La morte ti fa bella – il lusso, il teschio e le astuzie del potere

 

a cura di Stefano Fait

 

Circola uno spot di una nota banca in cui una sposa balla con uno scheletro davanti ad uno specchio. Maria De Filippi va in onda su “Amici” con una maglietta nera dominata dall’immagine di un teschio di brillantini. Perfino l’abbigliamento per adolescenti e bambini è decorato con teschi e tibie. La carta da parati di certi negozi è punteggiata di teschi con gli occhi a forma di cuore. Quest’iconografia necrofila, che ignora (disprezza? tradisce? perverte?) la tradizione gotica-punk, è stata diffusa negli ultimi anni da stilisti, artisti e marchi molto diversi: Alexander McQueen (poi morto suicida), Hydrogen, Oakley, Damien Hirst, Prada (che dispone anche di una linea mimetica militare), Thomas Wilde, Lagerfeld e chi più ne ha più ne metta. Oggi appare persino su tappetini mouse e custodie per i-pad foggiate come delle casse toraciche.

L’endemicità di simbolismi mortuari nella moda e nell’arte è diventata particolarmente ossessiva dopo lo tsunami dell’Oceano Indiano (dicembre 2004) e gli attacchi terroristici a Londra (2005):

2005-2006

http://www.cbsnews.com/stories/2006/10/31/earlyshow/living/beauty/main2138673.shtml

2007

http://www.sodahead.com/entertainment/schwarzenegger-shows-off-skull-belt-on-time-coverdo-you-think-arnold-belongs-to-the-famous-skull/question-5536/

2008

http://www.youtube.com/watch?v=p713iJLS68o

2009

http://www.wordarc.com/Hogan/2009/01/26/I_see_dead_people%3A_why_the_skulls_on_everyone%27s_clothes%3F

2010

http://lifestyle.ezinemark.com/skull-fashion-hits-hollywood-celebrities-7736721e5e7b.html

http://www.wellsphere.com/general-medicine-article/anatomic-fashion-friday-alexander-mcqueen-bones-skull/1231309

2011

http://www.squidoo.com/skulls-crossbones

2012

http://www.shopplasticland.com/fashion/c/Skull-Shop.html

Il simbolo del teschio e delle ossa incrociate dalla preistoria alle passerelle di moda:

http://www.whale.to/b/death_head.html

Come mai gli stilisti hanno sviluppato questa particolare predilezione per una simbologia così inquietante, necrofila appunto, per di più associata a genocidi e totalitarismi?

Perché la morte fa vendere ed ammansisce (oppure spinge ad uccidere il prossimo per restare in vita).

All’11 settembre è seguita una smania consumistica che ha portato ad una crescita degli acquisti del 6% nel trimestre successivo, risolvendo così l’inizio di una crisi economica che è stata solo posticipata al 2008-2009. I cittadini americani sfuggirono alla paura della morte che si era insinuata nella loro psiche cercando di consolidare il loro status, come se ciò potesse allontanare la Nera Signora. Ad un rafforzamento percepito dello status corrisponde una maggiore autostima ed un’immortalità simbolica. Com’è facilmente immaginabile, questo meccanismo funziona particolarmente bene con i beni di lusso (legati, appunto, allo status). Quando la prospettiva della propria morte si fa più intensa, le persone si aggrappano al materialismo, cercano l’immortalità nell’accumulo di beni e ricchezze. È possibile che il recente boom globale del settore del lusso, in piena crisi, sia in qualche misura dovuto alla percezione di milioni di persone di un possibile imminente decesso, vuoi per le superstizioni collegate al 2012, vuoi per i disastri naturali, gli incidenti nucleari e la recessione, vuoi per le voci di una possibile terza guerra mondiale dietro l’angolo.

Le persone che temono la morte sono a rischio di diventare avide, accaparratrici, di sostituire un’ansia con una smania, quella di sopravvivere attraverso i beni materiali. Un numero sostanziale di ricerche ha dimostrato però che tratti come la possessività, l’invidia, l’egoismo e l’avidità sono negativamente correlati con la soddisfazione ed una vita felice. Più si è materialisti, minore è la propria fiducia in se stessi perché si continuano a fare confronti con chi è più privilegiato di noi. Paradossalmente, invece, più si diventa anziani, più ci si mette il cuore in pace e ci si allontana dal materialismo e dal bisogno di proiettare un’immagine a tutti i costi positiva:

http://www.acrwebsite.org/volumes/v35/naacr_vol35_0.pdf

In una maggioranza di casi, chi ha paura di morire non si cura della sorte del prossimo, non si cura della pace, non è altruista, non coopera, non fa fronte comune contro il potere, ma guarda gli altri in cagnesco, è pronto ad uccidere per non essere ucciso. Il motto “mors tua vita mea” è la condanna a morte di ogni rivoluzione.

E quando tornate a casa, date una sberla a vostro figlio e ditegli è la sberla del Ministro della Paura… guardatevi con sospetto, odiatevi, sparatevi…è straordinario…”. Questa è una battuta tratta da uno sketch del magnifico Antonio Albanese, ma rappresenta accuratamente la realtà. L’insicurezza induce alla regressione, la frustrazione all’aggressività, l’ansia all’autoritarismo, sino all’insorgere delle dittature che sanciscono quella che Fromm ha chiamato la fuga dalla libertà, che è anche una fuga dalla pace.

L’ex agente dell’organizzazione clandestina Gladio, Vincenzo Vinciguerra, ha rivelato la natura della strategia volta all’annichilimento dell’empatia, ossia la disseminazione della paura di morire: “Si dovevano attaccare i civili, la gente, donne, bambini, persone innocenti, gente sconosciuta molto lontana da ogni disegno politico. La ragione era alquanto semplice: costringere … l’opinione pubblica a rivolgersi allo stato per chiedere maggiore sicurezza”.

La paura opera al meglio solo se la parte “sana” della popolazione teme di morire e perciò si aggrappa ai golem, ai miti etnici, alle identificazioni collettive forti (cf. Fait/Fattor 2010), per fare in modo che la propria estinzione non sia priva di significato. La gente ha un’enorme paura della propria insignificanza, della propria fragilità e vulnerabilità. Troppe persone non vedono l’egocentrismo come un problema perché sono ossessionate dalla sopravvivenza personale, che rimane l’obiettivo primario della nostra componente animale. Abbiamo paura di morire ed il modo migliore di controllarci è attraverso il terrore (ed il senso di colpa). Tutti noi ci troviamo a lottare per conciliare la realtà della nostra mortalità fisica e la speranza (o fede) nell’immortalità dello spirito, in modo da riaffermare il significato della nostra esistenza in un universo apparentemente assurdo. I golem (etnia, patria, dio, razza, cultura, classe, ecc.) sono dei tiranni che produciamo per aprirci un varco di senso in un cosmo apparentemente indifferente alle vicende umane e soprattutto per sottrarci all’oblio che segue il decesso di chi non ha lasciato un segno indelebile nella storia (Alfieri, 2008, p. 79).

Un antropologo statunitense, Ernest Becker, ha esaminato questo secondo fattore, la paura dell’estinzione, ed è giunto alla conclusione che molte delle nostre azioni sono dettate dalla necessità di produrre un’interconnessione di significati e simbologie in grado di generare l’illusione della trascendenza della morte (Becker, 1982). Quindi non si tratta della semplice reazione di chi si sente fisicamente vulnerabile. Tutti noi vogliamo che la nostra esistenza abbia un senso, che conti qualcosa, che dia un contributo significativo ad un’entità durevole – la Chiesa, la Scienza, l’Etnia, la Società, la Razza, la Nazione o la Patria, la Comunità, la Cultura, l’Arte, la Rivoluzione, la Storia, l’Umanità, la Professione, ecc. – e la prospettiva della nostra morte rende quest’esigenza ancora più pressante. Scrivere un libro di successo può essere un buon modo di placare l’ansia esistenziale, ma in generale si opta per la fusione delle identità personali in miti collettivizzanti – progetti d’immortalità – che negano la morte: l’ossessione per l’estinzione della propria cultura ed identità di popolo coincide con l’ossessione per la propria morte e per la possibile mancanza di significato della propria esistenza e dell’ordine cosmico.

Il culto delle celebrità rappresenta forse, inconsciamente, un mezzo per continuare a vivere fondendosi nel mito dell’eroe, sperando di acquisirne le proprietà magiche della permanenza ed invulnerabilità. Il problema è che questi progetti di immortalità sono indissociabili dall’affermazione di una verità assoluta che ci gonfia di un orgoglio narcisistico ed acritico e ci scherma da prospettive alternative, giudicate invariabilmente false, spingendoci ad attaccare i promotori di sistemi di immortalità diversi dai nostri. E allora è guerra, violenza, sottomissione al pastore di turno.

 

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