Succinto trattatello sull’oligarchia

 

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L’oligarchia si fonda su un rapporto del genere “padrone-servo”.

L’oligarchia è sempre minacciata dalle masse per la semplice ragione che rappresenta una costante minaccia per la popolazione.

Gli oligarchi sono in lotta perpetua con chi sta sopra di loro e vuole depredarli, con chi sta al loro livello e vuole depredarli, con chi sta sotto di loro e vuole depredarli. Hanno sempre molto da perdere e quindi sono sempre sul chi vive.

Per questa ragione tendono a far fronte comune per minimizzare le minacce interne e concentrarsi su quelle esterne (il popolo).

Per sopravvivere, l’oligarchia cerca di dividere la popolazione in fazioni. L’unione fa la forza e le masse organizzate sarebbero invincibili. Per questo gli oligarchi disseminano entusiasticamente miti, arbitrarie divisioni sociali ed –ismi di ogni sorta, e con essi zizzania, rancori, sospetti, sfiducia, apatia.

Pertanto, gli oligarchi sono sempre all’offensiva: la miglior difesa è l’attacco. Sono inestinguibilmente avidi ed insicuri: per questo tendono, auto-distruttivamente, ad aggravare le disparità, fino a quando il sistema collassa. Quanto maggiore è la concentrazione di psicopatici tra i loro ranghi, tanto più rapida e disastrosa sarà la caduta.

L’oligarchia è un arbitrio che non dipende dalla prosperità di una società. Esiste nelle società povere ed in quelle ricche.

Non è interessata allo sviluppo tecnologico e scientifico se non ne può trarre vantaggio e addirittura lo ostacola se può mettere a repentaglio lo status quo.

L’oligarchia favorisce la scarsità (anche di informazione) e la crea laddove non c’è, perché in un regime di abbondanza (es. energia illimitata e virtualmente gratuita) perderebbe la sua rendita di posizione ed il suo semi-monopolio del potere: lo status quo sarebbe sovvertito. Austerità e decrescita sono quindi una panacea per gli oligarchi.

Lo 0,1% degli oligarchi necessita dell’appoggio del 5% dei ricchi non sufficientemente facoltosi da potere essere inclusi nella classe oligarchica. L’alleanza è facilitata dal comune interesse a difendere le proprie risorse e possibilmente accrescerle a spese del resto della società (ci sono comunque ricchi di buona volontà che non sono interessati a questo tipo di cospirazione e che perciò non accederanno mai ai piani alti delle oligarchie). Lo 0,1% difende gli interessi del 5% e il 5% incensa i membri dello 0,1% e li copre.

Due forze possono ostacolare i piani delle oligarchie: il potere esecutivo e l’insubordinazione delle masse. I governi godono di una legittimità che gli oligarchi non possiedono e possono promulgare leggi che riducono il loro arbitrio (es. Washington ed Hamilton, Lincoln, Roosevelt, de Gaulle, Olof Palme, Bruno Kreisky, Willy Brandt, Aldo Moro ed Enrico Berlinguer).

La disobbedienza civile deve perciò sempre venire DOPO un serio tentativo di conquistare il governo di una nazione. Per serio intendo una proposta di governo chiara, con proposte solide, pragmatiche e radicate nella tradizione riformista dei summenzionati statisti, non fumose visioni palingenetiche senza capo né coda che fanno affidamento sulla forza redentrice della democrazia diretta e della rete e glissano sulle questioni del lavoro, dell’economia e dei rapporti internazionali (chi ha orecchie per intendere…).

Alcibiade il Rottamatore

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Quando si pensa ad uno psicopatico, i nomi che vengono in mente sono quelli di Hitler, Stalin, Mao, il marchese de Sade, qualche serial killer, qualche squalo della finanza.

Se fosse così facile sgamare uno psicopatico, saremmo a posto.

Purtroppo la cosa è molto più complicata di così:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/10/15/psicopatia-portami-via-la-gente-ce-lha-sotto-il-naso-ma-non-la-vuole-vedere/

 

Hervey Cleckley, pioniere dello studio della psicopatia e ancora oggi riconosciuto come uno dei massimi specialisti del campo, sospetta che una figura storica in molti casi ammirata, come Alcibiade, fosse verosimilmente uno psicopatico.

Qui trovate “The Mask of Sanity”, in cui lo psichiatra esamina anche il profilo psicologico di Alcibiade (pp. 327-336):

http://www.cassiopaea.org/cass/sanity_1.PdF

Noi non sappiamo se la descrizione della personalità di Alcibiade che ci è stata trasmessa sia corretta; la cosa è di importanza secondaria. Quel che mi preme è che il lettore possa farsi un’idea di come si comporterebbe un leader psicopatico, in modo da riuscire a riconoscerlo. Insomma l’Alcibiade al centro di questa “inchiesta” è un tipo ideale, utile per esplorare l’attualità ed il prossimo futuro, non per fare storiografia.

Esaminiamo alcuni estratti da “Alcibiade e l’eterno desiderio di gloria” di Paola Scollo:

– Geniale e abile stratega, nel corso della guerra del Peloponneso non ha esitato, per convenienza, a tradire più volte la sua patria, alleandosi dapprima con gli Spartani, poi con i Persiani. Ambizioso e amante dei piaceri, ha esercitato sempre grande fascino nella sua gente. E non solo.

– Nell’immagine di Alcibiade, la presenza di Socrate rappresenta «un reale aiuto degli dèi» a tutela della virtù, pertanto «come un gallo sconfitto abbassò le ali e si rannicchiò intimorito verso Socrate, amico e amante che non andava in cerca di piaceri indegni di un uomo e non chiedeva baci e carezze, ma che gli apriva gli occhi sulla corruzione della sua anima e umiliava il suo orgoglio vano e sciocco» (Phrin. fr. 17 Nauck).

– Ancora giovanissimo, Alcibiade è introdotto alla vita politica. Fin da subito, comprende che nulla gli avrebbe procurato influenza sulla massa più del fascino della parola.

– Come puntualizza Plutarco, oltre alle notevoli doti di politico e oratore, alla sottile intelligenza e alla singolare abilità, nell’animo di Alcibiade si annida la dissolutezza dei costumi, che lo guida «verso eccessi nel bere e negli amori…verso un’ostentazione di lusso sfrenato».

– «egli indusse il popolo a concepire grandi speranze, ma ancor più grandi erano le sue aspirazioni: la Sicilia, infatti, doveva costituire solamente il principio della realizzazione delle sue mire e non un fine in sé, come pensavano tutti gli altri».

–  alcuni schiavi e meteci accusano Alcibiade e i suoi amici «di aver sfregiato anche altre statue e di aver parodiato, nell’ebbrezza del vino, i sacri misteri, ovvero i Misteri Eleusini».

– Plutarco sostiene che Alcibiade possiede, tra le numerose capacità, «un’arte tutta particolare nell’accalappiare le persone, conformandosi e adeguandosi alle abitudini e ai costumi altrui, imponendosi cambiamenti più rapidi e radicali di quelli di un camaleonte» (Alc. XXIII) [questo è il marchio di fabbrica dello psicopatico http://fanuessays.blogspot.it/2011/10/psicopatici-al-potere-conoscerli-per.html].

– Alcibiade si affida a Tissaferne, satrapo del re di Persia, che, essendo per natura malvagio e amante di chi è come lui, apprezza molto «la versatilità e l’abilità eccezionale dell’Ateniese».

– Alcibiade cerca in tutti modi di danneggiare gli Spartani e di metterli in cattiva luce presso Tissaferne (Tucidide VIII 45 – 51). Dopo aver tradito Atene alleandosi con Sparta e, quindi, aver tradito Sparta, alleandosi con la Persia, nell’inverno del 412/1 a.C., Alcibiade tenta di allearsi con la flotta ateniese schierata a Samo

– Ambizioso uomo politico, freddo e valoroso stratego, personaggio complesso e, come tutti coloro che sono destinati a imprimere il sigillo della loro personalità, contraddittorio. Forse, è proprio questa contraddittorietà che continua, a distanza di secoli, ad affascinare e ad eternare il ricordo di Alcibiade. Forse, è la stessa contraddittorietà che gli Ateniesi hanno amato e per cui non sono riusciti a odiare Alcibiade nemmeno quando ne hanno ricevuto del male (Alc. XLII 3).

http://www.instoria.it/home/alcibiade.htm

Dalla tesi di dottorato di Costanza Pacini

http://amsdottorato.cib.unibo.it/2090/1/Pacini_Costanza_TESI.pdf

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Alcibiade secondo Tucidide e Plutarco

– Fin dall’inizio della sua ‘carriera scolastica’, egli avrebbe dato prova della stessa prepotenza mostrata altrove… Plutarco mette in evidenza le stesse caratteristiche emerse nei testi precedentemente analizzati: ogni sua azione risultava prodotto di prepotenza e dispotismo, ma nonostante questo l’autore non poté evitare di cercare delle motivazioni che rendessero in qualche modo più accettabile il consenso generale di cui godeva.

– un individuo che agisce in costante contrasto con le norme della polis accettate e riconosciute da tutti [altro tratto caratteristico degli psicopatici http://www.informarexresistere.fr/2011/11/18/psicopatici-in-giacca-e-cravatta/]

– Plutarco non nega che Alcibiade avesse comunque ricevuto una educazione, la quale, tuttavia, privata del sostegno di una solida morale, si sarebbe resa utile per il conseguimento di altri obiettivi, meno nobili. Come abbiamo visto, Alcibiade era infatti dotato di una particolare abilità nell’adeguarsi alle circostanze esterne, sapeva cioè imitare sia i comportamenti moralmente riprovevoli che quelli encomiabili. Tale capacità, risultato dell’esercizio della ragione sulla sua natura incoerente, sarebbe diventata un elemento molto utile alla sua carriera politica, poiché gli avrebbe permesso di adattarsi alle diverse circostanze e di appianare gli scontri [lo psicopatico è, per definizione, camaleontico, poiché altrimenti non riuscirebbe ad ottenere ciò che vuole]

– proprio l’eccezionalità che nessuna delle testimonianze analizzate pare voler negare avrebbe determinato il sorgere delle accuse di ambire alla tirannide di cui egli fu, fin da subito, oggetto; in questo contesto però la tirannide non indica un vero e proprio regime politico basato sul potere personale di un solo individuo, quanto piuttosto un modello di comportamento prepotente e assolutista, che tende a sopraffare la sovranità esercitata dal demos;

– Alcibiade manifesta invece una visione antitetica del rapporto tra città e individuo: al primo posto della scala di valori egli pone infatti il soddisfacimento di desideri personali;

–  Pericle mette in guardia dai rischi di una guerra di attacco, poiché obiettivo di Atene doveva essere la conservazione e il rafforzamento dell’impero, e per questo rifiuta ogni progetto di ampliamento; Alcibiade porta invece l’imperialismo ateniese al suo limite estremo, presentando un progetto espansionistico senza pari. La differenza fondamentale tra questi due atteggiamenti consiste nel tentativo di Pericle di trovare una giustificazione morale all’impero. Lo statista infatti riconosce l’ingiustizia intrinseca nel concetto stesso di imperialismo ateniese (che definisce infatti simile ad una tirannia vd. II 63.2), ma cerca un’attenuante – seppur debole – nella straordinarietà di Atene, che costituisce un esempio per tutta la Grecia, e nella superiorità degli Ateniesi (II 62.4); nel discorso di Alcibiade manca invece ogni pretesto morale alla sua politica imperialistica aggressiva, che appoggia solo in vista dei vantaggi che questo può procurargli. In questo modo l’imperialismo ateniese perde ogni giustificazione morale e diventa pura espressione della legge del più forte.

– Alcibiade spiega le ragioni di quello che si presenta come un tradimento della propria patria [si è schierato con Sparta contro Atene] attraverso un ragionamento sofistico, nel quale si riscontrano tutte le caratteristiche già presentate di questo personaggio. All’interno del suo sistema di valori, orientato al soddisfacimento egoistico dei propri desideri, l’idea di patriottismo assume un significato nuovo: “non penso di andare contro quella che è la mia patria, ma piuttosto di riprendere quella che non è più mia. E ama giustamente la patria non quello che non assale la sua dopo averla ingiustamente perduta, ma colui che con tutti i mezzi, per l’amore che le porta, cerca di riprenderla»… Si manifesta ancor più chiaramente l’egoismo di questo personaggio che, pur di soddisfare il proprio desiderio di tornare ad Atene, si dimostra disposto a distruggerla, sia militarmente (grazie all’aiuto di Tissaferne), che politicamente (determinando la caduta della democrazia). Lo scopo non è dunque quello di essere riammesso nella comunità civica, ma quello di soddisfare un proprio desiderio individuale.

– “egli conquistò il favore degli umili e dei poveri al punto che questi ardevano addirittura dal desiderio di averlo come tiranno; e taluni glielo dissero e lo esortarono a farsi tale per vincere gli invidiosi e abrogare i decreti e le leggi di quei chiacchieroni che mandavano in rovina la città in modo da poter agire e governare lo Stato senza più dover temere i sicofanti”.

– «Quanto ai sentimenti del popolo verso di lui, bene li ha espressi Aristofane i questi versi: “lo ama, lo detesta, ma lo vuol avere”. E caricando ancor più la dose, usa questa metafora: “Non si alleva certo un leone in città: ma se uno se lo alleva, ai suoi modi conviene che si pieghi”».

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Dal blog “Notecellulari”

Matteo Renzi (o l’eloquenza volgare)

“Bei tempi quelli della canotta del senatùr? Anche no. Non è necessario rimpiangere la ruspante grossolanità padana per trovare volgaruccio Matteo Renzi. Matteo ha un look su cui si potrebbe eccepire, ma che appare meno sguaiato di quello esibito dall’Umberto prima maniera; del resto altrettanto cafone della canotta alla Pacciani può apparire anche un doppiopetto ostentato e impomatato, tirato a lucido e che vernicia la corruzione. Quella di Renzi è invece la vera nuova volgarità rampante, quella che si afferma e brilla contenta di sé. Matteo Renzi è volgare nel suo proporsi, nel suo sorrisetto gnè-gnè, nel suo esprimere fastose certezze siderali su argomenti banali, nel suo applicare ovunque e con dovizia aggettivi come “bello”, “meraviglioso”, “naturale”, nel suo dire “chi ha coraggio, chi ha entusiasmo, chi ha voglia” riferendosi esclusivamente a se stesso, nello sciorinare i suoi “sinceramente”, “con sincerità”, “con chiarezza” quando sta shiftando di brutto su un concetto; nel dire che augura successo all’avversario mentre gli sega, e nemmeno silenziosamente, le gambe della sedia.

La sua volgarità è nel plurale majestatis (non lo usa più nemmeno il romano pontefice) che gli fa dire “noi” quando intende “io”, nel parlare con enfasi del futuro dell’Italia senza esporre altro che se stesso oppure nell’ostinarsi a dividere ottusamente giusto e sbagliato in base a un criterio grottesco e solo generazionale fino ad arrivare a lodare strumentalmente le dimissioni del papa emerito Ratzinger; scrive infatti nel suo blog: “Ho chiesto ai miei figli di accendere la tv insieme e abbiamo guardato le immagini del vecchio Papa che lascia, che se ne va, che saluta prima delle dimissioni. Non avrei mai immaginato di assistere alla scena di un Papa che dice basta. Che lui non è più in grado di farcela. Che giura obbedienza al suo successore. “ (come lo vorrebbe per se stesso!)

Matteo Renzi però piace; ammettiamolo: sciaguratamente piace e questa è una dannazione del nostro tempo televisionaro, grossolano, sprecone, superficiale e di bocca buona. Respingo sempre le critiche (comprese quelle filorenziane) che attribuiscono alla generazione come la mia le colpe che riguardano il dissesto economico. Le respingo proprio perché vengono da ignoranti tirati a lucido e non sono argomentabili; se invece una colpa l’abbiamo è di non essere riusciti a educare i matteorenzi che ora ci infestano con le loro vanterie da cicisbeo, con i loro atteggiamenti da miles gloriosus appena attenuati, con la supponenza di un tartufino-berluschineggiante. O forse no, gente come lui che chiama i collaboratori “il mio staff”, ma che chiama il suo partito o la politica “questa roba qua” non era educabile. Succede”.
http://notecellulari.wordpress.com/2013/03/10/matteo-renzi-o-leloquenza-volgare/

Il rinascimento umano – la ricetta dell’UNESCO per restituirci la dignità e garantirci un futuro

Dopo tutto, dove iniziano i diritti umani universali? In piccoli luoghi, vicini a casa, così vicini e così piccoli che non possono essere visti su alcuna mappa del mondo. Eppure costituiscono il mondo delle singole persone; il quartiere in cui si vive; la scuola o il college che si frequenta; il luogo di lavoro. Sono questi i luoghi dove ogni uomo, donna e bambino cercano un’equa giustizia, pari opportunità e dignità senza discriminazione. Se questi diritti non hanno significato in questi luoghi, hanno poco significato anche altrove. Senza l’azione concertata dei cittadini che li sostengono a casa, vana è la ricerca del progresso nel mondo.

Eleanor Roosevelt, discorso per il decennale dell’approvazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, 1958

Le Dolomiti, patrimonio dell’Unesco, dice un esponente della Regione sul giornale che sto leggendo, sono un patrimonio che non può essere fruito gratuitamente, insomma bisogna pagare, e molto, per guardare le montagne tra le più belle d’Europa, come si paga per entrare in un museo. Resto colpito da queste affermazioni e penso ache mondo terribile sarebbe quello in cui si dovesse pagare per ammirare un panorama, per osservare un orso, o un ghiacciaio o un lago, cose che non ci appartengono veramente.

Franco Arminio, Terracarne

Queste amicizie profonde, costruite in angoli diversi di questo nostro mondo, descrivono la bellezza e la grazia di essere qui.

Michele Nardelli

Le virtù dell’ospitalità e della convivialità sono al centro delle politiche educative dell’Unesco come sono al centro di questa mia ricerca propositiva. Ad esempio, la Dichiarazione di Oaxaca (1993) riafferma che “il pluralismo culturale, come forma di convivialità, si fonda sulla convinzione che l’umanità abbia un’origine comune e un comune destino”.

Non vale la pena di elencare la lunga lista di interventi qualificati dedicati dall’UNESCO a questo tema. Gli aneddoti, dopo i miti universali, sono forse lo strumento comunicativo più efficace. Ne voglio citare due, apparsi nello stesso numero del Corriere dell’Unesco (febbraio 1990).

Nel suo contributo Georges Lisowski (1990) osserva che chiedere ospitalità in una città equivale a chiedere la carità mentre nelle campagne sembra ancora un gesto più naturale e dignitoso. Nota compiaciuto che il vocabolo polacco per “ospitalità”, goscinnose, significa “desiderio di ricevere degli ospiti” ed indica apertura, curiosità, senso dell’opportunità, piuttosto che tolleranza. Conclude raccontando ai lettori un’esperienza vissuta:

“L’esperienza più toccante di ospitalità che mi è mai capitata è stata a Copenaghen. Sono arrivato un sabato, poco prima di mezzanotte, alla vigilia di una partita di calcio tra Malmö e Copenaghen. Mezza Svezia era arrivata in traghetto e non c’era posto neanche negli sgabuzzini degli alberghi. L’ufficio del turismo era però ancora aperto a mezzanotte e aveva compilato un elenco di indirizzi di famiglie che si erano offerte di ospitare visitatori privi di una sistemazione. Sono finito verso l’una del mattino in casa di persone che si erano alzate dal letto, mi avevano preparato un bagno ed un piccolo pasto, il tutto con grandi gesti di amicizia, poiché non conoscevano nessuna delle lingue in cui avrei potuto buttar lì qualche frase. Rimasi con loro per due giorni e, quando arrivò il momento di andarmene, invitarono alcuni amici a dare una festa in mio onore, continuando a comunicare con il linguaggio dei segni, in quanto anche i loro amici non erano migliori linguisti di loro. Si rifiutarono di farmi pagare per la camera e dovetti tornare all’ufficio turistico e lasciare lì dei soldi. Eppure nessuno parla mai di ospitalità danese. Ora ho cercato di fare ammenda. Quaranta anni dopo ho ripagato il mio debito”.

André Kedros riferisce invece una storia che gli ha raccontato un suo amico francese, in visita sul Taigeto, i monti vicino a Sparta, nel Peloponneso.

“Il sole stava tramontando quando la mia auto si è rotta nei pressi di un villaggio sperduto e povero. Imprecando per la mia disgrazia, mi stavo chiedendo dove avrei passato la notte, quando mi sono reso conto che gli abitanti del villaggio che si erano radunati intorno a me stavano discutendo con veemenza su chi dovesse avere l’onore di ricevermi come ospite. Alla fine ho accettato l’offerta di una vecchia contadina che viveva tutta sola in una casetta ai margini del villaggio. Mentre mi sistemavo in una camera piccola ma pulita ed imbiancata di fresco, il sindaco del villaggio ha trainato con un mulo la mia auto fino alla più vicina officina, a 20 chilometri di distanza. Avevo notato che c’erano tre galline che razzolavano per l’aia della donna che mi ospitava e quella sera una di loro è finita nello stufato. Altri abitanti del villaggio mi hanno portato formaggio di capra, fichi, miele, e, naturalmente, dell’ouzo. Ho mangiato di gusto e, nonostante la mia ignoranza della lingua, abbiamo bevuto insieme e fatto festa fino a tarda notte. Il giorno seguente il meccanico mi ha riportato l’auto riparata, come nuova, presentandomi un conto ragionevolissimo e chiedendomi solo di riportarlo all’officina visto che ero di strada. Quando è arrivato il momento per me di dire addio ai miei amici del villaggio, volevo premiare la vecchia per il disturbo che si era presa e per la gallina che aveva sacrificato per me. Ma lei ha rifiutato i soldi che le offrivo e si è anche indignata. Più insistevo, più appariva contrariata”.

Nell’antica Grecia i testi di Omero, Esiodo ed Eschilo fungevano da veri e propri corsi di educazione civica per le nuove generazioni ed esercitarono una notevolissima influenza sul legislatore greco per antonomasia, Solone e sul filosofo occidentale per eccellenza, Socrate. Esiodo e Omero erano i palaioi/arcaioi, gli antichi. Savi di un epoca in cui le muse e demoni (nell’accezione, positiva, pre-cristiana) comunicavano le verità eterne sulle virtù e la giustizia agli esseri umani più ispirati, come Orfeo, Ferecide, Pitagora e, più tardi, Socrate. Non era troppo difficile considerarle tali, viste le evidenti analogie tra l’epica di Gilgamesh e i poemi omerici da un lato e la cosmogonia esiodea, quella ittita e l’Enuma Elish mesopotamico dall’altro (Davies 2003; Curd/Graham 2008). Tra queste virtù, quelle prominenti erano la reciprocità, l’ospitalità, la giustizia, il fecondo equilibrio delle forze antagonistiche, la cura della propria anima/coscienza, la moderazione e la semplicità. L’accoglienza dell’ospite era valorizzata al medesimo livello del rispetto verso i propri genitori e verso gli dèi ed Euripide definiva la xenofobia un crimine nefando ed indicibile, empio ed intollerabile.

Nessuno di noi può indovinare chi, tra i nostri contemporanei, sarà considerato un gigante. Io però una figura di statura morale ed intellettuale di tutto rispetto, che possa fungere da guida verso un Mondo Nuovo, sulla scorta delle virtù di cui sopra, l’ho trovato. Si chiama Federico Mayor Zaragoza, un biochimico già direttore generale dell’UNESCO tra il 1987 ed il 1999, candidato al Nobel per la Pace del 2012 dall’International Peace Bureau, la prima federazione pacifista della storia (1891), premio Nobel per la Pace nel 1910, con sede a Ginevra e comprendente 170 organizzazioni. José Saramago lo ha definito “un amico ed un uomo che voleva che l’UNESCO fosse qualcosa di più che un acronimo o una torre d’avorio”.

Nei suoi discorsi, durante e dopo il suo incarico di direttore generale dell’UNESCO, Mayor ha abbozzato un’idea di Mondo Nuovo (Mayor, 1999) che è forse la migliore speranza per la nostra specie e la nostra civiltà e che, per la verità, mi pare sia proprio la destinazione di chi ha imboccato la strada di un preciso impegno per un rinascimento locale e globale. Come per i riformatori protagonisti dei suddetti capitoli, vorrei riassumere il suo pensiero, al tempo stesso semplice e sofisticato.

Mayor parte dalla premessa che la caratteristica precipua dell’essere umano è la capacità creativa, l’immaginazione, l’inventività. È lì che risiede la nostra speranza di non terminare i nostri giorni come dei “burattini attaccati a delle stringhe”. La creatività dev’essere coadiuvata dall’educazione, lo strumento grazie al quale ciascuno diventa se stesso, cioè sviluppa le sue potenzialità latenti e si può far carico del benessere del suo prossimo, nei termini concordati con lui (regola d’oro). Mayor vede nell’educazione, che è poi la principale missione dell’Unesco, l’opportunità concessa ad ogni essere umano di resistere alla tentazione di “farsi trascinare da idee che provengono da remote piattaforme del potere mediatico”. L’istruzione ci deve insegnare a prenderci il tempo per pensare ed essere noi stessi e per sviluppare quella che lui chiama la “sovranità personale” (cioè l’autodeterminazione, rinominata in modo molto più elegante ed accattivante). In questo processo di individuazione, come l’avrebbe chiamato Carl G. Jung, Mayor spiega che le nuove tecnologiche possono giocare un ruolo decisivo, ma non sono esenti da rischi, come quello di incollarsi allo schermo, di diventare un’appendice del computer, persone che, progressivamente, “fanno solo quello che vedono sullo schermo – lo schermo di Internet, lo schermo del televisore e dei videogiochi”. Persone che “non hanno più tempo per pensare o riflettere, nessuna capacità di discutere o di difendere i loro punti di vista”. Ci scombussoliamo, perdiamo la bussola morale. Qui Mayor adopera un bel gioco di parole in inglese, l’assonanza tra compass (bussola) e compassion (compassione) che non so rendere degnamente in italiano. Ma senza questa bussola della compassione ci si perde e non si può raggiungere quel “mondo incentrato su una condotta morale che è il nostro sogno, il sogno dell’UNESCO”.

Gli impedimenti sono numerosi e particolarmente gravosi, a partire dalla “crescente contraddizione fra la democrazia a livello nazionale e le oligarchie, o se si preferisce, plutocrazia a livello globale”. Tuttavia, rassicura Mayor, non bisogna disperare, perché il futuro non è ancora stato scritto e a noi tocca il compito di impedire a qualcuno di scriverlo, giacché “appartiene ai nostri figli ed ai loro figli. Il passato è già stato scritto, ma possiamo permettere ai figli di scrivere un futuro diverso”. Questo sarà possibile attraverso una cultura del dialogo, della riconciliazione e della comprensione reciproca che si sostituisca a quella della forza e del mercato. Ma non sarà sufficiente, se non scongiureremo il terribile potenziale di “clonazione spirituale” che domina il nostro tempo, cioè a dire la tendenza all’uniformazione, una spinta diametralmente opposta alla vocazione dell’istruzione, che è quella di fungere da levatrice di esseri umani unici. La cultura, la conoscenza, rappresentano quindi il vero patrimonio dell’umanità. A questo proposito, Mayor ricorda l’incoraggiamento ricevuto dallo scrittore e filosofo Juan Goytisolo a sottolineare il valore di quelle espressioni musicali, letterarie o didattiche che svelano le facoltà distintive della specie umana per quanto riguarda la creatività, la riflessione, l’invenzione, l’immaginazione, l’anticipazione e l’innovazione; dei beni intangibili ma, forse proprio per questo, anche più preziosi di quelli materiali. Sono proprio queste produzioni della coscienza umana ad avvicinarci, a farci sentire fratelli e sorelle, commenta Mayor.

Mayor dice bene. Il fatto concreto non è l’esistenza del mondo fenomenico, ma l’esperienza che ne facciamo. Un essere umano, considerato nella sua vicenda totale, è un flusso di esperienze, di occasioni d’esperienza, o di “occasioni viventi”, come le definiva Alfred North Whitehead, il grande filosofo e matematico britannico. Spesso queste occasioni di esperienza, di presa di coscienza sono salutari ma dolorose, ferite narcisistiche inflitte al nostro poderoso ego. Ma poi ci sono anche le grandi idee e la grande arte. L’arte e le intuizioni eterne penetrano e giungono dove altre impressioni non sanno pervenire; e la loro azione non produce patimenti. Søren Kierkegaard, nel “Don Giovanni, la musica di Mozart e l’eros”, scriveva: “Mozart immortale! A te devo tutto, è per te che ho perso il senno, che il mio spirito è stato colpito da meraviglia ed è stato scosso nelle sue profondità; devo a te se non ho trascorso la vita senza che nulla fosse capace di scuotermi”.

Questo patrimonio comune dell’umanità è anche, sempre secondo Mayor, la migliore garanzia della possibilità concreta di dar forma ad una democrazia globale, “che non significa che vi sia un solo paese. No, no, no…ci sono molti paesi, molte persone, molte culture, ma con un’unica visione di democrazia intesa in senso partecipato, cioè dove i cittadini non vengono solo contati periodicamente, agli appuntamenti elettorali, ma contano”. Questo tipo di democrazia non è mai una conquista definitiva: essa deve essere guadagnata e difesa quotidianamente. Zagrebelsky (2010, p. 40) precisa che “dove c’è consolidamento, assestamento, sicurezza del sistema di potere, lì in realtà c’è oligarchia; anche se, eventualmente, sotto mentite spoglie democratiche. Democrazia è invece conflitto perenne per la democrazia e contro le oligarchie sempre rinascenti nel suo interno”.

Di conseguenza, anche la democrazia è creata e ricreata da una costante attenzione al flusso della vita e degli eventi, all’armonia tra forma e movimento, concetti e sentimenti, ragione e passione, la cosiddetta “palintropos harmonia”. Quest’ultimo principio, rievocato da Mayor in un discorso a Salonicco, equivale alla “coincidentia oppositorum” dei latini, ed è di importanza cardinale. Universalmente noto ai nostri antenati, ora è stato quasi completamente cancellato dalla cultura occidentale – troppo scomodo, esigente, “anti-moderno”; lo incontreremo di nuovo nel corso della mia trattazione.

Come si acquisisce e conserva questa capacità di individuare una posizione di equilibrio e mantenerla?

Ce lo spiega un documento del 2011 che illustra le linee guida dell’azione dell’agenzia per le Politiche culturali ed il dialogo interculturale dell’UNESCO (“A new cultural policy agenda for development and mutual understanding”, gennaio 2011). Vi si raccomanda di “identificare e promuovere le forme di diversità culturale che promuovono l’auto-riflessione, la capacità di essere “conviviale” e l’impeto creativo per cambiare orizzonti culturali esistenti in risposta al cambiamento”. Per incoraggiare questo genere di condotta interpersonale, gli estensori (tra i quali il grande antropologo statunitense di origine indiana Arjun Appadurai) consigliano di puntare sul riconoscimento che ci sono tantissimi altri modi legittimi di vedere il mondo oltre a quello caro a ciascuno di noi, anche perché il mondo di oggi è un mondo di migranti, turisti, ospiti, viaggiatori, rifugiati, forestieri e l’imposizione di conformismi culturali in una condizione di associazione temporanea è pericolosa. La convivialità diventa allora la capacità di far interagire e sovrapporre i nostri rispettivi mondi, tra vicini, colleghi, concittadini, ospiti temporanei di questo pianeta. Non è uno strumento di coercizione, di soggiogamento, di conversione, ma una forma di coabitazione rispettosa e curiosa che sa individuare una causa comune e fare, perciò, comunità (cf. Unitas in pluralitate, uno dei motti dell’Unione Europea).

Questa è l’impostazione mentale, morale e spirituale che ha portato alla redazione ed approvazione della Carta delle Terra, sottoscritta da 4800 tra organizzazioni, governi ed organismi internazionali, una “dichiarazione di principi etici fondamentali per la costruzione di una società globale giusta, sostenibile e pacifica nel 21° secolo”. Questa carta, come la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, comprende norme di indirizzo (non vincolanti) che dovrebbero ispirare la legislazione nazionale ed internazionale e chiede alle genti di comprendere la loro relazione di interdipendenza e la necessità di uno sviluppo sostenibile e di una sempre maggiore equità tra individui e nazioni, nonché quella di assumersi una responsabilità condivisa per il benessere di quella che chiama “la famiglia umana”, dell’ecosistema e delle generazioni future. Gli imperativi cardine di questa dichiarazione sono i seguenti:

1. Rispettare la Terra e la vita, in tutta la sua diversità: Riconoscere che tutti gli esseri viventi sono interdipendenti e che ogni forma di vita ha valore, indipendentemente dalla sua utilità per gli esseri umani. Affermare la fede nell’intrinseca dignità di tutti gli esseri umani e nel potenziale intellettuale, artistico, etico e spirituale dell’umanità.

2. Prendersi cura della comunità vivente con comprensione, compassione e amore: Accettare che al diritto di possedere, gestire e utilizzare le risorse naturali si accompagna il dovere di prevenire danni all’ambiente e di tutelare i diritti dei popoli. Affermare che con l’aumento della libertà, della conoscenza e del potere cresce anche la responsabilità di promuovere il bene comune.

3. Costruire società democratiche che siano giuste, partecipative, sostenibili e pacifiche: Assicurare che le comunità a ogni livello garantiscano i diritti umani e le libertà fondamentali e forniscano a tutti l’opportunità di realizzare appieno il proprio potenziale. Promuovere la giustizia sociale ed economica, per permettere a tutti di raggiungere uno standard di vita sicuro e dignitoso, che sia ecologicamente responsabile.

4. Tutelare i doni e la bellezza della Terra per le generazioni presenti e future: Riconoscere che la libertà di azione di ciascuna generazione è condizionata dalle esigenze delle generazioni future. Trasmettere alle generazioni future valori, tradizioni e istituzioni capaci di sostenere la prosperità a lungo termine delle comunità umane ed ecologiche della Terra.

Da questi imperativi ne derivano altri:

5. Proteggere e ripristinare l’integrità dei sistemi ecologici terrestri, con speciale riguardo alla diversità biologica e ai processi naturali che sostentano la vita.

6. Prevenire i danni come misura più efficace di protezione ambientale, e agire con cautela quando le conoscenze sono limitate.

7. Adottare sistemi di produzione, consumo e riproduzione che salvaguardino la capacità rigenerativa della Terra, i diritti umani e il benessere delle comunità.

8. Sviluppare lo studio della sostenibilità ecologica e promuovere il libero scambio e l’applicazione diffusa delle conoscenze acquisite.

9. Eliminare la povertà come imperativo etico, sociale e ambientale.

10. Garantire che le attività economiche e le istituzioni a tutti i livelli promuovano lo sviluppo umano in modo equo e sostenibile.

11. Affermare l’uguaglianza e le pari opportunità fra i sessi come prerequisiti per lo sviluppo sostenibile, e garantire l’accesso universale all’istruzione, all’assistenza sanitaria, e alle opportunità economiche.

12. Sostenere senza alcuna discriminazione i diritti di tutti a un ambiente naturale e sociale capace di sostenere la dignità umana, la salute fisica e il benessere spirituale, con speciale riguardo per i diritti dei popoli indigeni e delle minoranze.

13. Rafforzare le istituzioni democratiche a tutti i livelli e garantire trasparenza e responsabilità nella governance, partecipazione allargata nei processi decisionali, e accesso alla giustizia.

14. Integrare nell’istruzione formale e nella formazione permanente le conoscenze, i valori e le capacità necessarie per un modo di vivere sostenibile.

15. Trattare ogni essere vivente con rispetto e considerazione.

16. Promuovere una cultura della tolleranza, della non violenza e della pace.

Christine Lagarde e l’FMI desiderano una rivoluzione?

Già da tempo mi è sorto il sospetto che l’estrema crudeltà dimostrata dalle autorità internazionali, ormai esplicitamente guidate da criteri esclusivamente neoliberisti, nei confronti di Greci prima e Portoghesi, Spagnoli, Irlandesi, ecc. poi, non sia unicamente dettata dalla volontà di sfruttare la crisi, aggravandola, per varare riforme strutturali che annullino buona parte dei diritti che lavoratori e cittadini in genere hanno conquistato nel dopoguerra.

Sono sempre più convinto che il piano sia molto più subdolo e nocivo e vada ben al di là dell’obiettivo di creare gli Stati Uniti d’Europa molto prima del tempo, quando ancora non esiste una società civile europea, un linguaggio comune europeo, media europei, un parlamento europeo sovrano, ecc. (oltre all’élite, l’unica cosa autenticamente paneuropea che c’è è la rete degli indignati).

Ho, insomma, il terribile sospetto che chi detiene il potere non possa desiderare di meglio che il verificarsi di mali estremi che giustifichino estremi rimedi.

Un sospetto che si rafforza leggendo l’intervista di Christine Lagarde al Guardian, che contiene asserzioni a dir poco incendiarie, a poche settimane dal voto greco, quasi che Lagarde tifasse per Syriza e non per i due partiti dell’establishment pro-austerità. Perché la Lagarde dovrebbe voler favorire i suoi oppositori invece di usare toni più accomodanti che invoglierebbero gli elettori greci a tornare nell’ovile neoliberista di conservatori e “socialisti”?

E perché farle su uno dei maggiori quotidiani britannici, ossia rivolgendosi ad un’opinione pubblica già ferocemente ostile al FMI ed al rigore a senso unico (anti-settore pubblico, anti-disabili, anti-pensionati, pro-imprese e ricchi, ecc.) del governo conservatore?

http://www.guardian.co.uk/world/2012/may/25/payback-time-lagarde-greeks?INTCMP=SRCH

Le reazioni inglesi sono state rabbiose quasi quanto quelle greche, come si evince dal numero di “mi piace” assegnato ai commenti più esasperati.

Segnalo il primo commento, che è anche il più apprezzato ed è, a mio avviso, molto condivisibile: “parole degne di una vera e propria sociopatica

[cf. http://www.informarexresistere.fr/2012/01/16/golpe-psicopatico/]

Purtroppo non conosco il greco e quindi posso solo affidarmi alle citazioni altrui per documentare le reazioni greche (più educate):

http://it.euronews.com/2012/05/27/i-greci-arrabbiati-con-lagarde-per-la-frase-sui-bambini-e-sulle-tasse/

Infine, perché mostrare sfacciatamente la sua costosissima borsa griffata come se fosse un sacco per raccogliere le offerte?

A parole, tanta sensibilità nei confronti dei bambini del Niger, ma non abbastanza da condividere un po’ della sua ricchezza coi meno “fortunati”:

“Per vestirsi, per gli accessori, per i gioielli spende certo più di Angela (ho notato che sfoggia 3 diverse borse di Hermes, in particolare una Kelly grigia, una Birkin color cuoio naturale ed una rossa non ben identificata con le proprie iniziali, che costano oggi messe insieme certamente più di 12.000 euro) ma ottiene l’effetto di apparire sempre elegantissima, luminosa e mai sopra le righe…La classe, il dispendio di denaro, le giacche e gli abiti perfetti contestualmente griffati e sobri, ma soprattutto il ciuffo argento la rendono praticamente uguale a Miranda/Meryl Streep de Il diavolo veste Prada. Non sbaglia mai una calzatura, una borsa. Sciorina foulard di Hermes come se non costassero almeno 310 euro l’uno”.

http://www.lundici.it/2012/01/ci-sono-una-tedesca-una-francese-e-un%E2%80%99inglese%E2%80%A6/

Pochi sanno che Lagarde guadagna oltre 380mila euro all’anno e non paga un euro di imposte in quanto funzionaria di un’istituzione internazionale:

http://www.toutsurlesimpots.com/exoneration-d-impots-pour-le-salaire-annuel-de-380-989-euros-de-christine-lagarde-au-fmi.html

Lungi dall’aiutare l’Africa, l’FMI la sta distruggendo:
http://www.africaw.com/how-the-world-bank-and-the-imf-destroy-africa

Christine Lagarde è sotto inchiesta nell’affare Tapie:
http://www.dailymotion.com/video/xkcm27_francia-lagarde-sotto-inchiesta-per-il-caso-tapie_news

Sempre più persone si stanno accorgendo che questi non sono esseri umani come gli altri. Per nascita o per ragioni biografiche – quindi non per loro colpa –, sono privi di empatia, di scrupoli, di coscienza, di ritegno, di rimorsi, di sensibilità, di altruismo. Ce ne sono diverse centinaia di milioni nel mondo. Si chiamano psicopatici (o sociopatici) e, quando non sono disfunzionali e quindi non vengono emarginati nelle patrie galere o uccisi, si integrano molto bene in una società ipercompetitiva e spietata e si specializzano nello scalare la piramide sociale (agognano il potere sugli altri, non possono farne a meno e sono diretti solo da considerazioni utilitaristiche).

In futuro il fatto che i leader non siano mai sottoposti a qualche verifica che ne accerti le qualità umane e morali sembrerà altrettanto grottesco di quanto oggi ci apparirebbe mettere un portatore di difterite a dirigere il reparto lattanti di un ospedale”.

Erich Neumann, “Psicologia del profondo e nuova etica”, p. 82

Sospetto che il nostro tempo non sia semplicemente o principalmente un’età di follia ma un’età di psicopatia. Più precisamente: penso che una nota chiave della nostra epoca sia la manipolazione psicopatica di ansie psicotiche. Si fa leva sull’annichilimento apocalittico e su altri terrori catastrofici, approfittandosene.

Michael Eigen, “Età di psicopatia”, Milano: Angeli, 2007, p. 15.

Non deve dunque meravigliarci il fatto che molti psicopatici occupino delle posizioni di comando; ci meraviglia il fatto che in tali posizioni non ce ne siano in numero ancora maggiore…uno dei grandi problemi di ogni società, di ogni istituzione politica o di altre grandi istituzioni, consiste nell’impedire che, con il tempo, degli psicopatici privi di scrupoli, compensati e socialmente integrati, prendano in mano il potere…sono convinto che una democrazia nella quale i cittadini non siano in grado di smascherare gli psicopatici sia destinata a essere distrutta da demagoghi assetati di potere. In Svizzera, la “resistenza” contro le grandi personalità, la preferenza in politica per le figure mediocri sono connesse alla naturale tendenza a impedire, in ogni caso, che gli psicopatici prendano il potere…Questi “grandi criminali” (Alessandro Magno, Gengis Khan, Napoleone, Guglielmo II, Hitler, Stalin….) distruggono la vita di milioni di persone…Soltanto attraverso il dominio distruttivo e la seduzione dei popoli essi riescono a illudersi di non essere più degli emarginati.

Adolf Guggenbühl-Craig, “Deserti dell’anima: riflessioni sull’eros e sulla psicopatia”, Bergamo: Moretti & Vitali, 2001, pp. 177-179.

L’avidità, non trovo una parola migliore, è valida, l’avidità è giusta, l’avidità funziona, l’avidità chiarifica, penetra e cattura l’essenza dello spirito evolutivo. L’avidità in tutte le sue forme: l’avidità di vita, di amore, di sapere, di denaro, ha improntato lo slancio in avanti di tutta l’umanità Io non creo niente, io posseggo. E noi facciamo le regole: le notizie, le guerre, la pace, le carestie, le sommosse, il prezzo di uno spillo. Tiriamo fuori conigli dal cilindro mentre gli altri, seduti, si domandano come accidenti abbiamo fatto. Non sarai tanto ingenuo da credere che noi viviamo in una democrazia: vero, Buddy? È il libero mercato, e tu ne fai parte: sì, hai quell’istinto del killer…

Gordon Gekko, “Wall Street” (1987)

Io sono un operatore finanziario, non mi preoccupa la crisi, se vedo un’opportunità di fare denaro, la seguo. Noi non ci preoccupiamo di come sistemare l’economia o di come si supererà questa situazione. Il nostro lavoro e fare soldi e io personalmente ho sognato questo momento negli ultimi tre anni. Devo confessarlo, ogni notte vado a dormire sognando un’altra recessione, un altro momento come questo. Perché c’è molta gente che non lo ricorda, però la depressione degli anni 30 non è stata solo il crollo dei mercati. C’era gente preparata a fare soldi con quel crollo.

Alessio Rastani, operatore finanziario indipendente, intervista alla BBC, 2011

Se è la rivoluzione che vogliono, si può resistere senza farla. E’ sufficiente rifiutarsi di cooperare con il proprio asservimento e “puff”, l’incantesimo svanisce, il potere evapora e i “potenti” restano nudi come il re nudo, impotenti come il Mago di Oz:

http://fanuessays.blogspot.it/2011/11/etienne-de-la-boetie-un-uomo.html

Perché non c’è pace? (Perché non c’è libertà?)

 

Questo grande male… da dove proviene? Come ha fatto a contaminare il mondo? Da che seme, da quale radice è cresciuto? Chi ci sta facendo questo? Chi ci sta uccidendo, derubandoci della vita e della luce, beffandoci con la visione di quello che avremmo potuto conoscere? La nostra rovina è di beneficio alla terra, aiuta l’erba a crescere, il sole a splendere? Questo buio ha preso anche te? Sei passato per questa notte?

Terrence Malick, “La sottile linea rossa”

Il più grande messaggero di pace della storia, Gesù il Cristo, ammoniva: “Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra. Non sono venuto a portare la pace, ma una spada” (Mt 10, 34; cf. 12, 51-53). Altrove, precisava: “Non sanno che sono venuto a portare il conflitto nel mondo: fuoco, ferro, guerra” (Tommaso, 16). Dichiarazioni piuttosto paradossali. Che cosa intendeva dire? Immagino fosse pienamente consapevole del fatto che il pensiero pacifista sarebbe stato ostacolato in ogni modo. Così è stato. I martiri della pace sono stati numerosi, i nemici della pace anche di più.

Realisticamente, poteva avere successo la satyāgraha gandhiana, se posta di fronte a gente come Martin Bormann – “Gli Slavi devono lavorare per noi. Quelli che non ci servono possono pure morire…La fertilità degli Slavi è indesiderabile. Possono usare contraccettivi o praticare l’aborto, più lo faranno meglio sarà. L’educazione è pericolosa. È sufficiente che sappiano contare fino a cento…ogni persona educata è un futuro nemico” (Memorandum, 1942) – e come Heinrich Himmler – “I più di voi sanno cosa significa trovarsi davanti a cento cadaveri, a cinquecento o a mille. Aver provveduto a tutto questo e, a parte le eccezioni costituite da alcuni episodi di umana debolezza, essere rimasti ugualmente corretti: ecco cosa ci ha resi duri” (discorso di Posen, 1943)? O avrebbe invece causato il sacrificio di altri milioni di persone disarmate?

Siamo come le pecore tra i lupi? Il colmo dell’ironia è scoprire che Hitler stesso lodava il pacifismo: “In verità, l’idea pacifista umanitaria va forse abbastanza bene una volta che l’uomo del più alto livello abbia conquistato ed assoggettato il mondo a tal punto da essere diventato il padrone assoluto di questo globo”. La pace totalitaria, l’annichilimento del dissenso e della diversità.

La vita del corpo e dell’anima non è una faccenda di pacifica contemplazione e quieta devozione. Spesso, dentro e fuori di noi, c’è un terribile caos, una lotta disarmante e crudele. Non è sempre facile affrontarla ed esiste il pericolo che il senso di impotenza che pervade la gente con forza sempre crescente ci porti a credere disfattisticamente che la guerra non possa essere evitata perché è il risultato di una mania di distruzione, propria della natura umana. Come vedremo, però, l’intensità degli impulsi distruttivi non significa che essi siano invincibili ed irrefrenabili. In fondo, se ci pensiamo bene, le democrazie entrano in conflitto quasi sempre proclamando che si tratta di una guerra difensiva. Generalmente gli esseri umani non sembrano contenti di assumere il ruolo di aggressori. Qualcosa vorrà pur dire. Ma allora perché continuiamo a farci prendere per i fondelli?

La mia ipotesi è che non ci sia niente di irrimediabilmente sbagliato nella natura umana e che il problema sia invece che noi tutti viviamo in oligarchie camuffate da democrazie liberali e laiche. La pace non ha alcuna chance in questo tipo di società, che non condanna apertamente l’egocentrismo, il narcisismo, il distacco emotivo, l’indifferenza, il nepotismo, l’egoismo, la meschinità, la volgarità, la superficialità, la manipolazione delle menti, la propaganda, l’arrivismo, l’anti-intellettualismo, ecc. Questi vizi primari e secondari sono tollerati ed in certi ambienti sono persino additati ad esempio, come segno di pragmatismo ed avvedutezza. Queste false democrazie, che ignorano lo spirito delle loro carte costituzionali, dei loro valori fondanti, sono terreno fertile per tutte le tragiche debolezze umane, dall’egotismo all’autoinganno, dalla propensione alla fallacia logica al bisogno di appartenenza e fusione, dalla dipendenza nei confronti delle figure autoritarie al manicheismo, al conformismo, all’orgogliosa ignoranza, alla percezione selettiva, all’inerzia ed all’isterilimento psichico e spirituale. Per questo continuano a farci fessi.
Non siamo malvagi di natura, ma…

Nessuno sa definire cosa sia la natura umana, eppure ci sono scienziati e filosofi che continuano ad imputarle ogni nefandezza, sebbene il diritto e la dottrina dei diritti umani possano fondarsi solo su una visione positiva dell’umanità. Si attacca non solo la consapevolezza di quel che potremmo realizzare se solo mettessimo a frutto le conoscenze scientifiche già disponibili, ma soprattutto la fiducia nell’essere umano in quanto tale e nelle sue capacità di scegliere con raziocinio e buon senso, che è poi l’essenza della cultura umanista ed illuminista.

Secondo Konrad Lorenz tutti i nostri mali sono causati dalla cessazione della selezione naturale. Siamo animali auto-addomesticati, e come tali ci siamo degradati. Il sociobiologo Edward Wilson auspica interventi genetici sulla nostra specie mirati ad imitare l’armoniosa comunità delle api. Il filosofo politico britannico John Gray ha dichiarato che “chi ama la terra non sogna di diventare il saggio custode del pianeta, sogna un’epoca in cui gli umani non contino più nulla”. Richard Wrangham, docente di bioantropologia ad Harvard, reputa che dentro ciascuno di noi alligni un Uomo Selvaggio, un atavismo, un retaggio del nostro passato preistorico che condiziona il nostro comportamento. Secondo lui “se presupponiamo che gli esseri umani siano fondamentalmente simili agli scimpanzé…questa intuizione biologica (sic!) ci insegna che gli uomini continueranno a cercare nuove opportunità per massacrare i propri rivali e che non dobbiamo mai abbassare la guardia. La brutta notizia è che dobbiamo lavorare sodo per impedire agli uomini di coalizzarsi per uccidere gli avversari”.

La misantropia “scientifica” è gravida di questo genere di stravaganti asserzioni. Esse partono da una premessa che la quotidianità stessa rivela essere manifestamente errata, e cioè che gli esseri umani passino il tempo ad aggredirsi invece di badare agli affari loro o cooperare tra loro. Se le cose stessero davvero così nessuna società umana potrebbe operare. Questo abbaglio nasce dall’attaccamento a due dogmi ben precisi: quello dell’innata malvagità dei maschi umani e degli scimpanzé maschi e quello secondo cui la civiltà umana è solo una sottile patina che fatica a trattenere le pulsioni spesso incontrastabili della biologia evolutiva, inscritte nel nostro corredo genetico, che ci ha resi eterni predatori e carnefici. Tutto questo naturalmente elude la questione delle considerevoli variazioni nell’incidenza di comportamenti violenti tra individui e tra culture ed il dato di fatto che la stragrande maggioranza degli uomini non ha mai assalito, violentato o ucciso qualcuno nella sua intera esistenza. Forse questi pensatori ritengono con tragica supponenza di essere tra i pochi esemplari della specie umana in grado di tenere a bada il selvaggio vigore dei loro geni.

Eppure, lo studio del comportamento dei soldati in combattimento dimostra che la gran parte degli esseri umani non prova alcun piacere nell’uccidere o usare violenza contro un proprio simile. Anzi, la necessità di un rigido, meticoloso e prolungato addestramento, che si avvale di ogni possibile tecnica inventata dagli scienziati del comportamento per placare le remore ed ansie di una coscienza colpevole (bestializzazione del nemico, trasferimento della responsabilità verso le autorità, cameratismo, uso di psicofarmaci ed alcolici, ecc.), è la prova migliore del fatto che la guerra non è un “fatto naturale”.

Patriottismo ed idealismo non sono mai stati sufficienti a convincere i soldati a massacrare e farsi massacrare, a vincere le inibizioni, l’ansia, i rimorsi ed i sensi di colpa. Si è stimato infatti che, durante i due conflitti mondiali, solo il 15-20 per cento dei soldati al fronte sparava contro il nemico ed in molti di questi casi si sparava in aria. Percentuali analoghe sono state riscontrate dall’esercito inglese nella guerra delle Falkland. A Gettysburg, dei 27.574 fucili recuperati, il 90 per cento non aveva sparato un sol colpo, ed altri 6000 avevano sparato solo qualche colpo. In uno scontro con gli Zulu, 12 pallottole inglesi su 13, pur sparate a bruciapelo, riuscirono a mancare il bersaglio. A Rosebud Creek, nel 1876, furono sparate 252 pallottole per ogni nativo americano colpito. Quando si abbandonano le chiacchiere e ci si affida ai dati empirici, ai fatti, si scopre che quel che ci hanno fatto credere erano sciocchezze.

Siamo violenti, siamo aggressivi, siamo egoisti, ma non lo siano irrimediabilmente, non lo siamo incessantemente, spesso lo siamo contro il nostro migliore istinto, contro “gli angeli migliori della nostra natura”, diceva Lincoln.

Di norma, quindi, gli esseri umani non sono capaci di uccidere un altro essere umano a distanza ravvicinata, neppure quando è in gioco la loro stessa sopravvivenza. Il costo psicologico dell’uccidere un proprio simile e, più in generale, del fare la guerra, è fatale alla psiche di milioni di soldati. I soli Stati Uniti, nella Seconda Guerra Mondiale, dovettero rimpatriare oltre mezzo milione di uomini in seguito a collasso psichico. Dopo due mesi di combattimento continuo il 98 per cento dei soldati subiva danni psicologici tali da ridurli ad uno stato vegetativo. Le allarmanti statistiche sui suicidi, divorzi, dipendenze, accattonaggio, ecc. tra i veterani del Vietnam parlano chiaro e molti psicologi temono che l’uso di psicofarmaci in Iraq ed Afghanistan produrrà un’epidemia di sociopatia tra i veterani.

Per questo gli strateghi consigliano di usare armi automatiche, l’aviazione, armi a lunga gittata (obici, cannoni, missili) ed armi robotiche. I fatti danno loro ragione: l’efficienza di combattimento è cresciuta stabilmente. Insomma l’unico modo per convincere gli esseri umani ad uccidersi tra loro è quello di robotizzarli e di distanziarli fisicamente e psicologicamente il più possibile, oggettificandoli. Per poter fare la guerra una società deve prima desensitivizzare e de-umanizzare chi la combatterà, nonché il fronte interno. Si deve sopprimere l’empatia:

http://fanuessays.blogspot.com/2011/11/i-cyloni-sono-gia-tra-noi.html

Chi è normale?

Le discipline scientifiche che si interessano della specie umana hanno raggiunto un punto di convergenza nell’affermazione dell’unicità dei singoli individui. Per la genetica ogni organismo è un prodotto squisitamente univoco dell’interazione dei geni con l’ambiente in ogni istante della vita di ciascuna persona. I genetisti di popolazione concordano nel dire che se c’è da fare una suddivisione della specie umana, l’unica distinzione netta e significativa è quella tra individui. I neurologi hanno dimostrato che non esistono due cervelli che siano identici, neppure tra gemelli omozigoti, perché le variazioni microscopiche di ogni cervello sono enormi. Secondo i linguisti le parole e le frasi, nella loro struttura e significato, hanno una storia che varia a seconda dell’esperienza e del contesto di ciascuna persona. Insomma, l’evidenza empirica demolisce ogni tentativo di essenzializzare e negare la straordinaria diversità dell’umano nelle sue innumerevoli espressioni, cioè il suo fascino e bellezza. Idee e valori personali potrebbero essere di enorme beneficio per la collettività, se fossero re-indirizzati in una direzione costruttiva e non distruttiva.

Quel che conta è che, stando ai dati scientifici disponibili, non esiste un’anima nera dell’umanità. La malvagità, la crudeltà, l’egoismo, l’aggressività sono fenomeni comuni all’intera specie ma in forme ed intensità sensibilmente diverse, in diretta correlazione con il grado di soppressione dell’intelligenza emozionale (cognizione sociale) e del pensiero morale, cioè dell’empatia – la capacità di sentire e fare propri gli stati emotivi altrui – e della capacità di prevedere le conseguenze delle proprie azioni. La propensione ad una condotta morale deriva dalla capacità empatica ed è importante indirizzare la nostra attenzione e i nostri sforzi in quella direzione.

Su questo pianeta esistono decine di milioni di esseri umani completamente privi di empatia e coscienza o con una coscienza residua, ridotta o menomata (narcisisti, psicotici, psicopatici, sadici, istrionici, schizoidi, pedofili, ecc.). Sono nati così o lo sono diventati in certi ambienti familiari caratterizzati da negligenza o abuso. Gli individui privi di empatia si definiscono psicopatici:

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/19/300-milioni-di-psicopatici-se-ne-fregano-della-nonviolenza-e-dei-diritti-ci-si-difende-informandosi/#axzz1iZkF2V7T

http://www.informarexresistere.fr/2011/11/18/psicopatici-in-giacca-e-cravatta/#axzz1iZkF2V7T

Esistono diversi modelli eziologici che spiegano l’insorgere della psicopatia, ma quello che mi convince di più considera la psicopatia come una variazione estrema di certi tratti distintivi di una personalità normale (qualunque sia il significato attribuibile a “normale”). È altamente probabile che all’origine di questa patologia vi sia una disfunzione o lesione del lobo frontale che determina la differenziazione tra psicopatia/sociopatia congenita o acquisita. Non esistono stime univoche sulla percentuale di psicopatici: il valore oscilla tra il 2 per cento ed il 6 per cento della popolazione nei paesi del Nord America e dell’Europa settentrionale e sembra diminuire gradualmente procedendo oltre gli Urali e verso l’Africa o il Centro-America. Gli psicopatici possono avere un grado elevato di intelligenza cognitiva ma sono incapaci di interpretare gli stati emotivi altrui e di discriminare fra bene e male. Pongono invariabilmente il proprio interesse davanti a tutto il resto. Di conseguenza tendono ad essere seduttori, bugiardi patologici, manipolatori, privi di scrupoli, rimorsi e di autocontrollo, emotivamente superficiali, irresponsabili, sessualmente promiscui, impulsivi, narcisi e megalomani. Insomma, sono dei perfetti predatori di esseri umani che mirano ai più alti livelli di affermazione sociale in termini di status e di potere. Il loro successo dipende dal grado di tolleranza di una società nei confronti di questo tipo di personalità. Per fortuna sono anche molto deboli nei ragionamenti contro-fattuali, quelli che consentono di immaginare scenari alternativi derivanti da scelte comportamentali diverse. Poiché non riescono a visualizzare una sufficientemente ampia selezione di opzioni, è possibile sfuggire alle loro trame.

Pur tenendo conto del fatto che molti di noi non hanno le capacità e le competenze necessarie a diagnosticare un disturbo mentale e che quindi non ha senso etichettare questa o quella persona, bisogna comunque essere consapevoli del fatto che il problema esiste. Secondo una dozzina di studi condotti in Nord America e nell’Europa settentrionale e centrale, mediamente fino al 14-15 per cento della popolazione soffre di disordini mentali, spesso più di uno (ossessivo-compulsivi, schizoidi, paranoidi, antisociali, dipendenti ed evitanti, istrionici, narcisisti, sadici e masochisti, schizotipici, passivi-aggressivi, borderline). Quasi una persona su sette non è in grado di pensare obiettivamente e vivere bene, serenamente. E queste statistiche non includono anoressia, bulimia, psicopatia e varie turbe psichiche che limitano drasticamente le normali attività delle persone.

La maggior parte delle persone non riesce a concepire l’idea che altri esseri umani possano ragionare e sentire in un modo sensibilmente diverso dal loro senza essere necessariamente “pazze”. È altrettanto difficile accettare l’idea che le ideologie attivino solo ciò che è latente. Non sono infatti le idee a deformare la personalità di un individuo, ma il contrario. Le idee tirano semplicemente fuori quel che di buono o cattivo c’è già dentro. Purtroppo la maggior parte di noi ha bisogno di credere che tutto sia sotto controllo perché la nostra autostima, la nostra psiche, necessitano di conferme, mentre l’ammissione di errori di giudizio o di deficienze cognitive e morali distruggerebbero le nostre fragili certezze e l’immagine di noi stessi che ci siamo creati negli anni.

Come uccidere l’empatia in tre mosse

La pace si uccide sopprimendo l’empatia. La prima mossa è quella di creare una rete di persone tendenzialmente anempatiche in un ambiente tossico per l’empatia, cioè impregnato di stimoli esterni che indirizzano la società verso una condizione di sociopatia prevalente. Chi ha letto le sconvolgenti pagine della fondamentale ed informatissima inchiesta “Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri”, della giornalista canadese Naomi Klein, non potrà fare a meno di sospettare che l’assetto socio-economico della cosiddetta civiltà occidentale renda più facile l’inserimento e la promozione di individui dalla coscienza molto debole. Questi, favoriti dall’assenza di scrupoli e dal maniacale perseguimento di obiettivi categorici, riescono ad esercitare un notevole ed insospettato potere di influenza sulla società.

Contemporaneamente, questa stessa civiltà sembra altresì votata a contribuire all’emergere di tendenze psicopatiche o schizoidi in persone altrimenti psicologicamente “sane”. Klein dimostra che i vizi e le dottrine di pochi hanno causato una buona fetta del male nel mondo negli ultimi decenni. Stiamo parlando di esseri umani di vasto potere ed ingenti risorse che si comportano esattamente come un branco di avvoltoi o iene, avventandosi sull’animale ferito per scarnificarlo. L’aggressione avviene attraverso guerre, colpi di stato, omicidi eccellenti, torture, ricatti, indebitamenti coatti, controllo dell’informazione e manipolazioni varie. Non è certamente un male “banale”, quotidiano. Realisticamente, la maggior parte delle persone non si comporterebbe così. Sono ricchi, sono istruiti ma commettono il male e non sentono rimorsi. Non è falsa coscienza, è assenza di coscienza. Perché? Numerosi studi sulla responsabilità imprenditoriale hanno rivelato che le multinazionali tendono a seguire le logiche e norme di condotta tipiche degli psicopatici. Sono genuinamente amorali, guidate unicamente dall’esigenza di generare profitto, programmate per crescere costantemente e distruggere i concorrenti più deboli. Non appena il sistema giuridico non può perseguirle, l’impunibilità si traduce in violazione sistematica delle leggi e dei diritti. Gli esempi sono ormai innumerevoli.

In generale un essere umano si astiene dall’uccidere qualcuno non perché ci siano leggi che lo vietano e puniscono gli assassini, ma perché sa/sente che è sbagliato. Il giroscopio interiore della coscienza stabilisce quali siano gli imperativi categorici e mantiene il più possibile fisso il baricentro morale. Le grandi aziende, specialmente le multinazionali, non possiedono questo senso morale ed è legittimo chiedersi se ce lo abbiano le nazioni, per quanto intensi siano gli sforzi di ammantarsi di una qualche legittimità superiore. È difficile discernere la differenza tra l’esportazione della democrazia e quella di un prodotto. Nel caso iracheno la differenza la fanno le centinaia di migliaia di vittime.

Gli ambienti patogenetici come questo sono il terreno di coltura ideale del fanatismo. Il fanatico, diceva George Santayana, “è un uomo che raddoppia gli sforzi quando si dimentica dei fini”. Comune a tutti i fanatici è l’amore per l’odio: “Odio, dunque sono”, oppure “ci odiano, dunque siamo”. C’è il fanatico che non tollera critiche al governo perché sono antipatriottiche e lui si identifica con la patria. C’è il fanatico che denuncia complotti internazionali contro la sua terra, la sua fede, il suo stile di vita (es. Eurabia). Ci sono poi i fanatici dalla “coscienza infelice”, quelli che detestano il loro tempo e la gente che li circonda e si sentono ostaggi nati troppo presto o troppo tardi. Vorrebbero stravolgere la loro epoca, muovendo la storia in avanti più celermente, oppure ricreando il tempo che fu, e sono disposti a sacrificare del “materiale umano” nel farlo. Ci sono fanatici che credono che ciascuno di noi sia stato plasmato dalla propria cultura e tradizione e che per questo esiste un rapporto quasi mistico tra noi ed i nostri antenati che va preservato ad ogni costo. Ogni fanatico si ritiene prima di tutto una vittima – piccola, fragile e vulnerabile – e per questo è innocente, puro ed infallibile per definizione. Le vittime sono incolpevoli e non riconoscono o non si curano del dolore che causano agli altri. Ma in fondo l’odio nasce proprio dal disprezzo per se stessi e da un senso di colpa represso. Il fanatico ha bisogno di un nemico che ripristini la fiducia in se stesso, nel significato della sua esistenza e nella giustezza della sua casa. Perde di vista l’obiettività, confonde il bene con i suoi desideri ed il male con tutto ciò che si oppone alla loro realizzazione, si aggrappa al dogmatismo e rifugge il dialogo.

I politici più cinici e scaltri sanno fare buon uso dei fanatici, che sono facilmente sedotti dalla trappola dell’autorità e potere. Li asserviscono educandoli all’odio, che annulla la personalità ed impedisce la comunicazione fra gli uomini, e li ricompensano con altro odio, un odio che ha bisogno di essere costantemente alimentato, pena il rischio di rivolta contro i loro stessi compagni d’odio o persino i loro capi. È un odio mistificante che si fa passare per amore e lealtà, quando invece non è altro che l’impulso egoistico e materialista di chi tenta disperatamente di garantirsi stabilità psichica e la certezza della sopravvivenza fisica. I suoi sforzi sono condannati al fallimento e svelano la sua mediocrità e l’ordinaria immoralità del suo contesto, popolato da mostri – i nazionalismi, i razzismi, i campanilismi, gli integralismi – che torcono l’anima delle loro vittime, per poi tramutarle in carnefici. È fin troppo facile per noi esseri umani ripudiare un comportamento morale razionalizzando le nostre azioni.

Il Golem

La seconda mossa necessaria ad ingannare l’opinione pubblica incline alla pace ed indebolire l’empatia consiste proprio nel dar vita ai summenzionati mostri ideologici, i golem. Abbiamo visto che in cima alla piramide dell’iniquità risiedono solitamente gli individui cronicamente privi di coscienza o dalla coscienza affievolita – a causa del mancato sviluppo della corteccia cingolata anteriore o per ragioni biografiche (es. infanzia traumatizzante).

Al livello inferiore s’incontrano i fanatici, quelli che una coscienza ce l’hanno ma l’hanno consegnata ad un Moloch ideologico (Razza, Etnia, Fede, Classe, Patria, Corporazione, ecc.).

Ancora più in basso sono collocati gli utili idioti, masse di conformisti de-individuati disposti a servire il maschio-alfa o il “comune sentire”. Hanno una mentalità autoritaria, quella di chi è forte coi deboli e debole coi forti. Anche il loro è male, ma solo questo è il male superficiale denunciato da Hannah Arendt, un male di ordine inferiore, appunto, che si può spiegare antropologicamente e sociologicamente senza ricorrere alle categorie della patologia mentale o dell’estremismo. Non sono fanatici o psicopatici a tempo pieno, ma agiscono in un contesto che genera tendenze di questo tipo. Sarebbero perfettamente in grado di comprendere i loro errori e pentirsi, una volta che le circostanze lo consentissero.

Il problema è che troppe persone continuano a credere che la Patria, lo Stato, l’Azienda, la Marca, la Squadra siano entità reali, vive, animate, con una propria identità e coscienza. Come umanizziamo gli animali, così antropomorfizziamo istituzioni, imprese, organizzazioni, ecc., cioè oggetti ed astrazioni. Riversiamo in loro affetti, risentimenti, sogni, aspettative, paure, desideri, ecc. e non ci accorgiamo che non è diverso dal credere in Babbo Natale. Soprattutto, non ci accorgiamo che ciascuno di questi golem è un mortale nemico dell’empatia perché per sua natura tende a dividere, a rendere le società più fredde, centripete, irreggimentate, rigide, turgide, confinate.

I golem avversano la fluidità, la sensualità, l’eterogenea frammentazione del reale, sono programmati per devivificare e desensitivizzare la realtà, per narcotizzare l’empatia. I golem non amano la vita, perché questa scorre ed è promiscua, mentre la società fredda è intransigentemente moralista, convinta di detenere la verità definitiva, in tutta la sua interezza, di rappresentare la purezza, l’autenticità assoluta, l’innocenza incarnata. Pur di vivere, pur di preservare la sua forma materiale, l’amante delle astrazioni (patria, etnia, lingua, cultura, società, stato, ecc.) tende a reificarle, a crederle vere, concrete, tangibili, dotate di volontà e coscienza. Un muro di auto-inganni, idolatria e feticci si frappone tra lui e la verità. Paradossalmente ed autolesionisticamente si lega a ciò che non è mai stato vivo, nell’illusione che lo sia. Tutto questo in luogo dell’amore per ciò che è vitale, spontaneo, creativo, evolvente, caldo, amorevole, fluido, imprevedibile, cangiante, liquido, sensuale, impuro, promiscuo come lo è la vita – panta rei, tutto scorre.

Le società calde, femminee, sono in perenne ebollizione, amano la complessità, la pluralità, la malleabilità, la sofficità, la liquidità, la costante trasformazione, l’ignoto e rifuggono ciò che è inturgidito, fisso, immobile, definito, tassidermico, tassonomico, corazzato, aggressivo, granitico, immutabile, ecc. Sono attratte dal vivente, dall’impulso vitale d’amore, dall’integrazione del tutto.

I suddetti golem dipendono dal nostro consenso per la loro esistenza; se non li rigenerassimo continuamente, si estinguerebbero. Eppure non ce la sentiamo di lasciarli morire, lasciamo che assorbano le nostre energie creative e vitali, ci lasciamo dominare da questi despoti, senza ribellarci. Facciamo loro indossare delle maschere allegre e giovali, benevole e rassicuranti, ma mostri sono e mostri rimarranno, perché è nella natura dello scorpione pungere la rana che lo sta aiutando a guadare il corso d’acqua.

La sopravvivenza di questi mostri dipende dalla quantità di energia che riescono a strappare a chi li venera. Sono espressioni di quella forma di vita che nella lingua hopi si chiama Powaqqatsi “la vita che consuma le forze vitali di altri esseri per promuovere la propria vita”. Sono come l’Anticristo di Solovev, che “credeva in Dio ma nel profondo del suo cuore preferiva se stesso”.

L’adoratore del golem commette un grossolano errore di falsa coscienza: percepisce un io insufflato, ma si tratta di un’illusione. Beandosi della sua “meritata” grandezza, non muove un dito per irrobustire l’individualità reale. Si autoinfantilizza e permette che il sistema ne tragga beneficio, mantenendolo in quello stato per addomesticarlo meglio. Perde la capacità di prendere le distanze, di ponderare la sua situazione e guardare la società in cui vive con un certo distacco, con l’occhio di un forestiero o di un nemico. Perde la capacità di essere un agente di pace e non di guerra. Finisce per lasciarsi arruolare in progetti che non sono mai stati suoi, magari autodistruttivi, ma ai quali si accoda per senso del dovere e sconfinata fiducia nella logica retrostante. È l’alienazione finale: non è più sé stesso, ma l’idea che qualcuno si è fatto di lui; è pronto per essere sacrificato, magari in una guerra tra golem.

Il Terrore

Chi ha paura di morire non si cura della sorte del prossimo, non si cura della pace. “E quando tornate a casa, date una sberla a vostro figlio e ditegli è la sberla del Ministro della Paura… guardatevi con sospetto, odiatevi, sparatevi…è straordinario…”. Questa è una battuta tratta da uno sketch del magnifico Antonio Albanese, ma rappresenta accuratamente la realtà. L’insicurezza induce alla regressione, la frustrazione all’aggressività, l’ansia all’autoritarismo, sino all’insorgere delle dittature che sanciscono quella che Fromm ha chiamato la fuga dalla libertà, che è anche una fuga dalla pace. L’ex agente dell’organizzazione clandestina Gladio, Vincenzo Vinciguerra, ha svelato sotto giuramento qual è la terza mossa della strategia volta all’annichilimento dell’empatia, ossia la disseminazione della paura di morire: “Si dovevano attaccare i civili, la gente, donne, bambini, persone innocenti, gente sconosciuta molto lontana da ogni disegno politico. La ragione era alquanto semplice: costringere … l’opinione pubblica a rivolgersi allo stato per chiedere maggiore sicurezza”. Lo scaltro Agente di Guerra sa che i golem operano al meglio solo se la parte “sana” della popolazione teme di morire e perciò si aggrappa ai golem per fare in modo che la loro estinzione non sia priva di significato.

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/25/della-paura-e-del-potere/#axzz1iZkF2V7T

La gente ha un’enorme paura della propria insignificanza, della propria fragilità e vulnerabilità. Troppe persone non vedono l’egocentrismo come un problema perché sono ossessionate dalla sopravvivenza personale, che rimane l’obiettivo primario della nostra componente animale. Abbiamo paura di morire ed il modo migliore di controllarci è attraverso il terrore (ed il senso di colpa). Tutti noi ci troviamo a lottare per conciliare la realtà della nostra mortalità fisica e la speranza (o fede) nell’immortalità dello spirito, in modo da riaffermare il significato della nostra esistenza in un universo apparentemente assurdo. I golem sono dei crudeli tiranni che produciamo per aprirci un varco di senso in un cosmo apparentemente indifferente alle vicende umane e soprattutto dall’oblio che segue il decesso di chi non ha lasciato un segno indelebile nella storia.

Un antropologo statunitense, Ernest Becker, ha esaminato questo secondo fattore, la paura dell’estinzione fisica e storica, ed è giunto alla conclusione che molte delle nostre azioni sono dettate dalla necessità di produrre un’interconnessione di significati e simbologie in grado di generare l’illusione della trascendenza della morte (Becker, 1982). Quindi non si tratta della semplice reazione di chi si sente fisicamente vulnerabile. Tutti noi vogliamo che la nostra esistenza abbia un senso, che conti qualcosa, che dia un contributo significativo ad un’entità durevole – la Chiesa, la Scienza, l’Etnia, la Società, la Razza, la Nazione o la Patria, la Comunità, la Cultura, l’Arte, la Rivoluzione, la Storia, l’Umanità, la Professione, ecc. – e la prospettiva della nostra morte rende quest’esigenza ancora più pressante. Scrivere un libro di successo può essere un buon modo di placare l’ansia esistenziale, ma in generale si opta per la fusione delle identità personali in miti collettivizzanti – progetti d’immortalità – che negano la morte: l’ossessione per l’estinzione della propria cultura ed identità di popolo coincide con l’ossessione per la propria morte e per la possibile mancanza di significato della propria esistenza e dell’ordine cosmico. Il culto per le celebrità rappresenta forse, inconsciamente, un mezzo per continuare a vivere fondendosi nel mito dell’eroe, sperando di acquisirne le proprietà magiche della permanenza ed invulnerabilità. Il problema è che questi progetti di immortalità sono indissociabili dall’affermazione di una verità assoluta che ci gonfia di un orgoglio narcisistico ed acritico e ci scherma da prospettive alternative, giudicate invariabilmente false, spingendoci ad attaccare i promotori di sistemi di immortalità diversi dai nostri. È la guerra.
Difendere l’umanità dai suoi detrattori

Come si contrastano le strategie empatocide? Come si possono tutelare delle oasi di pace negli anni a venire? Abbiamo una vera scelta? C’è sempre una scelta, anche se ci conforta l’illusione che sia tutto predeterminato o troppo più vasto e potente di noi per subire la nostra influenza. Innanzitutto è indispensabile astenersi dal dare ai loro corifei e paladini ciò che vogliono, ciò che pretendono, in special modo la nostra anima. La crudeltà, la tortura distruggono la coscienza/anima dei responsabili e feriscono quella delle vittime. Occorre mantenere le distanze, per quanto possibile. L’antropologo francese René Girard ci ricorda che non si deve mai scherzare col fuoco: “Hanno la violenza dalla loro, ma non possono esercitarla apertamente. L’importante è ottenere il libero consenso della vittima al suo supplizio – spezzare la resistenza di Giobbe, ma senza costrizione apparente – l’esigenza di una vittima consenziente caratterizza tanto il totalitarismo moderno quanto certe forme religiose e parareligiose del mondo primitivo”. Per questo è essenziale giovarsi della nostra conoscenza del fenomeno per auto-immunizzarci.

La ponerocrazia, il “governo dei malvagi” (dal greco ponēros, “malvagio, nocivo”), odia visceralmente la vita spirituale ed odia l’empatia, che è l’alimento della vita più elevata, quella spirituale. Dunque si può sconfiggere attraverso l’amore per l’umanità, la coscienza e la natura, l’integrità (la volontà di essere onesti con se stessi e con gli altri rispetto alle proprie motivazioni), l’indipendenza di giudizio, la forza di volontà, l’assertività e la libertà, l’immedesimazione nell’altro e non la proiezione della propria auto-percezione nell’altro. Si devono coltivare il senso di indignazione, di oltraggio, di risentimento di fronte ad infamie ed ingiustizie. Si deve ricercare la giustizia e tutelare il libero arbitrio. La volontà di seguire la voce della ragione, della conoscenza e della coscienza contro la voce delle passioni irrazionali è l’unica che ci permetta di approssimare la verità, la comprensione obiettiva della realtà e del proprio ruolo in essa. Bisogna cercare la verità sopra ogni altra cosa. La vigilanza, la circospezione e la curiosità, che portano alla conoscenza, sono la nostra miglior difesa, l’autocompiacimento il nostro tallone d’Achille.

La conoscenza ci protegge perché più si conosce, meno si ha paura, meno ci si angoscia e meno pericoli si corrono perché si capisce cosa sia necessario per proteggersi. La conoscenza è sconfinata, non ha limiti, dunque il suo valore è infinito.

La conoscenza ci fa capire che è nostro preciso dovere difenderci dai bulli, se non vogliamo che siano loro a determinare il futuro della nostra specie e della nostra civiltà:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/02/la-collera-dei-miti-sullimmoralita-di-pacifismo-e-nonviolenza/#axzz1iZkF2V7T

Governo Monti o Italia: chi cadrà per primo? (pssst…i governi tecnici hanno le gambe corte, come le bugie)

a cura di Stefano Fait

“Sono volato in Asia per chiedervi di rilassarvi un po’ circa la crisi dell’Eurozona che è superata, anche grazie al più solido sentiero imboccato dall’Italia”.

Mario Monti, 2 aprile 2012

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=188613&sez=HOME_ECONOMIA

“Il pessimismo che regna tra i grandi produttori manifatturieri giapponesi è rimasto ai massimi livelli, stando ai dati del sondaggio trimestrale “tankan” effettuato dalla Banca del Giappone, che sottolinea le persistenti preoccupazioni circa l’apprezzamento dello yen ed il rischio legato all’indebitamento europeo”.

http://www.japantimes.co.jp/text/nb20120403a1.html

“Il peggioramento italiano sul fronte occupazione trova conferma anche nel trend europeo. Per l’Eurostat, infatti, i disoccupati nell’area Euro hanno raggiunto nel febbraio scorso la cifra record di 17 milioni di unità (+162mila su mese precedente), pari al 10, 8% (10,7% a gennaio)”.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-04-02/disoccupazione-febbraio-istat-giovani-111106.shtml?uuid=Ab00HoHF

 “L’indice manifatturiero Pmi dell’Eurozona è sceso a marzo a 47,7 da 49 di febbraio, in base alla lettura finale di Markit Economics. Il risultato conferma la stima preliminare e segnala una contrazione dell’attività per l’ottavo mese di fila. Quota 50 è la soglia di demarcazione tra espansione e contrazione dell’attività economica”.

http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2012/04/02/visualizza_new.html_160445975.html

“La Germania ha sorpreso perché il suo Pmi è sceso per la prima volta nel 2012, e bruscamente, al di sotto di quota 50, portandosi a 48,4 da 50,3; mentre l’indice francese, ai minimi da 33 mesi, scendeva intanto a 46,7 da 49,9…Eurolandia e diversi suoi Stati membri devono affrontare venti contrari, in una situazione di difficoltà (e di austerità) fiscali che non aiuta certo a frenare la caduta della domanda interna, e soprattutto quella degli investimenti”.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-04-03/eurozona-industria-prospettive-incerte-064027.shtml?uuid=AbBfFDIF

“La stretta creditizia, i ritardi nei pagamenti e il forte calo della domanda interna sono le principali cause che hanno costretto molti piccoli imprenditori [11.615 nel 2011] a portare i libri in Tribunale. Purtroppo, questo dramma non è stato vissuto solo da questi datori di lavoro, ma anche dai loro dipendenti che, secondo una nostra prima stima, in almeno 50.000 hanno perso il posto di lavoro”.

CGIA Mestre, 31 marzo 2012

http://rassegna.governo.it/testo.asp?d=82321175

“Tariffe e tasse? Aumenti rozzi, ma meglio che finire come la Grecia”

Mario Monti, 1 aprile 2012

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-04-01/monti-tariffe-tasse-aumenti-081003.shtml?uuid=AbJZvKHF

“Oggi, secondo me, stiamo assistendo – non è un paradosso – al grande successo dell’Euro. E qual è la manifestazione concreta del grande successo dell’Euro? La Grecia”.

Mario Monti, 26 settembre 2011, trasmissione “L’Infedele”

“Rigore difficile da sopportare ma poi genera la ripresa economica”. Il presidente del Consiglio dopo l’incontro con il premier irlandese cita Dublino come esempio dei risultati che possono essere ottenuti con il consolidamento di bilancio e le riforme strutturali.

Mario Monti, 24 febbraio 2012

http://www.repubblica.it/politica/2012/02/24/news/monti_rigore_difficile_da_sopportare_ma_genera_la_ripresa-30426430/

“L’economia irlandese inaspettatamente si è contratta nel quarto trimestre, spingendo il paese in recessione, guidata da un calo delle esportazioni e della spesa pubblica. […]. Il ministro delle Finanze irlandese Michael Noonan ha detto la settimana scorsa che si aspetta di tagliare le previsioni di crescita per quest’anno, poiché le esportazioni rallentano e la spesa dei consumatori continua a contrarsi. L’Irlanda sta lottando per rilanciare la sua economia nazionale ma le misure di austerità pesano sulla domanda delle famiglie e la disoccupazione rimane sopra il 14 per cento”

http://www.businessweek.com/news/2012-03-22/irish-gdp-unexpectedly-declined-in-fourth-quarter-on-exports

“Le lezioni derivanti dalla repubblica di Weimar in Germania tra il 1919 e il 1933 non dovrebbero essere dimenticate. Già nel 1924 la stabilizzazione della moneta tedesca, dopo l’iperinflazione, era stata conseguita. Le cause immediate della fine della democrazia e dell’avvento del nazismo in Germania non sono derivate dalle incertezze sulla moneta, ma dalle politiche economiche di tagli drastici alle spese pubbliche e sociali, proprio negli anni della Grande Depressione, volute e realizzate dal Cancelliere Heinrich Brüning nel 1930-32, che hanno creato disoccupazione superiore al 30% e profondo malcontento nei lavoratori e nelle classi medie in Germania”

Rainer Masera, Repubblica – Affari e Finanza, 5 marzo 2012

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/03/05/cosi-europa-puo-evitare-la-tempesta-perfetta.html

“Intensificare le politiche di austerità in un contesto come quello attuale, in cui prevale il capitalismo finanziario, non abbasserà il rapporto debito/Pil, ma minerà soltanto la crescita economica. Le conseguenze del patto di bilancio saranno pertanto depressive”.

Stephan Schulmeister, “Quel patto che porta in Grecia”, Repubblica, 29 marzo 2012

http://temi.repubblica.it/micromega-online/quel-patto-che-porta-in-grecia/

 “Si è cominciato con atteggiamenti sprezzanti nei confronti dei giovani anche da parte del presidente del consiglio. Sfigati? Ma come si permettono? Vuol dire che non conoscono la realtà drammatica che vivono i giovani che spesso restano precari fino a che giovani non sono più. Poi la situazione è andata peggiorando. Fino a mercoledì. “Noi abbiamo il consenso, i partiti no”, ha detto Monti. Una frase e un atteggiamento che mi ha ricordato Craxi. E che denota una certa dose di populismo”.

Stefano Rodotà, “Monti non perda la sua sobrietà”, Trentino, venerdì 30 marzo 2012

“Ed è un capolavoro che raggiunge il suo apice nel passaggio sugli italiani, più maturi di quanto tutti si aspettassero. Bontà sua, professore. Sembra davvero trattarci alla stregua di quegli alunni un po’ indisciplinati che alla fine la fanno esclamare: “apperò, non siete mica così bestie come mi avevano detto”. Se ci consente, illustre presidente del Consiglio, accetti un nostro  suggerimento: non c’è cosa che manda più in bestia le persone dell’essere trattati dall’alto in basso, dell’essere considerati ingenuotti, sempliciotti, che si bevono tutto”.

Massimiliano Gallo, Linkiesta, 30 marzo 2012

http://www.linkiesta.it/lettera-monti-corriere#ixzz1qgwPMoAV

“Mario Seminerio, in questo breve post su Phastidio.net, commenta le Economic Surveys sull’Unione Europea presentata dall’Ocse. Dopo aver analizzato le raccomandazioni del documento, conclude con un desolato: “…L’unica spiegazione possibile è che l’Europa e la gestione della sua economia sono finiti in mano ad un gruppo di squilibrati”. Seminerio non è un sovversivo. È un bocconiano, economista, di posizioni mi pare moderate, più liberista che keynesiano. La sua voce si aggiunge al coro sempre più imponente degli economisti di entrambe le sponde atlantiche che contestano la politica economica Europea ritenuta ostinatamente demenziale. Il problema è che questo “gruppo di squilibrati” non è mai stato regolarmente eletto. Si tratta di tecnocrati auto-referenziali (o etero-referenziali, se li si considera come espressione di gruppi di potere), e in quanto tali non è possibile liberarcene con i normali metodi democratici. Non ci sono prossime elezioni grazie alle quali potremo cacciarli: sono lì per grazia divina, e in virtù di un potere che non abbiamo mai conferito loro continueranno a imporci sacrifici sempre maggiori con ricette sempre più recessive (cfr Grecia, Portogallo a breve). A questo punto, fra chi pensa come unica spiegazione possibile che siano un gruppo di squilibrati, e chi ha il sospetto che in realtà sia gente che opera lucidamente per un fine inconfessato, mi chiedo: chi è che sta peccando di ingenuità?”

Mauro Poggi, 27 marzo 2012

http://mauropoggi.wordpress.com/2012/03/27/gli-squilibrati-e-la-democrazia/

 “Questa sorta di nuovo populismo tecnocratico, incarnato dal montismo in versione elitaria, si invera nel richiamo alla maturità degli italiani…Ora, la contrapposizione partiti da una parte, governo dei tecnici e cittadini dall’altra, può piacere a molti italiani, spesso sedotti dalla tentazione a fare a meno della politica, e qualche volta anche della democrazia, ma non è una rappresentazione del tutto realistica. La stessa popolarità del governo è destinata a scendere quando saranno pienamente “percepibili” le misure adottate per evitare il baratro. Lo si vede in questi giorni con buste-paga pesantemente toccate dall’aumento delle addizionali Irpef locali; lo si vedrà con l’arrivo dell’Imu. E quando, e se, salirà l’Iva. Lo si intuisce già dalle diffuse reazioni, non certo della sola Fiom, sull’articolo 18. Vicenda nella quale l’ideologia dei tecnici ha dispiegato tutta la sua, voluta, potenza pedagogica. L’articolo 18 è essenzialmente un trofeo da consegnare a mercati, Bce e Unione Europea a guida tedesca. Visti gli esigui numeri in materia di giusta causa, è chiaro che la norma poco ha a che fare con l’appetibilità italiana per gli investimenti stranieri. Ostacolati, semmai, da una giustizia civile comatosa, dallo strapotere della criminalità organizzata in alcune aree del paese, dalle lentezze della burocrazia, dalla corruzione che altera le regole del gioco. La partita ha invece a che fare con la fine della concertazione, al massimo sostituibile, secondo Monti, con la consultazione delle parti sociali. Nel merito la visione del Presidente del Consiglio non è lontana da quella di Marchionne. La cosa non sorprende: per biografia Monti è parte dell’establishment finanziario internazionale e per dottrina un liberista, sia pure temperato”.

Renzo Guolo, “Se il populismo diventa tecnocratico”, Trentino, 31 marzo 2012

“Secondo l’ultimo sondaggio trimestrale svolto dalla Reuters tra gli economisti, l’arrivo di Monti non ha migliorato né le aspettative di crescita e nemmeno le attese per la tenuta per i conti pubblici italiani. Al punto che, per quanto riguarda la crescita, dallo zero del precedente sondaggio la previsione sull’andamento del Pil per il 2012 è addirittura precipitata al – 1,2 per cento, mentre il disavanzo è stato stimato al 2,2 per cento del Pil. In linea con il 2,3 per cento precedente. Ma significativamente al di sopra dell’obiettivo del governo che è dell’1,6 per cento. Proprio sulla base di queste previsioni negative nessuno degli interpellati ha ritenuto possibile aspettarsi che Monti possa raggiungere, come promesso, il pareggio di bilancio nel 2013”.

Pierre Carniti, 27 marzo 2012

http://www.nuovi-lavori.it/newsletter/section.asp?sid=17&iid=128&printme=1

“Non è che l’approccio del Governo non abbia nulla a che fare con la crescita. A chi dice all’Esecutivo di non cambiare il mercato del lavoro ma di occuparsi della crescita e della disoccupazione credo che il Governo risponda che un ostacolo allo sviluppo e all’occupazione sia rappresentato proprio da una situazione non soddisfacente, molto farraginosa, del mercato del lavoro”.

Giorgio Napolitano

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-04-03/napolitano-governo-riforma-aiuta-063731.shtml?uuid=Ab9NEDIF

“Il 99% della popolazione, praticamente tutti, si dice preoccupato e due famiglie su dieci sono state colpite dai licenziamenti…la crisi continua a colpire duramente: ormai un quarto delle famiglie (il 25%) rivela di esserne stata direttamente coinvolta, vuoi per la perdita di posto di lavoro o per la messa in cassa integrazione di uno dei propri componenti. Un dato in significativo aumento (+11%) rispetto a novembre 2011”.

http://www.agienergia.it/NewsML.aspx?idd=111216&id=67&ante=0

“L’analisi della crisi mostra chiaramente che il problema principale maturato negli ultimi trent’anni a seguito del contenimento della dinamica salariale e della spesa pubblica è stato l’insufficienza della domanda necessaria ad equilibrare la crescente capacità d’offerta potenziale dei sistemi produttivi. I tentativi di sopperire a questo squilibrio strutturale, alimentando la domanda con le “bolle” finanziarie e immobiliari, ha solo reso il sistema più fragile cosicché, dopo una lunga seria di crisi parziali, si è arrivati a quella globale in atto. In questo contesto, l’azione del governo si concentra su aspetti delle condizioni d’offerta, come la flessibilità in uscita dei lavoratori, che attualmente non hanno rilievo per rilanciare la crescita mentre aggrava le insufficienze dal lato della domanda che sono quelle dirimenti. Ma la riforma Monti-Fornero è controproducente anche rispetto alle problematiche dal lato dell’offerta; infatti non immette maggiori certezze nel sistema produttivo, ma – anzi – ne aumenta l’instabilità la quale è il nemico principale della crescita e della possibilità che essa sia qualitativamente compatibile con le esigenze sociali e ambientali sempre più ineludibili per generare sviluppo economico, sociale e civile nel medio e lungo periodo”.

Felice R. Pizzuti

http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Niente-di-tecnico-molto-di-tecnocratico-13062

“Con questo spirito tutti noi – io e voi – affrontiamo le nostre comuni difficoltà […] Non siamo stati colpiti dalla piaga delle locuste […] Ciò accade innanzitutto perché chi domina lo scambio di beni materiali ha fallito […] La condotta degli speculatori senza scrupoli è ora di fronte al giudizio dell’opinione pubblica e alla ripulsa dei cuori e della ragione degli uomini. Le uniche regole che conoscono sono quelle di una generazione di egoisti privi di una visione del futuro e quando questa manca il popolo soffre. […] Il nostro obiettivo più importante è quello di far tornare la gente a lavorare […] Lo possiamo realizzare attraverso assunzioni governative dirette, affrontando l’impegno come faremmo con un’emergenza bellica, ma, al contempo, grazie a queste assunzioni, portare a termine progetti di riorganizzare le nostre risorse naturali. […]. In questo sforzo per un rilancio dell’occupazione […] Abbiamo bisogno di una severa azione di controllo su tutte le attività bancarie, creditizie e di investimento, per porre fine alle speculazioni con danaro altrui”.

Franklin Delano Roosevelt, discorso di insediamento, 4 Marzo 1933

Confesso di aver sopravvalutato Mario Monti. A forza di sentirlo chiamare “professore” mi ero inconsciamente convinto che fosse un nemico temibile per chi ama la democrazia, la giustizia sociale e la libertà. Invece sto constatando, giorno dopo giorno, che il sospetto di Aldo Giannuli era fondato: non è davvero troppo lucido. Così, il rispetto che si riserva ad un avversario degno di nota sta lasciando il posto alla pena. Sarà forse l’età, o sarà che non è particolarmente avvezzo ad operare in ambienti in cui esiste dissenso, in cui le sue affermazioni vengono vagliate e contestate, quando non rispondono al vero.

Comunque stiano le cose e qualunque valore abbiano i sondaggi del Corriere della Sera, Monti è spacciato. Ha sfruttato finché ha potuto la spinta dell’anti-berlusconismo, il desiderio del PD e dei suoi elettori di sentirsi nuovamente al governo, l’assenza della sinistra dal Parlamento e dai media, ma ormai vacilla e sembra non essere più capace di farne e dirne una giusta. Passa da una gaffe all’altra, al punto che persino i compiacenti e servili editorialisti del Corsera lo rampognano, peraltro sempre con molto tatto.

È come se, improvvisamente, Monti si fosse accorto che le direttive che gli provengono dall’alto sono inapplicabili, perché lo renderebbero supremamente impopolare, e stesse cercando di tenere il piede in due scarpe, aggravando così la sua crisi di credibilità ed autorevolezza, che i principali media non riescono o non vogliono più dissimulare [sarebbe bello assistere agli scontri all’interno della redazione della Repubblica].

Dubito fortemente che questo governo ce la farà ad arrivare al 2013; non con il disastro socio-economico che sta abbattendosi sull’Italia e che sarà, giustamente, imputato principalmente a Monti & compagnia “bella”. A questo punto, potrebbe sembrare quasi indecente infierire su di lui e sul suo governo, ma la superbia con la quale continua(no) ad ignorare i fatti, i doveri istituzionali, i valori costituzionali e la sovranità popolare esigono che lo/li si colpisca duro finché non avrà(nno) capito che è giunto il momento di passare il cerino a qualcun altro, prima di bruciarsi troppo le dita e finché l’opinione pubblica non si sarà risvegliata dal sortilegio che le fa vedere bello, buono e giusto ciò che è turpe, iniquo e, in una parola, mostruoso.

Vorrei poter dire che mi diverto ad assistere alla caduta di questi “dèi” di terza classe – ed in parte è vero – ma la disperazione di milioni di Italiani, prodotta dalle atroci politiche neoliberiste degli ultimi anni, è reale e tangibile. Resta dunque un retrogusto estremamente amaro e il desiderio che tutto questo abbia fine al più presto e che la gente possa tornare a sperare in un mondo migliore.

Non saranno gli hippies a cambiare il mondo – esaurita l’indignazione, è tempo di fare sul serio

di Stefano Fait

Victor Hugo, “I Miserabili” (Les Misérables)

Per il momento per quello che vediamo, anche in vertenze molto difficile, non vediamo elementi che ci possano ricondurre al clima violento degli anni Settanta. Ovviamente non ci auguriamo che tornino fenomeni di violenza e dobbiamo avere tutti la massima vigilanza. Vedo amarezza ed esasperazione crescente. Siamo contemporaneamente con livelli di disoccupazione che non ci ricordavamo da tempi infiniti, siamo con tanti lavoratori in cassa integrazione e con migliaia di esodati senza lavoro e senza pensioni. Non si vede un’iniziativa che crei un posto di lavoro che sia uno. È normale che i lavoratori pensino che ci sia un accanimento se in questa situazione si dice loro che alla crisi uniamo anche il fatto che licenziare sarà più facile. È sbagliato pensare di ridurre le tutele in questa stagione di crisi. Aver tolto la possibilità per il giudice di reintegrare i lavoratori significa togliere quell’effetto deterrente, che finora aveva impedito nel nostro Paese che il licenziamento diventasse uno strumento generalizzato nelle aziende. Certo c’è il rischio che la tensione salga, perché si continua nell’idea che si possa dividere il Paese.

Susanna Camusso, 25 marzo 2012

Nella prefazione all’edizione del 1944 di “Confidenze di Hitler”, di Hermann Rauschning, venuta alla luce clandestinamente a Padova, nella Repubblica di Salò, per i tipi de Il Torchio, l’anonimo traduttore, A.F., scriveva “ecco appunto una fondamentale diversità fra questa e le precedenti guerre: le crudeltà individuali, “illegali”, sono diminuite; quelle sistematiche, “legali”, di cui è responsabile un comando o un governo, sono immensamente aumentate. La violenza è organizzata, la crudeltà imposta, la rapina metodica, il terrore ufficiale (p. VII). Un po’ più oltre l’autore delinea un’interpretazione realistica – che trovo molto persuasiva – del principio di libertà: “chi invoca la libertà non è mosso da ottimismo ingenuo, ma da pacato pessimismo. Proprio la fredda constatazione che i moventi fondamentali delle umane azioni sono gli interessi e gli egoismi, porta a suggerire, come primo e fondamentale rimedio agli eccessi antisociali, il controllo esercitato da interessi e da egoismi diversi e opposti. E questo controllo funziona soltanto con la libertà di parola, di stampa, di riunione, di associazione, di sciopero. Non è, no, l’umanitarismo democratico che spinge a invocare la libertà; è invece il realismo critico che ritiene la libertà condizione indispensabile per quel necessario controllo”.

Infine, a coronamento di un ragionamento di particolare acutezza, il richiamo alla coincidentia oppositorum – una delle mie predilezioni: “esistono molecole, ioni, ormoni, apparati, che sono detti “antagonisti” non già perché esauriscano il loro compito in una dispendiosa lotta scambievole, ma perché agendo o reagendo in senso opposto a diversi stimoli, o anche a uno stesso stimolo, ottengono il mirabile risultato di mantenere un’alta sensibilità funzionale e uno stabile vicendevole equilibrio. Quando il benefico gioco degli antagonismi regolatori è interrotto per il prevalere di una sola parte, incominciano le manifestazioni morbose” (pp. IX-X).

Questi sono, per l’appunto, i tre fattori decisivi per la riuscita della rivoluzione che porrà fine al presente status quo e, ce lo auguriamo, ci condurrà in un Mondo Nuovo meno ipocrita ed iniquo di questo:

  1. la constatazione che la società in cui viviamo è così intrinsecamente corrotta da essere irriformabile. Chi detiene il potere al momento attuale non si farà MAI da parte e non è per nulla raccomandabile. Molto presto la maschera cadrà, il guanto di velluto sarà tolto e nessuno potrà più ignorare una realtà in cui “la violenza è organizzata, la crudeltà imposta, la rapina metodica, il terrore ufficiale”;
  2. l’idealismo degli indignati, convinti che la mera protesta prolungata farà cambiare atteggiamento a chi di dovere, è deleterio, futile e ottuso. La mitezza nei confronti della tracotanza e della violenza ha la stessa efficacia del belato di un agnellino nel tenere alla larga un branco di lupi. Arriva il momento in cui bisogna battersi per la libertà e la dignità: “Non è, no, l’umanitarismo democratico che spinge a invocare la libertà”;
  3. il conflitto, l’antagonismo sono l’anima della democrazia, quando non sono fini a se stessi. Quando però una parte, spinta da un’irrefrenabile hybris, decide di monopolizzare ogni forma di potere e risorsa, lasciando le briciole all’altra (1% vs. 99%), “il benefico gioco degli antagonismi regolatori è interrotto per il prevalere di una sola parte e incominciano le manifestazioni morbose” (cf. la psicopatia che sociopatizza l’intera società). A quel punto, è dovere di ciascuno di noi ristabilire l’equilibrio tra le forze contrarie, per il bene di chi verrà dopo di noi.

Chi mi segue da tempo sa che sono contrario alla violenza che non sia per autodifesa (e per difendere gli innocenti inermi). Ho sempre perorato la causa dello sciopero generale e continuerò a farlo, perché il Mondo Nuovo che ho in mente dovrà essere molto meno iniquo di questo, molto meno egoista di questo, molto meno avido di questo e perciò molto meno violento di questo. Purtroppo le mie analisi mi hanno portato a concludere che la rivoluzione ci sarà in ogni caso, che mi/ci piaccia o no (e io vorrei tanto che non ci fosse, perché la considero una sconfitta), perché chi comanda non cerca il dialogo, la negoziazione e il compromesso. Vorrei tanto che non fosse così, ma la situazione è a dir poco terribile. Ho appena sentito al notiziario radio che gli Italiani hanno cominciato a rubare frutta e verdura dai campi e dagli orti!! Quanto più in basso di così dovremo finire, ancora?

Fatta questa premessa, è necessario esaminare le cause della sconfitta degli indignati/indignados/occupanti e provare a mostrare come il loro fallimento possa dimostrarsi benefico per chi si è posto come obiettivo quello di contrastare e sconfiggere le politiche neoliberiste proposte come rimedio ad crisi globale causata da, guarda un po’, politiche neoliberiste (!).

Tra parentesi, l’indice del lavaggio del cervello che abbiamo subito è misurato da quel 20% di elettori del centrosinistra che colloca Monti, un neoliberista convinto ed orgoglio di esserlo, nell’area di centrosinistra (!!!). Di buono c’è che, molto probabilmente, 3 mesi fa erano molti di più.

La sconfitta del movimento di protesta globale è solo congiunturale ed è di buon auspicio.

Controllato da leader inetti o sabotatori, il movimento ha sprecato l’occasione di agganciarsi alla primavera araba ed ha rinviato il suo sbocco naturale: la Rivoluzione. “Naturale” solo perché viviamo in oligarchie, non democrazie. Una volta i potenti erano meno fessi, avidi ed egoisti di quelli attuali e sapevano mantenere un discreto equilibrio tra le forze, pur privilegiando la sommità della piramide.
Sia come sia, i semi dell’indignazione daranno frutti quest’anno, giacché la popolazione euro-americana (e non solo), estenuata dalle politiche di governi intenti a demolire lo stato sociale, prenderà in mano il testimone, ignorando bellamente le scemenze postmoderniste e neo-hippy di indignati ed occupanti. Il 2012 sarà, per l’appunto, l’anno della Rivoluzione, quella con la R maiuscola, in Egitto come in Europa, nel Nord America come in Asia:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/14/il-2012-e-lanno-della-rivoluzione-vi-spiego-perche/

Non ci sarà spazio per i fighettini di piazza Tahrir, gli inetti di Puerta del Sol e i seccatori di piazza Battisti (Trento).

Chi era presente alla manifestazione pro-autonomia del 10 marzo in piazza Battisti avrà constatato l’inciviltà di alcuni tra gli occupanti No-Tav, incapaci di intuire che usare un megafono per sovrastare le voci di chi interveniva, imponendo il loro messaggio, tra i fischi dei presenti, era una pugnalata alla schiena delle benemerite comunità della Val di Susa. Questi protestatari di professione non sembrano minimamente inclini a mettersi al servizio della comunità: sono troppo immacolati e melodrammaticamente eroici per volersi sporcare le mani. Le loro urla e le occupazioni sono autoreferenziate: l’unica comunità che potrebbero voler abitare è quella che rispecchi le loro convizioni e gratifichi il loro ego. Non credono nell’unità nella diversità, ossia nel pluralismo democratico: se potessero, farebbero in modo che la realtà e l’altrui percezione della realtà si conformasse ai loro desideri. Non paiono disposti ad adattare i propri desideri al dato reale ed alle esigenze delle persone che li circondano. Come Victor Hugo diceva di Robespierre: “hanno la forza della linea retta”.

In questo, non sono per nulla diversi dalle autorità che avversano.

Sono quelli che, con il loro assolutismo, fanno fallire ogni progetto di riforma della società ed ogni rivoluzione:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/14/se-incontrerete-questo-tipo-di-rivoluzionari-isolateli-sono-mortiferi/#axzz1od3sL7a5

Molti, tra gli indignati, hanno un profilo psicologico di questo tipo.

Tra i leader intellettuali del movimento degli occupanti (Occupy Wall Street – OWS) più nocivi, vorrei citare David Graeber e Slavoj Zizek, i due maggiori sabotatori del movimento di protesta contro gli eccessi del capitalismo monopolistico (ne approfitto per precisare che il capitalismo delle origini era un fattore di emancipazione: sono stati gli oligopolismi, ossia la deregulation, a trasformarlo in un meccanismo di asservimento).

Graeber è questo personaggio qui:

http://www.ilpost.it/2011/10/04/david-graeber-occupy-wall-street/

Io, come lui, sono convinto che l’anarchismo sia di gran lunga la migliore organizzazione sociale concepibile ma, a differenza sua, ho il buon senso di aver preso coscienza della sua INATTUABILITÀ in questo mondo.

La democrazia rappresentativa con robuste iniezioni di democrazia diretta, autonomismo, tutela dei beni comuni e cooperativismo è la migliore approssimazione possibile all’utopia anarchica. Il valore combinato di questi “additivi” deriva precisamente dalla loro capacità di mirare all’anarchismo senza perdere di vista la concretezza della natura e dell’esperienza umana.

Chiunque voglia realizzare l’anarchismo integrale in terra è un pirla e sarà causa di immensi patimenti per chi lo seguirà.

Chiunque intenda avviare una rivoluzione su basi anarchiche è un pirla al quadrato (vedi premessa).

Mi pare che il segreto di un movimento capace di realizzare un cambiamento autentico e non solo cosmetico stia nella capacità di tenersi alla larga da due estremi. Uno è quello dell’attesa messianica del leader carismatico/guru che ci guiderà verso un avvenire migliore: le pecore seguono i pastori, gli esseri umani dovrebbero agire coralmente, consapevolmente, responsabilmente, senza affidare le proprie sorti ad un deus ex machina.

Questo estremo è incarnato dal pensiero di Zizek, che oscilla tra il nichilismo ed il totalitarismo (classici compagni di merenda):

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/27/partigiani-del-terrore-sicari-della-rivoluzione-slavoj-zizek/#axzz1od3sL7a5

L’altro estremo è l’utopismo ingenuo, relativista e vacuo di Graeber, su cui non mi voglio soffermare.

Si deve tenere a mente che Occupy Wall Street non ha preso l’avvio a Wall Street ma in contemporanea con la primavera araba, a Madison, nel Wisconsin, uno stato governato da un politico repubblicano autoritario ed intenzionato a vincere un braccio di ferro con sindacati ed impiegati pubblici dello stato, uno scontro che lui stesso aveva reso inevitabile, con il suo tentativo di liberalizzare il “suo” stato, ossia di soggiogare sindacalisti e lavoratori. In piazza Tahrir si vedevano cartelli di solidarietà nei confronti della lotta di Madison ed un egiziano acquistò pizze da distribuire agli scioperanti. Sono i semi di una futura rivoluzione globale coordinata su internet.

Quel che è mancato, finora, è stato, appunto, il coordinamento, tra lavoratori, studenti, disoccupati e cittadini scontenti (es. ipertassazione per alcuni, dispense, agevolazioni ed elusioni fiscali per altri) o rovinati dalle speculazioni (es proprietari di case pignorate). È assai probabile che una guerra forgerebbe spontaneamente questo nesso e molto saldamente, forse indissolubilmente. Obama ha appena annunciato che la finestra per la diplomazia con l’Iran si sta chiudendo [è mai stata aperta? Dopo quello conferito a Kissinger, il Nobel per la Pace a Obama è il più ridicolo della storia: ormai lo potrebbe vincere anche Mugabe].

Invece di un coordinamento e di richieste concrete, c’è stata abbondanza di chiacchiere ed occupazioni piuttosto sterili, senza che il movimento se la sia sentita di incolpare il comandante della nave, Obama, di quel che sta accadendo. Se al posto di Obama ci fosse stato Bush avremmo già avuto barricate nelle strade di tutte le principali città americane. Se non è così è perché c’è ancora speranza nelle capacità e volontà di Obama di salvare capra e cavoli, sebbene molti abbiano preso coscienza del fatto che la sua amministrazione è pesantemente influenzata da collaboratori con un passato, anche recentissimo, alla solita Goldman Sachs, la stessa banca d’affari che ha dato fraudolentemente via libera all’ingresso della Grecia nell’eurozona ben sapendo cosa ciò avrebbe comportato nel giro di qualche anno.
In Spagna il fallimento è stata la diretta conseguenza della presenza al governo del “progressista” Zapatero e al timore di un’alternativa ultraconservatrice, se non neo-franchista. Un’ulteriore ragione è che la guida del movimento – intellettuali giovani e meno giovani – l’ha spinto in un avvitamento solipsistico e narcisistico fatto di eterne e vacue sedute assembleari che ricordano vagamente quelle dileggiate da Nanni Moretti. Molto fumo, poco arrosto: un po’ come Gandhi.

Soprattutto, si registra scarsissima attenzione alla tragica situazione delle altre categorie di cittadini – anziani, contadini, lavoratori, minoranze, ecc. – che, di conseguenza, non si sentono coinvolti e non rispondono con entusiasmo alle sollecitazioni di indignati ed occupanti.

Il problema è che se questo movimento, invece di evolvere imparando dai suoi errori, si spegne, ci sarà una fondata possibilità che la società americana, in special modo ma non esclusivamente quella, degeneri in senso autoritario. È emblematico l’esempio dell’Egitto e dei “fighetti di piazza Tahrir” che, non avendo neppure cercato di coinvolgere il resto della popolazione, hanno scacciato un autocrate per ritrovarsi con una giunta militare molto più oppressiva di Mubarak. È compito di tutti noi quello di assistere il movimento e, possibilmente, indirizzarlo verso sbocchi più trasformativi.

Finchè alla testa del movimento ci saranno teste d’uovo intossicate dalle loro fantasie egoistiche la gente resterà una massa informe, invece di organizzarsi per difendere la classe media e il restante 99%; prima o poi arriverà un incantatore a servire gli scopi dell’1%.

L’obiettivo di chi ha le idee piuttosto chiare su cosa sia necessario fare dev’essere quello di fare in modo che il movimento si espanda costantemente, adoperi la necessaria circospezione e formuli obiettivi chiari, ampiamente condivisibili, migliorativi, cioè a dire un’alternativa al sistema attuale. Se pensiamo a quanto indecente e fallimentare sia quest’ultimo, che ogni giorno che passa si scava la fossa con la vanga della sua superbia e incoscienza, non dovrebbe essere un compito al di sopra delle nostre possibilità.

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