davanti a Bersani, cosa che riuscirebbe a qualsiasi pari età di Renzi non colto da ictus,  che addentrarsi nella politica. Qui c’è da valorizzare un brand e dei rami d’impresa il resto, almeno per uno come il sindaco di Firenze, è roba da eruditi. Categoria ottima invece come pianta ornamentale, vedi la filosofia in esilio invitata alla Leopolda o Baricco, ma quando si parla di sostanza tocca alle vere truppe di Renzi. Che sono composte da vecchi magliari di pacchetti di voti e di relazioni sociali che battono i territori, da funzionari pubblici che taglierebbero ovunque e da giovani che lavorano nel marketing convinti di saperla lunga quanto lo staff di Obama del 2008. Insomma al di là dei contenuti, che non ci sono, il fenomeno Renzi è tutto logistica (tradizionale e di marketing) e gestione del brand. Peccato che un paese in crisi epocale avrebbe bisogno di politica. Ma quella è roba da vecchie distinzioni destra-sinistra, tutte cose alle quali Renzi non è avvezzo. Lui vuole solo i voti da qualsiasi parte provengano e prima possibile.

Infine, si candiderà Renzi a presidente del consiglio? Il sindaco di Firenze si è dato tre mesi per prendere una decisione. Sa benissimo di dover passare di fronte ad una vera e propria ruota della fortuna. Sulla quale, vista la complessità della crisi del paese e del centrosinistra, devono davvero uscire solo i numeri giusti. Ma dalla ruota della fortuna, quella di Mike Buongiorno, Renzi c’è già passato (guarda il video). Da giovane concorrente. Proprio quella trasmissione che fu definita, dopo un’inchiesta della magistratura, “la ruota della mazzetta” visto che per entrare come concorrente bisognava stare dentro reti clientelari piuttosto strette. Vedremo se Renzi finirà a fare il concorrente anche questa volta. Di sicuro ha aumentato il potere di attrazione, economico e relazionale, del brand che rappresenta. L’augurio è che la politica gli riveli direttamente, e in corso d’opera, quanto letali possono essere le sue regole. Se mai dovesse diventare premier il potere destituente della complessità sociale tipico delle crisi dovrebbe però disarcionarlo bruscamente. Dopo vent’anni di Berlusconi lo spazio eventuale di manovra per un suo imitatore fiorentino sembra parecchio ristretto. Perché se il cabaret imbarca volentieri imitatori fiorentini, pubblico lo portano sempre, la politica ha bisogno di chiudere una stagione e promuovere altri interpreti”.

http://senzasoste.it/nazionale/la-ruota-della-fortuna-di-matteo-renzi

per Senza Soste, nique la police

14 settembre 2012

Qualche mese fa, all’epoca di una delle convention alla Leopolda di Firenze, abbiamo tracciato un profilo di analisi delle strategie di marketing politico di Matteo Renzi

Rileggendolo vi si possono trovare i tratti principali dei comportamenti renziani. Che appaiono quindi stabilizzati, definiti e quindi possibile oggetto di approfondimento. Ma c’è una cosa che Renzi e il suo staff hanno sottovalutato. Ovvero cosa significa, nella società dello spettacolo, reiterare lo stesso tipo di personaggio. Stiamo parlando dell’eterno ritorno del giovane che vuole rottamare, oramai configurabile come un Peter Pan delle primarie di qualsiasi livello.

Una regola fondamentale della società dello spettacolo, tanto più in politica, ricorda che  la reiterazione lo stesso personaggio produce un accumulo di satira e di ironia diffusa. Non a caso le grandi dittature hanno prodotto grandi vignette. La reiterazione dello stesso personaggio, delle stesse posture porta all’ingessatura della persona che si propone scatenando profondi moti sotterranei, e non, di riso e di ironia. Siccome Renzi non è un dittatore, in quel ruolo farebbe anche più ridere, e deve prendere voti l’effetto ridicolo creato dalla continua riproposizione della medesima immagine di sè potrebbe davvero essergli nocivo.

Silvio Berlusconi, il maestro di bottega di Renzi, conosceva queste regole. Infatti, per ovviare all’effetto ridicolo (e ne ha prodotto tanto), cambiava continuamente modalità di rappresentazione del proprio personaggio. Abbiamo infatti avuto il presidente-imprenditore, il presidente del Milan, persino il presidente operaio. Renzi, invece, non riesce a liberarsi, da qualche anno, della filastrocca rottamazione-merito-innovazione che oltretutto fa molto nostalgia anni ’80-’90. Per uno che ostenta l’ambizione di diventare presidente del consiglio, il primo vero Tony Blair di Rignano sull’Arno, è sicuramente un punto di debolezza. Infatti Renzi, prigioniero non di una politica ma di un personaggio, salta da una primaria all’altra riproponendo, in differenti contesti lo stesso tipo di spettacolo. Non è riuscito a stare politicamente fermo su un ruolo istituzionale, una stagione di governo. Non a caso, quindi.

Anche le figure con le quali si accompagna ripetono lo stesso jingle da sempre. Ad esempio l’economista Zingales, che non si rende conto di apparire in tv come la caricatura dell’economista liberista “tagli e rigore”, e il sempreverde Ichino per il quale il salario è equo e conforme a costituzione solo quando coincide con la mancia.

Renzi si è così ormai avvitato nell’imitazione, non si sa quanto involontaria, di CarCarlo Pravettoni. L’imprenditore milanese sintesi del colmo del berlusconismo, della retorica grottesca del merito, impersonato da Paolo Hendel nelle trasmissioni di satira di diversi anni fa. Una delle presentazioni iniziali delle puntate di Pravettoni recitava: “l’unico manager pagato dalla concorrenza perché resti dov’è”.

Il Renzi più giovane deve aver visto troppo quelle trasmissioni. Deve aver fatto come quei giovani aspiranti broker che guardavano Gordon Gekko, nel primo Wall Street, dimenticandosi che quella di Oliver Stone era una rappresentazione critica non la celebrazione del pescecane di borsa. In effetti si pagherebbe volentieri per lasciare Renzi dove è, in una candidatura alle primarie infinita quanto le soap opera giapponesi. Fa ridere, è grossolano e improbabile, attira una audience cinica come infedele e instabile (pronta a disarcionarlo al primo problema) e potrebbe distruggersi da solo con il ridicolo che attira.

Purtroppo, in un paese in seria decomposizione sociale e politica anche personaggi di questo calibro vengono presi sul serio. Persino un Pravettoni al potere può sembrare un programma politico all’altezza dei tempi. Curiosamente, vista anche la parabola politica di Berlusconi e Grillo, il futuro elettorale di questo paese sembra essere scritto nel passato della televisione. Non durerà ma può durare abbastanza per paralizzare un paese.

http://www.senzasoste.it/nazionale/arriva-renzi-il-carcarlo-pravettoni-dei-nostri-giorni

In una cosa il sindaco di Firenze può già dirsi come un riuscito allievo di Berlusconi: la collezione di frasi che inchiodano a futura memoria. Solo che Berlusconi ha dietro di sé’ vent’anni, e qualche disastro di governo, di politica italiana. Renzi ha molti meno campionati dietro le spalle ma, come si vede, cerca di colmare il gap con Berlusconi. Si vede che il titolo di parolaio del secolo della politica italiana è parecchio ambito. Anche perché non si sa mai chi potrebbe arrivare, nelle generazioni future, ad insidiare il primato in questa speciale classifica.

Renzi in poche ore ha collezionato due frasi che lo inchiodano a futura memoria. La prima è quella di ricevere i complimenti da parte del principale, storico avversario del centrosinistra. “Ha le nostre idee” ha detto Berlusconi di Renzi. Dopo un’affermazione di questo tipo, un candidato o scioglie il comitato elettorale o lo ripresenta dall’altra parte perché, politicamente, nel centrosinistra ha fallito. Nessuna maggioranza nel centrosinistra lo eleggerà perché candidato preferito di Berlusconi. Eppure Renzi si sente il sottile von Clausewitz delle primarie. Pensa che gli elettori delusi del centrodestra, in  questo modo, spinti dallo stesso Berlusconi si presentino in massa a votarlo. Un po’ come vincere la presidenza di un circolo di tifosi della Lazio grazie ai voti dei delusi dalla presidenza americana della Roma, auguri.

Eppure come perla del fine settimana questa non è l’unica. Ebbene sì, Marchionne, come diversi sindacalisti Fiom avevano denunciato, rivela che il piano fabbrica Italia era un bluff.

Una sorta di effetto annuncio, con investimenti 20 volte minori di quanto affermato, buono per comprimere i diritti dei lavoratori, abbassare il salario, movimentare qualche produzione e alzare il titolo in borsa. In molti sindacalisti del settore l’avevano capito e denunciato pubblicamente. Il piano Marchionne era una bolla speculativa, un effetto annuncio a corto respiro.

Non l’aveva capito Matteo Renzi, il sensitivo dei trend del futuro, che a gennaio 2011 aveva finito per abboccare alle trovate dell’ufficio stampa di Marchionne. Renzi infatti a suo tempo ha speso tutto se stesso per dimostrare che il piano Marchionne non solo era vero ma rappresentava il futuro della Fiat e dell’Italia. Lo pubblichiamo sotto senza commento.

Vai Renzi, non diventerai presidente del consiglio, non vincerai il titolo di parolaio del secolo, perchè impegnativo, ma davvero sei, parafrasando i classici, la nottola dell’avanspettacolo che si leva al crepuscolo della seconda repubblica. Ora manca solo un cartellone di serate, con diretta streaming, con Panariello, Pieraccioni o Carlo Conti. Non dubitiamo che lo staff di Renzi saprà scegliere il partner giusto. Con le primarie.

(red) 17 settembre 2012

http://www.senzasoste.it/nazionale/marchionne-e-le-parole-in-liberta-di-matteo-renzi

Intervistato al tg de La 7, Renzi si inserisce nel dibattito nazionale sul referendum Fiat, e lo fa nel suo stile, senza mezzi termini: “Io sto dalla parte di Marchionne, dalla parte di chi sta investendo sul futuro delle aziende, quando tutte le aziende chiudono. E’ un momento in cui bisogna cercare di tenere aperte le fabbriche”.

“Diciamo anche la verità: è la prima volta nella sua storia -aggiunge Renzi- che la Fiat, anziché chiedere i soldi degli italiani con la cassa integrazione, prova a mettere dei quattrini per agganciare alla locomotiva americana Mirafiori e anche la struttura italiana. Quindi, senza se e senza ma -conclude il sindaco di Firenze- stiamo dalla parte di chi crea lavoro e ricchezza. Poi, naturalmente, rispettiamo i diritti dei lavoratori, ma che siano lavoratori, e non cassintegrati”.

http://www.lanazione.it/firenze/politica/2011/01/11/441018-renzi.shtml

Christine Lagarde e l’FMI desiderano una rivoluzione?

Già da tempo mi è sorto il sospetto che l’estrema crudeltà dimostrata dalle autorità internazionali, ormai esplicitamente guidate da criteri esclusivamente neoliberisti, nei confronti di Greci prima e Portoghesi, Spagnoli, Irlandesi, ecc. poi, non sia unicamente dettata dalla volontà di sfruttare la crisi, aggravandola, per varare riforme strutturali che annullino buona parte dei diritti che lavoratori e cittadini in genere hanno conquistato nel dopoguerra.

Sono sempre più convinto che il piano sia molto più subdolo e nocivo e vada ben al di là dell’obiettivo di creare gli Stati Uniti d’Europa molto prima del tempo, quando ancora non esiste una società civile europea, un linguaggio comune europeo, media europei, un parlamento europeo sovrano, ecc. (oltre all’élite, l’unica cosa autenticamente paneuropea che c’è è la rete degli indignati).

Ho, insomma, il terribile sospetto che chi detiene il potere non possa desiderare di meglio che il verificarsi di mali estremi che giustifichino estremi rimedi.

Un sospetto che si rafforza leggendo l’intervista di Christine Lagarde al Guardian, che contiene asserzioni a dir poco incendiarie, a poche settimane dal voto greco, quasi che Lagarde tifasse per Syriza e non per i due partiti dell’establishment pro-austerità. Perché la Lagarde dovrebbe voler favorire i suoi oppositori invece di usare toni più accomodanti che invoglierebbero gli elettori greci a tornare nell’ovile neoliberista di conservatori e “socialisti”?

E perché farle su uno dei maggiori quotidiani britannici, ossia rivolgendosi ad un’opinione pubblica già ferocemente ostile al FMI ed al rigore a senso unico (anti-settore pubblico, anti-disabili, anti-pensionati, pro-imprese e ricchi, ecc.) del governo conservatore?

http://www.guardian.co.uk/world/2012/may/25/payback-time-lagarde-greeks?INTCMP=SRCH

Le reazioni inglesi sono state rabbiose quasi quanto quelle greche, come si evince dal numero di “mi piace” assegnato ai commenti più esasperati.

Segnalo il primo commento, che è anche il più apprezzato ed è, a mio avviso, molto condivisibile: “parole degne di una vera e propria sociopatica

[cf. http://www.informarexresistere.fr/2012/01/16/golpe-psicopatico/]

Purtroppo non conosco il greco e quindi posso solo affidarmi alle citazioni altrui per documentare le reazioni greche (più educate):

http://it.euronews.com/2012/05/27/i-greci-arrabbiati-con-lagarde-per-la-frase-sui-bambini-e-sulle-tasse/

Infine, perché mostrare sfacciatamente la sua costosissima borsa griffata come se fosse un sacco per raccogliere le offerte?

A parole, tanta sensibilità nei confronti dei bambini del Niger, ma non abbastanza da condividere un po’ della sua ricchezza coi meno “fortunati”:

“Per vestirsi, per gli accessori, per i gioielli spende certo più di Angela (ho notato che sfoggia 3 diverse borse di Hermes, in particolare una Kelly grigia, una Birkin color cuoio naturale ed una rossa non ben identificata con le proprie iniziali, che costano oggi messe insieme certamente più di 12.000 euro) ma ottiene l’effetto di apparire sempre elegantissima, luminosa e mai sopra le righe…La classe, il dispendio di denaro, le giacche e gli abiti perfetti contestualmente griffati e sobri, ma soprattutto il ciuffo argento la rendono praticamente uguale a Miranda/Meryl Streep de Il diavolo veste Prada. Non sbaglia mai una calzatura, una borsa. Sciorina foulard di Hermes come se non costassero almeno 310 euro l’uno”.

http://www.lundici.it/2012/01/ci-sono-una-tedesca-una-francese-e-un%E2%80%99inglese%E2%80%A6/

Pochi sanno che Lagarde guadagna oltre 380mila euro all’anno e non paga un euro di imposte in quanto funzionaria di un’istituzione internazionale:

http://www.toutsurlesimpots.com/exoneration-d-impots-pour-le-salaire-annuel-de-380-989-euros-de-christine-lagarde-au-fmi.html

Lungi dall’aiutare l’Africa, l’FMI la sta distruggendo:
http://www.africaw.com/how-the-world-bank-and-the-imf-destroy-africa

Christine Lagarde è sotto inchiesta nell’affare Tapie:
http://www.dailymotion.com/video/xkcm27_francia-lagarde-sotto-inchiesta-per-il-caso-tapie_news

Sempre più persone si stanno accorgendo che questi non sono esseri umani come gli altri. Per nascita o per ragioni biografiche – quindi non per loro colpa –, sono privi di empatia, di scrupoli, di coscienza, di ritegno, di rimorsi, di sensibilità, di altruismo. Ce ne sono diverse centinaia di milioni nel mondo. Si chiamano psicopatici (o sociopatici) e, quando non sono disfunzionali e quindi non vengono emarginati nelle patrie galere o uccisi, si integrano molto bene in una società ipercompetitiva e spietata e si specializzano nello scalare la piramide sociale (agognano il potere sugli altri, non possono farne a meno e sono diretti solo da considerazioni utilitaristiche).

In futuro il fatto che i leader non siano mai sottoposti a qualche verifica che ne accerti le qualità umane e morali sembrerà altrettanto grottesco di quanto oggi ci apparirebbe mettere un portatore di difterite a dirigere il reparto lattanti di un ospedale”.

Erich Neumann, “Psicologia del profondo e nuova etica”, p. 82

Sospetto che il nostro tempo non sia semplicemente o principalmente un’età di follia ma un’età di psicopatia. Più precisamente: penso che una nota chiave della nostra epoca sia la manipolazione psicopatica di ansie psicotiche. Si fa leva sull’annichilimento apocalittico e su altri terrori catastrofici, approfittandosene.

Michael Eigen, “Età di psicopatia”, Milano: Angeli, 2007, p. 15.

Non deve dunque meravigliarci il fatto che molti psicopatici occupino delle posizioni di comando; ci meraviglia il fatto che in tali posizioni non ce ne siano in numero ancora maggiore…uno dei grandi problemi di ogni società, di ogni istituzione politica o di altre grandi istituzioni, consiste nell’impedire che, con il tempo, degli psicopatici privi di scrupoli, compensati e socialmente integrati, prendano in mano il potere…sono convinto che una democrazia nella quale i cittadini non siano in grado di smascherare gli psicopatici sia destinata a essere distrutta da demagoghi assetati di potere. In Svizzera, la “resistenza” contro le grandi personalità, la preferenza in politica per le figure mediocri sono connesse alla naturale tendenza a impedire, in ogni caso, che gli psicopatici prendano il potere…Questi “grandi criminali” (Alessandro Magno, Gengis Khan, Napoleone, Guglielmo II, Hitler, Stalin….) distruggono la vita di milioni di persone…Soltanto attraverso il dominio distruttivo e la seduzione dei popoli essi riescono a illudersi di non essere più degli emarginati.

Adolf Guggenbühl-Craig, “Deserti dell’anima: riflessioni sull’eros e sulla psicopatia”, Bergamo: Moretti & Vitali, 2001, pp. 177-179.

L’avidità, non trovo una parola migliore, è valida, l’avidità è giusta, l’avidità funziona, l’avidità chiarifica, penetra e cattura l’essenza dello spirito evolutivo. L’avidità in tutte le sue forme: l’avidità di vita, di amore, di sapere, di denaro, ha improntato lo slancio in avanti di tutta l’umanità Io non creo niente, io posseggo. E noi facciamo le regole: le notizie, le guerre, la pace, le carestie, le sommosse, il prezzo di uno spillo. Tiriamo fuori conigli dal cilindro mentre gli altri, seduti, si domandano come accidenti abbiamo fatto. Non sarai tanto ingenuo da credere che noi viviamo in una democrazia: vero, Buddy? È il libero mercato, e tu ne fai parte: sì, hai quell’istinto del killer…

Gordon Gekko, “Wall Street” (1987)

Io sono un operatore finanziario, non mi preoccupa la crisi, se vedo un’opportunità di fare denaro, la seguo. Noi non ci preoccupiamo di come sistemare l’economia o di come si supererà questa situazione. Il nostro lavoro e fare soldi e io personalmente ho sognato questo momento negli ultimi tre anni. Devo confessarlo, ogni notte vado a dormire sognando un’altra recessione, un altro momento come questo. Perché c’è molta gente che non lo ricorda, però la depressione degli anni 30 non è stata solo il crollo dei mercati. C’era gente preparata a fare soldi con quel crollo.

Alessio Rastani, operatore finanziario indipendente, intervista alla BBC, 2011

Se è la rivoluzione che vogliono, si può resistere senza farla. E’ sufficiente rifiutarsi di cooperare con il proprio asservimento e “puff”, l’incantesimo svanisce, il potere evapora e i “potenti” restano nudi come il re nudo, impotenti come il Mago di Oz:

http://fanuessays.blogspot.it/2011/11/etienne-de-la-boetie-un-uomo.html

Non siamo scimmie nude – diritti umani, diritti degli animali, specismo e violenza

a cura di Stefano Fait


Si sono dette un mucchio di sciocchezze sugli esseri umani e sui primati. Qui cerco di usare il buon senso e dati empirici per fare chiarezza una volta per tutte.
Non è una questione marginale: i diritti umani, la prospettiva di un riscatto, la democrazia, la speranza, la fiducia, l’idea di progresso morale, di civilizzazione e maturazione…tutto questo e molto altro dipende da che concezione di natura umana prevale in un dato periodo.

L’idea che ogni essere umano, indipendentemente dalle sue virtù o manchevolezze, è prezioso ed insostituibile informa il nostro giudizio morale riguardo a come si trattano gli esseri umani. Ci comportiamo diversamente nei confronti degli animali perché in loro questa individualità è marcatamente attenuata. Gli insetti, in particolare, non ispirano particolare rimorso, in noi, se li uccidiamo accidentalmente.

Da bambino, il mio raccapriccio nel vedere altri bambini torturare degli insetti non derivava dalla mia empatia verso le vittime, ma dal senso di ripulsa che provavo, istintivamente (non v’era alcuna ponderazione, allora), nei confronti di esseri umani incapaci di trattenere la loro bestialità, ossia di porre un freno al loro potere, di disciplinare la tracotanza, di ascoltare la voce della coscienza.

Non siamo scimmie nude. Gli esseri umani apprendono e progrediscono perché sono in grado di capire che il cambiamento è preferibile ad uno stato di ignaro appagamento, che la vita reale non deve necessariamente seguire le istruzioni contenute nel copione della tradizione, perché una vita creativa, innovativa e vibrante, cioè una vita culturale, può essere immensamente più gratificante.

La lentissima evoluzione degli scimpanzé (se mai c’è stata), che pure sono geneticamente così prossimi agli esseri umani, è la prova più evidente di questa distinzione di fondo. Ciascun essere umano è votato al cambiamento ed è destinato a contribuire al cambiamento del pianeta; in questo, nessun animale si avvicina anche lontanamente alla condizione umana.

Eppure l’incrollabile persuasione che non vi sia mai stata una vera e propria fuga dalla natura e che il nostro temperamento e la nostra condotta di vita siano ancora fortemente determinati da una natura biologica ancestrale ha spinto alcuni ad ipotizzare che l’ipotetico Uomo Naturale non debba essere poi molto diverso dallo scimpanzé (Stanford, 2001).

Secondo questi evoluzionisti gli umani condividono in gran parte con i loro “cugini” primati una natura ominide universale, trasmessa geneticamente. Siccome la cultura, ai loro occhi, è il precipitato delle nostre esigenze evolutive, ne consegue che la cultura umana altro non è che una versione più sofisticata della cultura degli scimpanzé (Kuper, 1994). Tuttavia, come sottolinea Charles S. Peirce, è un grave errore logico quello di ritenere che sia assai probabile che due cose che si rassomigliano molto per certi aspetti siano molto simili anche per altri aspetti. La separazione dei percorsi evolutivi della specie umana e delle altre specie di primati è avvenuta quasi 7 milioni di anni fa. È difficile credere di poter chiudere un occhio su quel che può essere avvenuto in questi 14 milioni di anni (sette milioni di anni per ciascuna diramazione) di evoluzione divergente.

È possibile che l’evoluzione biologica degli scimpanzé non sia coincisa con delle modificazioni rilevanti nel loro comportamento e stile di vita (Tattersall, 1998). In ogni caso parlare di cultura nel caso degli altri primati è drammaticamente riduttivo. La presunta evoluzione culturale degli scimpanzé è così fiacca che non hanno ancora raggiunto neppure l’età della pietra e le dimensioni del loro cranio sono rimaste pressoché immutate per milioni di anni, sempre stando a quanto ci è dato di capire al momento attuale.

Al contrario i cani, che sono geneticamente più distanti da noi rispetto agli scimpanzé, ma hanno condiviso il nostro ambiente domestico per almeno 10 mila anni e forse molto di più, sono in grado di comunicare con gli esseri umani in modi più complessi cioè, in un certo senso, sono più partecipi della cultura e dell’intelligenza umana.

Sembra che alcuni primatologi, invece di concentrarsi su che cosa renda unici gli scimpanzé, e quindi degni di considerazione in quanto tali, siano ossessionati dall’idea di dimostrare quanto siano simili agli esseri umani, come se questo li rendesse più speciali e più meritevoli di tutela. In altre parole proprio chi denuncia teologi ed antropologi di antropocentrismo (come se questa fosse una colpa) non ne è affatto esente, anzi.

Il problema è che difendere i diritti degli animali è “politicamente corretto” e moralmente lodevole, ma non è per questo scientificamente rigoroso. Ancor meno se lo si fa minimizzando le oggettive e straordinarie differenze che separano gli esseri umani dal resto del regno animale. Non c’è nulla di antropocentrico nel sottolineare quel che ci rende unici, cioè un dato di fatto incontrovertibile, così come non sarebbe corretto accusare di bonobocentrismo chi rileva l’unicità degli scimpanzé bonobo.

Ogni essere vivente è unico e prezioso ma, come osservava il genetista e biologo evolutivo Theodosius Dobzhansky, con un riuscito gioco di parole, “ogni specie vivente è unica, ma la specie umana è la più unica”.

Uno scimpanzé è uno scimpanzé, parte di un ramo dell’albero della vita che non rinascerà mai identico a se stesso, e non un tentativo prematuramente fallito di generare un essere umano. Costringere gli scimpanzé in cattività a comportarsi come esseri umani, per poter provare che possiedono innate capacità di risoluzione di problemi, di uso di forme rudimentali di linguaggio e di formazione di un’autocoscienza sembra testimoniare, nella migliore delle ipotesi, la difficoltà per alcuni esperti di accettare il fatto che un membro di una specie non si troverà mai a suo agio comportandosi come un membro di un’altra specie. Nella peggiore delle ipotesi si tratterebbe invece dell’ostinazione antropomorfizzante di chi vede negli scimpanzé un essere umano incompiuto, il cui sviluppo si è interrotto per cause a noi ignote, piuttosto che uno scimpanzé completo. Non potendo parlare di razzismo, in questo caso si dovrebbe parlare di “specismo”.

Non è forse lo stesso atteggiamento coloniale ed imperialista usato dall’Occidente nei confronti dei “primitivi”?

Il fatto è che parlare del comportamento animale in termini umani significa calarli metaforicamente nella matrice delle istituzioni e delle pratiche umane, umanizzandoli, per poi dedurre dalle somiglianze necessariamente riscontrate che il comportamento umano in effetti non può che affondare le sue radici in quello animale. Insomma con un procedimento logico circolare si inseriscono nella premessa le conclusioni che si dovrebbero invece dimostrare.

Tuttavia, anche se certi animali si comportano in modo apparentemente simile agli esseri umani, non è detto che lo facciano per le stesse ragioni che guidano il nostro comportamento. Dopo tutto gli esseri umani sono animali, ma non è vero il contrario. Questa conclusione dovrebbe essere evidente a chiunque non si lasci incantare dalla vezzosa immagine di una Disneyland naturale. L’umanizzazione degli animali e l’animalizzazione degli umani sono di ostacolo alla scienza. Anche se permane una certa propensione a raffigurare l’uomo come “un carciofo da cui puoi togliere le foglie spinose della cultura lasciando solo il nudo cuore tenero dell’uomo naturale” (Marks, 2003: p. 163), va chiarito una volta per tutte che non v’è alcuna natura umana al di fuori della cultura. Natura e cultura non possono essere separate per poter confermare le ipotesi che più ci aggradano.

Neppure l’intento, pur nobile, di rendere gli esseri umani meno arroganti nei confronti degli altri animali può giustificare l’inclinazione a minimizzare quelle caratteristiche che ci distinguono dagli altri primati, che non sono certo il pelo e la promiscuità, ma le facoltà intellettive. Rifiutare l’antropocentrismo per scalzare l’uomo dal suo piedistallo e per promuovere una maggior sensibilità verso gli animali è una scelta di natura morale, non scientifica. Gli esseri umani sono animali culturali e le nostre capacità sono aggiuntive e non alternative a quelle degli altri animali. È proprio questo che ci rende animali differenti da tutti gli altri. La differenza quantitativa tra lo sviluppo umano e quello degli altri animali è tale che può legittimamente essere descritta come una divergenza di ordine qualitativo.

Dopo tutto gli altri primati hanno avuto lo stesso tempo per sviluppare una loro cultura, eppure finora non abbiamo trovato indizi inequivocabili di progresso culturale – se per “cultura” intendiamo creatività, originalità, innovazione e l’abilità di trasmettere certe nozioni alle generazioni successive. Sono le invenzioni il carburante dell’evoluzione culturale e gli animali, fino a prova contraria, non inventano nulla, si limitano ad imitare. Sanno usare semplici utensili, ma non li sanno fabbricare, né pare che sappiano trasmettere alle successive generazioni il modo d’uso appropriato. È come se ad ogni generazione, morti gli esemplari che avevano appreso per esperienza, bisognasse ricominciare tutto da capo.

L’uomo non è una scimmia nuda per la stessa ragione per cui il Barolo non è succo d’uva, anche se entrambi derivano dall’uva. La cultura fa la differenza: senza la cultura le società umane non si differenzierebbero molto da quelle delle scimmie, né il Barolo dal succo d’uva. L’antropologia e l’etnologia hanno il compito di definire in che cosa consista questa differenza. L’etologia, lo studio del comportamento animale, può dirci ben poco in proposito.

La questione centrale di questo dibattito è perciò chiaramente il ruolo da assegnare alla cultura nello sviluppo umano. La cultura è il frutto delle nostre elaborazioni mentali, cioè della nostra mente, che è una proprietà emergente del cervello che ancora facciamo fatica a comprendere e non può certo essere ridotta alle nostre funzioni biologiche, ad una faccenda di biologia molecolare, anche se questo è ciò che certi scienziati e commentatori tendono a fare. Affermare che la cultura sia un fenomeno biologico è un’enorme scempiaggine (Jones, 1993).

Nel corso del progresso umano la nostra specie ha completato una transizione essenziale, dal corpo alla mente, e le prodezze della nostra mente trascendono largamente il nostro DNA e, in parte, la nostra corporeità. Esistono certamente numerosi istinti innati, ma la nostra specie, unica fra tutte, non deve per forza sottostarvi. La selezione naturale è stata rimpiazzata da quella artificiale, in un ambiente artificiale che, per definizione, non produce evoluzione nel senso naturalistico del termine.

Quanto alla capacità di acquisire e manipolare un corredo simbolico, essa non è latente negli altri primati, cioè non si sviluppa normalmente quando si verificano le condizioni più idonee. Il linguaggio, forse la più importante componente della cultura, ma non certo l’unica, costituisce una tale agevolazione evolutiva che è altamente improbabile che una specie dotata dell’abilità di usarlo non se ne sia avvalsa. In natura non esistono animali che insegnano ad altri animali, se non per emulazione passiva. In cattività gli animali apprendono non per imitazione, ma solo grazie all’intervento di istruttori umani. Il linguaggio ha permesso alla specie umana di inventare un uso specifico per degli oggetti, trasformandoli in utensili, e di far capire ai membri di un gruppo la natura e funzione di quegli oggetti. Cioè ha consentito la trasformazione dell’ambiente di vita e quindi della specie, un atto che segna l’inizio della storia. Questo distingue la cultura, che include la tecnologia, i comportamenti, le idee ed il linguaggio, dalla natura, l’utensile dalla cosa, l’informazione dalla conoscenza, l’invenzione dall’atto casuale e l’essere umano da ogni altro animale.

In altre parole, l’etica e la cultura sono un prodotto della mente umana in un ambiente antropizzato. Non possiamo ricavare alcuna prescrizione morale dalla natura perché essa è del tutto amorale. La nostra esistenza o l’esistenza di qualunque altra specie vivente le è del tutto indifferente. È questo che ha reso necessaria la nostra fuga dalla natura nella cultura: la natura ci stava ormai stretta.

La cultura è dunque a buon diritto quel piedistallo che gli esseri umani si sono costruiti nel corso della loro storia evolutiva e sul quale sono poi saliti: nessuno ci ha messi lì, se non noi stessi e peraltro non senza buone ragioni. A livello cognitivo, non siamo neanche una mera estrapolazione o raffinamento di tendenze precedenti (Tattersall & Schwartz, 2000).

È concettualmente e metodologicamente corretto considerarci speciali e unici, senza per questo sentirci autorizzati a dar mostra di un altezzoso autocompiacimento. Preferire il Barolo non significa disprezzare il succo d’uva, e l’Umanesimo e l’Illuminismo sono la miglior testimonianza del fatto che sentirsi speciali può incoraggiare lo sviluppo di un sincero senso di responsabilità universale, anche e soprattutto verso gli animali. Al contrario una delle lezioni della storia è che proprio la naturalizzazione radicale degli esseri umani è quasi sempre sfociata nel genocidio o nella pulizia etnica. Questo lo aveva ben capito lo stesso Charles Darwin, nel suo “L’origine dell’uomo”, in cui denunciava senza mezzi termini il riduzionismo zoologico degli esseri umani, che imputava il male alla Bestia Interiore (Mayr, 2000).

D’altronde il dogma centrale del nazional-socialismo era che la lotta per la sopravvivenza è una legge iscritta nella natura che per ciò stesso dev’essere applicata alle società umane. Ciò sancì l’emergere della nozione di comunità biotica (biocrazia), in cui la separazione tra animali ed esseri umani era annullata (riduzionismo zoologico) mentre la linea divisoria tra malati e sani finì per coincidere con quella tra morte e vita (Sax 2000). Solo chi era costituzionalmente sano e razzialmente eletto era degno di prevalere nella lotta per la vita. Il resto della specie umana poteva solo servire o estinguersi. Non si possono più ignorare le tragiche conseguenze dell’idolatria di una natura antropomorfizzata e della naturalizzazione degli esseri umani tipiche del nazismo. Come detto, la natura ci stava e ci sta sempre più stretta e così siamo stati costretti a fuggire dalla natura nella cultura. Non c’è nulla di moralmente abominevole in questo, con buona pace dei militanti dell’Avatarismo:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/04/avatar-nuove-frontiere-del-grottesco-e-del-totalitario/#axzz1mLNsw14z

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Anche i genetisti stanno gradualmente rendendosi conto di aver arbitrariamente e frettolosamente semplificato ciò che andava esaminato con cautela. Per oltre trent’anni ci hanno detto che biologicamente e poi geneticamente la distanza tra scimpanzé ed esseri umani era molto ridotta, circa l’un 1 per cento e ciò doveva bastare a chi si ostinava a sottolineare le peculiarità umane. Ma negli ultimi tempi questa ortodossia è stata messa in discussione e ci si è chiesti se quel valore statistico non costituisse più un ostacolo che uno strumento euristico, specialmente se spingeva gli scienziati a costruire mappe concettuali palesemente errate. Hanno cominciato a fare la loro comparsa studi che riducevano la convergenza tra noi e gli scimpanzé. Per molti genetisti la distanza si aggira ora tra il 5 ed il 17,4 per cento ed imputano la selezione del valore inesatto ad un errore di semplificazione eccessiva. Qualche zoologo ha commentato che l’1 per cento andava bene finché era utile far risaltare le somiglianze, che fino ad allora erano state sottovalutate. Ma poi la realtà dei fatti si è fatta sentire. Steve Jones, professore di genetica allo University College di Londra, ha correttamente osservato che “il DNA c’entra poco…gli scimpanzé possono anche assomigliarci in un senso letterale e stucchevole, ma in tutto ciò che ci rende quello che siamo, l’homo sapiens è realmente unico” (Cohen, 2007). Gli stessi autori del primo articolo responsabile della diffusione del “mito dell’1 per cento”, Mary-Claire King e Allan Wilson (King & Wilson, 1975), misero in guardia i lettori dal giungere a conclusioni affrettate (p. 113): “Sembra di poter dire che i metodi di valutazione della differenza tra umani e scimpanzé producano conclusioni alquanto discordanti”, sottolineavano già a quel tempo. A dire il vero, questo scrupoloso impegno di quantificazione delle differenze, che in precedenza era stato impiegato per sceverare ciò che distingueva i membri delle varie razze umane, appare come sempre più stravagante ed ingiustificato: “Non penso ci sia alcun modo di ottenere un numero qualunque”, afferma il genetista Svante Pääbo dell’Istituto Max Planck di antropologia evolutiva di Lipsia, “Alla fine il modo in cui vediamo le nostre differenze è solo un fatto politico, sociale e culturale” (Cohen, 2007). Il che comprova ancora una volta che il pregio della scienza risiede proprio nella sua capacità auto-correttiva.

Detto questo, imputare il male nel mondo all’antropocentrismo, e quindi ridurre la distanza tra uomini e scimmie antropomorfe come se questo potesse prevenire futuri genocidi, non ha molto più senso che affidarsi alla clemenza di Dio per conseguire il medesimo risultato. Entrambi gli approcci compromettono l’obiettività dell’osservazione e l’interpretazione dei dati.

C’è una sottile ironia nel parallelo che si può stabilire tra la genetica dell’1 per cento e l’antropologia illuminista. Quando gli scimpanzé furono scoperti dai primi esploratori, nel XVII e XVIII secolo, si notarono le ovvie somiglianze ma, invece di dedurne una profonda affinità e fratellanza, ciò servì invece a rafforzare vieppiù l’idea che l’uomo fosse un essere speciale. Quale prova più schiacciante dell’unicità dell’uomo dell’esistenza di essere antropoidi così rassomiglianti all’uomo, anche e soprattutto a livello fisiologico, ma totalmente privi di carattere morale, che solo l’anima umana poteva ispirare? Così, quanto più chiare apparivano le analogie, più innegabile risultava la verità dell’unicità dell’essenza spirituale umana (Wokler, 1993).

Anche la favola bella della Buona Scimmia, il Bonobo “naturalmente” altruista e pacifico, è stata ormai ampiamente screditata. Solo chi, magari abbagliato da un pregiudizio naturalista o da sentimentalismi malriposti – magari il senso di un’ingiustizia che va sanata – volesse ignorare l’abisso di complessità socio-culturale che ci separa dai Bonobo potrebbe credere di ricavare dal loro comportamento indicazioni utili su come dovrebbero procedere gli affari umani (Goodman et al., 2003). Quarant’anni fa, in piena battaglia per i diritti civili, gli scimpanzé erano trattati dai primatologi alla stregua di “buoni selvaggi”. Divennero poi crudeli predatori dediti all’infanticidio ed al cannibalismo negli anni 80 degli yuppie rampanti à la Gordon Gekko, lo spietato Michael Douglas del celebre “Wall Street”; recentemente sono ridiventati fondamentalmente buoni ma in parte “corrotti” dal contatto con gli esseri umani, in natura come in cattività. La domanda che ci dobbiamo porre è se siano stati loro a cambiare in questi 40 anni oppure gli umori della nostra società. Insomma, sembra di poter dire che il nostro atteggiamento verso gli altri sia determinato in gran parte dalla nostra autopercezione.

Il problema sembra essere che quando si studiano specie molto simili alla nostra lo scienziato tende a vedere ciò che desidera vedere ed a rimuovere le discrepanze che in qualche misura macchiano l’immagine desiderata. Così la descrizione del comportamento sessuale e sociale dei primati sarà tanto più popolare quanto più corrisponderà alle attese del pubblico, cioè quanto più rifletterà l’auto-ritratto della nostra specie: se ci percepiamo come naturalmente violenti allora gli altri primati, e non per caso, confermeranno questa nostra percezione; se invece poniamo l’accento sulla nostra capacità di esercitare un’ampia misura di discernimento morale, allora appariranno studi scientifici che “dimostreranno” come le scimmie abbiano sviluppato rudimentali ma promettenti sistemi etici.

Forse la più convincente spiegazione delle variazioni comportamentali dei primati è alquanto semplice: ancora negli anni Venti l’anatomista Solly Zuckerman riferì che i babbuini dello zoo di Londra mostravano elevati livelli di gerarchizzazione ed aggressività. Ma nessuno dei suoi colleghi che lavoravano sul campo, nell’habitat stesso dei babbuini, riuscì a replicare queste osservazioni. Divenne quindi presto evidente che il comportamento dei babbuini di Zuckerman era stato drammaticamente alterato dalla riduzione dello spazio in cui i babbuini si trovavano a vivere (N.B. i Bonobo hanno invece a disposizione un’area vasta quanto l’Inghilterra e priva di rivali). Le restrizioni artificiali imposte da uno spazio chiuso come quello di uno zoo avevano generato dinamiche interne che non potevano esistere all’esterno e quindi le osservazioni di Zuckerman non erano generalizzabili (Rose, 1998).