L’Africa, i diversamente bianchi, i diversamente umani

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Negli ultimi dieci anni, 6 delle 10 economie a crescita più rapida al mondo erano africane.

ONU – rapporto finale sull’Agenda di Sviluppo Post-2015

Un continente ricchissimo di risorse naturali di ogni genere e di terreni agricoli inutilizzati, giovanissimo, dinamico: l’Africa, assieme al Brasile, è il futuro.

Il suo sviluppo sostenibile sarà garanzia del nostro sviluppo sostenibile. La sua capacità di lasciarsi alle spalle un passato fatto di tribalismi, schiavitù, colonialismo e neocolonialismo economico-finanziario, disuguaglianza e patriarcato sarà la miglior prova del fatto che ci meritiamo un futuro. Gli africani dovranno essere pienamente coinvolti nella gestione del pianeta e considerati come dei nostri pari, con gli stessi diritti alla condivisione delle risorse del pianeta. Su questo pianeta non dovranno più esistere assetti castali, secessioni interne al genere umano che assegnano un trattamento preferenziale a chi ha la pelle più chiara e un conto in banca più cospicuo: slavi, greci e napoletani, per fare alcuni esempi, sono da alcuni (molti leghisti e nordeuropei) considerati meno bianchi degli altri bianchi; i bianchi sotto la soglia di povertà sono grigi e diversi neri benestanti sono “meno neri” degli altri e fanno di tutto per mostrarlo. Le stesse donne bianche sono meno bianche degli uomini bianchi. Ci sono molte persone diversamente bianche. Nessuno dovrebbe essere diversamente umano.

L’immigrato africano è pagato meno e licenziato prima. Se è donna le cose possono andare anche peggio. I suoi figli difficilmente riceveranno un’educazione pari a quella dei loro coetanei bianchi.

La legittimazione di queste forme di discriminazioni ha impedito che, a livello globale, le classi disagiate (bianche e “colorate”) facessero fronte comune, presentassero delle precise rivendicazioni e riuscissero gradualmente a costruire una società meno iniqua e meno feroce.

L’Africa può aiutarci a superare questo impasse, a capire che quando parliamo di extracomunitari stiamo parlando di noi stessi, della comune sorte della specie umana e che battersi per un mondo migliore significa battersi per la pari dignità di tutti gli esseri umani, dato che solo così sarà possibile spianare un po’ la piramide sociale che ci accompagna e vessa almeno dai tempi dei faraoni. Battersi per chi è diverso da noi significa battersi per noi stessi: un mondo in cui le donne, gli omosessuali, i musulmani, i “colorati”, gli animali e l’ambiente nel suo complesso sono tutelati è un mondo migliore per tutti, tranne relativamente pochi milioni di privilegiati che subiranno una perdita di status.

La civiltà umana non sarà completa, non sarà civile e non sarà sostenibile senza l’Africa, senza una classe media africana che guidi il continente e che lo renda protagonista.

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COSA SCRUTIAMO NEL NOSTRO ORIZZONTE?

Tutti, a prescindere dai colori politici, ci siam chiesti,
ha senso la vita nel mondo che appar così balordo?!
Sono necessari innanzitutto ideali virtuosi ed onesti,
con una meta, senza aver l’atteggiamento beffardo!

Prima conosciam la porta che conduce al nostro IO,
che consiste nel saper crescere imparar e cambiare,
rispettando il prossimo, la Terra, per chi crede, DIO.
Solo così avrà un valore esistere, senza vivacchiare!

La chiave non è da ricercare fuori, ma dentro di noi.
se la ritroviam, l’età, le crisi, non faranno più paura!
Si sa, sto mondo è pieno di camaleonti e di avvoltoi
meschini opportunisti, pronti a depredarci con cura!

Molti sono determinati a dirigersi verso la saggezza,
così probabilmente anche i ricordi rimarranno soavi:
ad ogni angolo del mondo vedremo arte e bellezza!
Se ci sarà il premio OK,comunque diverremmo savi.

Son in tanti che “vedono” il nostro futuro su Marte!
Perché piuttosto non cerchiam di rigenerar la Terra,
di farne un giardino che sia davver un opera d’arte,
con una primaria, equilibrata barriera:l’effetto serra.

Perché no, molti sperano in un nuovo rinascimento,
dove,con nuove scoperte scientifiche e con legalità,
con disarmo, ci sia pace, stabilità, pure se a rilento.
I giovani poi han idee che esaltan parte di umanità!

Molti, nonostante la grave crisi non solo economica,
auspican ci sia un rinnovato orizzonte per i loro figli,
con l’acqua del mare (da cui proviene la vita) amica,
e che tenebre degli abissi non occultin fatali “artigli”.

Giorgio Ombrini

Omaggio ad Ahmadinejad – le parole che nessun politico italiano pronuncerà mai

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Rohani è stato definito “moderato” e “ragionevole” dalla stampa italiana. Le sue prime dichiarazioni:
1. Sanzioni ingiuste e ingiustificate;
2. Iran non sospenderà l’arricchimento dell’uranio;
3. Negoziati con gli Usa a condizione che riconoscano i diritti legittimi dell’Iran;
4. Iran contrario a ingerenze straniere in Siria;

Non vedo, francamente – e me ne compiaccio -, alcuna differenza rispetto al “grande demone” Ahmadinejad: l’uomo che ha promosso la causa della sovranità e dignità palestinese, che ha difeso il welfare, che voleva sviluppare l’economia iraniana, modernizzare il paese, ottenere una condanna delle politiche di Israele da parte delle Nazioni Unite, promuovere le donne in politica ai più alti incarichi, riformare le Nazioni Unite, contenere i costi della politica, denunciare i complotti della NATO e di Israele in Medio Oriente:
https://versounmondonuovo.wordpress.com/2013/06/16/ex-ministro-degli-esteri-francese-uk-e-israele-non-usa-hanno-ordito-linsurrezione-siriana/
https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/05/31/loccidente-e-la-destabilizzazione-della-siria-1957-2011-articolo-del-guardian/

…già, CHE SCHIFO!

 Ahmadinejad è stato accusato di populismo. Negli ultimi 40 anni, chiunque desideri fare qualcosa per i cittadini (es. investire in infrastrutture e in programmi di welfare) e arginare il potere delle oligarchie è condannato come populista dalle “democrazie” occidentali e dai loro media. L’Occidente è diventato una parodia orwelliana: la guerra (umanitaria) è pace, la schiavitù (flessibilità/precariato) è libertà, l’ignoranza (propaganda dei media) è forza, la democrazia è populismo, l’oligarchismo è democrazia e va esportato con la forza.

Ahmadinejad non ha mai dichiarato che l’Iran avrebbe distrutto Israele: si è limitato ad osservare che, continuando così, il sionismo avrebbe causato la sua distruzione, il che dovrebbe essere evidente a tutti e sottoscritto da tutte le persone che non hanno perso la bussola morale [«… questo regime occupante Gerusalemme è destinato a scomparire dalla pagina del tempo… » – «…per quanto concerne le atrocità israeliane nei territori occupati, il regime criminale che sta sfruttando la ricchezza dell’oppressa nazione palestinese e sta uccidendo innocenti da 60 anni, ha raggiunto la sua fine e sparirà dalla scena politica…» – chi non è d’accordo è meglio che si domandi quale sia la misura del lavaggio del cervello che ha subito].
È un ingegnere forse di discendenza ebraica persiana che ha evitato di creare un culto della personalità intorno a lui (Obamamania), è stato sindaco di Tehran (Obama diviene presidente senza l’esperienza necessaria a guidare la superpotenza egemone), usa i proventi petroliferi per varare una serie di programmi per aiutare disoccupati e giovani coppie (Obama ha salvato le banche zombie). Ha condotto una vita sobria (ogni tour di Obama costa decine di milioni di dollari).
Il suo slogan elettorale è “è possibile e possiamo farlo” (yes we can), si è battuto per eliminare il potere di veto delle grandi potenze sulle decisioni che riguardano l’intera umanità, ha promosso il legittimo e legale programma atomico civile iraniano a dispetto di sanzioni internazionali (che erano e restano illegali e un giorno saranno considerate un crimine contro l’umanità, come l’infame embargo all’Iraq). Ha continuato a finanziare Hezbollah (ritenuto un’organizzazione terroristica da quelle nazioni che si rifiutano di condannare le azioni terroristiche di Israele). Ha cercato di indebolire il potere dei conservatori in Iran e, per questo, lui ed i suoi fedelissimi sono diventati il bersaglio di una campagna prima denigratoria e poi giudiziaria per stroncare ogni prospettiva che un “Ahmadinejadista” arrivi di nuovo al potere. Ha fatto eleggere ad alti incarichi il maggior numero di donne nella storia dell’Iran (o della storia italiana). Nei confronti delle proteste di piazza non si è comportato diversamente da Erdogan, che non pare aver perso il sostegno delle democrazia occidentali, e meglio del governo del Bahrein o dello Yemen, alleati di ferro dell’Occidente.

Per tutte queste ragioni, la demonizzazione di Ahmadinejad da parte di governi alleati delle teocrazie e monarchie assolutiste del Golfo Persico e di Israele è una delle grandi infamie del nostro tempo.

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L’Occidente non ha voluto ascoltare questo discorso, rivolto da Ahmadinejad all’assemblea delle Nazioni Unite. Se omettessi di dire che sono le sue parole, qualcuno potrebbe credere che siano uscite dalla bocca di papa Francesco, o di un segretario generale dell’ONU più coraggioso ed indipendente degli altri.
Ora che la vendetta degli ayatollah si sta per abbattere su chi ha osato sfidarli
http://www.adnkronos.com/IGN/News/Esteri/Iran-Ahmadinejad-a-novembre-in-tribunale-per-denuncia-presidente-parlamento_32305219693.html

mi pare il momento opportuno per riproporre questo splendido appello all’umanità, che rimane tale a prescindere da ciò che uno possa pensare dell’ex presidente iraniano (giudizi non certo immuni dalla pesante ed unilaterale cappa mediatica occidentale).

“Le culture originali e preziose che sono l’esito di secoli di sforzi e sono il punto d’incontro dell’amicizia degli uomini e dei popoli e sono motivo di varietà e di ricchezza culturale e sociale sono minacciate ed in via di estinzione.
Con l’umiliazione e la distruzione sistematica delle identità culturali si propina alla gente un tipo di vita senza identità personale e sociale.
Le masse popolari non hanno mai desiderato fare conquiste ed ottenere con la guerra ricchezze mitiche. I popoli non hanno divergenze, non hanno avuto nessuna colpa nei fatti amari della storia, sono stati solo ‘le vittime’.
Io non credo che le masse musulmane, cristiane, ebraiche, induiste, buddiste ed ecc… abbiano dei problemi fra di loro. Loro si amano facilmente, vivono in una atmosfera di amicizia, e vogliono tutti purezza giustizia ed affetto.
In generale le richieste dei popoli sono sempre state positive e l’aspetto comune tra di loro, è la loro propensione per istinto verso la bellezza e le virtù divine ed i valori umani.
È giusto dire quindi che la responsabilità dei fatti amari della storia e delle condizioni inconvenienti di oggi, è della gestione del mondo e dei potenti del mondo che hanno venduto l’anima a Satana.
L’ordine mondiale di oggi è un ordine che ha le sue radici nel pensiero anti-umano dello schiavismo, nel colonialismo vecchio e nuovo, ed è responsabile della povertà, della corruzione, dell’ignoranza, dell’ingiustizia e della discriminazione diffusa in tutte le parti del mondo.
La gestione attuale del mondo ha delle caratteristiche ed io ne voglio citare qualcuna.
Primo: è basata sul pensiero materiale e per questo non sente il dovere di rispettare i principi morali.
Secondo: è basato sull’egoismo, l’inganno e l’odio.
Terzo: effettua una classificazione degli uomini, umilia certi popoli, usurpa i diritti di altri ed è basata sul dominio.
Quarto: è alla ricerca della diffusione del dominio attraverso l’intensificazione delle divisioni e delle divergenze tra i popoli e le nazioni.
Quinto: cerca di concentrare nelle mani di pochi paesi il potere, la ricchezza, la scienza e la tecnologia umana.
Sesto: l’organizzazione politica dei centri principali del potere mondiale, è basata sul dominio e sulla forza che un paese ha e che è superiore a quella di altri paesi. Gli enti internazionali pertanto sono centri per acquisire potere, ma non per creare pace e servire tutti i popoli.
Settimo: il sistema che domina il mondo è discriminatorio e basato sull’ingiustizia.
Come deve essere il nuovo ordine mondiale?
Amici e colleghi cari!
Cosa bisogna fare? Qual’è la soluzione? Non c’è dubbio che il mondo ha bisogno di nuovo pensiero e nuovo ordine. Un ordine in cui:
1- L’uomo venga riconsiderato la più eccelsa creatura divina e ad esso venga riconosciuto il diritto di avere una vita caratterizzata da aspetti sia materiali che morali e venga riconosciuto il valore elevato della sua anima e venga riconosciuta legittima la sua propensione istintiva alla giustizia ed alla verità.
2- Invece dell’umiliazione e della classificazione degli uomini e delle nazioni, si pensi alla rinascita della dignità e del carattere sacro dell’uomo.
3- Si cerchi di creare, in tutto il mondo, pace, sicurezza stabile e benessere.
4- La nuova struttura venga costruita sulla base della fiducia e dell’amore tra gli uomini, si cerchi di avvicinare i cuori, le menti, le mani ed i governanti imparino ad amare la gente.
5- Venga applicato un unico standard nelle leggi e tutti i popoli vengano presi in considerazione alla pari.
6- Coloro che gestiscono il mondo si sentano al servizio della gente e non superiori alla gente.
7- La gestione venga considerato un incarico sacro affidato dalla gente alle persone e non una opportunità per arricchirsi.
Come si realizza il nuovo ordine?
Signor Segretario, Signore e Signori!
– Un ordine del genere può realizzarsi senza la cooperazione di tutti alla gestione del mondo?
– È chiaro che queste speranze avranno una probabilità per avverarsi solo quando tutte le nazioni inizieranno a pensare in dimensione internazionale e saranno seriamente decise a partecipare all’amministrazione del mondo.
– Con l’aumento del livello di consapevolezza, ci sarà sempre una maggiore richiesta per una nuova gestione del mondo.
– Questa è l’era dei popoli e la loro volontà sarà determinante per il domain del mondo.
Pertanto è degno un impegno collettivo in queste direzioni:
1) Fare affidamento al Signore ed opporsi con tutta la forza alle ambizioni ed a coloro che vogliono più di quanto spetta loro per isolarli ed indurli a rinunciare al vizio di voler decidere al posto dei popoli.
2) Credere nell’aiuto divino e cercare di compattare ed avvicinare le comunità umane. I popoli ed i governi eletti dai popoli devono credere fermamente nelle proprie capacità e devono avere la forza per lottare contro il sistema ingiusto vigente e difendere i diritti umani.
3) Insistere nell’applicazione della giustizia in tutte le relazioni e rafforzare l’unità e l’amicizia, ampliare le relazioni culturali, sociali, economiche e politiche nell’ambito delle ong e delle organizzazione specializzate, in modo da preparare il terreno fertile per l’amministrazione collettiva del mondo.
4) Riformare la struttura dell’Onu sulla base degli interessi di tutti ed il bene del mondo intero. Bisogna ricordare che l’Onu appartiene a tutti i popoli e per questo discriminare i membri è una grande offesa alle nazioni. L’esistenza di differenze, vantaggi, diritti e privilegi non può essere accettabile, in nessuna forma ed in nessuna misura.
5) Cercare di produrre leggi e strutture basate sempre più sulla letteratura dell’amore, della giustizia e della libertà. L’amministrazione collettiva del mondo è una garanzia per la pace stabile”.
http://italian.irib.ir/notizie/mondo/item/113960-onu-ahmadinejad-propone-nuovo-rinascimento,-%E2%80%98ricollocate-al-centro-dell%E2%80%99universo-l%E2%80%99uomo-e-la-sua-dignit%C3%A0%E2%80%99-discorso-completo

La Disputa – per il nostro futuro, per avere un futuro

 

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Juntas Valladolid

Nel 1550, l’anno in cui si svolse il confronto dialettico con Sepúlveda, Las Casas aveva 66 anni. Le opinioni erano divise e il re convocò alla corte di Valladolid una giunta di teologi e giuristi per dirimere la questione se sia lecito fare la guerra a popoli le cui “colpe” risalgono a quando erano infedeli. Furono convocati i due rivali, in un confronto destinato a trascendere l’oggetto del contendere per cristallizzare nelle due trattazioni i due possibili approcci politici al problema dell’altro, del diverso: quello delle piramidi oligarchiche e castali e quello democratico, universalista ed egalitario.

Las Casas aveva lasciato il Nuovo Mondo nel 1547 ed era determinato a dedicare gli anni che gli rimanevano da vivere all’attività di avvocato difensore dell’umanità americana. Sebbene per estrazione sociale fosse un popolano, Las Casas era tutt’altro che un sempliciotto. Gli studi e la passione per l’apprendimento l’avevano reso un erudito della letteratura teologica-scolastica e del diritto canonico (Parish, 1992). L’esperienza di vita e la pratica della dialettica avevano affinato la sua arte retorica. Fu moderno nel reperire nella matrice dell’economia di profitto e rapina le radici dell’ideologia coloniale e nell’insistere che il benessere materiale e la sopravvivenza degli indigeni dovevano venire prima di ogni altra cosa, persino della conversione. Solo una conversione per amore era valida, mentre il comportamento tirannico e distruttivo degli Spagnoli era “uno scandalo agli occhi di Dio”.

Analizzò la civiltà azteca, quella degli sconfitti, nell’Apologética Historia, composta tra il 1527 ed il 1550, che però rimase inedita per oltre tre secoli. Questa vera e propria ricerca etnografica si basava sulle sue esperienze personali, sulla sua estesa corrispondenza e su manoscritti altrui. Lo scopo era quello di dimostrare che gli indiani soddisfacevano tutti i requisiti aristotelici della buona vita. Erano semplicemente rimasti isolati dal resto del mondo e non avevano potuto fruire della circolazione della conoscenza e della verità. In breve avrebbero potuto recuperare il tempo perduto perché facevano parte di un’unica umanità, dotata delle medesime facoltà. Questo, naturalmente, a patto che nella loro educazione si impiegasse il metodo giusto, fatto di “amore, gentilezza e premura”.

La disputa fu equilibrata. Sepúlveda eccelleva nella cultura classica e nel latino, Las Casas possedeva una fervida eloquenza – invidiabile e da molti invidiata – ed un’esperienza sul campo estesissima, maggiore di chiunque altro, cosa che fece pesare nel dibattito, quando ad esempio insinuò che il suo rivale “aveva scritto il suo libretto velocemente e senza soppesare adeguatamente il materiale e le circostanze”. Nel corso della disputa Sepúlveda si limitò sostanzialmente a riassumere i punti principali della sua posizione “rigidamente ortodossa ed altamente sciovinista” (Pagden, 1989) che, comprensibilmente, non poteva essere elaborata ulteriormente in un contesto come quello della madrepatria, che in generale non vedeva di buon occhio proclami biodeterministici (la natura come destino) che ponevano limiti alla Divina Provvidenza. Las Casas invece approfittò dell’occasione per illustrare la condizione dei nativi e lesse estratti dalla sua apologia per diversi giorni. Entrambi si autoproclamarono vincitori, ma la commissione non espresse alcun giudizio.

Al centro del conflitto tra i due “colossi” c’era il principio di separazione contrapposto a quello di unità. Sepúlveda riusciva a vedere – o dava mostra di vedere – solo differenze, disparità, gerarchie, identificando in ogni diversità la cifra dell’inferiorità ed una conferma che gli Spagnoli avevano il diritto-dovere di imporre il bene. “Sepúlveda crede che non l’eguaglianza, ma la gerarchia sia lo stato naturale della società umana” (Todorov, 1992). Las Casas enfatizzava le analogie, le affinità e la condivisione paritaria, ossia quei principi nutritivi che hanno alimentato la quercia dei diritti civili e dei diritti umani. Secondo Sepúlveda i nativi amerindiani potevano usufruire del diritto alla libertà, ma non nei medesimi termini degli Europei cristiani. La libertà dei primi era fortemente attenuata dalla loro natura specifica ed inferiore, ciò che lo induceva a ritenere che non si sarebbe mai veramente raggiunta una condizione di uguaglianza e che quindi la sovranità spagnola non sarebbe mai stata seriamente messa in discussione nei secoli a venire.

In pratica, la posizione dell’umanista di Cordoba è l’adattamento più estremo delle speculazioni aristoteliche sulla diversità umana che si potesse accettare in un contesto giuridico e teologico generalmente ostile al concetto di inferiorità e schiavitù naturale, ma tollerante nei confronti dell’aggiogamento dei prigionieri di guerra a fini di conversione e civilizzazione. Un’impostazione radicalmente anti-cristiana ed anti-umana agli occhi del domenicano che, nella Brevissima relazione della distruzione dell’Africa, condannava queste pratiche senza mezzi termini: “Come se Dio fosse un violento ed iniquo tiranno e gradisse e approvasse, per la parte che gliene offrono, le tirannie”.

Sepúlveda diede l’avvio alle sue argomentazioni usando come caso emblematico l’impero azteco, ritenuto la civiltà più sviluppata del Nuovo Mondo. Il comportamento di Montezuma (Motekwmatzin, in lingua Nahuatl), che avrebbe potuto schiacciare i pochi invasori ma si limitò a dissuaderli dall’avvicinarsi alla capitale, per poi accoglierli senza offrire resistenza, è indicato come prova della codardia, inanità, mancanza di spirito degli Aztechi. Nessun aspetto della civiltà era davvero degno di nota: commercio, edifici, vita sociale erano solo necessità naturali che sorgono automaticamente e spontaneamente, senza merito alcuno da parte di chi ne fa uso. La loro esistenza dimostrava solo che “non sono orsi o scimmie e non sono completamente privi di ragione”. D’altra parte non avevano sapienza, né scrittura e archivi storici, ma solo immagini pittografiche. Non avevano leggi scritte ma solo usanze e costumi barbari; soprattutto non conoscevano la proprietà privata. Che avessero accettato questo stato di cose senza ribellarsi confermava lo spirito meschino e servile di questi barbari che andavano sottomessi per il loro bene. Le loro terre sarebbe state meglio gestite da chi se ne intendeva e non commetteva peccati così infamanti; il pontefice non avrebbe avuto nulla da ridire.

Las Casas rispondeva che il papa non aveva una giurisdizione punitiva universale e, se l’avesse avuta, questa si sarebbe dovuta estendere fino a includere la fornicazione, il furto e l’omicidio. Inoltre Israele non si era mai impadronito delle terre dei vicini perché erano non credenti o idolatri o perché commettevano peccati contro natura. Ciò detto, pur domandandosi con quale autorità questo papa assegnava terre che non gli appartenevano e mettendo in discussione la validità giuridica dell’espropriazione dei beni indigeni, non negava che le cose più imperfette dovessero cedere il passo a quelle più perfette quando le incontravano, “come la materia dinnanzi alla forma, il corpo dinnanzi all’anima ed il sentimento dinnanzi alla ragione”, ma non quando queste caratteristiche appartenevano a soggetti distinti. Perciò la gerarchizzazione nei rapporti tra coloni e soggetti era illegittima: “Nessun popolo libero può essere costretto a sottomettersi ad un popolo più educato, anche se questa sottomissione dovesse dimostrarsi di grande vantaggio per il primo”. Qui Las Casas si rifaceva al principio cardine dello jus gentium, il consenso volontario dei soggetti. Anche lui aveva studiato il suo Aristotele, ma lo usava solo per confermare le Scritture, non per reinterpretarne il senso. Dopo tutto, lo stesso Stagirita non aveva mai indicato chiaramente come distinguere uno schiavo da un uomo libero.

Tra i due esisteva un forte divario etico ed esistenziale: uno metteva al centro l’uomo ed i deboli, l’altro il ceto e la nazione (i ricchi e i potenti). Sepúlveda cedeva alla passione per l’economia politica, al limite dell’eresia, con argomentazioni che mal si conciliavano con il diritto canonico e la teologia e che celavano un sostrato pagano e naturalista. Le sue tesi erano in contrasto con la missione evangelizzatrice della Conquista ma non con quella sfruttatrice dei Conquistadores. Per questo non erano ben accolte a Corte, mentre erano molto ben viste in America. Per certi versi il pensiero di Sepúlveda fu l’espressione massima della coscienza sociale e politica dei conquistatori. Lo jus gentium, che regolava i rapporti tra i popoli, secondo lui altro non era che uno sviluppo del diritto di guerra. Poneva così la violenza e la sopraffazione all’origine del diritto, in diretto conflitto con il Nuovo Testamento. Inoltre, insistendo sull’autonomia della sfera sociale e politica da quella religiosa, si collocava ad una distanza piuttosto ridotta da Lutero, al quale, oltre venticinque anni prima, aveva rivolto una severa critica. Sepúlveda dichiarava che si era tenuti a sottomettere con le armi, se non fosse stato possibile farlo diversamente, quei popoli che per condizione naturale dovevano obbedire ad altri e rifiutavano il loro fato. Ogni disuguaglianza era naturale e, in quanto naturale, era tale per decreto divino.

Questo assunto non era però ricevibile dai giuristi spagnoli, che da tempo avevano accettato l’idea che lo stato di diritto non avrebbe lasciato spazio a rapporti di sfruttamento servile, prediligendo la forma di contratto sociale tra individui giuridicamente liberi. Per questa ragione il sistema di schiavitù di fatto che esisteva nelle colonie americane non fu mai sancito giuridicamente. Come al giorno d’oggi la tortura, il lavoro nero e lo sfruttamento della prostituzione, pur non dovendo esistere, la schiavitù esisteva, e nessuno poteva farci nulla. Così si ideò l’istituzione neo-feudale dell’encomienda, fingendo ipocritamente che ciò non fosse in contrasto con lo spirito delle leggi dell’impero.

Sepúlveda aveva un’idea ben definita del nuovo ordine che doveva essere costruito nelle Americhe: il diritto doveva rispecchiare il sistema di potere e le strutture gerarchiche imposte dai vincitori. Il discrimine tra civile e barbaro era la proprietà privata, fino ad allora sconosciuta nel Nuovo Mondo. La Conquista era un’opera di civilizzazione non tanto perché divulgava le parole di Cristo, ma perché esportava il modello capitalista-mercantilista e pedagogico europeo. Un’anticipazione della retorica del fardello dell’uomo bianco, ufficialmente tollerato in quanto atto caritatevole.

Un governo autonomo e rispettoso dei suoi cittadini spettava esclusivamente ai popoli avanzati, quelli inferiori – privi di sangue cristiano e dominati dalle passioni e dai vizi – necessitavano di governi autoritari che li avviassero su un cammino di rettitudine, anche se ciò comportava il disprezzo dell’uomo per l’uomo. I nuovi signori avrebbero agito come strumenti di redenzione e rigenerazione, vicari di Dio in terra.

Quattro furono le motivazioni addotte per dar conto di questa posizione: (a) la gravità dei delitti degli indiani, soprattutto la loro idolatria e i loro peccati contro natura; (b) la grossolanità della loro intelligenza, che ne faceva una nazione servile, barbara, destinata ad essere sottomessa all’obbedienza da parte di uomini più avanzati, quali gli spagnoli; (c) le esigenze della fede, poiché il loro assoggettamento avrebbe reso più facile e rapida la predicazione; (d) il male che si facevano tra loro, uccidendo degli uomini innocenti per offrirli in sacrificio.

La prima giustificazione dell’asservimento degli Indios era formulata come segue: “Così il motivo per porre fine a questi atti criminali e mostruosi e per liberare gli innocenti dalle azioni ingiuriose commesse contro di loro, potrebbe già da solo concedervi il diritto, peraltro già assegnatovi da Dio e dalla Natura, di sottomettere i barbari al vostro dominio…a ciò si aggiunga l’intento di garantire ai barbari molte cose utili e necessarie…una volta che questi beni siano stati offerti e che le mostruosità che spaventano per la loro empietà, siano state soppresse dallo sforzo, lavoro e valore della nostra gente, e che la religione cristiana e le sue ottime leggi sia stata introdotta, come potrebbero questi popoli ripagarci di tanta abbondanza, varietà ed immortalità di doni?”.

In questa prospettiva la missione civilizzatrice arrecava solo benefici ai colonizzati, che dovevano essere eternamente grati ai loro nuovi signori. L’autorità di usare la forza traeva origine dalla superiorità del sistema di valori e forma di governo dei colonizzatori. La civiltà non era il regalo della Spagna al mondo ma di Dio all’umanità; la Spagna era solo un veicolo della volontà di Dio. Sepúlveda esprimeva con cinica franchezza l’idea che l’inferiore è universalmente responsabile per la sua condizione. Gli indios obbedivano all’arbitrio e non si curavano della loro libertà: “Tale comportamento spontaneo e volontario, senza essere oppressi dalla forza delle armi, è un segno evidente dell’animo servile e vile di questi barbari […]. Tali erano insomma l’indole e i costumi di questi omuncoli, tanto barbari, incolti e disumani, prima dell’arrivo degli Spagnoli”. Il dovere dei padroni-educatori non era quello di coltivare la personalità dei singoli, come unità indipendenti, ma di adattarli minuziosamente alla loro umile funzione di ingranaggi nella megamacchina dell’Impero, in nome di un fine più elevato, il Bene Comune, l’Armonia Superiore, la realizzazione della Volontà di Dio in terra.

A dispetto delle giustificazioni addotte dai suoi sostenitori, la visione sociale di Sepúlveda era inumana e cerebrale, ostile agli Indios nella loro realtà concreta, perché si prefiggeva degli obiettivi irrealistici, rispetto ai quali non avrebbero mai potuto essere all’altezza. Si indicava la possibilità che la natura umana indigena, seppur distinta da quella euro-cristiana, potesse essere modellata ed adattata al sistema grazie ad una corretta pedagogia, ad un’organizzazione politico-sociale dirigista e a maglie strette e ad una pianificazione preveggente. La diffidenza totale nei confronti dell’Altro era alla base di quest’apologia del Nuovo Ordine.

Leggere le tesi dei sostenitori della Conquista riporta alla mente il tema dell’”accusa del sangue”, così ben delucidata da Furio Jesi. Gli Indios, come gli Ebrei, erano visti come “una popolazione che, pur mascherandosi ipocritamente sotto parvenze di civiltà, era di fatto, e per sua incancellabile natura, diversa come i selvaggi erano diversi dagli uomini civili. […]. Negli Ebrei, popolo “sacrificatore ed antropofago” si riconosceva dunque una singolare commistione di civiltà e di natura selvaggia, di cultura e di impulsi cannibalici”. Ipocritamente ed esteriormente civilizzati, dall’animo “crudo, feroce e sanguinario”, non sono “selvaggi allo stato puro, ma selvaggi mascherati, quelli che non astuzia e ipocrisia sono riusciti a fingere di essere civili” (Jesi, 2007).

La distopia del Nuovo Ordine Cristiano doveva essere protetta dal peccato, dal sincretismo, dall’idolatria mascherata, persino dai più reconditi pensieri dei sudditi, appannaggio del peccato, perché troppo iniqui, troppo fragili, troppo vulnerabili rispetto alle passioni. Mentre per Las Casas l’indio era un essere umano come lui, per Sepúlveda l’indio era una risorsa ed un ostacolo in un ordine dove tutto doveva essere in perfetta sintonia con la volontà degli encomenderos. L’umanità era svalutata perché incompiuta ed imbarazzante e persino l’elemento spagnolo doveava guardarsi dalla contaminazione che sempre segue il contatto con l’impuro. Non era il cristiano che si macchiava delle più atroci scelleratezze con perfida innocenza, era l’autoctono che gli aveva forzato la mano, con la sua indocilità e stoltezza. La coscienza di quest’ultimo andava colonizzata come si fa con le aree geografiche, denaturata come da indicazioni del Grande Fratello orwelliano: “Ti spremeremo fino a che tu non sia completamente svuotato e quindi ti riempiremo di noi stessi”.

L’indio doveva essere reso docile, duttile, doveva capire che la volontà dei suoi signori-tutori era espressione della forza della necessità, dell’indispensabilità, che si sbagliava se credeva di essere diretto surrettiziamente in una certa direzione: la sua era una scelta libera (sic!) che conseguiva alla sua maturazione civile, alla sua debarbarizzazione. Sepúlveda si era costruito una stravagante concezione dell’autonomia e dell’emancipazione. Gli indigeni sarebbero stati pronti all’autodeterminazione quando fossero stati in grado di agire nel senso voluto da chi li aveva educati, dai suoi demiurghi-pedagoghi. Questo sistema, in cui si era pienamente liberi se ci si inchinava, se si dimostrava la propria innocenza, in cui i signori si riservavano il privilegio di far sentire liberi e uguali i servitori a loro piena discrezione, era un simulacro di libertà, una burla estremamente dolorosa per chi se ne avvedeva.

È stupefacente osservare come le prescrizioni di “ingegneria comportamentale” di Sepúlveda coincidano talora con quelle della pedagogia di Gor’kij – “Solo nella sofferenza l’anima umana è bella” – e Makarenko – “La crudeltà è la più alta forma di umanesimo perché costringe l’individuo a cambiare anche controvoglia”. Ma è ancora più sorprendente constatare la somiglianza con il Grande Inquisitore sivigliano di Ivan Karamazov. Sepúlveda esortava gli Spagnoli a “sradicare le turpi nefandezze e il grave crimine di divorare carne umana, crimini che offendono la natura, così come continuare a rendere culto ai demoni piuttosto che a Dio […] e salvare da gravi ingiustizie molti innocenti che questi barbari immolavano tutti gli anni”. Dio era con loro e nessuno avrebbe potuto arrestare la loro opera redentrice, poiché “per molte cose e molto gravi, questi barbari sono obbligati a riconoscere il dominio degli spagnoli […] e se rifiutano il nostro dominio potrebbero essere obbligati con le armi ad accettarlo, e questa guerra, con l’autorità di grandi filosofi e teologi, sarà una guerra giusta per legge naturale”. L’uso della violenza e della guerra giusta era giustificato anche dalla parabola evangelica (Lc 15,15-24) di quel signore che, dopo aver invitato molti a nozze, alla fine obbliga i poveri a partecipare al banchetto. L’umanista si richiamava all’interpretazione di Sant’Agostino il quale, riferendosi ai primi, osservava che li si invita ad entrare, mentre i poveri sono obbligati. “Questi, barbari, quindi, che violano la natura, sono blasfemi ed idolatri, perciò sostengo che non solo li si può invitare, ma anche obbligare (compellere), costringere affinché, ricevendo l’imposizione del potere dei cristiani, ascoltino gli apostoli che annunciano loro il Vangelo”. Questo argomento conseguiva alla tesi centrale del Democrates Alter: si poteva ottenere più in un mese con una conquista che in un secolo di predicazione. Non servivano miracoli, perché i mezzi umani che godevano di sanzione divina ottenevano gli stessi risultati. La guerra era insomma necessaria e giusta e se si insegnava ai nativi senza terrorizzarli, questi sarebbero rimasti testardamente aggrappati alle loro tradizioni secolari. Nulla di strano che il domenicano Melchor Cano, subentrato a de Vitoria, trovasse in quest’opera passaggi che suonavano “offensivi per le orecchie pie”. Sepúlveda sembrava affascinato dai vincoli di servitù (vinculum serviendi) e dal patriarcalismo che compenetrano l’Antico Testamento. Non amava la libertà e forse non la capiva. La nozione di giustizia parimenti gli sfuggiva.

Secondo Carlo Maria Martini “la giustizia è l’attributo fondamentale di Dio. Nel giudizio universale Gesù formula come criterio di distinzione tra il bene e il male la giustizia, l’impegno a favore dei piccoli, degli affamati, degli ignudi, dei carcerati, degli infermi. Il giusto lotta contro le disuguaglianze sociali”. Se questo è vero, Dio non era con Sepúlveda quando, rifacendosi alle ingiunzioni divine contenute nel Deuteronomio, affermava che la Spagna era autorizzata a muovere guerra a qualunque nazione di religione diversa. Non gli era accanto nemmeno quando, sempre nel Democrates Alter, dichiarava che “il fatto che qualcuno di loro abbia un’intelligenza per certe cose meccaniche non significa che abbiano una maggiore saviezza, perché vediamo come certi animali come le api e i ragni facciano cose che nessuna mente umana potrebbe ideare”. È cristiano il mondo visto come un intero ordinato in cui l’ordine è strettamente gerarchico e opera meccanicamente, in cui il valore della natura e dell’umanità inferiore corrisponde al suo valore d’uso, in cui l’obiettivo dei dominatori è ottenere il libero consenso delle vittime al loro supplizio, in modo da potersi scagionare preventivamente?

Per fortuna l’antagonista di Sepúlveda sapeva il fatto suo. Nella sua difesa Las Casas si avvalse della sua Apología e della Apologetica História Sumária, la sua opera più antropologica, completata dopo il 1551. Intendeva guadagnarsi un pubblico più ampio, non solo gli esperti della commissione, e voleva altresì dimostrare al più vasto numero di persone possibili che gli indiani erano membri di pari dignità della comunità umana e che le loro società erano sostanzialmente mature e civili, a dispetto della diversità di tradizioni e costumi. Voleva corroborare la tesi che “dietro le evidenti differenze culturali tra i popoli umani esisteva un medesimo sostrato di imperativi sociali e morali” (Pagden, 1989). Guardate alle cose che abbiamo in comune, non a quello che ci divide! Ammirate le splendite città azteche e inca! Nel confronto con Greci e Romani gli Aztechi vincevano a livello tecnologico, architettonico, artigianale ed artistico; specialmente nell’uso decorativo delle piume, con le quali riuscivano a comporre ritratti e rappresentazioni che potevano competere con l’arte rinascimentale e per di più cangiavano i colori a seconda della prospettiva dell’osservatore. “Non abbiamo alcuna ragione di meravigliarci dei difetti, delle usanze non civili e sregolate che possiamo riscontrare presso le nazioni indiane, né abbiamo ragione di disprezzarle per questo. Infatti, tutte o la maggior parte delle nazioni del mondo furono molto più pervertite, irrazionali e depravate, e fecero mostra di molto minor prudenza e sagacia nel loro modo di governarsi e di esercitare le virtù morali. Noi stessi fummo molto peggiori al tempo dei nostri antenati e su tutta l’estensione del nostro territorio, sia per l’irrazionalità e la confusione dei costumi, sia per i vizi e le usanze bestiali” (Apologetica História). Per non parlare della loro modestia e mitezza. Quanto al sacrificio umano, sicuramente i sacrifici indigeni reclamavano meno vittime della Conquista: “Non è vero affermare che nella Nuova Spagna si sacrificavano ogni anno ventimila persone, né cento, né cinquanta, perché, se così fosse, non troveremmo tante infinite genti come ne troviamo. Tale affermazione altro non è che la voce dei tiranni, per scusare e giustificare le loro arbitrarie violenze e per opprimere, depredare e tiranneggiare gli indios… E questo pretendono coloro che dicono di essere dalla loro parte, come il dottore e i suoi seguaci…Il dottore ha contato malissimo, perché possiamo con maggiore verità e meglio dire che gli Spagnoli hanno sacrificato alla loro dea amatissima e adorata, la cupidigia, ogni anno della loro permanenza nelle Indie una volta entrati in ogni provincia, più anime di quante in cent’anni gli indios in tutte le Indie ne avessero sacrificato ai loro dei”.

Inoltre gli indigeni non avevano avuto sentore di alcuna alternativa prima dell’arrivo degli Spagnoli: “Tanto coloro che volontariamente permettono di essere sacrificati, come i semplici uomini del popolo in generale, quanto i ministri che li sacrificano agli dèi per ordine dei principi e dei sacerdoti, agiscono sotto gli effetti di una ignoranza invincibile, e il loro errore dev’essere perdonato anche se arrivassimo a supporre l’esistenza di un giudice competente che possa punire tali peccati” (Apología). Non erano dunque in cattiva fede e, finché i cristiani non fossero riusciti a dimostrare coi fatti che la loro religione era ispirata da Dio, “essi sono senza dubbio tenuti a difendere il culto dei loro dèi e la loro religione, e ad uscire con le loro forze armate contro chiunque cerchi di privarli di tale culto o religione, o di recare loro offesa o impedirne i sacrifici; contro di essi sono così tenuti a lottare, a ucciderli, catturarli ed esercitare tutti quei diritti che sono corollario di una giusta guerra, in accordo con il diritto delle genti” (ibid.). Mai si era udita una tesi così ardita, che ritorce i principi della scolastica contro chi li impiegava per giustificare l’imperialismo. Angél Losada, nell’introduzione all’Apología, ha così riassunto l’innovativa interpretazione lascasiana del tomismo: “se i cristiani fanno uso di mezzi violenti per imporre la loro volontà agli indios, è meglio che questi rimangano nella loro religione tradizionale; anzi, in tal caso sono gli indios pagani a trovarsi sulla buona strada, e da loro devono imparare i cristiani che si comportano così”.

Questo argomento si riaggancia alla strategia di confrontare civiltà americane e civiltà classiche. Quale società non ha praticato sacrifici nel suo passato? Non facevano sacrifici umani anche gli Spagnoli, i Greci e i Romani? In seguito però erano diventati popoli civili. Lo stesso Abramo aveva offerto in sacrificio suo figlio a Dio. Eppure non riteniamo questi popoli depravati ma devoti, sebbene non ancora illuminati dalla Grazia. Un tempo il sacrificio era importante per venerare Dio. Arrivavano persino a sacrificare se stessi per Dio: una devozione più appassionata di questa non la si può immaginare! Las Casas, esibendo un’impressionante ed anticipatrice capacità di distacco relativistico dall’oggetto della sua analisi comparativa, completava il ragionamento facendo rilevare che il sacrificio umano non era in contrasto con la ragione naturale, era piuttosto un errore intrinseco della ragione naturale. Gli indoamericani non erano umani difettosi. Originariamente, a suo giudizio, erano monoteisti, come dimostrano i miti del dio creatore e civilizzatore diffusi in tutte le Americhe. Fu soltanto in seguito che l’isolamento li aveva esposti all’azione subdola e corruttrice del demonio, spingendoli verso il politeismo. Ora li si dovevano aiutare a rinunciare ai sacrifici con la forza delle argomentazioni e mostrando esempi di alternative migliori, non con quella delle armi. “Se questi sacrifici offendono Dio spetta a Dio punirli, non certo a noi”. Non era stato forse San Paolo, nella Prima lettera ai Corinzi, a chiarire una volta per tutte questo punto? “Spetta forse a me giudicare quelli di fuori? Non sono quelli di dentro che voi giudicate? Quelli di fuori li giudicherà Dio”. La Chiesa doveva forse oltraggiare Dio ergendosi a giudice degli esseri umani quando lo stesso Gesù il Cristo, stando a Luca (12, 13), aveva obiettato: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”. Infatti, sempre rifacendosi al Nuovo Testamento, “Cristo non è venuto per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Giovanni 3, 17).

Gli Indios dovevano essere messi nelle condizioni di accettare sinceramente e liberamente la cristianità, non indotti a farlo slealmente o coercitivamente. La pedagogia azteca insegnava ai figli ad essere ordinati, sensibili, prudenti e razionali: non certo il segno di una società che non avrebbe saputo autogovernarsi. L’unico tratto barbaro era l’ignoranza delle Scritture, ma a questo si poteva presto porre rimedio. A questo punto la trattazione si fece allegorica. Le varie manifestazioni dell’umano che s’incontravano nel mondo erano eterogenee. Alcune assomigliavano a dei campi non coltivati. E proprio come un campo abbandonato produceva solo spine e cardi ma, se coltivato, dava frutti, così ogni essere umano, per quanto apparentemente barbaro e selvaggio, era dotato dell’uso della ragione e poteva apprendere e generare i frutti dell’eccellenza.

Al richiamo alle terribili punizioni divine descritte nel Vecchio Testamento, replicò che esse andavano contemplate con meraviglia, non imitate. Quanto alla rozzezza degli Indiani, egli poteva produrre innumerevoli prove a sostegno della tesi inversa. Alla questione della maggiore rapidità delle conversioni dopo una conquista, si poteva obiettare portando ad esempio l’opera dei missionari domenicani. La quarta tesi, quella del male minore – una guerra causa meno morti dei sacrifici di massa –, fu contrastata appellandosi al comandamento “non uccidere”, più efficace dell’imperativo di “difendere gli innocenti”, specialmente se ciò comportava una guerra indiscriminata che non poteva che far detestare la vera fede agli indigeni. “Quando io parlo della forza delle armi, parlo del peggiore di tutti i mali”.

Sui soldati della Conquista Las Casas era irremovibile: “Essendo stati educati all’insegnamento di Cristo, non possono ignorare che non si deve arrecare danno alle persone innocenti. Chi manca di questo discernimento è reo di un gravissimo crimine verso Dio ed è degno di una condanna eterna”. Las Casas accettava che ci potessero essere danni collaterali a cose e persone, ma ribadiva che l’uso della forza non doveva avere un obiettivo preventivo ed offensivo. Neppure la liberazione di innocenti poteva giustificare la messa a rischio dell’incolumità di un gran numero di altri innocenti. Per questo precisava che, “sebbene sia vero che uccidere un tiranno, che è una pestilenza per la repubblica, è un’azione buona e meritoria, lo stesso non si può dire nel caso in cui il suo assassinio dia origine ad una ribellione o grave tumulto che raddoppi i mali della suddetta repubblica”. L’intero ragionamento di Sepúlveda era contraddittorio e avrebbe arrecato infiniti danni alla causa dell’evangelizzazione: “Come potranno amarci queste persone, e fare amicizia con noi (condizione necessaria affinché possano ricevere la nostra fede) se i figli si vedono orfani delle proprie madri, le mogli perdono i mariti, i padri perdono i loro figli ed amici; se vedono i loro cari feriti, tenuti prigionieri, spogliati delle loro proprietà e l’innumerevole moltitudine di cui facevano parte ridotta ad uno sparuto gruppo?”.

Nel Nuovo Testamento non si potevano trovare appigli che permettessero di sostenere una simile bestialità: “Citi dunque Sepúlveda un solo passaggio in cui il Cristo o i Santi Padri ci abbiano insegnato che i pagani debbono essere soggiogati mediante la guerra prima che gli si predichi il vangelo!”. Non sarebbe stato possibile, infatti, “quando Cristo mandò i suoi discepoli a predicare, non li armò certo con spade e bombarde”. Se il sacrificio era l’unico modo conosciuto dai nativi per onorare Dio, non si poteva impiegarlo come pretesto per assoggettarli. D’altronde anche i Romani li compivano, ma quando fondarono l’impero non punirono i popoli dediti ai sacrifici, si limitarono a proibirli per decreto. Volgendo poi l’attenzione a Luca 14,15, dove il compelle intrare, interpretato da Agostino come un’esortazione a costringere ad entrare nell’ovile della Chiesa, sembrava portare acqua al mulino di chi gradiva l’uso delle maniere forti, Las Casas ribatteva che la costrizione doveva essere di origine interiore, come confermato dall’analisi della medesima parabola effettuata da Tommaso d’Aquino, che parlava di “efficace persuasione”. Imporre il vangelo con le armi era solo un pretesto per depredare i nativi: “Che temano Dio, vendicatore della macchinazioni perverse, quelli che, con il pretesto di propagare la fede, con la forza delle armi invadono le proprietà altrui, le saccheggiano e se ne appropriano”. Il processo di conversione poteva solo funzionare se si fosse usato Cristo ed il suo messaggio come modello. L’uso della violenza coattiva nel nome della verità assoluta poteva solo smascherare la natura perversa di chi proclamava di rappresentarlo. Citava sant’Ambrogio: “Quando gli apostoli vollero chiedere il fuoco dal cielo, perché bruciasse i samaritani che non avevano voluto ricevere Gesù nella loro città, egli, voltatosi, inveì dicendo loro: non conoscete lo spirito al quale appartenete, il figlio dell’uomo non viene per mandare in rovina le anime, ma per salvarle”.

Inoltre, una volta che il vaso di Pandora della violenza fosse stato scoperchiato, quest’ultima avrebbe finito per ritorcersi contro i suoi perpetratori, in forza della giusta punizione divina. Ancora più incisivamente, cercando la stoccata decisiva: “Il dottore fonda questi diritti [del re di Spagna sul Nuovo Mondo] sulla superiorità delle armi e sulla maggiore forza fisica. Questo serve solo a porre i nostri sovrani nella posizione di tiranni. Il loro diritto si basa sull’estensione del Verbo nel Nuovo Mondo e sulla loro buona amministrazione delle Indie. Negare questa dottrina significa adulare ed ingannare i nostri monarchi e mettere in pericolo la loro stessa salvezza. Il dottore perverte il naturale ordine delle cose, trasformando i mezzi in fini e ciò che è secondario in fondamentale. È secondario il vantaggio temporale, è fondamentale la predicazione della vera fede. Chi ignora questo ha una conoscenza ben limitata e chi lo nega non è più cristiano di Maometto”.

In verità, purtroppo, Las Casas era abbastanza isolato in questa sua presa di posizione in Spagna. Lo stesso Soto, che ricapitolava brillantemente le argomentazioni dei duellanti ebbe a dire: “sembra che il signor vescovo – se non mi sbaglio io – sia caduto in un errore, perché una cosa è che li possiamo costringere a lasciarci predicare, il che è opinione di molti dottori, altra cosa che li possiamo obbligare ad assistere alle nostre prediche, il che non è altrettanto chiaro”. In altre parole la forza non poteva essere usata per costringere alla conversione ma era legittima se venivano posti ostacoli all’evangelizzazione, in virtù dello jus defendi nos, che ci riporta alla bizzarra nozione che gli Spagnoli, se in buona fede, erano automaticamente dalla parte giusta, di chi difendeva se stesso e il Cristo dalle ingiurie e gli assalti dei non-credenti.

L’umanista di Cordoba vide che il domenicano si era scoperto ed assestò un fendente: “per l’opinione secondo cui gli infedeli non possono essere giustamente forzati ad ascoltare la predicazione, si tratta di una dottrina nuova e falsa, e contraria a tutti coloro che nutrirono una diversa opinione. Il Papa infatti ha il potere – anzi il comando – di predicare egli stesso e per mezzo di altri il Vangelo in tutto il mondo, e questo non si può fare se i predicatori non vengono ascoltati; perciò egli ha il potere, per mandato di Cristo, di costringere ad ascoltarli”. Gustavo Gutiérrez (Gutiérrez 1995) parla molto a proposito di “teologia elaborata nella prospettiva del potere”.

Las Casas era assolutamente persuaso che si dovesse scongiurare il “pericolo del cancro velenoso” che il contraddittore voleva diffondere. “Che uomo di sano intelletto – si chiedeva, esagerando retoricamente le virtù dei suoi protetti – approverebbe una guerra contro uomini che sono innocui, ignoranti, gentili, temperati, disarmati e privi di ogni difesa?”. Insisteva, poi, riportando il discorso nei binari del buon senso: “Sarebbe impossibile trovare nel mondo un’intera razza, nazione o regione che è così tonta, imbecille, scellerata o comunque priva in gran parte di un livello sufficiente di conoscenza e capacità naturale da non sapersi governare autonomamente”.

Sepúlveda, lo abbiamo visto, non era dello stesso avviso: “In buon senso, talento, virtù ed umanità sono tanto inferiori agli Spagnoli quanto i bambini lo sono nei confronti degli adulti…come le scimmie lo sono a confronto degli uomini” [Bien puedes comprender ¡Oh Leopoldo! se es que conoces las costumbres y naturaleza de una y otra gente, que con perfecto derecho los españoles imperan sobre estos bárbaros del Nuevo Mundo e islas adyacentes, los cuales en prudencia, ingenio, virtud y humanidad son tan inferiores a los españoles como los niños a los adultos y las mujeres a los varones, habiendo entre ellos tanta diferencia como la que va de gentes fieras y crueles a gentes clementísimas, de los prodigiosamente intemperantes a los continentes y templados, y estoy por decir que de monos a hombres, “Demócrates segundo”, 305].

Las Casas metteva in dubbio la competenza del rivale: “Non è andato a rileggersi le scritture con diligenza, o sicuramente non ha compreso a sufficienza come applicarle perché, in quest’epoca di grazia e carità, cerca di applicare i rigidi precetti della Vecchia Legge che erano stati dati in circostanze speciali e quindi apre la porta a tiranni e saccheggiatori, a crudeli invasioni, oppressioni, violazioni e il crudo asservimento di nazioni inoffensive”. In pratica, non aveva senso credere che fosse giusto fare agli Indios quel che Dio aveva comandato agli Ebrei di fare agli egiziani e cananiti.

Sepúlveda era d’accordo sul fatto che la missione principale era convertire gli indiani ma, in linea con lo spirito del Requerimiento, ribadiva che la conquista militare avrebbe facilitato questo compito. Gli indiani si meritavano tutto quello che gli era franato addosso perché erano culturalmente e moralmente barbari, la civiltà europea era superiore e ad essa dovevano sottomettersi per il loro bene. Si rifaceva non solo alla nozione aristotelica di schiavitù naturale ma anche alla definizione agostiniana di schiavitù come punizione per i propri peccati. L’idolatria, i sacrifici umani ed il cannibalismo erano colpe evidenti e prove della giustezza della sua posizione. Esisteva un diritto (legitimus titulus) di intervento bellico in difesa degli innocentes, cioè delle vittime di sacrifici, antropofagia, tirannia dei sovrani indigeni e delle loro leggi, aberranti norme religiose dei popoli indigeni, ecc. Le stesse ragioni che legittimano le “guerre umanitarie” contemporanee.

Sepúlveda era schiettamente ma elegantemente razzista, ed in perfetta buona fede, poiché la sua mente era dogmatica, ideologica. La ricezione negativa della sua opera in Spagna era in parte dovuta anche al fatto che aveva scelto la forma espositiva del dialogo, in luogo della trattazione classica. Il dialogo aveva enfatizzato le differenze tra conquistatori e indigeni fino a renderle caricaturali, indebolendo così la cogenza delle argomentazioni. Per lui i nativi sarebbero anche potuti diventare amici dei nuovi dominatori, ma non prima di essere stati soggiogati. Mentre i loro talenti avrebbero potuto gradualmente sorpassare quelli delle scimmie e degli orsi, i loro limiti mentali fisiologici avrebbero impedito loro per lungo tempo di trascendere “le capacità delle api e dei ragni”. A suo avviso la maggior parte degli indiani non era pienamente umana, mostrava solo una parvenza di umanità. Lo dimostrava la discrepanza tra il coraggio, la magnanimità e le virtù civili degli Spagnoli e la natura selvaggia dei nativi americani, che rifiutavano le norme e usanze della vita civile. Si valutino i temperamenti dei rispettivi leader, esclamava ancora una volta: Hernan Cortés era nobile e coraggioso, Montezuma era un codardo. Per questo gli Spagnoli erano moralmente e politicamente giustificati nelle loro pretese di dominio assoluto.

Vitoria aveva sostenuto che il livello di maturità civile e morale di alcune delle culture native era pari a quello dei contadini europei e che era la cultura che aveva causato la divergenza nei percorsi di sviluppo, non una naturale condizione di schiavi. Sepúlveda sottoscriveva questa prospettiva, ma naturalizzava la cultura. Non poteva esserci un vero margine di sviluppo umano attraverso un processo civilizzatore che non comportasse l’estirpamento delle culture locali. Chi non voleva capirlo si faceva partecipe di una farsa ipocrita.

Al che Las Casas non poteva esimersi dal chiedersi quando gli indigeni cristianizzati a milioni sarebbero stati giudicati degni di vivere da uomini e donne libere? Non arrivò al punto di affermare che dovevano essere lasciati completamente in pace, perché era pur sempre un evangelizzatore, ma ribadì che la tolleranza era una precondizione della conversione, mentre per Sepúlveda le necessità del realismo politico e della dottrina cristiana non lasciavano spazio alla tolleranza che, al massimo, poteva seguire la conversione completa. Pur ammettendo che c’erano state violenze ed atrocità, egli riteneva che il fine giustificasse i mezzi quando invece, come abbiamo visto, Las Casas ammoniva che tradurre i mezzi in fini ed i fini in mezzi era una disastrosa fallacia logica e morale.

La commissione che valutò la disputa, composta da giuristi e studiosi della scuola di Salamanca e del Consiglio di Castiglia e delle Indie non possedeva alcun potere formale o legale oltre quello di offrire consulenza al monarca. I due non si incontrarono mai nella stessa stanza. Questo consiglio non lasciò alcun documento pubblico in cui fossero registrate le loro preferenze. Alcuni non erano stati convinti da Sepúlveda ma nessuno si pronunciò a favore di Las Casas. In effetti la giunta non si pronunciò a favore di nessuno dei due contendenti, ma la monarchia decise che il trattato di Sepúlveda De justis belli causis era troppo pericoloso e lo bandì dal Nuovo Mondo.

L’autore, piccato, accusò il suo avversario di oscurare la verità e la giustizia con un’eloquenza, una circospezione ed una perizia che “a confronto l’Ulisse di Omero era inerte e balbettante”. Gli addebitò la responsabilità di aver provocato “un grande scandalo ed infamia contro i nostri sovrani”. Nella sua apologia Las Casas rispose che il suo rivale aveva “diffamato questi popoli di fronte al mondo intero”.

Il grande cardinale tedesco Josef Höffner, coltissimo, anti-nazista e “Giusto tra le Nazioni”, un giorno scrisse che “tra gli Spagnoli, fu il nobile Las Casas che comprese più profondamente lo spirito del Vangelo di Cristo”.

http://fanuessays.blogspot.it/2011/10/bartolome-de-las-casas-introduzione.html

Voci autorevoli che non la pensano come Bersani sulla guerra nel Mali

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8 indizi (per una volta debitamente riportati dalla stampa internazionale) che fanno supporre che la questione sia un po’ più complicata di come la descrive Pierluigi Bersani:
1. La base di droni americana che sarà costruita nel Niger, vicino al confine con il Mali;
2. I numerosi testimoni che hanno segnalato la presenza di un canadese e di due francesi alla testa della banda di jihadisti che ha sconfinato in Algeria per prendere degli ostaggi (Tigantourine);
3. La presenza sul terreno di forze speciali americane per operazioni clandestine qualche mese prima dell’intervento francese;
4. Il fatto che nell’area tra Mali e Niger vi siano alcune tra le più importanti riserve mondiali di uranio (terzo posto nel mondo), oltre a petrolio e gas;
5. I recenti accordi commerciali e di sfruttamento delle risorse siglati da Mali, Niger e Cina;
6. Il fatto che gli jihadisti siano finanziati quasi certamente dal Qatar e probabilmente anche dall’Arabia Saudita, entrambi alleati della NATO;
7. L’opposizione algerina alle politiche NATO nel Nord-Africa (ma potrebbero anche cambiare casacca);
8. Il coinvolgimento dei presunti fondamentalisti islamici nel narcotraffico e nel traffico d’armi e il loro precedente servizio reso alla coalizione anti-Gheddafi (= il fattore religioso è secondario ma ai governi occidentali fa comodo continuare a sfruttare l’infinita Guerra al Terrore);

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Senza alcun dibattito parlamentare, il governo inglese ha già deciso che invierà un corpo di spedizione nel Mali.
Solo due settimane fa Cameron l’aveva escluso categoricamente.
Giusto perché sia chiaro che la guerra è appena agli inizi.
Dovremo partecipare anche noi? Ce lo chiederà l’Europa? Qualche caduto italiano per poterci sedere al tavolo delle trattative e delle spartizioni?

Anche tralasciando la parte in cui Al-Qaeda viene creata a tavolino dagli americani (cf. Brzezinski) per combattere i russi in Afghanistan, la parte in cui l’amministrazione Bush ignora sistematicamente ogni avvertimento dell’intelligence statunitense pre-11 settembre 2001 e la parte in cui Al-Qaeda viene incolpata di tutto, dal riscaldamento globale, alle fantasmatiche armi di distruzione di massa irachene, al tasso di obesità americano, la Guerra al Terrore rimane una criminale bestialità.

Serve solo ad ingigantire lo status dei terroristi: “l’America contro i terroristi yemeniti”, “Israele contro Gaza”, “la Francia contro i terroristi maliani”, “gli Stati Uniti e la Francia contro i terroristi somali”: i terroristi si spostano, riaffiorano carsicamente in un altro paese, godono di un’aura di invincibilità e di persecuzione da parte dei poteri forti che li rende “cool” e l’immagine dell’occidente finisce per deteriorarsi fino a rassomigliare a quella del patetico Wile E. Coyote alle prese con l’imprendibile ed invincibile “struzzo” Beep Beep.

In questo modo gli jihadisti sono consacrati agli occhi di migliaia di giovani musulmani che vedono i droni e i missili occidentali che causano eccidi di civili e che decidono a loro discrezione quali siano i tiranni da abbattere e quali invece quelli da sostenere anche contro la volontà dei loro sudditi.

In particolare, nel Mali, l’intervento francese in appoggio al Sud del Mali servirà solo a rinsaldare un’alleanza tra tuareg e jihadisti che era in crisi e che ora troverà nuovo vigore, con migliaia di combattenti che conoscono molto bene la regione e le tecniche di guerriglia.

Invece di isolare i terroristi dalla popolazione, quest’ultima si rassegnerà all’idea che sono l’unica autorità che possa tenere insieme il nord del Mali e proteggerli dalla pulizia etnica dei maliani del sud.

Contemporaneamente, il Sud del Mali diventerà uno stato fantoccio della Francia, tenuto in vita a forza per evitare l’anarchia, non diversamente dal Vietnam del Sud degli anni Sessanta e Settanta. L’unico risultato sarà quello classico (es. Iraq, Libia, Siria, Somalia, Yemen, Afghanistan): frammentazione e partizione dello stato, islamizzazione e terrorismo.

Poiché queste cose ormai non possono non saperle, ne consegue che lo fanno apposta: ordo ab chao.

L’obiettivo primario è la destabilizzazione dell’Algeria

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2013/01/23/fallimento-in-siria-ci-si-gioca-lalgeria/

e il controllo del Niger

http://www.lettera43.it/cronaca/africa-occidentale-forse-una-base-per-droni-usa_4367581683.htm
il Mali consente di prendere due piccioni con una fava.

Non tengono però conto del fatto che il boccone è troppo grosso persino per la NATO – evidentemente danno per persa la Siria, ma poi dovranno spiegare la cosa a milioni di persone che per mesi hanno ascoltato una singola versione dei fatti (“mancano pochi giorni alla caduta di Assad”, “la popolazione siriana non lo tollera più”, ecc.). Hanno commesso un enorme errore strategico.

LE VOCI DEL DISSENSO

“Un intervento armato internazionale è destinato ad aumentare l’entità delle violazioni dei diritti umani a cui stiamo già assistendo in questo conflitto… All’inizio del conflitto, le forze di sicurezza del Mali hanno risposto alla rivolta bombardando civili tuareg, arrestando, torturando e uccidendo la gente tuareg apparentemente solo per motivi etnici. L’intervento militare rischia di innescare nuovi conflitti etnici in un paese già lacerato da attacchi contro i Tuareg e altre persone di pelle più chiara”.

http://www.amnesty.org/en/news/armed-intervention-mali-risks-worsening-crisis-2012-12-21

“Il Mali, un paese amico, crolla. Gli jihadisti avanzano verso sud, e c’è una certa urgenza.

Ma non facciamoci prendere dal riflesso condizionato della guerra per la guerra. Quest’unanimità per l’andare in guerra, questa evidente precipitazione, argomenti già sentiti sulla “guerra al terrore”, mi preoccupano. Questa non è la Francia. Dovremmo aver tratto delle lezioni dal decennio di guerre perse in Afghanistan, Iraq, Libia. Queste guerre non hanno mai costruito uno Stato forte e democratico. Al contrario, hanno rinfocolato il separatismo, il fallimento degli Stati, la ferrea legge delle milizie armate.

Non hanno permesso di sconfiggere i terroristi che sciamano nella regione. Al contrario, ne hanno legittimate di ancora più radicali.

Nessuna di queste guerre ha assicurato la pace in una data regione. Al contrario, l’intervento occidentale ha consentito a tutti di scaricare le proprie responsabilità.
Peggio ancora, queste guerre sono un ingranaggio. Ciascuna crea le precondizioni per la prossima. Sono le battaglie di una singola guerra che si sta espandendo dall’Iraq verso la Libia e la Siria, dalla Libia verso il Mali inondando il Sahara con il traffico di armi di contrabbando. Tutto questo deve finire.

Nel Mali, non esiste una sola premessa per un successo finale. Combatteremo al buio, privi di un obiettivo bellico. Arrestare la progressione jihadista verso sud, riconquistare il nord, sradicare le basi AQIM: ciascuna di queste è una guerra a parte.

Noi ci dovremo battere da soli, senza un solido partenariato maliano. La rimozione del presidente a marzo e del primo ministro a dicembre, il collasso di un esercito del Mali segnato dalle divisioni, il generale fallimento dello Stato, a cosa ci appoggeremo?

Combatteremo nel vuoto per mancanza di un forte sostegno regionale. La Comunità degli Stati dell’Africa Occidentale si muove al rallentatore e l’Algeria ha espresso la sua contrarietà.

Solo un processo politico è in grado di portare la pace nel Mali.

Ci vuole una dinamica nazionale per la ricostruzione dello stato del Mali. Puntiamo sull’unità nazionale, sulle pressioni sulla giunta militare, sul processo di garanzie democratiche e dello Stato di diritto attraverso politiche di cooperazione forti.

Occorre anche una dinamica regionale, coinvolgendo l’Algeria, che ha un ruolo centrale in quell’area, e la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale, per promuovere un piano di stabilizzazione del Sahel.

Serve infine una dinamica politica per negoziare, isolando gli islamisti ed accordandosi con i tuareg su una soluzione ragionevole.

Come è possibile che il virus neoconservatore abbia potuto conquistare tutte le menti? No, la guerra non è la Francia. È tempo di porre fine ad un decennio di sconfitte. Dieci anni fa, in questi giorni, eravamo riuniti alle Nazioni Unite per intensificare la lotta contro il terrorismo. Due mesi dopo è iniziato l’intervento in Iraq. Da allora in poi non ho mai smesso di impegnarmi per risolvere le crisi politiche e per uscire dal circolo vizioso della forza. Oggi il nostro paese può fare da battistrada per abbandonare questo stallo bellico, se si inventa un nuovo modello di impegno, fondato sulle realtà della storia, sulle aspirazioni dei popoli e sul rispetto per la diversità. Questa è la responsabilità della Francia di fronte alla storia”.

Dominique de Villepin, ex primo ministro francese

http://www.lejdd.fr/International/Afrique/Actualite/Villepin-Non-la-guerre-ce-n-est-pas-la-France-585627

Autore del celebre ed “eroico” discorso contro la guerra in Iraq, che non gli è mai stato perdonato dai neocon

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/12/25/la-nostra-capacita-di-costruire-un-mondo-migliore-buon-natale/

“La questione della guerra è entrata prepotentemente dentro la campagna elettorale. Si è aperta un’interessante dialettica fra Sel e il Pd, quest’ultimo immediatamente pronto a sostenere Hollande e a rendersi disponibile per un’avventura italiana. In effetti che non si tratterà di una marcia trionfale se ne è accorto anche Il Sole 24 Ore che dedica al tema l’editoriale di oggi firmato da Vittorio Emanuele Parsi (docente alla Cattolica di Milano, se non ricordo male): “Le guerre inutili dell’Occidente“, un articolo e un titolo sorprendenti per il luogo dove sono collocati. Come giustamente scrive Parsi: “più diventavamo consapevoli della insufficiente efficacia dello strumento militare e più ci abbiamo fatto ricorso: in parte perchè le circostanze lo consentivano in virtù della nostra straordinaria superiorità logistica e tecnologica; in parte perchè non sapevamo che altro fare in assenza di un altrettanto rampante superiorità politica”. Eh già, proprio così: l’Europa come soggetto politico non esiste”.

Alfonso Gianni, 18 gennaio 2013

“Sono deluso dalle potenze occidentali. Adesso, ad esempio, c’è la Francia che si è impegnata in Mali. Vorrei chiedere: qual è lo scopo reale del coinvolgimento militare, adesso, della Francia? È ancora una ri-colonizzazione? … Quando vedo interventi di altri Paesi europei, quando si decide – ad esempio – che non si daranno più aiuti finanziari a questo Paese, non si concederà più questo o quell’intervento, io mi domando: è proprio per fare fronte a quella crisi, oppure per creare una situazione molto più difficile, di dipendenza sempre maggiore dall’Europa?”

Charles Palmer-Buckle, arcivescovo di Accra, capitale del Ghana

http://vaticaninsider.lastampa.it/nel-mondo/dettaglio-articolo/articolo/mali-mali-mali-21477/

“L’intervento francese sa molto di un’ennesima ingerenza di tipo neo-colonialista. Personalmente non lo vedo molto di buon occhio. E penso che non riusciranno a sconfiggere i terroristi.  Forse, però, anche noi, come Chiesa del Mali, avremmo dovuto fare molto di più in questi anni per mettere in guardia le autorità, far pressione sulle forze più moderate, denunciare le violazioni dei diritti umani e i molti traffici di cui tutti sapevano, ma pochi parlavano”.

padre Alberto Rovelli, per vent’anni missionario dei Padri Bianchi in Mali

http://vaticaninsider.lastampa.it/nel-mondo/dettaglio-articolo/articolo/mali-mali-mali-21477/

“Quando si entra in un conflitto, si accendono dei fuochi che poi non si possono spegnere. E se la cura fosse peggiore del male? Il Burkina Faso e l’Algeria sono particolarmente restii all’idea di un intervento militare e sono due paesi estremamente importanti in quell’area. Senza un loro coinvolgimento le difficoltà si moltiplicheranno. Non sarà un intervento militare a risolvere la questione dell’unità del Mali, soprattutto quando si vede che il Mali è uno stato al collasso. Prendere il controllo del Nord senza che vi sia alcun fattore di disciplinamento equivale a fondare l’intera impresa sul vuoto”.

Rony Brauman, già presidente di Medici Senza Frontiere – Francia, attuale direttore di ricerca presso la Fondazione Medici Senza Frontiere

http://www.journaldumali.com/article.php?aid=5513

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In Mali per ragioni umanitarie

“È la Françafrique, termine divenuto peggiorativo per la penna di François-Xavier Verschave, che la denunciò nel 1998 come organizzazione criminale segreta incistata nelle alte sfere della politica e dell’economia transalpina. Basata sulla corruzione, sui rapporti personali con questo o quel dittatore/padrone (franco)africano, sugli interessi dei “campioni nazionali” dell’industria transalpina, specie nel settore energetico e minerario. Una macchina da soldi, infatti ribattezzata France-à-fric da giornalisti malevoli.

Sarkozy prima e Hollande poi hanno preso le distanze dalla Françafrique, ma chiunque voglia vederle ne trova ancora forti tracce nei territori africani già inglobati nell’impero tricolore. Vi restano anzitutto i privilegi della grande industria, che incarna interessi strategici irrinunciabili (per esempio, lo sfruttamento dell’uranio nigerino da parte di Areva, vitale per la produzione energetica nazionale).

Parigi non rinuncia al ruolo di gendarme nella “sua” Africa – anche oltre, come dimostra il caso libico. Nel Continente nero restano schierati in permanenza circa 7.500 soldati francesi. Nel solo teatro maliano, il ministero della Difesa prevede di impegnarne a breve 2.500, e forse non basteranno per evitare l’insabbiamento della missione antiterrorismo. Certo, l’epoca dell’“unilateralismo” è passata, oggi Parigi cerca (e talvolta non trova) il sostegno degli alleati occidentali e dei paesi africani più vicini alle zone di crisi.

Più che una scelta, il “multilateralismo” – ossia l’impiego di risorse altrui per fini propri, o almeno il tentativo di farlo – è una necessità. Alla fine, quel che conta è proteggere il rango dell’Esagono nel mondo, la grandezza della Francia. Anche per questo, nelle carte mentali dei decisori francesi la memoria dell’ex (?) impero campeggia vivissima”.

Lucio Caracciolo

http://temi.repubblica.it/limes/quel-che-resta-del-colonialismo/41614

**********

“Mali, la guerra per l’uranio. Nell’area vi sono le più importanti riserve mondiali di uranio, oltre a petrolio e gas”.

http://www.peacelink.it/conflitti/a/37528.html

“I movimenti tuareg laici e progressisti sono stati marginalizzati, in particolare a causa dell’ascesa del gruppo salafita Ansar Dine. Potente e abbondantemente armato, quest’ultimo si è alleato con il gruppo islamico di Al Qaida nel Magreb (Aqmi), presentando un rischio sempre più evidente per le attività francesi di estrazione dell’uranio nel Nord del Niger. La Francia ha sostenuto con grande costanza i governi corrotti che si sono succeduti in Mali, portando a un indebolimento dello stato. È probabilmente questo crollo che ha condotto i gruppi islamisti a incalzare e ad avanzare verso Bamako.

Similmente, la Francia ha mantenuto da 40 anni il potere in Niger, in uno stato debole e dipendente dall’antica potenza coloniale e dalla sua compagnia di estrazione dell’uranio, la Cogéma, ora Areva. Mentre i dirigenti nigerini cercano di controllare in qualche modo ciò che Areva fa, la Francia riprende il controllo con il suo intervento militare.

I recenti movimenti di gruppi islamisti non hanno fatto altro che precipitare l’intervento militare francese che era in corso di preparazione. Si tratta indubbiamente di un colpo di forza neo-coloniale, anche se le forme sono state rispettate con un opportuno appello di aiuto del Presidente ad interim del Mali, la cui legittimità è nulla visto che lui è in funzione in seguito al colpo di stato che ha avuto luogo il 22 marzo 2012″.

http://www.peacelink.it/conflitti/a/37532.html

“Per il momento, non vogliono testimoni nè giornalisti pullulando nella zona del conflitto. Non vi chiedete per caso perchè non avete ancora visto nessuna immagine di quello che sta succedendo sul terreno? Dove sono le vittime? I feriti? Gli edifici bombardati? Le truppe in combattimento?

Le ragioni possono essere molteplici e sicuramente si può pensare che si stia cercando di evitare che si producano nuovi sequestri o di garantire la nostra sicurezza. Ma il risultato è solo uno: si sta occultando la possibilità di informare, e pertanto, si sta attaccando la libertà di stampa, e la verità. Ricordo una frase che ho imparato all’università (credo che non sia stato al bar, ma non ne sono sicuro), e diceva che “nelle guerre la prima vittima è la verità”. E in questa, come in altre, si corre lo stesso rischio se non arrivano presto i giornalisti al fronte.

E se il problema è la nostra sicurezza, solo aggiungo che ognuno dei giornalisti presenti in Mali è cosciente dei pericoli che può o che vuole assumere, e ognuno arriverà fino a dove gli sembri ragionevole nel suo desiderio di informare nella maniera più veridica e adeguata. Quello che voglio dire è che siamo persone adulte. Quello che voglio dire è che non mi piace che mi si limiti nel mio dovere di informare. E che i miei rischi sono miei, e solo miei. Non so come voi la vedete”.

http://www.peacelink.it/conflitti/a/37538.html

La Guerra al Terrore arriva in Mali – l’intervento anglo-franco-americano

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“Ciò che ci ha veramente colpito è quanto avanzato sia il loro equipaggiamento e il modo in cui sono stati addestrati ad usarlo …” ha dichiarato un funzionario francese. “All’inizio pensavamo che sarebbe stato solo un gruppo di tizi armati di pistola che circolavano coi loro pick-up, ma la realtà è che sono ben addestrati, ben attrezzati e ben armati. Si sono armati in Libia di un sacco di apparecchiature sofisticate, molto più robusto ed efficace di quanto avremmo potuto immaginare” [li avete armati, avete chiuso un occhio quando saccheggiavano gli arsenali di Gheddafi e ora ce li avete contro: chi è causa del suo mal…]

http://www.bbc.co.uk/news/world-europe-21002918

Un intervento armato internazionale è destinato ad aumentare l’entità delle violazioni dei diritti umani a cui stiamo già assistendo in questo conflitto… All’inizio del conflitto, le forze di sicurezza del Mali hanno risposto alla rivolta bombardando civili tuareg, arrestando, torturando e uccidendo la gente tuareg apparentemente solo per motivi etnici. L’intervento militare rischia di innescare nuovi conflitti etnici in un paese già lacerato da attacchi contro i Tuareg e altre persone di pelle più chiara.

http://www.amnesty.org/en/news/armed-intervention-mali-risks-worsening-crisis-2012-12-21

7 Gennaio 2013: In Libia la polizia non c’è: ci sono le milizie. Lo Stato non c’ è, ci sono le tribù, le città, i gruppi di potere, le fazioni religiose. La gente è evidentemente frustrata dalla mancanza di sicurezza, seguita alla caduta dell’ex Rais. Molti gruppi islamici, che hanno aiutato a mettere fine alla dittatura del colonnello, non vogliono sciogliersi né accettare di entrare nelle forze dell’ordine. Essi agiscono spesso come bande di fuorilegge, attaccando gruppi e persone che non ubbidiscono alla loro visione di un islam fondamentalista. Anche la morte dell’ambasciatore Usa Chris Stevens è il frutto di una situazione di caos che regna in Libia nel dopo Gheddafi. È ancora presto per delineare con esattezza il ruolo salafita nel panorama politico mediorientale, ma di certo non lo si può ignorare.

http://www.linkiesta.it/salafiti-primavera-araba-egitto#ixzz2HlPKAllp

Che la situazione in Mali fosse potenzialmente esplosiva era evidente da tempo. Come è evidente la strategia destabilizzante di Francia e Stati Uniti: Gheddafi è caduto per volontà francese, e con lui è caduto uno dei principali nemici commerciali di Parigi”. Con una Libia poco influente e filo-europea, la politica estera francese ha consolidato uno spazio coloniale che collega l’esagono al Congo, tramite gli stati amici di Ciad, Niger, Camerun e tutto il corno d’Africa francofono, Costa d’Avorio e Mali inclusi. “A questo – sottolinea il ricercatore – si uniscono gli interessi U.S.A: la penetrazione commerciale nord-americana parte dal Ghana e mira alle risorse di tutto il Sahel. Destabilizzare quest’area diventa dunque un mezzo per giustificare un intervento armato e riaffermare interessi neo-coloniali”.

Marco Massoni, studioso del Centro Alti Studi per la Difesa

http://www.unimondo.org/Notizie/Mali-una-esplosiva-crisi-nascosta-136701

Non è il caso di gridare all’usurpazione perché il Mali è di fatto uno stato fallito. Due terzi del territorio sono occupati dai ribelli e a Bamako, la capitale, c’è un precario condominio fra una giunta militare e un governo civile provvisorio insediato dall’esercito impegnati in una gara a chi è più irresponsabile e impotente. Il beau geste di Parigi diventa per ciò stesso ancora più insensato e ipocrita perché non sarà facile per nessuno ristabilire la sovranità in quel che resta del Mali. Per parte sua, il capitano Sanogo, autore del colpo di stato del marzo 2012 contro il presidente in carica e di un secondo colpo in dicembre per togliere di mezzo un capo del governo che si era rivelato indigesto, non ha nascosto di giudicare forze «neocoloniali» tutti coloro che si prodigano per «aiutare» il Mali senza distinguere apparentemente fra paesi vicini e grandi potenze.

Gian Paolo Calchi Novati, Il vizio coloniale, Il Manifesto, 13 gennaio 2013

Il ruolo che l’emiro del Qatar Hamad Bin Khalifa Al-Thani e i suoi diplomatici stanno svolgendo in Mali è al centro di indiscrezioni,  proprio mentre il paese sprofonda nell’abisso della disgregazione. Da mesi si parla di trasferimenti di denaro da parte del monarca multimiliardario ad Ansar Dine e al Movimento per l’Unicità e la Jihad nel Africa Occidentale (Mujao), i gruppi che insieme ai tuareg di Mnla controllano il triangolo Kidal-Gao-Timbuktu e destabilizzano il Sahel in affiliazione con al Qaeda nel Maghreb islamico. Una questione spinosa per Francia e Stati Uniti, da anni vicini all’emirato qatariota.

http://www.meridianionline.org/2012/12/22/ruolo-diplomatico-qatar-mali/

Il Qatar, alleato di Francia e Stati Uniti, finanzia i salafiti anti-Gheddafi in Libia ed anti-Assad in Siria, con l’entusiastica approvazione di entrambi, ma anche quelli del Mali, bombardati dai francesi dopo essere stati armati anche dai francesi in Libia (!). Fino al 2011 Gheddafi ed Assad erano eroi dell’Occidente perché contrastavano anche con la forza il fondamentalismo islamico e partecipavano alla Guerra al Terrore, oggi l’eroe è Hollande, perché fa lo stesso in Mali (ma non in Siria, dove le agenziedi stampa internazionali ci informano che siamo alleati di Al-Qaeda).

La buona, vecchia Guerra al Terrore. L’ancor più classica e rassicurante ingerenza umanitaria. E, immancabile, arriva il rafforzamento ed irrigidimento delle misure di sicurezza previste da Vigipirate (in una nazione con una fortissima percentuale di residenti di origine araba e maghrebina):
La guerra contro il terrorismo è una guerra di durata indeterminata contro un nemico sconosciuto. Ha permesso di introdurre leggi eccezionali nel diritto comune con il consenso della popolazione, sottolinea Dan van Raemdonck, vice-presidente della Federazione Internazionale per i Diritti Umani. Si è banalizzata la nozione di controllo. Le persone hanno finito per accettare di essere sorvegliate, controllate, con il pretesto che non hanno niente da nascondere. Siamo entrati nell’era del sospetto…L’ultima versione del piano, in vigore dal gennaio 2007, è fondata su un chiaro postulato: ”la minaccia terrorista dev’essere ormai considerata permanente”. Vigipirate definisce delle misure applicate da quel momento in tutte le circostanze, ”anche in assenza di segni precisi di minaccia” (Le Monde, 9 settembre 2011).
http://sois.fr/fileadmin/pdf/11_sett_2011.pdf

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L’aviazione francese ha cominciato a bombardare i talebani (e lo sono e alcuni di loro sono pure narcotrafficanti!) del Mali (e ha già perso due elicotteri ed un pilota in poche ore) mentre Hollande grida “Al-Qaeda! Al Qaeda!” (se non avesse chiamato in causa Al-Qaeda avrei anche potuto ipotizzare che potesse trattarsi di un’autentica missione umanitaria) ed interviene per puntellare un sistema di potere corrotto fino al midollo, tanto che la popolazione era favorevole ad un golpe militare contro il governo “democraticamente” eletto (dopo aver annullato un quarto dei voti, perché “scomodi”), autocratico nei fatti e che intascava gran parte degli aiuti allo sviluppo:
http://www.lrb.co.uk/v34/n16/bruce-whitehouse/what-went-wrong-in-mali

Gli inglesi hanno assicurato il loro appoggio logistico ed una brigata americana (3500 uomini) è pronta ad essere schierata in Mali (paese ricco d’oro, uranio e gas naturale).

http://www.armytimes.com/news/2012/06/army-3000-soldiers-serve-in-africa-next-year-060812/

Ci siamo di mezzo anche noi, giacché la loro sede operativa è alla Caserma Ederle di Vicenza:

http://www.disarmo.org/rete/a/36791.html

Catherine Ashton preannuncia il coinvolgimento europeo nel Mali

http://www.ilmondo.it/esteri/2013-01-10/mali-ashton-missione-addestramento-ue-necessaria-urgente_175208.shtml

per combattere quegli stessi jihadisti che, stando al rapporto del West Point Combating Terrorism Center da Bengasi sono arrivati in Afghanistan e Iraq,

http://www.scribd.com/doc/111001074/West-Point-CTC-s-Al-Qa-ida-s-Foreign-Fighters-in-Iraq

per poi tornare in Libia a combattere contro Gheddafi e in Siria contro Assad (dopo tutto sono dei mercenari):

http://uk.reuters.com/article/2012/08/14/uk-syria-crisis-rebels-idUKBRE87D06M20120814

http://edition.cnn.com/2012/07/28/world/meast/syria-libya-fighters/index.html?iid=article_sidebar

http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/africaandindianocean/libya/8919057/Leading-Libyan-Islamist-met-Free-Syrian-Army-opposition-group.html

http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/middleeast/syria/8917265/Libyas-new-rulers-offer-weapons-to-Syrian-rebels.html

http://www.albawaba.com/news/libyan-fighters-join-free-syrian-army-forces-403268

Una parte di questi mercenari fondamentalisti, terminato il servizio in Libia, si è spostata nel vicino Mali, seguendo i compagni d’arme berberi maliani, e portandosi dietro le armi saccheggiate nei depositi del regime:

http://abcnews.go.com/Blotter/al-qaeda-terror-group-benefit-libya-weapons/story?id=14923795

Per usare un eufemismo, questi guerriglieri non amano i neri. Non li amano in Libia, non li amano nel Mali:

http://www.corriere.it/esteri/11_ottobre_16/cremonesi-incendi-terrore-caccia-uomo_75667202-f7c6-11e0-8d07-8d98f96385a3.shtml

http://www.ilfoglio.it/soloqui/10804

Adesso il Nord berbero è contrapposto al Sud “nero” anche se i berberi volevano solo l’autonomia ed erano contrari al fondamentalismo:

http://www.unimondo.org/Notizie/I-tuareg-e-la-difficile-partita-dell-indipendenza-136881

Quanti dei 120 morti erano guerriglieri jihadisti e quanti erano tuareg o civili?

La cosa terminerà verosimilmente con l’ennesimo frazionamento di uno stato e nel proliferare di signori della guerra in tutta l’area (libanizzazione/balcanizzazone). Una situazione analoga si sta verificando nel Medio Oriente, dove i media occidentali caldeggiano la nascita di uno stato kurdo che però, per sorgere, dovrebbe disgregare Iran, Iraq, Siria e Turchia, gettando nel caos l’intera regione.

http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2013/jan/09/birth-kurdish-state-ottoman-syria-arab-spring?INTCMP=SRCH

Le conseguenze nell’Africa occidentale non sarebbero meno gravi: i Berberi (70-80 milioni) sono molto numerosi in Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Mali, Niger. Il re del Marocco, alleato della NATO e di Israele, ha messo le mani avanti proclamando il cabilo (lingua dei berberi occidentali) la seconda lingua ufficiale del Marocco.

L’Algeria, molto critica dell’intervento in Libia e bersaglio predestinato

http://nationalinterest.org/commentary/algeria-will-be-next-fall-5782

rischia di diventare quel che il Pachistan è diventato per l’Afghanistan: luogo di rifugio dei guerriglieri, bombardato dai droni.

Non penso che quei quasi 2 milioni di immigrati o figli di immigrati algerini che vivono in Francia la prenderanno troppo bene.

Due cose sono certe:

* gli stati sovrani hanno una certa capacità negoziale, i signori della guerra sono più facili da corrompere e svendono più facilmente le risorse delle popolazioni che controllano.

* l’anarchia nel Medio Oriente impedisce alla Russia di fare affari in quella regione (ma si veda anche il tentato accordo con i Russi per la fornitura di armi al governo maliano) mentre l’anarchia nel Nord Africa e nell’Africa occidentale rende queste due aree off-limits per gli investimenti cinesi.

La baggianata di Kony 2012 ha preparato il terreno per la loro espulsione dall’Africa Orientale:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/12/kony-2012-la-stucchevole-pornografia-umanitaria-i-bambini-pensate-ai-bambini/

Non bisogna mai dimenticare che è in corso una partita a scacchi decisiva tra NATO e Eurasia: la si gioca nel Medio Oriente, la sia gioca nell’Asia Centrale, nel Pacifico, nei Caraibi (Cuba e Venezuela) e, naturalmente, in un continente ricchissimo di risorse (oro, diamanti, petrolio, metalli e, soprattutto, terre rare) come l’Africa. La nascita del Sud Sudan (ricco di petrolio e anti-cinese) è un magnifico esempio delle dinamiche in corso.

Siamo nuovamente gettati in una Guerra Fredda e questo non sarebbe così male per i paesi più piccoli, che possono cercare di assicurarsi un trattamento migliore mettendo in concorrenza le grandi potenze. È già successo al tempo dell’Unione Sovietica e potrebbe funzionare ancora. Il problema è, però, che questa volta pare destinata a prendere fuoco, per almeno quattro ragioni (quelle che vedo io: ce ne possono essere altre che mi sfuggono):

1. Lo stallo in Siria e sul programma atomico iraniano;

2. L’aggressività di Israele ed il suo rifiuto di tollerare l’esistenza di uno stato palestinese;

3. Internet rende pressoché istantanea la circolazione di informazioni in grado di smascherare le manipolazioni e quindi ostacola le manovre clandestine degli uni e degli altri;

4. il sistema finanziario globale è tenuto in vita con ogni mezzo (a spese dei contribuenti) ma è un malato terminale, a causa della sfrenata avidità di quelle poche migliaia di oligopolisti che determinano il corso della storia umana contemporanea – dovranno far succedere qualcosa per poter passare alla fase successiva (post- dollaro e post-euro).

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Un’altra cosa certa, come detto, è che, in questo momento, Hollande si trova nella curiosa situazione di appoggiare i salafiti che combattono in Siria mentre li bombarda nel Mali.

Non è troppo diverso da Sarkozy, anche lui un volonteroso interventista in Africa, a sostegno del locale candidato del FMI (sorpresona!):

http://fanuessays.blogspot.it/2011/10/costa-davorio-unaltra-guerra.html

Hanno tempo fino a maggio. Poi iniziano i monsoni.

Thomas Sankara e il Terzo Mondo europeo (= PIIGS)

Utili spunti su come resistere alla terzomondizzazione di Irlanda, Grecia, Spagna, Italia, Portogallo, Cipro, Belgio, Francia, ecc.

Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso. Discorso all’Organizzazione per l’Unità Africana, il 27 luglio del 1987, a 3 mesi dal suo assassinio:

“Noi pensiamo che il debito si analizza prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro, sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo. Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici anzi dovremmo invece dire “assassini tecnici”. Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei “finanziatori”.

(…)

Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per 50, 60 anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per 50 anni e più. Il debito nella sua forma attuale, controllata e dominata dall’imperialismo, è una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata, in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente estranee. In modo che ognuno di noi diventi schiavo finanziario, cioè schiavo tout court, di quelli che hanno avuto l’opportunità, l’intelligenza, la furbizia, di investire da noi con l’obbligo di rimborso. Ci dicono di rimborsare il debito. Non è un problema morale. Rimborsare o non rimborsare non è un problema di onore.

(…)

Quelli che ci hanno condotti all’indebitamento hanno giocato come al casinò. Finché guadagnavano non c’era nessun dibattito; ora che perdono al gioco esigono il rimborso. E si parla di crisi. No, Signor presidente. Hanno giocato, hanno perduto, è la regola del gioco. E la vita continua. Non possiamo rimborsare il debito perché non abbiamo di che pagare. Non possiamo rimborsare il debito perché non siamo responsabili del debito. Non possiamo pagare il debito perché, al contrario, gli altri ci devono ciò che le più grandi ricchezze non potranno mai ripagare: il debito del sangue. E’ il nostro sangue che è stato versato. Si parla del Piano Marshall che ha rifatto l’Europa economica. Ma non si parla mai del Piano africano che ha permesso all’Europa di far fronte alle orde hitleriane quando la sua economia e la sua stabilità erano minacciate. Chi ha salvato l’Europa? E’ stata l’Africa. Se ne parla molto poco. Così poco che noi non possiamo essere complici di questo silenzio ingrato. Se gli altri non possono cantare le nostre lodi, noi abbiamo almeno il dovere di dire che i nostri padri furono coraggiosi e che i nostri combattenti hanno salvato l’Europa e alla fine hanno permesso al mondo di sbarazzarsi del nazismo.

Il debito è anche conseguenza degli scontri. Quando ci parlano di crisi economica, dimenticano di dirci che la crisi non è venuta all’improvviso. La crisi è sempre esistita e si aggraverà ogni volta che le masse popolari diventeranno più coscienti dei loro diritti di fronte allo sfruttatore. Oggi c’è crisi perché le masse rifiutano che le ricchezze siano concentrate nelle mani di qualche individuo. C’è crisi perché qualche individuo deposita nelle banche estere delle somme colossali che basterebbero a sviluppare l’Africa. C’è crisi perché di fronte a queste ricchezze individuali che si possono nominare, le masse popolari si rifiutano di vivere nei ghetti e nei bassi fondi. C’è crisi perché i popoli rifiutano dappertutto di essere dentro Soweto di fronte a Johannesburg. C’è quindi lotta, e l’esacerbazione di questa lotta preoccupa chi ha il potere finanziario. Ci si chiede oggi di essere complici della ricerca di un equilibrio. Equilibrio a favore di chi ha il potere finanziario. Equilibrio a scapito delle nostre masse popolari.

No! Non possiamo essere complici. No! Non possiamo accompagnare quelli che succhiano il sangue dei nostri popoli e vivono del sudore dei nostri popoli nelle loro azioni assassine. Signor presidente: sentiamo parlare di club – club di Roma, club di Parigi, club di dappertutto. Sentiamo parlare del Gruppo dei cinque, dei sette, del Gruppo dei dieci, forse del Gruppo dei cento o che so io. E’ normale che anche noi creiamo il nostro club e il nostro gruppo. Facciamo in modo che a partire da oggi anche Addis Abeba diventi la sede, il centro da cui partirà il vento nuovo del Club di Addis Abeba.

Abbiamo il dovere di creare oggi il fronte unito di Addis Abeba contro il debito. E’ solo così che potremo dire oggi che rifiutando di pagare non abbiamo intenzioni bellicose ma al contrario intenzioni fraterne. Del resto le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune. Quindi il club di Addis Abeba dovrà dire agli uni e agli altri che il debito non sarà pagato. Quando diciamo che il debito non sarà pagato non vuol dire che siamo contro la morale, la dignità, il rispetto della parola. Noi pensiamo di non avere la stessa morale degli altri. Tra il ricco e il povero non c’è la stessa morale. La Bibbia, il Corano, non possono servire nello stesso modo chi sfrutta il popolo e chi è sfruttato. C’è bisogno che ci siano due edizioni della Bibbia e due edizioni del Corano. Non possiamo accettare che ci parlino di dignità. Non possiamo accettare che ci parlino di merito per quelli che pagano e perdita di fiducia per quelli che non pagano. Noi dobbiamo dire al contrario che è normale oggi che si preferisca riconoscere che i più grandi ladri sono i più ricchi. Un povero, quando ruba, non commette che un peccatucolo per sopravvivere e per necessità. I ricchi, sono loro che rubano al fisco, alle dogane. Sono loro che sfruttano il popolo.

Signor presidente: non è quindi provocazione o spettacolo. Dico solo ciò che ognuno di noi pensa e vorrebbe. Chi non vorrebbe qui che il debito fosse semplicemente cancellato? Quelli che non lo vogliono possono subito uscire, prendere il loro aereo e andare subito alla Banca Mondiale a pagare! Lo vogliamo tutti! Non vorrei poi che si prendesse la proposta del Burkina Faso come fatta da “giovani”, senza maturità e esperienza. Non vorrei neanche che si pensasse che solo i rivoluzionari parlano in questo modo. Vorrei semplicemente che si ammettesse che è una cosa oggettiva, un obbligo. E posso citare tra quelli che dicono di non pagare il debito dei rivoluzionari e non, dei giovani e degli anziani. Per esempio Fidel Castro ha già detto di non pagare. Non ha la mia età, anche se è un rivoluzionario. Ma posso citare anche François Mitterrand che ha detto che i Paesi africani non possono pagare, i paesi poveri non possono pagare. Posso citare la signora Primo Ministro (di Norvegia). Non conosco la sua età e mi dispiacerebbe chiederglielo È solo un esempio. Vorrei anche citare il presidente Félix Houphouët Boigny. Non ha la mia età, eppure ha dichiarato pubblicamente che almeno il suo Paese, la Costa d’Avorio, non può pagare. Ma la Costa d’Avorio è tra i paesi che stanno meglio in Africa, almeno nell’Africa francofona. (E’ per questo d’altronde che è normale che paghi un contributo maggiore qui…).

Signor Presidente la mia non è quindi una provocazione. Vorrei che molto saggiamente lei ci offrisse delle soluzioni. Vorrei che la nostra conferenza adotti la necessità di dire chiaramente che noi non possiamo pagare il debito. Non in uno spirito bellicoso, bellico. Questo per evitare che ci facciamo assassinare individualmente. Se il Burkina Faso da solo rifiuta di pagare il debito, non sarò qui alla prossima conferenza!

Invece, col sostegno di tutti, di cui ho molto bisogno, potremo evitare di pagare, consacrando le nostre magre risorse al nostro sviluppo”.

Cosa spinge Netanyahu verso il baratro? (il rapporto con un padre molto particolare)

Israele NON è la Germania nazista – come qualunque persona assennata può capire da sé -, ma certe logiche che guidano le sue azioni non se ne discostano abbastanza e il rischio è che il circolo vizioso in cui si è cacciato lo porti a diventare quel che non avrebbe mai desiderato essere: un paria internazionale abbandonato da tutti ed assediato da una coalizione di interventisti umanitari (come la Germania nazista, appunto).

Intanto i sionisti continuano a scavarsi una gigantesca fossa comune e a porre le premesse per dei pogrom:

http://www.ilgiornale.it/news/figlio-sharon-bisogna-radere-suolo-gaza-857323.html

http://tv.ilfattoquotidiano.it/2012/11/18/video-choc-dopo-scontri-di-roma-aggrediti-attivisti-del-teatro-valle-nel-ghetto/211409/

Ahmed Al-Jabari è stato assassinato dagli attacchi Israeliani a Gaza. Uno dei leader di Hamas, Al-Jabari era responsabile del rapimento del soldato israeliano Shalit, ma ha avuto il merito di tenerlo in vita (altri lo volevano morto) e di restituirlo in buone condizioni. Inoltre era uno dei massimi promotori di un accordo che potesse portare alla cessazione del lancio di razzi da Gaza su Israele. Era diventato un uomo di pace ed è stato ucciso.

http://www.nytimes.com/2012/11/17/opinion/israels-shortsighted-assassination.html?smid=re-share&_r=1&

Una per me convincente analisi del suo ruolo e delle negoziazioni che erano (sono?) in corso (dietro le quinte) per arrivare ad una pace mediorientale:
http://www.laboratoriolapsus.it/contributi/gaza-trattativa/

Tutto indica che Netanyahu non sia minimamente interessato alla pace ma solo a procedere con la soluzione finale del problema palestinese: la pulizia etnica. L’attacco a Gaza è servito ad Israele per testare il suo sistema di difesa antimissile e misurare le reazioni occidentali, arabe ed israeliane, credo in vista di operazioni su più vasta scala, in Libano/Siria e contro l’Iran.

In questa partita a scacchi con l’Egitto, Netanyahu ha dimostrato che, se mai lo è stato, non è più un leader in grado di prendere decisioni razionali e sensate. La sua strategia non tiene conto del fatto che:

* i carri armati e gli aeroporti militari israeliani sono estremamente vulnerabili alle armi in dotazione ad Hamas ed Hezbollah (vedi sconfitta in Libano): http://www.paginedidifesa.it/2006/baschiera_060823.html

* c’è stata la primavera araba e il mondo arabo non assisterà passivamente a carneficine di civili arabi: l’escalation è certa;

Cosa farà Netanyahu quando si accorgerà che i suoi sforzi producono una miriade di effetti boomerang? Userà ordigni nucleari che contamineranno gran parte di Israele?

Chi fermerà questo folle? Solo la caduta del suo governo o la minaccia di Obama di tagliare gli aiuti economici americani ad Israele. Il cessate il fuoco è una vittoria per Morsi (che, in breve tempo, grazie al completo sostegno di Obama, si è affermato ormai come un leader mondiale e uomo di pace e stabilizzazione del Medio Oriente) e per Hamas, ma non è una sconfitta sufficiente a far cadere Netanyahu. In cambio, l’avvicinamento tra Stati Uniti ed Egitto e le aperture di Obama all’Iran aumenteranno il risentimento del governo israeliano e potrebbero spingerlo a commettere altri errori ancora più gravi.

Ma, più di tutto, perché Netanyahu si comporta così?

Karl Vick, “Received Wisdom? How the Ideology of Netanyahu’s Late Father Influenced the Son”, Time, 2 maggio 2012

D. quanto pensa di aver influenzato il suo punto di vista?

R. [Benzion Netanyahu] mi sono fatto l’idea che Bibi possa avere i miei stessi obiettivi ma che tenga per sé le modalità con cui intende raggiungerli, perché se li rendesse pubblici, espliciterebbe anche gli obiettivi.

D. è quel che lei vuole credere?

R. No, penso solo che le cose possano stare così, perché è uno sveglio, perché è molto accorto, perché ha un suo modo di porsi. Sto parlando di tattiche riguardanti teorie che la gente che segue ideologie differenti potrebbe non accettare. È per quello che non le divulga: per via delle reazioni dei suoi nemici e di quelle persone di cui cerca l’appoggio. È una congettura, ma potrebbe essere vero.

Benzion Netanyahu, nel prosieguo dell’intervista dichiara:

* “nella Bibbia non si trova una figura peggiore del beduino. E perché? Perché non ha alcun rispetto per la legge. Perché nel deserto può fare quel che gli pare”;

* “la tendenza al conflitto è intrinseca all’arabo. È un nemico nella sua essenza. La sua personalità non gli permetterà mai di raggiungere un compromesso o un accordo. Poco importa che genere di resistenza incontrerà, che prezzo dovrà pagare. La sua esistenza sarà quella di una guerra perpetua”;

* “la soluzione dei due stati non esiste. Non ci sono due popoli. C’è un popolo ebraico ed una popolazione araba…non c’è alcun popolo palestinese, perciò uno non crea uno stato per una nazione immaginaria…si definiscono popolo solo per poter combattere gli ebrei”;

* “l’unica soluzione è la forza. Una forte autorità militare. Ogni sommossa arrecherà agli arabi enormi patimenti. Non si deve aspettare che cominci un grande ammutinamento, bisogna invece agire immediatamente, con grande forza, per impedire che continuino”;

* “penso che dovremmo parlare agli arabi israeliani nell’unica lingua che capiscono ed ammirano, quella della forza. Se agiamo con forza contro ogni crimine che commettono, capiranno che non mostriamo alcuna clemenza. Se avessimo usato questa lingua fin dall’inizio sarebbero stati più attenti”;

* [sull’uso ottomano delle forche] Gli arabi furono così maltrattati da non rivoltarsi. Naturalmente non è che sto raccomandando impiccagioni dimostrative come facevano i turchi, voglio solo mostrare che l’unica cosa che possa smuovere gli arabi dalla loro posizione di rigetto è la forza”;

http://world.time.com/2012/05/02/received-wisdom-how-the-ideology-of-netanyahus-late-father-influenced-the-son/

Solo 22 nazioni non sono mai state invase dagli inglesi nella storia

Queste sono le uniche nazioni che non siano mai state invase dagli inglesi nel corso della loro storia:

Andorra

Bielorussia

Bolivia

Burundi

Repubblica Centrafricana

Ciad

Repubblica del Congo

Guatemala

Costa d’Avorio

Kirghizistan

Liechtenstein

Lussemburgo

Mali

Isole Marshall

Monaco

Mongolia

Paraguay

Sao Tome & Principe

Svezia

Tajikistan

Uzbekistan

Città del Vaticano

http://www.telegraph.co.uk/history/9653497/British-have-invaded-nine-out-of-ten-countries-so-look-out-Luxembourg.html

Più facile capire l’articolo di Dan Hind (Al Jazeera):
Un giorno forse la storia descriverà un terzo impero britannico, organizzato intorno alle infrastrutture finanziarie offshore britanniche e alle sue notevoli risorse diplomatiche, di intelligence e di comunicazione. Dopo aver abbandonato la forma dell’impero, gli inglesi hanno cercato di recuperarne la sostanza.
https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/31/il-terzo-impero-britannico-il-braccio-e-a-washington-la-mente-a-londra/

Le prossime mosse suicide di Israele (e il Trentino collabora entusiasticamente)

 

Sottoscrivo interamente l’analisi di un lettore del Guardian straordinariamente lucido e conciso che ha commentato questo ragionevole articolo che difendeva la soluzione della creazione di uno stato palestinese:

http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2012/nov/02/israel-palestine-two-state-solution

“Il vero pericolo è che Israele operi un’ancora più massiccia pulizia etnica dei Palestinesi:

1. gli insediamenti israeliani (ora circa 750mila coloni che si sono spartiti la Cisgiordania e si sono appropriati del 90% dell’acqua) rendono impossibile la soluzione dello stato palestinese – ed era questo il piano fin dall’inizio;

2. Israele non accetterà mai uno stato bi-nazionale perché questo richiederebbe uno status paritario per ebrei e palestinesi e la fine del sionismo;

3. Israele non la farà franca in caso di annessione dell’area C (62% della Cisgiordania), benché sia questo il suo desiderio, se ciò lascerà 2 milioni e mezzo di palestinesi intrappolati e circondati nei bantustan dell’area A (32% della Cisgiordania): l’opposizione dell’opinione pubblica internazionale ad un singolo stato binazionale che occupi l’intera palestina sarà troppo forte;

4. Temo che Israele proverà a risolvere 1, 2 e 3 espellendo la maggior parte dei Palestinesi dalla Cisgiordania nei seguenti modi: a) riducendo ulteriormente le disponibilità idriche; b) demolendo ulteriormente la già moribonda economia palestinese; c) persuadendo i donatori occidentali ad interrompere i loro finanziamenti o ostruendo il flusso; d) dando il via ad un’altra guerra (con l’Iran?) per schermare una pulizia etnica più diretta.

Con una popolazione palestinese significativamente ridotta, Israele potrebbe annettersi l’intera Cisgiordania e, se necessario, concedere ai Palestinesi rimasti un po’ di diritti civili conservando un dominio sionista inattaccabile”.

Penso sia esattamente quel che accadrà.

Già nel 2003 Netanyahu, l’attuale primo ministro israeliano, dichiarava che se gli Arabi fossero arrivati a costituire il 40% della popolazione di Israele sarebbe stata la fine dello stato giudeo: “Ma anche il 20% è un problema e se le relazioni con questo 20% diventano problematiche, lo stato è autorizzato a prendere misure drastiche” (ct. Pappe, 2010). Ruth Gabisonp, docente all’Università Ebraica di Gerusalemme, non ha esitato ad affermare che “Israele ha il diritto di controllare la crescita naturale della popolazione palestinese” (ibidem). La sindrome dell’assedio che ha colonizzato la psiche israeliana si è cristallizzata nell’esigenza di difendere una fortezza bianca circondata da popoli non-bianchi, avamposto europeo-occidentale-giudeocristiano; come durante le Crociate, come in Sudafrica. Così vari sondaggi documentano l’approvazione con la quale una maggioranza di Israeliani vedrebbe la deportazione in massa dei palestinesi (ma un 51% pensa che Arabi israeliani e Ebrei israeliani dovrebbero avere gli stessi diritti – Haaretz, 30 novembre 2010).

Queste non sono indicazioni di forza, ma di debolezza, di insicurezza, di paura, di una irrisolta condizione psicologica per cui la nazione e l’identità sono sempre sull’orlo del collasso, il che accentua nervosismo e ferocia. I ladri tendono a sospettare che tutti gli altri siano ladri. I bugiardi sospettano che gli altri mentano. I guerrafondai sospettano che gli altri preparino una guerra contro di loro. I razzisti e nazionalisti temono sempre di essere minacciati di distruzione dalle altre razze e nazioni. Si chiama proiezione e colpisce gli israeliani, come colpisce gli europei, gli americani e tutti gli esseri umani. Purtroppo la paranoia e l’aggressività non servono ad assicurare un futuro migliore alle nuove generazioni. È semmai vero il contrario.

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/04/10/lantisemitismo-lanti-sionismo-e-la-mentalita-apocalittica/

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/08/28/il-decisore-israeliano-che-spiega-le-ragioni-dellattacco-alliran/

Finirà malissimo (per Israele, la Palestina, l’Iran e molti altri milioni di esseri umani):

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/06/02/israele-la-destabilizzazione-del-medio-oriente-ed-il-neonazismo/

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/24/e-se-liran-avesse-gia-latomica-osservazioni-sconvenienti-sullarmageddon-che-verra/

http://fanuessays.blogspot.it/2012/01/auschwitz-in-israele-il-secondo.html

http://fanuessays.blogspot.it/2012/01/golia-usraele-nella-trappola-chi-ce.html

davvero malissimo:

http://fanuessays.blogspot.it/2011/10/verso-un-secondo-olocausto.html

IN TRENTINO IL BUSINESS È BUSINESS

“Nuova, significativa tappa nei rapporti tra Trentino e Israele. A pochi giorni di distanza dalla conferenza di Gerusalemme sui temi della ricerca e dell’alta formazione, nell’ambito del vertice bilaterale Italia – Israele, alla quale ha preso parte anche il presidente della Provincia autonoma di Trento, Lorenzo Dellai, è infatti in programma, lunedì prossimo, 5 novembre, il “Trento – Israele day”, una intera giornata di incontri istituzionali e di business organizzati dalla Provincia autonoma di Trento e dall’Ambasciata d’Israele in Italia in collaborazione con Trentino Sviluppo, Fondazione Bruno Kessler, Trento Rise.

A sottolineare la valenza dell’incontro la presenza, alla guida della delegazione istituzionale israeliana, di Naor Gilon, ambasciatore d’Israele in Italia. Ad aprire la giornata la tavola rotonda su “Le relazioni scientifiche e tecnologiche tra Italia ed Israele ed il ruolo del Trentino”. Interverranno: Naor Gilon, ambasciatore d’Israele in Italia; Lorenzo Dellai, presidente della Provincia autonoma di Trento; Aviv Zeevi Balasiano, Israel Europe R&D Directorate, Director ICT-Security; Francesco Salamini, presidente Fondazione Edmund Mach; Carla Locatelli, Pro Rettore con delega ai rapporti internazionali, Università degli studi di Trento; Andrea Simoni, segretario generale, Fondazione Bruno Kessler; Fausto Giunchiglia, presidente Trento Rise.

Un nuovo incontro, dunque, che fa seguito a quello in terra d’Israele quando, alla conferenza su ricerca e alta formazione – con gli interventi dei ministri Francesco Profumo e Giulio Terzi di Sant’Agata e con un confronto tra il premier Mario Monti e il Governatore della Banca di Israele, Stanley Fisherproprio il ministro Terzi ha voluto ringraziare Dellai per quello che il Trentino sta facendo in questo campo. Un riconoscimento al ruolo svolto nel favorire la crescita della cooperazione fra i due Paesi e che ha portato anche alla sottoscrizione di un accordo il quale consentirà, nei prossimi giorni, di attivare il primo bando congiunto per la ricerca applicata rivolto a imprese trentine e israeliane.

È con questo spirito che il “Trento – Israele day” proporrà, dopo la tavola rotonda, una serie di appuntamenti. La delegazione istituzionale – oltre all’ambasciatore Naor Gilon sarà composta da Jonathan Hadar, Consigliere per gli Affari Commerciali dell’Ambasciata d’Israele in Italia; Aviv Zeevi Balasiano, Israel Europe R&D Directorate, Director ICT-Security, MATIMOP; Giovanna Bossi, Trade Officer, Ambasciata d’Israele in Italia; Vanessa Zerilli, Business Development Officer, Ambasciata d’Israele in Italia – si trasferirà infatti presso la Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige. Nel pomeriggio tappa alla Fondazione Bruno Kessler e incontro con le imprese impegnate nei B2B e visita ad alcuni laboratori e alle strutture della Fondazione Bruno Kessler e del Consorzio Trento Rise”.

http://www.uffstampa.provincia.tn.it/CSW/c_stampa.nsf/416AD28B715DF727C12574BE0028F2B0/C29472D49389710BC1257AAA004938CF

La perniciosa influenza planetaria delle fondazioni e think tank degli Stati Uniti

 

Le fondazioni…esercitano un’influenza corrosiva sulla società democratica; rappresentano concentrazioni di potere e ricchezza relativamente incontrollate e che non devono rispondere delle proprie azioni, che comprano i talenti, promuovono cause e, di fatto, determinano che cosa meriti l’attenzione della società…un sistema che…ha operato a svantaggio degli interessi delle minoranze, dei lavoratori e dei popoli del Terzo Mondo

Robert F. Arnove, “Philanthropy and Cultural Imperialism. The Foundations at Home and Abroad”.

Un enorme potere, senza paragoni è concentrato nelle mani di un gruppo di persone, perfettamente coordinato e con la tendenza a perpetuare se stesso. Diversamente dal potere nelle aziende, non è controllato dagli azionisti; diversamente dal potere del governo, non è sottoposto al controllo popolare; diversamente dal potere nelle chiese, non è controllato da alcun canone consolidato di valori.

Conclusioni di un’indagine conoscitiva sulle fondazioni statunitensi effettuata da un comitato del Congresso americano nel 1952

Non ci si dovrebbe aspettare che ingenti patrimoni privati siano donati in maniera tale da innescare nella società redistribuzioni delle ricchezze e trasformazioni politiche.

Ruth Crocker, in“Charity, Philanthropy, and Civility in American History”

Il miglior programma in assoluto di educazione alla democrazia si chiama “Esercito degli Stati Uniti”

Michael Ledeen, American Enterprise Institute for Public Policy Research (AEI), collaboratore di Matteo Renzi

 

I think tank, pensatoi che dovrebbero partorire soluzioni per i grandi problemi di una comunità, sono armi a doppio taglio, perché danno alla luce idee e simboli, che sono il cibo della mente umana, ma anche la sua droga ed il suo veleno. Come le api sono nate per fare il miele ed i castori per costruire dighe, gli esseri umani sono nati per trasmutare simbolicamente tutto ciò che li circonda. Sono fatti per attingere al sublime, ma anche per cadere nella trappola dei miti politicizzati (Fait/Fattor 2010).

La ragion d’essere delle principali fondazioni e think tank (pensatoi, gruppi di riflessione ed approfondimento, reti di esperti) è quella di migliorare il mondo in accordo con le preferenze di chi le crea e le finanzia, ossia, in genere, dei magnati o dei politici, cioè a dire di persone che esercitano già una considerevole influenza sulla società, ma intendono esercitarne ancora di più. Queste organizzazioni, in termini pratici, servono a giustificare la permanenza di rapporti di poteri vantaggiosi per chi è già economicamente e politicamente egemone, pensando al posto nostro. Dato il loro profilo così prominente nella contemporaneità, sono stati oggetto di innumerevoli studi sociologici. Usando un gioco di parole, possiamo dire che il think tank è un carro armato (tank, in inglese) nella guerra delle idee che mira al controllo delle menti di 7 miliardi di persone.
Stephen Boucher e Martine Royo (2006) definiscono i “think tank” degli organismi permanenti non pubblici che hanno l’incarico di formulare soluzioni su scala nazionale o internazionale che possano essere tradotte in politiche pubbliche. Quasi tutte le fondazioni si sono dotate di uno o più think tank, perciò è pressoché inutile cercare di separarli. La loro missione li rende inscindibili. La fondazione si occupa della parte strategica, il think tank di quella tattica. Alcune fondazioni esistono da oltre un secolo, come ad esempio il trittico Ford, Rockefeller e Carnegie, dai nomi dei magnati che hanno fatto la storia dell’economia e dell’industria americana moderna. Un altro gigante si è aggiunto di recente, la Gates Foundation di Bill Gates, il fondatore di Microsoft, e di sua moglie. In Germania, la Friedrich Ebert Stiftung è vicina ai socialdemocratici, la Konrad Adenauer Stiftung è nella sfera democristiana.

Anche se ufficialmente i loro think tank dovrebbero produrre ricerca seria e rigorosa, non conosco nessuno studio accademico (ossia non promosso da un qualche think tank e quindi apologetico) che non li consideri delle vere e proprie macchine ideologiche al servizio di un qualche specifico interesse e/o ideologia. Boucher e Royo parlano di “pensiero mercenario”, un eufemismo per quello che altri chiamerebbero, meno sottilmente, “prostituzione intellettuale”.

Con questo non si vuol dire che tutti i think tank e tutte le fondazioni siano da mettere sullo stesso piano e demonizzare. Ma è indubbio che all’intensificarsi dei legami con la politica ed il capitale l’indipendenza di giudizio e l’integrità morale dei componenti di un think tank subiscono un inevitabile processo involutivo e la loro attività finisce per rassomigliare sempre più al marketing ed al lobbismo, con un impatto mediatico rapido e massiccio nel mercato delle idee (Boucher/Royo, ibidem). Gli intellettuali e gli stessi scienziati sono degli esseri umani come gli altri, né peggiori né migliori degli altri, anche se loro, non-ufficialmente, sono inclini a ritenersi migliori ed esenti da certe influenze corruttrici. Non citerò la cospicua produzione di studi sociologici che smentiscono le loro più intime convinzioni. Per questo sarebbe meglio che le politiche pubbliche fossero formulate da commissioni pubbliche temporanee, allo stesso modo in cui si sottopongono periodicamente al voto i rappresentanti parlamentari che poi le vaglieranno. A meno che non si creda, con Mandeville, che i vizi privati sono alla base delle virtù pubbliche, uno slogan screditato da millenni di storia umana ma che piace molto ai neoliberisti.

L’influenza dei think tank è poderosa in una molteplicità di settori: dall’ecologismo alla bioetica ed alle biotecnologie, dagli studi sulla pace alla geopolitica, dalle risorse energetiche alle politiche socio-economiche, carcerarie e monetarie, dalla Guerra al Terrore alla globalizzazione, all’arte ed alla cultura, al razzismo, al federalismo ed alla tutela delle minoranze etno-linguistiche.

Gli esempi della loro egemonia culturale non si contano, ma due sono forse i più eclatanti. Il primo è quello delle politiche di sterilizzazione involontaria di decine di migliaia di donne nel mondo occidentale e di milioni di donne nel Terzo Mondo a fini eugenetici prima e di controllo della popolazione non-bianca (ad esempio i quechua ed aymara del Perù) poi (Connelly, 2008). L’altro è il “Progetto per un nuovo secolo americano”, una strategia neoconservatrice imperialista statunitense che risale alla fine degli anni Novanta e che ha condotto all’invasione dell’Iraq nel 2003. È notorio perché al centro delle teorie del complotto riguardo all’11 settembre 2001, in quanto un suo rapporto del settembre del 2000, intitolato “Rebuilding America’s Defenses: Strategies, Forces, and Resources for a New Century” (“Ricostruire le difese dell’America: strategie, forze e risorse per un nuovo secolo”), auspicava il verificarsi di un evento del tipo Pearl Harbor che autorizzasse gli Stati Uniti a prendere il controllo dell’Asia Centrale, considerata la chiave per mantenere in una posizione subalterna Russia, India e Cina e quindi per conservare lo status di unica superpotenza egemone. Altri casi degni di menzione sono l’amministrazione Reagan, che selezionò lo staff presidenziale (150 specialisti!) nel vivaio della Hoover Institution, della Heritage Foundation e dell’American Enterprise Institute, tutte fondazioni ultraconservatrici, con relativi think tank.

Tra gli studiosi che hanno approfondito il ruolo delle fondazioni e dei think tank nella formazione della percezione della realtà da parte dei cittadini delle democrazie occidentali figura anche il celebre Pierre Bourdieu, che anche dopo la morte, avvenuta nel 2002, resta il più influente sociologo francese. Nel 1998, assieme al collega francese (docente a Berkeley) Loïc Wacquant, riconosciuto specialista nel campo del razzismo e dei sistemi carcerari, pubblicò un saggio dagli effetti dirompenti, intitolato “Sulle astuzie della ragione imperialista” (“Sur les ruses de la raison impérialiste”), in cui si argomentava la tesi che le grandi fondazioni americane che si occupano di razzismo, in particolare la Rockefeller e la Ford, cerchino deliberatamente di incoraggiare i leader delle minoranze etno-razziali al di fuori degli Stati Uniti ad adottare le stesse tecniche di autoaffermazione identitaria, oggettivamente fallimentari, impiegate negli Stati Uniti. Tecniche, per intendersi, che sono state ripudiate dallo stesso Martin Luther King, un uomo dall’enorme perspicacia ed onestà, e che non sono mai state prese in seria considerazione da Aung San Suu Kyi o da qualunque attivista che rivendichi i diritti umani e civili per tutti e non solo per una fazione.

Bourdieu e Wacquant sono finiti al centro di una vigorosa polemica non tanto per aver denunciato il carattere fallimentare dell’identitarismo particolaristico e settario, ma per aver affermato che la contrapposizione tra neri e bianchi, che volutamente cancella l’esistenza dei meticci/mulatti, fa parte di una strategia globale neocolonialista all’insegna del divide et impera che, insistendo sulla componente somatica (il colore della pelle), conduce ad una guerra tra poveri che avvantaggia chi teme che le classi subordinate possano creare una piattaforma di rivendicazioni comuni che metta in difficoltà lo status quo. Le loro conclusioni sono in linea con quanto si apprende dalle ricerche di Anthony W. Marx (nessuna relazione con il più celebre Karl) su Stati Uniti, Sudafrica e Brasile, Livio Sansone sul Brasile (2002, 2003), Mark Clapson sul Regno Unito (2006), Donald E. Abelson (1996), Yves Dezalay & Brian G. Garth (2002), Noliwe Rooks (2006), Inderjeet Parmar (2012) e Thomas Medvetz (2012) sugli Stati Uniti e le loro relazioni interrazziali ed internazionali, Rafael Loayza Bueno ed Ajoy Datta sulla Bolivia (2011).

A dire il vero, Bourdieu e Wacquant non sono stati dei pionieri. Già negli anni Quaranta il giornalista e storico statunitense Joel A. Rogers lamentava il fatto che gli attivisti neri per i diritti civili fossero usati dai filantropi delle maggiori fondazioni per diffondere un’immagine omogenea, omologata, monolitica e caricaturale dei neri che sarebbe servita a “tenerli al loro posto” e a “mettere in cattiva luce quei pochi neri in grado di ragionare con la propria testa” (cit. in Plummer, 1996, p. 228). Uno dei più ammirati sociologi americani, C. Wright Mills, aveva gettato le basi per un’analisi scientifica di questo fenomeno già a cavallo degli Cinquanta e Sessanta, ma scomparve prematuramente prima di riuscire a portare al termine il suo ambiziosissimo progetto sociologico di studio delle élite e delle loro strategie. Solo negli anni Ottanta, grazie ad Edward Berman ed al suo magnifico e scrupoloso saggio (“The Ideology of Philanthropy”) e, più recentemente, Sally Covington (1998), Frances Stonor Saunders (1999, ed. it. 2004) e Joan Roelofs (2003) sono riusciti a mettere in luce i legami tra le fondazioni filantropiche, le militanze identitarie, gli architetti della politica estera americana e la CIA. Centinaia di milioni di dollari investiti in una guerra di idee e per il controllo dei media, di interi dipartimenti universitari e della lealtà di membri del Congresso (Saunders, op. cit., p. 122):

L’uso delle fondazioni filantropiche si rivelò il modo più efficace per far pervenire consistenti somme di denaro ai progetti della CIA, senza mettere in allarme i destinatari sulla loro origine…Nel 1976, una commissione d’inchiesta nominata per indagare le attività dell’intelligence statunitense riportò i seguenti dati relativi alla penetrazione della CIA nella fondazioni: durante il periodo 1963-1966, delle 700 donazioni superiori ai 10.000 dollari erogate da 164 fondazioni, almeno 108 furono totalmente o parzialmente fondi della CIA. Ancor più rilevante è che finanziamenti della CIA fossero presenti in quasi metà delle elargizioni, fatte da queste 164 fondazioni durante lo stesso periodo nel campo delle attività internazionali durante lo stesso periodo.

Sempre negli anni Ottanta, Robert Arnove, oggi professore emerito all’Università dell’Indiana, allora un insider con accesso ad informazioni riservate, curò la pubblicazione di un volume collettaneo (“Philantropy and cultural imperialism: the foundations at home and abroad”, 1980) in cui puntava il dito contro le fondazioni Ford, Rockefeller e Carnegie e la loro “corrosiva influenza sulla società democratica”, resa possibile da una concentrazione di potere e capitali non adeguatamente regolamentata, in grado letteralmente di comprare la lealtà degli esperti e di promuovere certe cause secondo certe modalità in modo tale da indirizzare l’attenzione dell’opinione pubblica in certe direzioni piuttosto che in altre. Lo stesso Arnove, in seguito, assieme alla collega sociologa Nadine Pinede (“Revisiting the Big Three Foundations”, 2003), ha potuto confermare la validità dei precedenti giudizi sulle politiche di deradicalizzazione (leggi: castrazione e frammentazione) del movimento per i diritti civili attuate dalle suddette fondazioni in nome dell’ideologia dell’identitarismo culturale che sottrasse al più vasto movimento le importanti energie di una larga porzione di attivisti afro-americani, non più disposti a condividere la lotta con esponenti di altre culture ed etnie (si veda anche Roelofs 2003).

Il povero Martin Luther King non poté sfuggire a questo gorgo e ne finì risucchiato, lui che contrastava ogni tentativo di spezzare il movimento dei diritti civili in fazioni concorrenti. Nel febbraio del 1967 prese la decisione di opporsi alla politica americana in Vietnam, pur sapendo che così facendo avrebbe causato l’interruzione del flusso di erogazioni da parte di varie fondazioni e in particolare della Ford Foundation. Aveva ben chiaro in mente che, com’era più che logico, le politiche di finanziamento delle maggiori fondazioni favorivano le valvole di sfogo, ossia quelle organizzazioni che davano voce alla protesta ma senza mai mettere in discussione l’establishment nel suo complesso (Walker, 1983).

Molte persone fanno fatica ad immaginare che delle fondazioni possano realmente cambiare il corso della storia di un’intera nazione. Ma si considerino le somme a loro disposizione. Nel 2011 il valore del patrimonio complessivo delle fondazioni americane ammontava a quasi 622 miliardi di dollari. Se fossero una nazione, sarebbero al ventesimo posto nella classifica del PIL, poco dietro la Svizzera. Nel 2010 decine di migliaia di fondazioni filantropiche hanno distribuito finanziamenti per un valore totale che eccede i 46 miliardi di dollari (valore raddoppiato rispetto al 1999). Ciò significa che, in questi anni, solo negli Stati Uniti, le fondazioni movimentano l’equivalente di una manovra finanziaria italiana importante o del PIL della Tunisia o dell’Uruguay. Nel 2000 il solo “Programma per la pace e la giustizia sociale” della Ford Foundation ha devoluto 26 milioni di dollari per i “diritti delle minoranze e la giustizia razziale”, su un totale di 80 milioni di dollari di finanziamenti a livello globale. La Bill e Melinda Gates Foundation distribuisce annualmente almeno 3 miliardi di dollari ad organizzazioni ed individui che ritiene meritevoli e dispone di un patrimonio del valore di oltre 33 miliardi di dollari (poco meno del PIL del Kenya, più di quello della Lettonia). Era a 37 miliardi nel 2010. Ford Foundation, Paul Getty Trust, Robert Wood Johnson Foundation dispongono tutte di circa 10 miliardi di dollari di beni: in termini di PIL, si collocherebbero davanti all’Armenia. In termini pratici, non devono rispondere del loro operato né ai mercati, né alla stampa, né tantomeno all’elettorato.

Con queste cifre e questo potere in ballo, non è sorprendente che i saggi dedicati a questo argomento così cruciale siano, globalmente, poche decine e tutti o quasi tutti ad opera di accademici non dipendenti da sovvenzioni private. Non sono molti i giovani ricercatori disposti a sputare nel piatto in cui sperano di mangiare e ancor meno quelli, più maturi, pronti a farlo in quello in cui stanno già mangiando. La falsa coscienza fa il resto: si razionalizza il proprio comportamento e quello di chi ci sovvenziona e ci si convince che l’utile giustifica i mezzi. D’altronde, stante il feroce antistatalismo americano, quasi tutte le organizzazioni per i diritti civili, la giustizia sociale e la difesa dell’ambiente, per poter restare in vita, sono costrette a rivolgersi alle fondazioni “filantropiche” ed alla loro per nulla disinteressata filantropia. Lo stato non è quindi in grado di assicurarsi che l’elaborazione e discussione delle questioni pubbliche non vengano monopolizzate da interessi privati. È un fenomeno che si sta verificando anche in Europa, specialmente ora che la crisi e l’austerità hanno prosciugato le casse degli stati europei.

Ora, limitatamente alle fondazioni maggiori, emanazioni del capitale finanziario-industriale, alla luce degli studi summenzionati, possiamo dire che quelle di destra sono anti-democratiche e non fanno molto per nasconderlo; quelle “progressiste” sembrano più orientate a provare a migliorare la situazione, ma solo per poter mantenere le cose come stanno. Queste ultime sono espressioni di centri di interesse che non disprezzano apertamente la democrazia, ma preferiscono gestirla in modo accentrato e tecnocratico, a causa della scarsa stima che nutrono nei confronti delle masse. Ciò che accomuna le fondazioni di destra (es. praticamente tutte quelle legate agli interessi delle multinazionali farmaceutiche e petrolifere, o il Pioneer Fund) e i think tank di destra da un lato (es. Freedom House, Council on Foreign Relations, Hudson Institute) e quelle di sinistra (es. Open Society di George Soros, Gates Foundation) con i rispettivi think tank (es. la New America Foundation vicina a Zbigniew Brzezinski, una delle figure più influenti nelle scelte di politica estera dell’amministrazione Obama) dall’altro è, a grandi linee, il rifiuto del principio della pari dignità e il trionfo dell’elitismo e dell’oligarchismo più o meno benevolo (o malevolo, a seconda dei punti di vista, naturalmente). Come documentano Robert Arnove e Nadine Pinede, tutte le grandi fondazioni “progressiste” sono ispirate ai principi del conservatorismo sofisticato ed appoggiano dei cambiamenti che assicurano una maggiore efficienza del sistema esistente ed una minore frizione con i privilegi già acquisiti. In questo modo, però, perpetuano le dinamiche che generano quelle disuguaglianze ed ingiustizie alle quali ufficialmente desiderano porre rimedio.

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