E se Gesù fosse veramente “risorto”? (Nagel contro il riduzionismo materialista)

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Thomas Nagel, uno dei massimi filosofi viventi, è ateo e ha dichiarato: “Voglio che l’ateismo sia vero e sono a disagio per il fatto che alcune delle persone più intelligenti e ben informate che conosco siano credenti. Non è solo che io non credo in Dio e, naturalmente, spero che le mie convinzioni siano corrette, è che mi auguro che Dio non esista. Non voglio che ci sia un Dio! Non voglio che l’universo sia fatto così [teleologico]”.

http://www.weeklystandard.com/articles/heretic_707692.html?nopager=1

TUTTAVIA…

Thomas Nagel conclude così i ringraziamenti in apertura del suo ultimo libro, “Mind and Cosmos: why the materialist neo-darwinian conception of nature is almost certainly false”: “Alla luce dell’eterodossia delle conclusioni, spero che questi ringraziamenti non siano presi come un’offesa”.

Il professore della New York University, tempio della cultura liberal e secolarizzata, ha sfidato frontalmente il pensiero dominante in ambito scientifico e filosofico. Nell’area delle credenze private tutto è concesso, “ma fra gli scienziati e i filosofi che si esprimono sull’ordine naturale come tale, il riduzionismo materialista è postulato come l’unica possibilità seria”. Ogni paradigma alternativo è un residuo della doxa o oppio per gli scienziati premoderni che vedono una tendenza verso l’ordine dove c’è soltanto scontro casuale di particelle senza qualità e selezione naturale; invocano una mente che avrebbe apparecchiato un cosmo intelligibile quando invece c’è soltanto una catena fortuita di eventi spiegabile senza uscire dall’ambito delle leggi fisiche. “Il riduzionismo psico-chimico è la visione ortodossa in biologia e ogni resistenza è considerata non soltanto come scientificamente scorretta, ma anche come politicamente scorretta. Per molto tempo ho trovato difficile da credere la versione materialista su come noi e gli altri organismi siamo arrivati all’esistenza, inclusa la versione standard dell’evoluzionismo. Più dettagli scopriamo sulla base chimica della vita e sulla complessità del codice genetico, più questa versione storica mi sembra incredibile”. Ancora: “Mi sembra che la presente ortodossia sull’ordine cosmico sia l’esito di premesse non dimostrate”.

[…].

Nagel anticipa le reazioni piccate che puntualmente sono arrivate: “I miei dubbi saranno considerati da molti oltraggiosi, ma questo succederà perché quasi tutti nella nostra cultura secolare sono stati costretti a considerare i dettami del riduzionismo come sacrosanti, sulla base del fatto che qualunque altra cosa non può essere considerata scienza”.

L’aggravante è che Nagel è un disertore. Un apostata dell’ateismo scientista. Era sul carro che portava gli eredi di chi ha vinto la guerra della modernità e improvvisamente è saltato giù. In “The Last Word” ha difeso con passione il proprio ateismo: “Voglio che il mio ateismo sia vero. Non voglio che ci sia un Dio”.

In “Mind and Cosmos” spiega che il suo scetticismo radicale attorno a quel materialismo che è la calce dell’edificio evoluzionista “non è basato su un credo religioso, o su un credo in qualunque alternativa definita. Credo soltanto che le evidenze scientifiche disponibili, malgrado il consenso delle opinioni scientifiche, in questa materia non ci impongano razionalmente di obliterare l’incredulità del senso comune. E questo è specialmente vero rispetto all’origine della vita”.

La forza che muove l’indagine di Nagel è il vecchio ideale filosofico di trovare “un singolo ordine naturale che unifica tutte le cose”, le montagne e l’origine della vita, i neuroni e la coscienza; quanto più il filosofo prende sul serio l’aspirazione verso il principio fondante, tanto più il dualismo cartesiano e il materialismo o l’idealismo mostrano i loro limiti. Con una differenza: Cartesio aveva in sostanza rinunciato alla ricerca di un ordine naturale unificante, mentre per poter offrire un modello credibile il materialismo ha dovuto “escludere la mente dal mondo fisico”: per sostenersi ha dovuto cioè restringere radicalmente il campo della sua indagine, accontentandosi di una “comprensione quantitativa del mondo, espressa in leggi fisiche formulate in modo matematico”. La fortuna della scienza galileiana e dell’evoluzionismo darwiniano è stata l’efficacia.

La riduzione materialista scompone i fenomeni e li analizza, spiega la biologia con la chimica e la chimica con la fisica, e il linguaggio matematico che unisce le scienze prevede e seziona l’esistente, ma soltanto a condizione di limitarsi a un “universo senza mente”.

Per non rovinare i calcoli la coscienza deve essere tenuta fuori dalla porta. Il governo americano difficilmente investirebbe 3 miliardi di dollari in uno studio su un paradigma epistemologico comprensivo per colmare le falle di Darwin e riconciliare il materialismo e l’emergere irriducibile e misterioso della coscienza, ma orgogliosamente spende 3 miliardi di dollari per mappare il cervello e “sbloccare il segreto dell’Alzheimer”, come ha detto il presidente Obama. L’indagine della scienza moderna produce risultati apprezzabili in termini materiali.

[…]

La risposta divina, dice, è oscura e si sottrae all’ambito naturale, ma prende sul serio la natura dell’universo più di quanto faccia il materialismo. “Qualunque cosa si pensi circa la possibilità di un ‘designer’, la dottrina prevalente, cioè che la nascita della vita dalla materia morta e la sua evoluzione attraverso i mutamenti accidentali e la selezione naturale fino alla sua forma attuale non sia scaturita da altro che dalle leggi fisiche, non può essere considerata inattaccabile. È un postulato che guida il progetto scientifico, non un’ipotesi scientifica confermata”.

Al filosofo americano nato a Belgrado la spiegazione in senso squisitamente materialista dell’universo è apparsa come una coperta troppo corta, una lente che mette a fuoco soltanto il primo piano e non coglie lo sfondo, almeno dai tempi di “Cosa si prova a essere un pipistrello?”, un classico della filosofia della mente apparso nel 1974.

Le leggi fisiche, chimiche e biologiche, sosteneva allora Nagel, non riescono a spiegare adeguatamente la coscienza, non esauriscono quella che lui chiama “esperienza soggettiva”. Carpire e tradurre in linguaggio matematico i processi attraverso cui il pipistrello esperisce il suo ambiente, conoscere in modo esaustivo la corteccia cerebrale e la catena di reazioni chimiche che ne determinano il funzionamento non ci dice nulla su cosa effettivamente si provi a essere un pipistrello. La coscienza cade fuori dalla portata dell’indagine materialista e, in mancanza di strumenti adeguati per esplorarla, viene bollata come un accidente, pura apparizione casuale che disturba l’irreprensibile concatenazione causale. Un mero “effetto collaterale” delle leggi fisiche. Notare: Nagel non sostiene che la mente e il suo “supporto” fisico siano distinti, non concepisce una coscienza instillata nell’uomo con un soffio divino e disgiunta dai neuroni e dalle sinapsi che la neuropsichiatria studia con zelo positivistico. Non rifiuta il naturalismo, rifiuta una concezione ridotta del naturalismo. E allo stesso modo non rifiuta la teoria dell’evoluzione, rifiuta il modello materialistico che quella teoria dell’evoluzione ha elevato a strumento inadeguatamente univoco per la comprensione della complessità dei fenomeni.

Proprio per questo il filosofo percepisce la bruciante necessità di una rifondazione della scienza. E’ qui che si squaderna la “open question” di Nagel, quella che ha fatto schiumare di rabbia i tedofori della scienza pura e “mindless” che si sono scandalosamente ritrovati sul banco degli imputati con l’accusa di aver adulterato la ragione, di averla ridotta con il pretesto di liberarla dai lacci di una teleologia superstiziosa e irriducibile alla pura fisica. Quella stessa ragione in nome della quale si sono battuti – e in nome della quale hanno vinto, almeno a livello dell’establishment accademico – per frantumare i detriti dell’oscurantismo portati dal fiume della storia. La domanda di Nagel suona così: quale principio unitario può spiegare l’esistenza della vita, degli organismi, dell’uomo, la sua evoluzione, la comparsa della mente, i desideri, i valori, l’intenzione senza uscire dall’ambito della natura e senza ridursi all’ambito della materia? Nagel non offre una risposta cartesianamente chiara e distinta – anche se gli argomenti teleologici abbondano e si trovano più somiglianze con l’impianto aristotelico-scolastico di quante l’autore sia disposto ad ammettere – ma il valore dirompente (e la vis polemica) del suo “Mind and Cosmos” è nella preparazione del terreno, nel raffinamento della domanda e nella scelta degli strumenti. “Se la biologia evoluzionista – scrive Nagel – è una teoria fisica, come è generalmente concepita, allora non può considerare la coscienza e altri fenomeni che non sono riducibili all’ambito fisico. Dunque se la mente è il prodotto dell’evoluzione biologica – se gli organismi con una vita mentale non sono miracolose anomalie ma una parte integrante della natura – allora la biologia non può essere una scienza puramente fisica. Si apre la possibilità di una concezione pervasiva dell’ordine naturale molto diversa dal materialismo, una concezione che mette al centro la mente, invece di considerarla soltanto un effetto collaterale delle leggi fisiche”. La visione materialista si incaglia sugli scogli della coscienza e per riprendere a navigare serenamente la deve “accidentalizzarla”: è solo un incidente di percorso.

[…].

“Mind and Cosmos” non è un trattato creazionista, ma una ricerca di quello che Tom Sorell chiama “monismo neutrale”, un principio per rendere ragione della natura che detronizzi le premesse riduzioniste dell’evoluzionismo riportandole al livello che compete loro. Paradossalmente il testo di Nagel può rendere a Darwin un servizio enormemente più valido di quello che offerto dai suoi più invasati seguaci, incastonando il darwinismo nell’ambito d’indagine che gli è proprio. “Mind and Cosmos” si conclude con una profezia ambiziosa almeno quanto la confutazione dalla quale muove il ragionamento: “Scommetto che l’attuale consenso scientifico nel giro di un paio di generazioni sarà considerato ridicolo. Anche se, certamente, potrebbe essere rimpiazzato da un nuovo consenso altrettanto debole”.

Quello di Nagel è un invito ad allargare la ragione per inquadrare in tutto il suo abbacinante splendore un cosmo irriducibile al paradigma della scienza galileiana; e contemporaneamente è un atto rivoluzionario in un’epoca dominata dai dati e dagli algoritmi, idoli della postmodernità cresciuti nel solco di un conformismo scientifico che Nagel non teme di rovesciare.

Mattia Ferraresi

http://www.ilfoglio.it/soloqui/17134

Non siamo scimmie nude – diritti umani, diritti degli animali, specismo e violenza

a cura di Stefano Fait


Si sono dette un mucchio di sciocchezze sugli esseri umani e sui primati. Qui cerco di usare il buon senso e dati empirici per fare chiarezza una volta per tutte.
Non è una questione marginale: i diritti umani, la prospettiva di un riscatto, la democrazia, la speranza, la fiducia, l’idea di progresso morale, di civilizzazione e maturazione…tutto questo e molto altro dipende da che concezione di natura umana prevale in un dato periodo.

L’idea che ogni essere umano, indipendentemente dalle sue virtù o manchevolezze, è prezioso ed insostituibile informa il nostro giudizio morale riguardo a come si trattano gli esseri umani. Ci comportiamo diversamente nei confronti degli animali perché in loro questa individualità è marcatamente attenuata. Gli insetti, in particolare, non ispirano particolare rimorso, in noi, se li uccidiamo accidentalmente.

Da bambino, il mio raccapriccio nel vedere altri bambini torturare degli insetti non derivava dalla mia empatia verso le vittime, ma dal senso di ripulsa che provavo, istintivamente (non v’era alcuna ponderazione, allora), nei confronti di esseri umani incapaci di trattenere la loro bestialità, ossia di porre un freno al loro potere, di disciplinare la tracotanza, di ascoltare la voce della coscienza.

Non siamo scimmie nude. Gli esseri umani apprendono e progrediscono perché sono in grado di capire che il cambiamento è preferibile ad uno stato di ignaro appagamento, che la vita reale non deve necessariamente seguire le istruzioni contenute nel copione della tradizione, perché una vita creativa, innovativa e vibrante, cioè una vita culturale, può essere immensamente più gratificante.

La lentissima evoluzione degli scimpanzé (se mai c’è stata), che pure sono geneticamente così prossimi agli esseri umani, è la prova più evidente di questa distinzione di fondo. Ciascun essere umano è votato al cambiamento ed è destinato a contribuire al cambiamento del pianeta; in questo, nessun animale si avvicina anche lontanamente alla condizione umana.

Eppure l’incrollabile persuasione che non vi sia mai stata una vera e propria fuga dalla natura e che il nostro temperamento e la nostra condotta di vita siano ancora fortemente determinati da una natura biologica ancestrale ha spinto alcuni ad ipotizzare che l’ipotetico Uomo Naturale non debba essere poi molto diverso dallo scimpanzé (Stanford, 2001).

Secondo questi evoluzionisti gli umani condividono in gran parte con i loro “cugini” primati una natura ominide universale, trasmessa geneticamente. Siccome la cultura, ai loro occhi, è il precipitato delle nostre esigenze evolutive, ne consegue che la cultura umana altro non è che una versione più sofisticata della cultura degli scimpanzé (Kuper, 1994). Tuttavia, come sottolinea Charles S. Peirce, è un grave errore logico quello di ritenere che sia assai probabile che due cose che si rassomigliano molto per certi aspetti siano molto simili anche per altri aspetti. La separazione dei percorsi evolutivi della specie umana e delle altre specie di primati è avvenuta quasi 7 milioni di anni fa. È difficile credere di poter chiudere un occhio su quel che può essere avvenuto in questi 14 milioni di anni (sette milioni di anni per ciascuna diramazione) di evoluzione divergente.

È possibile che l’evoluzione biologica degli scimpanzé non sia coincisa con delle modificazioni rilevanti nel loro comportamento e stile di vita (Tattersall, 1998). In ogni caso parlare di cultura nel caso degli altri primati è drammaticamente riduttivo. La presunta evoluzione culturale degli scimpanzé è così fiacca che non hanno ancora raggiunto neppure l’età della pietra e le dimensioni del loro cranio sono rimaste pressoché immutate per milioni di anni, sempre stando a quanto ci è dato di capire al momento attuale.

Al contrario i cani, che sono geneticamente più distanti da noi rispetto agli scimpanzé, ma hanno condiviso il nostro ambiente domestico per almeno 10 mila anni e forse molto di più, sono in grado di comunicare con gli esseri umani in modi più complessi cioè, in un certo senso, sono più partecipi della cultura e dell’intelligenza umana.

Sembra che alcuni primatologi, invece di concentrarsi su che cosa renda unici gli scimpanzé, e quindi degni di considerazione in quanto tali, siano ossessionati dall’idea di dimostrare quanto siano simili agli esseri umani, come se questo li rendesse più speciali e più meritevoli di tutela. In altre parole proprio chi denuncia teologi ed antropologi di antropocentrismo (come se questa fosse una colpa) non ne è affatto esente, anzi.

Il problema è che difendere i diritti degli animali è “politicamente corretto” e moralmente lodevole, ma non è per questo scientificamente rigoroso. Ancor meno se lo si fa minimizzando le oggettive e straordinarie differenze che separano gli esseri umani dal resto del regno animale. Non c’è nulla di antropocentrico nel sottolineare quel che ci rende unici, cioè un dato di fatto incontrovertibile, così come non sarebbe corretto accusare di bonobocentrismo chi rileva l’unicità degli scimpanzé bonobo.

Ogni essere vivente è unico e prezioso ma, come osservava il genetista e biologo evolutivo Theodosius Dobzhansky, con un riuscito gioco di parole, “ogni specie vivente è unica, ma la specie umana è la più unica”.

Uno scimpanzé è uno scimpanzé, parte di un ramo dell’albero della vita che non rinascerà mai identico a se stesso, e non un tentativo prematuramente fallito di generare un essere umano. Costringere gli scimpanzé in cattività a comportarsi come esseri umani, per poter provare che possiedono innate capacità di risoluzione di problemi, di uso di forme rudimentali di linguaggio e di formazione di un’autocoscienza sembra testimoniare, nella migliore delle ipotesi, la difficoltà per alcuni esperti di accettare il fatto che un membro di una specie non si troverà mai a suo agio comportandosi come un membro di un’altra specie. Nella peggiore delle ipotesi si tratterebbe invece dell’ostinazione antropomorfizzante di chi vede negli scimpanzé un essere umano incompiuto, il cui sviluppo si è interrotto per cause a noi ignote, piuttosto che uno scimpanzé completo. Non potendo parlare di razzismo, in questo caso si dovrebbe parlare di “specismo”.

Non è forse lo stesso atteggiamento coloniale ed imperialista usato dall’Occidente nei confronti dei “primitivi”?

Il fatto è che parlare del comportamento animale in termini umani significa calarli metaforicamente nella matrice delle istituzioni e delle pratiche umane, umanizzandoli, per poi dedurre dalle somiglianze necessariamente riscontrate che il comportamento umano in effetti non può che affondare le sue radici in quello animale. Insomma con un procedimento logico circolare si inseriscono nella premessa le conclusioni che si dovrebbero invece dimostrare.

Tuttavia, anche se certi animali si comportano in modo apparentemente simile agli esseri umani, non è detto che lo facciano per le stesse ragioni che guidano il nostro comportamento. Dopo tutto gli esseri umani sono animali, ma non è vero il contrario. Questa conclusione dovrebbe essere evidente a chiunque non si lasci incantare dalla vezzosa immagine di una Disneyland naturale. L’umanizzazione degli animali e l’animalizzazione degli umani sono di ostacolo alla scienza. Anche se permane una certa propensione a raffigurare l’uomo come “un carciofo da cui puoi togliere le foglie spinose della cultura lasciando solo il nudo cuore tenero dell’uomo naturale” (Marks, 2003: p. 163), va chiarito una volta per tutte che non v’è alcuna natura umana al di fuori della cultura. Natura e cultura non possono essere separate per poter confermare le ipotesi che più ci aggradano.

Neppure l’intento, pur nobile, di rendere gli esseri umani meno arroganti nei confronti degli altri animali può giustificare l’inclinazione a minimizzare quelle caratteristiche che ci distinguono dagli altri primati, che non sono certo il pelo e la promiscuità, ma le facoltà intellettive. Rifiutare l’antropocentrismo per scalzare l’uomo dal suo piedistallo e per promuovere una maggior sensibilità verso gli animali è una scelta di natura morale, non scientifica. Gli esseri umani sono animali culturali e le nostre capacità sono aggiuntive e non alternative a quelle degli altri animali. È proprio questo che ci rende animali differenti da tutti gli altri. La differenza quantitativa tra lo sviluppo umano e quello degli altri animali è tale che può legittimamente essere descritta come una divergenza di ordine qualitativo.

Dopo tutto gli altri primati hanno avuto lo stesso tempo per sviluppare una loro cultura, eppure finora non abbiamo trovato indizi inequivocabili di progresso culturale – se per “cultura” intendiamo creatività, originalità, innovazione e l’abilità di trasmettere certe nozioni alle generazioni successive. Sono le invenzioni il carburante dell’evoluzione culturale e gli animali, fino a prova contraria, non inventano nulla, si limitano ad imitare. Sanno usare semplici utensili, ma non li sanno fabbricare, né pare che sappiano trasmettere alle successive generazioni il modo d’uso appropriato. È come se ad ogni generazione, morti gli esemplari che avevano appreso per esperienza, bisognasse ricominciare tutto da capo.

L’uomo non è una scimmia nuda per la stessa ragione per cui il Barolo non è succo d’uva, anche se entrambi derivano dall’uva. La cultura fa la differenza: senza la cultura le società umane non si differenzierebbero molto da quelle delle scimmie, né il Barolo dal succo d’uva. L’antropologia e l’etnologia hanno il compito di definire in che cosa consista questa differenza. L’etologia, lo studio del comportamento animale, può dirci ben poco in proposito.

La questione centrale di questo dibattito è perciò chiaramente il ruolo da assegnare alla cultura nello sviluppo umano. La cultura è il frutto delle nostre elaborazioni mentali, cioè della nostra mente, che è una proprietà emergente del cervello che ancora facciamo fatica a comprendere e non può certo essere ridotta alle nostre funzioni biologiche, ad una faccenda di biologia molecolare, anche se questo è ciò che certi scienziati e commentatori tendono a fare. Affermare che la cultura sia un fenomeno biologico è un’enorme scempiaggine (Jones, 1993).

Nel corso del progresso umano la nostra specie ha completato una transizione essenziale, dal corpo alla mente, e le prodezze della nostra mente trascendono largamente il nostro DNA e, in parte, la nostra corporeità. Esistono certamente numerosi istinti innati, ma la nostra specie, unica fra tutte, non deve per forza sottostarvi. La selezione naturale è stata rimpiazzata da quella artificiale, in un ambiente artificiale che, per definizione, non produce evoluzione nel senso naturalistico del termine.

Quanto alla capacità di acquisire e manipolare un corredo simbolico, essa non è latente negli altri primati, cioè non si sviluppa normalmente quando si verificano le condizioni più idonee. Il linguaggio, forse la più importante componente della cultura, ma non certo l’unica, costituisce una tale agevolazione evolutiva che è altamente improbabile che una specie dotata dell’abilità di usarlo non se ne sia avvalsa. In natura non esistono animali che insegnano ad altri animali, se non per emulazione passiva. In cattività gli animali apprendono non per imitazione, ma solo grazie all’intervento di istruttori umani. Il linguaggio ha permesso alla specie umana di inventare un uso specifico per degli oggetti, trasformandoli in utensili, e di far capire ai membri di un gruppo la natura e funzione di quegli oggetti. Cioè ha consentito la trasformazione dell’ambiente di vita e quindi della specie, un atto che segna l’inizio della storia. Questo distingue la cultura, che include la tecnologia, i comportamenti, le idee ed il linguaggio, dalla natura, l’utensile dalla cosa, l’informazione dalla conoscenza, l’invenzione dall’atto casuale e l’essere umano da ogni altro animale.

In altre parole, l’etica e la cultura sono un prodotto della mente umana in un ambiente antropizzato. Non possiamo ricavare alcuna prescrizione morale dalla natura perché essa è del tutto amorale. La nostra esistenza o l’esistenza di qualunque altra specie vivente le è del tutto indifferente. È questo che ha reso necessaria la nostra fuga dalla natura nella cultura: la natura ci stava ormai stretta.

La cultura è dunque a buon diritto quel piedistallo che gli esseri umani si sono costruiti nel corso della loro storia evolutiva e sul quale sono poi saliti: nessuno ci ha messi lì, se non noi stessi e peraltro non senza buone ragioni. A livello cognitivo, non siamo neanche una mera estrapolazione o raffinamento di tendenze precedenti (Tattersall & Schwartz, 2000).

È concettualmente e metodologicamente corretto considerarci speciali e unici, senza per questo sentirci autorizzati a dar mostra di un altezzoso autocompiacimento. Preferire il Barolo non significa disprezzare il succo d’uva, e l’Umanesimo e l’Illuminismo sono la miglior testimonianza del fatto che sentirsi speciali può incoraggiare lo sviluppo di un sincero senso di responsabilità universale, anche e soprattutto verso gli animali. Al contrario una delle lezioni della storia è che proprio la naturalizzazione radicale degli esseri umani è quasi sempre sfociata nel genocidio o nella pulizia etnica. Questo lo aveva ben capito lo stesso Charles Darwin, nel suo “L’origine dell’uomo”, in cui denunciava senza mezzi termini il riduzionismo zoologico degli esseri umani, che imputava il male alla Bestia Interiore (Mayr, 2000).

D’altronde il dogma centrale del nazional-socialismo era che la lotta per la sopravvivenza è una legge iscritta nella natura che per ciò stesso dev’essere applicata alle società umane. Ciò sancì l’emergere della nozione di comunità biotica (biocrazia), in cui la separazione tra animali ed esseri umani era annullata (riduzionismo zoologico) mentre la linea divisoria tra malati e sani finì per coincidere con quella tra morte e vita (Sax 2000). Solo chi era costituzionalmente sano e razzialmente eletto era degno di prevalere nella lotta per la vita. Il resto della specie umana poteva solo servire o estinguersi. Non si possono più ignorare le tragiche conseguenze dell’idolatria di una natura antropomorfizzata e della naturalizzazione degli esseri umani tipiche del nazismo. Come detto, la natura ci stava e ci sta sempre più stretta e così siamo stati costretti a fuggire dalla natura nella cultura. Non c’è nulla di moralmente abominevole in questo, con buona pace dei militanti dell’Avatarismo:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/04/avatar-nuove-frontiere-del-grottesco-e-del-totalitario/#axzz1mLNsw14z

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Anche i genetisti stanno gradualmente rendendosi conto di aver arbitrariamente e frettolosamente semplificato ciò che andava esaminato con cautela. Per oltre trent’anni ci hanno detto che biologicamente e poi geneticamente la distanza tra scimpanzé ed esseri umani era molto ridotta, circa l’un 1 per cento e ciò doveva bastare a chi si ostinava a sottolineare le peculiarità umane. Ma negli ultimi tempi questa ortodossia è stata messa in discussione e ci si è chiesti se quel valore statistico non costituisse più un ostacolo che uno strumento euristico, specialmente se spingeva gli scienziati a costruire mappe concettuali palesemente errate. Hanno cominciato a fare la loro comparsa studi che riducevano la convergenza tra noi e gli scimpanzé. Per molti genetisti la distanza si aggira ora tra il 5 ed il 17,4 per cento ed imputano la selezione del valore inesatto ad un errore di semplificazione eccessiva. Qualche zoologo ha commentato che l’1 per cento andava bene finché era utile far risaltare le somiglianze, che fino ad allora erano state sottovalutate. Ma poi la realtà dei fatti si è fatta sentire. Steve Jones, professore di genetica allo University College di Londra, ha correttamente osservato che “il DNA c’entra poco…gli scimpanzé possono anche assomigliarci in un senso letterale e stucchevole, ma in tutto ciò che ci rende quello che siamo, l’homo sapiens è realmente unico” (Cohen, 2007). Gli stessi autori del primo articolo responsabile della diffusione del “mito dell’1 per cento”, Mary-Claire King e Allan Wilson (King & Wilson, 1975), misero in guardia i lettori dal giungere a conclusioni affrettate (p. 113): “Sembra di poter dire che i metodi di valutazione della differenza tra umani e scimpanzé producano conclusioni alquanto discordanti”, sottolineavano già a quel tempo. A dire il vero, questo scrupoloso impegno di quantificazione delle differenze, che in precedenza era stato impiegato per sceverare ciò che distingueva i membri delle varie razze umane, appare come sempre più stravagante ed ingiustificato: “Non penso ci sia alcun modo di ottenere un numero qualunque”, afferma il genetista Svante Pääbo dell’Istituto Max Planck di antropologia evolutiva di Lipsia, “Alla fine il modo in cui vediamo le nostre differenze è solo un fatto politico, sociale e culturale” (Cohen, 2007). Il che comprova ancora una volta che il pregio della scienza risiede proprio nella sua capacità auto-correttiva.

Detto questo, imputare il male nel mondo all’antropocentrismo, e quindi ridurre la distanza tra uomini e scimmie antropomorfe come se questo potesse prevenire futuri genocidi, non ha molto più senso che affidarsi alla clemenza di Dio per conseguire il medesimo risultato. Entrambi gli approcci compromettono l’obiettività dell’osservazione e l’interpretazione dei dati.

C’è una sottile ironia nel parallelo che si può stabilire tra la genetica dell’1 per cento e l’antropologia illuminista. Quando gli scimpanzé furono scoperti dai primi esploratori, nel XVII e XVIII secolo, si notarono le ovvie somiglianze ma, invece di dedurne una profonda affinità e fratellanza, ciò servì invece a rafforzare vieppiù l’idea che l’uomo fosse un essere speciale. Quale prova più schiacciante dell’unicità dell’uomo dell’esistenza di essere antropoidi così rassomiglianti all’uomo, anche e soprattutto a livello fisiologico, ma totalmente privi di carattere morale, che solo l’anima umana poteva ispirare? Così, quanto più chiare apparivano le analogie, più innegabile risultava la verità dell’unicità dell’essenza spirituale umana (Wokler, 1993).

Anche la favola bella della Buona Scimmia, il Bonobo “naturalmente” altruista e pacifico, è stata ormai ampiamente screditata. Solo chi, magari abbagliato da un pregiudizio naturalista o da sentimentalismi malriposti – magari il senso di un’ingiustizia che va sanata – volesse ignorare l’abisso di complessità socio-culturale che ci separa dai Bonobo potrebbe credere di ricavare dal loro comportamento indicazioni utili su come dovrebbero procedere gli affari umani (Goodman et al., 2003). Quarant’anni fa, in piena battaglia per i diritti civili, gli scimpanzé erano trattati dai primatologi alla stregua di “buoni selvaggi”. Divennero poi crudeli predatori dediti all’infanticidio ed al cannibalismo negli anni 80 degli yuppie rampanti à la Gordon Gekko, lo spietato Michael Douglas del celebre “Wall Street”; recentemente sono ridiventati fondamentalmente buoni ma in parte “corrotti” dal contatto con gli esseri umani, in natura come in cattività. La domanda che ci dobbiamo porre è se siano stati loro a cambiare in questi 40 anni oppure gli umori della nostra società. Insomma, sembra di poter dire che il nostro atteggiamento verso gli altri sia determinato in gran parte dalla nostra autopercezione.

Il problema sembra essere che quando si studiano specie molto simili alla nostra lo scienziato tende a vedere ciò che desidera vedere ed a rimuovere le discrepanze che in qualche misura macchiano l’immagine desiderata. Così la descrizione del comportamento sessuale e sociale dei primati sarà tanto più popolare quanto più corrisponderà alle attese del pubblico, cioè quanto più rifletterà l’auto-ritratto della nostra specie: se ci percepiamo come naturalmente violenti allora gli altri primati, e non per caso, confermeranno questa nostra percezione; se invece poniamo l’accento sulla nostra capacità di esercitare un’ampia misura di discernimento morale, allora appariranno studi scientifici che “dimostreranno” come le scimmie abbiano sviluppato rudimentali ma promettenti sistemi etici.

Forse la più convincente spiegazione delle variazioni comportamentali dei primati è alquanto semplice: ancora negli anni Venti l’anatomista Solly Zuckerman riferì che i babbuini dello zoo di Londra mostravano elevati livelli di gerarchizzazione ed aggressività. Ma nessuno dei suoi colleghi che lavoravano sul campo, nell’habitat stesso dei babbuini, riuscì a replicare queste osservazioni. Divenne quindi presto evidente che il comportamento dei babbuini di Zuckerman era stato drammaticamente alterato dalla riduzione dello spazio in cui i babbuini si trovavano a vivere (N.B. i Bonobo hanno invece a disposizione un’area vasta quanto l’Inghilterra e priva di rivali). Le restrizioni artificiali imposte da uno spazio chiuso come quello di uno zoo avevano generato dinamiche interne che non potevano esistere all’esterno e quindi le osservazioni di Zuckerman non erano generalizzabili (Rose, 1998).