Che fine ha fatto Putin?

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Periodicamente, con l’arrivo della primavera, Putin si reca in un santuario/monastero al confine con la Finlandia, per pregare, digiunare e meditare.
Ogni volta che accade la grancassa mediatica occidentale lo dà per malato, deposto, ecc.

L’unico grande malato in questo momento sono gli USA e la verità si manifesterà incontrovertibilmente da qui alla metà del 2016, quando osserveremo con occhi sbigottiti quel che accade Oltreoceano (e Oltremanica?)

Aggiornamenti
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Daniza e il mondo di Jonas

Antropocentrismo animalista

Antropocentrismo animalista

In una società futuristica in cui l’umanità ha scelto di annullare tutte le differenze tra le persone al fine di evitare conflitti dilanianti, la vita scorre tranquilla e asettica. L’ordine regna sovrano e l’unico legame con un passato “contaminato” dalle passioni è la “Cerimonia dei 12”, durante la quale un individuo viene scelto come Custode delle Memorie dell’Umanità. Quando il compito toccherà all’adolescente Jonas, la conoscenza di ciò che è stato lo porterà a voler scardinare per sempre l’ordine precostituito. Il Premio Oscar Meryl Streep e il Premio Oscar Jeff Bridges ci trasportano in un mondo che non vorremo mai visitare…

The Giver – il mondo di Jonas

Con Daniza è successa una cosa che non era capitata con Bruno o con la povera orsa annegata a Molveno, credo per il semplice motivo che sono passati pochi anni, ma anche per le circostanze davvero eccezionali della vicenda. Con Daniza l’orso è tornato a pieno titolo animale totemico incarnando la nostalgia di sacro di una folta tribù pagana dei nostri tempi. L’animale temuto e venerato, ucciso e (proprio per questo) divinizzato, capro espiatorio collocato sul suo totem al di sopra degli umani e degli altri animali e assurto a simbolo di maternità universale non è più un orso come tanti inserito in un normale benché complesso rapporto ecologico. E’ vittima sacrale dopo essere stato simbolo di violenza e di potenza e di fertilità. Gli innumerevoli animali domestici da lui sbranati non contano, sono vittime dovute al totem; l’innocente (un tempo) passeggiata nel bosco alla ricerca di funghi diventa superamento del confine del sacro, dove il totem regna con i suoi cuccioli; l’uccisione per mano di un potere costituito chiama in correità un intero popolo (i “trentini”), secondo schemi ahinoi ben noti, che per fortuna, ripetendosi in farsa, prevedono l’espiazione attraverso una pioggia di disdette di settimane bianche. E così via…Non giudico, constato. E confesso a mia volta un sottile, irrazionale turbamento per l’accaduto.
Marcello Bonazza

Se è vero che i cuccioli hanno buone possibilità di cavarsela, è vero anche che corrono il rischio, grosso, di diventare dei futuri orsi problematici. Sull’esempio di quanto insegnato loro dalla madre potrebbero avvicinarsi all’uomo e agli animali domestici in cerca di cibo facile; in particolare dalla prossima primavera quando, diventati più grandi e forti, potrebbero sentirsi attratti da rifiuti, pollai, pecore. Quale sarebbe, da parte nostra, l’errore più grande a questo punto? Ritenere che abbiano bisogno di aiuto, e sentirsi tentati di lasciare del cibo “ai poveri orfani indifesi”.
Fare questo sarebbe stupido e criminale, significherebbe spianare la strada al futuro triste che attende gli orsi confidenti e/o troppo dannosi: catture o abbattimenti gestionali, atti di bracconaggio. Quindi il nostro appello è questo: NON LASCIARE CIBO AI CUCCIOLI; segnalare la loro presenza a chi di dovere, senza pubblicizzarla con foto ai media o sui social network, che richiamerebbero curiosi; stigmatizzare e denunciare comportamenti scorretti da parte di altri nei loro confronti. EVITARE DI TENTARE DI AVVICINARSI O ATTIRARLI e, qualora nelle prossime settimane si avvicinassero a masi, centri abitati, persone, SPAVENTARLI.
Solo insegnando loro che avvicinare l’uomo è pericoloso, possiamo aiutarli a diventare grandi; solo così possiamo tentare di evitare loro di seguire le orme della madre. Vogliamo dare una possibilità ai cuccioli di Daniza?

Convivere con l’orso sulle Alpi (Facebook)

 

Non mi piace questa disputa intorno alla morte di Daniza.

Sta mettendo a nudo la tendenza umana a fantasticare oltre ogni misura che sarebbe ragionevole:

– immaginare realtà diverse e migliori di quella presente è fondamentale (cf. Adam Ewing “Ma cosa è l’oceano, se non una moltitudine di gocce?” – Cloud Atlas);

– perdere di vista la realtà così com’è – e non come vorremmo che fosse – è invece deleterio e genera la violenza di chi odia il presente perchè non è più com’era e di chi lo odia perché non è ancora come dovrà essere.

Aggredito da orso: Galletti, non sto con Daniza nè contro

Fin dall’inizio il progetto di rewilding del Trentino è stato impestato da un processo di estetizzazione che ha interessato entrambe le parti: l’estetizzazione della scienza di Life Ursus, l’estetizzazione dell’orso, l’estetizzazione dei valligiani, l’estetizzazione del Trentino e della sua natura “selvaggia”, l’estetizzazione di una natura che è chiamata ad essere selvaggia per soddisfare i nostri bisogni psicologici, ma nel contempo deve stare alle nostre regole…un mucchio di miti e di scariche emotive, di granitiche certezze, di scarsa disponibilità all’ascolto, alla riflessione, all’analisi dei fatti, anche quelli che non ci piacciono…

Ora occorre trovare un giusto compromesso, un equilibrio tra selvatico e domestico, tra grandi predatori e persone, tra città e mondo rurale, senza snaturare, addomesticare ed estetizzare l’orso (lupo), chi vive in montagna e l’umanità nel suo complesso.

Dobbiamo ascoltarci, capire le ragioni altrui, accettare che ci può essere del vero da una parte e dall’altra, oltre a grossi fardelli passionali che tirano fuori il meglio e il peggio di noi, a seconda che ci assistano, oppure ci dominino.

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Questo, secondo me, vale anche per gli esperti, che oggi si trovano sotto accusa (e non poteva essere diversamente, perché fin dall’inizio hanno preferito non rispondere alla domanda più scomoda: e se la natura non collabora?).

La questione della reintroduzione dei grandi predatori non passa solo per l’educazione del “volgo”. Non è che tutto si sarebbe già risolto se la gente fosse stata informata adeguatamente. Questo è un pregiudizio positivista che non ha più ragion d’essere: la conoscenza non scende solo dall’alto, può anche salire dal basso. Anche gli esperti possono e debbono imparare dal patrimonio di conoscenze acquisite e tramandate nei secoli da una comunità su cui intervengono.

Parliamoci, ascoltiamoci, capiamoci e risolviamo assieme i nostri problemi.

Oppure un giorno arriverà qualcuno che ci spiegherà che, per il nostro bene, sarebbe opportuno castrare la nostra irruenza e la nostra immaginazione (cf. Equilibrium).

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Cos’è il Male?

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Il debole lo abbatte, il forte che lo inghiotte.

Cloud Atlas

Un enorme buco nero che, nella sua foga di incrementare la propria potenza, inghiotte tutto ciò che gli sta intorno, senza esserne mai sazio. Inghiotte soprattutto, per rimanere sul piano filosofico, le anime degli uomini, le loro risonanze emotive ed affettive, i loro slanci ideali.

Luca Grecchi, “La filosofia politica di Eschilo”

L’entropia è la misura dell’aumento del disordine in un sistema ed equivale ad una perdita di informazione e quindi di vitalità. Il massimo dell’entropia per un essere umano si ha con il suo decesso.

Una comunità o una civiltà contrasta l’entropia (è neghentropica), quando riduce il disordine creando varietà e vita. In altre parole, quando permette un continuo scambio di idee, energia, persone. Il Terzo Reich è l’esempio più puro di civiltà entropica, a causa del suo isolamento, della sua uniformità, del suo bisogno di omologare, controllare e consumare ciò che lo circondava. In quanto sistema chiuso, era nato per estinguersi rapidamente, condannato com’era ad operare come un buco nero, per evitare il collasso. I nazisti si sentivano potenti perché potevano cannibalizzare altri popoli e nazioni ma, una volta che il resto del mondo riuscì ad organizzarsi per resistere all’assimilazione, all’imposizione di un unico paradigma, l’entropia nazista perse la partita.

Quando non riuscite a distinguere il governo dall’opposizione, vuol dire che l’entropia di un sistema politico è salita. Succede anche con certi prodotti di largo consumo, distinguibili solo dal marchio. Originalità, creatività, inventiva, immaginazione sono forze neghentropiche: diversificano, promuovono il cambiamento e quindi la vita.

Il parassitismo è perciò la quintessenza dell’entropia: prende senza voler dare, distrugge senza creare. Come un buco nero, appunto. Il parassita dipende dall’organismo che lo ospita, ma può anche causarne la morte. Vive sempre a spese degli altri, li vampirizza. Come la tenia: “Non semplicemente costanza dell’energia, ma massima economia dei consumi: sicché il voler diventare più forti, per ogni centro di forza, è l’unica realtà – non conservazione di sé, ma volontà di appropriazione, di diventare padroni, di diventare di più, di diventare più forti” (F. Nietzsche, “La volontà di potenza”).
https://versounmondonuovo.wordpress.com/2013/04/14/legoista/

Il parassita, come lo psicopatico, che è l’apoteosi del parassitismo, è dominato dalla paura di perdere il controllo, disperdendo la sua energia e non può quindi essere altro che predatorio e violento. È autolesionistico perché, consumando chi gli dà la vita senza restituire nulla al sistema, pone le basi per la sua morte.

La simbiosi, o mutualismo, è invece la solidarietà biologica tra esemplari di specie diverse che mettono in comune le loro specificità, scambiandosi dei “servizi” che beneficiano entrambe le parti. È creativa, non distruttiva come l’entropia. È una forza di integrazione, che permette alla vita ed ai sistemi complessi di esistere.

È una relazione di mutua compensazione ed equilibrio: “Io vi do un nuovo comandamento: che vi amiate gli uni gli altri. Com’io v’ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri” (Giovanni 13, 34). “Ma se uno ha dei beni di questo mondo, e vede il suo fratello nel bisogno, e gli chiude il proprio cuore, come dimora l’amor di Dio in lui?” (1 Giovanni 3:17).

Si deve mangiare il prossimo per vivere. Coccinelle e passerotti sono degli spietati carnivori, ma non sono parassitari, non sono malvagi.

Il male è, in buona sostanza, tutto ciò prende dal suo ambiente senza dare niente in cambio. Si comporta come un buco nero, un vampiro, un untore, un predicatore fanatico, uno psicopatico che sociopatizza la comunità in cui vive (es. Hitler o Stalin), un imperialista/colonialista (es. esportatori di “democrazia”) o, per i fan della fantascienza, gli alieni de “L’invasione degli Ultracorpi”, o i Borg di “Star Trek” (“Assimilando altri esseri alla nostra collettività, li portiamo più vicini alla perfezione”). Si sforza di omologare, assimilare quel che lo circonda, trasformandolo in una copia di se stesso.

Il maligno è un propagatore virale di entropia: diminuisce la variabilità della vita, semplifica la sua complessità, degrada la sua qualità, disturba i fecondi equilibri solidaristici, divide e contrappone solo per poter controllare e metabolizzare più facilmente, ci spinge ad attaccare il “male” che vediamo negli altri (es. omosessualità) senza renderci conto di quel che c’è in noi (repressione, intolleranza), cerca di distruggere l’unità nella diversità (unica garanzia di equilibrio e mutualismo), offusca ciò che andrebbe messo a fuoco, costringe a scegliere tra due alternative come se l’una escludesse l’altra (e magari occulta una terza opzione), cerca di arrestare l’evoluzione, il cambiamento, la creazione. Fa tutto questo perché brama la stasi, l’inerzia, l’uniformità, ovverosia la morte, la quiete eterna.

Approfondimento “esoterico”:
http://www.informarexresistere.fr/2012/01/18/la-sindrome-del-feto-egoista-come-vivono-e-cosa-pensano-gli-angeli-caduti/

Internet e la mistica di Kubin, Russell, Hadot e Grünewald

Quanto segue sarebbe tecnicamente spiegabile all’interno di un nuovo paradigma scientifico: quello dell’universo elettrico.

Alfred Kubin, “L’Altra Parte” (1909):

“Acquistai una capacità sorprendente di meraviglia. Ogni oggetto, avulso dal rapporto con le altre cose, assumeva un significato nuovo. Il fatto che un qualsiasi corpo arrivasse a me dall’eternità, mi faceva rabbrividire. Il fatto che una cosa fosse proprio così, e non altrimenti, mi riempiva di stupore. Un giorno, davanti a una conchiglia, mi resi conto con la massima chiarezza che il suo modo di esistere non era così sordo come avevo pensato fino a quel momento. E presto mi accadde lo stesso per tutto, per il mondo intero. All’inizio le sensazioni più intense mi venivan prima di addormentarmi o subito dopo il risveglio, quando cioè il corpo era stanco e la vita, in me, si trovava in uno stato crepuscolare. Un mondo, non sempre vivente, doveva essere di continuo ricreato, e sempre nuovo.

Sentivo vieppiù il legame comune che c’era in tutte le cose. I colori, gli odori, i suoni e i sapori erano per me intercambiabili. E allora compresi: il mondo è forza d’immaginazione, immaginazione-forza. Dovunque andassi e qualsiasi cosa facessi, mi sforzavo di intensificare le mie gioie e i miei dolori, e in segreto ridevo di entrambi. Infatti sapevo ormai con certezza che il su e giù del pendolo rappresenta un equilibrio e che proprio nell’oscillazione più ampia e violenta esso può più chiaramente essere percepito.

Una certa volta vedevo il mondo come un tappeto di colori meravigliosi, coi contrasti più sorprendenti tutti composti in un’armonia; un’altra volta abbracciavo con lo sguardo un’incommensurabile filigrana di forme…

Mi sentivo astratto, come un punto di equilibro precario in un sistema di forze. …

Adesso ero tra i primi a ridere in mezzo a quelle farse grandiose, pur senza smettere di tremare insieme coi tormentati. In me c’era un tribunale che osservava ogni cosa, e sapevo ormai che in fondo non succedeva proprio niente…

Constatai con spavento che il mio io era composto di innumerevoli “io”, ognuno dei quali era sempre in agguato dietro l’altro. Ciascuno mi appariva sempre più grande e misterioso, mentre gli ultimi si perdevano nell’ombra, quando tentavo di comprenderli. Ognuno di essi aveva le sue idee particolari. Così, ad esempio, dal punto di vista della vita organica la concezione della morte come fine era giusta, mentre a un livello più alto della conoscenza l’uomo non esisteva affatto, quindi nulla poteva finire…”.

Pierre Hadot , La filosofia come modo di vivere“, 2001

“Ho sempre considerato la filosofia come una trasformazione della percezione del mondo…Successe una volta nella rue Ruinart, lungo il tragitto tra il Seminario minore e la casa dei miei genitori, dove rientravo tutte le sere, essendo allievo esterno. Era calata la notte e le stelle brillavano in un cielo immenso. A quell’epoca si poteva ancora vederle. Un’altra volta accadde in una stanza di casa nostra. In entrambi i casi fui invaso da un’angoscia insieme terrificante e soave, provocata dal sentimento della presenza del mondo, o del tutto, e di me in questo mondo. In realtà ero incapace di esprimere la mia esperienza, ma in seguito sentii che poteva corrispondere a domande come: “Chi sono?” “Perché sono qui?” Provavo un senso di estraneità, lo stupore e la meraviglia di esserci. Nello stesso tempo percepivo di essere immerso nel mondo, di farne parte, e che il mondo si estendeva dal più piccolo filo d’erba alle stelle. Il mondo mi era presente, intensamente presente. Molto più tardi avrei scoperto che questa presa di coscienza del mio essere immerso nel mondo, questa impressione di appartenenza al Tutto, era ciò che Roman Rolland ha chiamato il “sentimento oceanico”. Credo di essere filosofo a partire da quel momento, se per filosofia si intende la coscienza dell’esistenza, dell’essere al mondo. Da allora ho cominciato a percepire il mondo in modo nuovo. Il cielo, le nuvole, le stelle, “le sere del mondo”, come dicevo a me stesso, mi affascinavano. Sporgendomi dalla finestra a testa in su, guardavo il cielo notturno, con l’impressione di immergermi nell’immensità stellata. Questa esperienza ha dominato la mia vita”. 

Bertrand Russell, nell’esperire empaticamente la sofferenza della moglie del collega Alfred North Whitehead (Russell, 1967):

“Sembrava tagliata fuori da tutto e da tutti da muri di agonia ed improvvisamente fui sopraffatto dal senso di solitudine di ogni anima umana. Da quanto mi ero sposato la mia vita emotiva era stata calma e superficiale. Mi ero scordato di tutte queste questioni più profonde, accontentandomi di frivole arguzie. All’improvviso mi sentii mancare il terreno sotto i piedi e mi trovai altrove…Al termine di quei cinque minuti ero diventato una persona completamente differente. Per un momento, una sorta di illuminazione mistica s’impadronì di me. Sentivo di conoscere i pensieri più intimi di tutte le persone che incontrato per strada ed anche se questo era indubbiamente un’illusione, mi trovai effettivamente a più stretto contatto con tutti i miei amici e molte delle mie conoscenze. Da imperialista, in quei cinque minuti, divenni un sostenitore dei Boeri ed un pacifista. Dopo aver passato lunghi anni interessandomi solo alla precisione ed all’analisi, mi ritrovai inondato di sensazioni semi-mistiche riguardanti la bellezza, con un intenso interesse per i bambini, e con un desiderio quasi altrettanto profondo di quello del Buddha di trovare una quale filosofia che rendesse tollerabile la vita umana. Fui preda di una strana eccitazione che conteneva in sé un dolore intenso ma anche degli elementi di trionfo per via del fatto che riuscivo a dominare la sofferenza, trasformandola, così credevo, in un cammino di sapienza. Da allora l’intuizione mistica che immaginavo di possedere si è annebbiata e l’abitudine all’analisi si è riaffermata. Ma qualcosa di quel che ho pensato di vedere in quel momento mi è restato dentro, motivando il mio atteggiamento nei confronti della prima guerra mondiale, il mio interesse per i bambini, la mia indifferenza per i piccoli inconvenienti ed un certo tono emotivo in tutte le mie relazioni umane”.

Philippe Daverio, “Il Cristo cosmico di Grünewald”, Avvenire 7 dicembre 2011

«Il posto sembrò essere sconquassato da un terremoto e i demoni, quasi abbattessero le quattro mura del ricovero, sembravano penetrare attraverso esse in forma di bestie e di cose striscianti…».

Così Atanasio di Alessandria raccontava delle battaglie con il demonio affrontato dal suo amico sant’Antonio abate. Oltre mille anni dopo, Grünewald racconta la stessa storia nel retro dell’altare di Isenheim, il quale nella sua complessità pittorica sarebbe come la Cappella Sistina dell’Europa del Nord, anzi di quella cultura della riva sinistra del Reno dove follie e fantasmi si sposano in un immaginario che dura fino ai giorni nostri.

Nell’anta di sinistra sant’Antonio parla con un eremita, san Paolo, in un paesaggio impervio dove la palma è così come se la può immaginare un tedesco che non ha mai visto il sud, ma dove il cerbiatto è simbolo di un’atmosfera pacata. In quella di destra la casa è diroccata dal terremoto e i diavoli ci ballano sopra; il santo viene trascinato dai demoni tra animali, uccellacci, strane chimere dal corpo di armadillo, teste da ippopotamo, improbabili cornuti con dentoni, che nell’immaginario tardomedioevale non sono affatto mostri inesistenti, ma solo ancora non incontrati, mentre in basso a sinistra l’orribile nanerottolo coperto di pustole, vestito da Medioevo mentre a Roma ci si veste già da Rinascimento, è invece essere sicuramente incontrato fra guerre e pestilenze, o probabilmente già visto nei dipinti del vicino di casa Hieronymus Bosch.

Il Cristo è morto, e così morto da sembrare afflitto dalle pustole della sifilide appena introdotta in Europa e che Dürer aveva rappresentato in una sua precedente piccola incisione. Il Battista lo indica con un gesto che più pedagogico di così non si può, la Madre è svenuta nelle braccia di Giovanni e il suo hanchement gotico si trasforma in un passo di tango. Il tutto si muove nella compassione. E il realismo è portato all’estremo del realismo con la catena di ferro alla quale è appeso un pezzo di tavola sulla quale è attaccato il cartiglio INRI, ovviamente in gotico.

La croce stessa nega tutte le croci preesistenti e la si ritrova analoga solo in Antonello e nei suoi amici fiamminghi. L’agnello mistico sotto è quello con il quale nacque la pittura a olio quando quasi un secolo prima i fratelli van Eyck lo dipinsero per la cattedrale di Gand. Sulla destra il pannello raffigura sant’Antonio abate col diavolo che spacca i vetrini della finestra per entrare. Non è l’unico diavolo presente. Quanti, quelli della tentazione delle predelle posteriori, dove i diavoli sono già quelli che Max Ernst porterà nella pittura surrealista. Goticissimo il pensiero, anche per un certo verso arretrati gli strumenti musicali rispetto a quelli che nei medesimi anni dipinge Raffaello.

Ma l’opera completa è una dichiarazione di fede, e mentre la sua contemporanea Cappella Sistina era destinata stabile alla gloria dei ricevimenti papali, questa è destinata all’istruzione del popolo che si ritrovava presso i monaci antoniani, dove la pala veniva articolata secondo i momenti liturgici. E forse per questo motivo il diavolo è onnipresente e viene cacciato solo dalla risurrezione d’un Cristo ciclamino, mentre il diavolo nel Rinascimento italiano quasi scompare, per sopravvivere solo nel Giudizio finale. Siamo attorno al 1515 e fra poco Martin Lutero affiggerà le sue proposte sulla porta della chiesa di Wittenberg.
Ma l’Europa, stilisticamente, era già divisa. Ben di più ancora testimonia la pala conclusiva di Isenheim. La stesura di Grünewald, all’apparenza visionaria, si fa spiegabile solo se rapportata ad alcune concezioni teologiche del XX secolo. In uno spazio da fantascienza fra i massi tellurici che volano appare la Teofania del Cristo Cosmico: il suo corpo risorto è racchiuso nell’Omega che è punto conclusivo della storia dei secoli. Il bordo della sfera lascia vibrare la nuova dimensione mistica dove s’incontrano, come prospetta la teologia dello scienziato gesuita Pierre Teilhard de Chardin, le energie sommate della noosfera, la terza sfera dopo la geosfera e la biosfera, essendo questa il luogo dell’incontro delle menti.

Teilhard de Chardin, partendo da studi di geologia e di evoluzionismo, ipotizzava una evoluzione delle specie che, dall’Alpha della creazione e dell’insorgere della vita, avrebbe portato la specie più complessa, quella umana, al punto Omega d’incontro con il divino. Fu egli apprezzato con sospetto dai suoi superiori e mandato a studiare sassi nel Tibet da dove passò a New York e lì morì nel 1955. Il suo pensiero sottile fu recuperato dalla mente sottile di Paolo VI.

E certo, ora che l’intelligenza umana è costantemente collegata in una rete perenne dove le informazioni generano una dimensione inaspettata, tornano legittime due letture diverse del caso: una laica, a tutti nota, e una mistica, intuita visivamente da Grünewald, nella quale una pellicola sta per avvolgere il cosmo ormai definitivamente interconnesso grazie all’evoluzione del pensiero umano che s’incontra con il permanere del divino per il completamento dei tempi.

http://fanuessays.blogspot.it/2011/11/la-paura-della-morte-non-dovrebbe.html

I bambini credono nell’esistenza dell’anima

Gli scienziati sono alla ricerca di una risposta scientifica alla domanda su come mai i bambini pensano di scomparire quando coprono con le mani i loro occhi.
I ricercatori guidati da James Russell all’Università di Cambridge hanno effettuato il primo studio con gruppi di bambini di tre e quattro anni.

Gli occhi dei bambini sono stati coperti da maschere e gli è poi stato chiesto se potevano essere visti dai ricercatori – la maggior parte ha detto di no.

Molti credono che anche i ricercatori non possono vedere gli altri adulti che indossano mascherine per gli occhi – il che porta alla conclusione che la maggior parte dei bambini piccoli crede che chi copre gli occhi è nascosto alla vista degli altri.

Gli scienziati hanno successivamente tentato di distinguere ciò che crea esattamente la sensazione di invisibilità – se era il non vedere nessuno o se era il fatto che l’altra persona non ha potuto vedere i loro occhi.

Così hanno fatto indossare ai bambini degli occhiali a specchio in modo che, mentre loro potevano vedere attraverso le lenti, nessuno poteva vedere i loro occhi.
Solo 7 dei 37 bambini partecipanti hanno capito che mentre loro potevano ancora vedere, nessuno poteva vedere i loro occhi.

Ma di quelli che hanno capito il concetto, sei credevano di essere invisibili se i ricercatori non potevano vedere i loro occhi, anche se loro potevano ancora vedere.
Quando ai bambini è stato chiesto di spiegare come sono potessero essere resi invisibili semplicemente nascondendo i loro occhi, molti sapevano che i loro corpi erano restati visibili, il che suggerisce una distinzione infantile tra i loro corpi fisici e il ‘sé’ che collegano ai loro occhi.

Per verificare questa teoria che i bambini credono di poter essere visti solo attraverso i loro occhi, i ricercatori hanno esaminato direttamente ciascuno dei bambini, chiedendo loro di distogliere lo sguardo. Hanno poi fatto lo stesso processo in senso inverso, con i bambini che visualizzava i ricercatori mentre loro distoglievano lo sguardo.

In entrambi i casi, la maggior parte dei bambini sentiva di non essere vista fino a quando gli sguardi non si incrociavano, fornendo un certo sostegno all’idea degli occhi come finestra dell’anima.

http://www.dailymail.co.uk/news/article-2224046/Peekaboo-Cambridge-scientists-discover-children-think-invisible-hide-eyes.html

HANNO RAGIONE LORO:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/05/11/di-che-vita-parlava-gesu-della-vita-della-morte-e-delle-esperienze-extracorporee/

So di una persona che non ha letto un singolo libro in 5 anni (avendo l’opportunità di farlo)

Si dice: l’importante non è il numero di libri che uno legge, ma la qualità delle letture e il livello di comprensione delle medesime. Ma se non hai letto neppure un libro in 5 anni quanti libri puoi aver capito in quel lasso di tempo?

Ai miei occhi, la “colpa” di questa persona non è quella di essere ignorante, è quella di rifiutarsi di vedere la sua/nostra ignoranza come un problema di importanza capitale. Eppure se siamo messi come siamo messi, se continuiamo a lamentarci, impotenti, senza sapere da dove cominciare a porre rimedio a quel che non va, se ci affidiamo anima e corpo a dei “tecnici” e ci mettiamo i paraocchi, per non vedere che non hanno a cuore il nostro interesse, è proprio per la nostra ignoranza e la nostra pretesa di non esserlo, o che comunque non sia un problema così grave.

I libri, i libri migliori, i libri capiti, quelli che fanno pensare, quelli che rendono più profondo il nostro modo di rapportarci alla realtà ed agli altri sono la base che ci serve per percepire la realtà in modo meno superficiale. La comprensione della realtà è una faccenda corale e, siccome nessuno può pretendere di essere circondato da persone lucidissime, i libri, certi libri, sono un fondamentale ausilio. In questo senso i libri sono altre persone che ti parlano e bruciare un libro è come sopprimere una voce, non leggerlo è come ignorare quel che ti dice un’altra persona.

È chiaro che nella cacofonia del mondo uno cerca di filtrare le voci che lo circondano, ma certe voci vanno ascoltate (certi libri vanno letti) perché rappresentano l’unica maniera che ci rimane per poter vivere e morire dignitosamente in una fase storica estremamente complicata, estremamente menzognera, estremamente pericolosa.

QUELLO CHE MI È STATO INSEGNATO/HO IMPARATO

Le forze che percepiamo come “oscure” non sono malvagie, sono solo ignoranti e istituiscono sistemi sociali ignoranti perché è così che credono di dover operare. In questo senso, noi ne facciamo parte a pieno titolo, anche se esiste in noi un anelito a qualcosa di diverso rispetto ad una vita basata sulla paura, che non onora le altre vite, una vita che depreda le altre vite e che opacizza il sapere, lo tabuizza, lo censura, lo sopprime.

È una misera condizione quella di chi teme la conoscenza, perché ha paura di essere messo in discussione, di disgregarsi psichicamente e forse anche fisicamente.

Il fatto è che la conoscenza è davvero potere. La conoscenza è l’unica difesa di cui abbiamo bisogno. Più uno sa o, per meglio dire, più uno restringe l’abisso di ignoranza in cui si trova, minori saranno la paura e la sofferenza; ci sarà anche meno stress, meno angoscia, minori pericoli. Poiché la conoscenza non ha limiti, il suo valore è infinito e quindi seguire la strada della conoscenza significa emanciparsi dalle limitazioni che ci impediscono di amare il prossimo come noi stessi, di realizzare un’autentica empatia.

Ne consegue che l’illuminazione proviene dalla conoscenza. Se uno si sforza incessantemente di espandere la conoscenza si munisce di una protezione contro ciò che di negativo avviene nel mondo. Non vuol dire che si immunizzerà o diventerà indistruttibile, ma semplicemente diventerà più consapevole di che cosa serva a difendersi. Per la persona che si informa, che cerca di vedere la realtà obiettivamente, questa protezione diventa una seconda natura. L’ignorante, al contrario, è come una pagliuzza nel vento, un albero bloccato dalle sue radici mentre il fronte dell’incendio si avvicina, o un bimbo che si sente colpevole delle violenze che subisce.

In una prospettiva esoterica “sorprendentemente” conforme alle finalità di istituzioni come l’UNESCO (ad esempio), aggiungere conoscenza significa aggiungere sostanza al proprio essere, aggiungere tutto ciò che è desiderabile. La luce è conoscenza, conoscenza al centro di tutto ciò che esiste e quindi fornisce protezione da ogni genere di negatività. Non è l’amore a salvarci o redimerci, ma la conoscenza. L’amore l’accompagna e presumo che nessuno di noi sappia cosa veramente sia questo Amore (agape).

Chi fallisce nella sua cerca del Graal in realtà non sta cercando conoscenza, è impelagato ad un certo punto del suo progresso, in una certa ossessione. L’ossessione non è conoscenza, è stagnazione. Chi si fissa su una cosa chiude la porta alla conoscenza, interrompe la sua crescita, la maturazione della sua coscienza, del suo ego, verso l’individuazione (cf. Jung), ossia l’interdipendenza. Quando si è ossessionati la protezione si deteriora e ci si espone ad ogni genere di difficoltà.

I libri, i libri migliori, i libri ben compresi ci proteggono.

Roberto Vacca sulla morte, la sopravvivenza delle idee e la vocazione al servizio

 

Quello che hai in testa – che farne?   – di Roberto Vacca, 24 Giugno 2012.

“Non andare fuori. Torna in te stesso. La verità abita dentro l’uomo [Noli foras ire. In te ipsum redi. In interiore homine habitat veritas.” – scrisse Agostino d’Ippona. Aveva torto: fuori di noi ci sono molte più cose che non dentro. E quelle che abbiamo dentro ce le abbiamo portate prendendole da fuori.

Comunque sia di ciò, di cose in testa ne abbiamo tante – se siamo stati attenti e se abbiamo ragionato sui memi che ci arrivavano. Non dovremmo tanto andare fuori, ma dovremmo tirare fuori quel che abbiamo. Dovremmo condividerlo.

Lessi 70 anni fa un’immagine vivida e tragica del contenuto di un cranio, nel racconto della morte del fisico Pierre Curie, scritto dalla figlia. Forse Curie meditava sulla radioattività ed era disattento. Fu investito da una carrozza e una ruota gli spaccò il cranio distruggendo la conoscenza e le idee contenute nel suo cervello.

Era molto tempo che non ricordavo quell’evento. Mi è tornato alla mente di recente e ho riflettuto che anche io ho accumulato parecchie idee e nozioni – anche se non ho prodotto invenzioni epocali. Cercherò di non morire in un incidente stradale, ma ho 85 anni e, se ricordo bene, circa la metà degli ottantacinquenni supera i 91 anni di vita. Mancano, comunque, pochi anni al momento in cui sparirà la roba che ho accumulato nel mio cervello. È ragionevole, dunque, pensare a scaricarle (download it) tempestivamente. [Per inciso ricordo un detto latino: “Nessuno è tanto vecchio da non credere di poter vivere ancora un anno – Nemo est tam senex qui se annum non putet posse vivere”].

Non avevo pensato molto a questa urgenza finora. Infatti, seguendo B. Spinoza, ritengo che “l’uomo libero, cioè chi vive soltanto secondo i dettami della ragione, non è condotto dalla paura della morte e la sua sapienza è meditazione di vita” (Ethica, IV, 67).

Non temiamo, dunque, la morte, ma riflettiamo. Non abbiamo tanto dannato tempo per raccontare agli altri le cose che pensiamo o inventiamo. Che possiamo decidere? Noi, persone normali, decidiamo con calma – non c’è tragedia: è tragica, invece, la situazione delle menti somme che devono generare messaggi di grande valore e hanno pochissimo tempo. Accadde a Evariste Galois ventenne. Aveva inventato l’algebra astratta e sapeva che sarebbe  morto scioccamente in un duello poche ore dopo. Scrisse freneticamente materiale inedito: teoremi, definizioni, congetture e su ogni pagina scriveva:

“Non ho tempo – non ho tempo!”

Fece bene. L’algebra astratta è una branca della matematica utile – e difficile.

Alcuni studiosi e pensatori si accontentando di vedere e capire cose nuove – e non insistono per pubblicarle. È un loro diritto. Mio padre pubblicò un centinaio di lavori di matematica, ma lasciò qualche migliaio di pagine di note. Alcune contengono teoremi nuovi – e ci annotava a margine “Quod Nemo Vidit Antea” – questo nessuno lo ha visto prima: e tirava avanti. Ora quelle note sono all’Istituto Matematico dell’Università di Torino e qualche giovane ne trarrà ispirazione.

Anche se non abbiamo avuto idee straordinarie e abbiamo inventato o visto solo qualche dettaglio o relazione interessante, dovremmo sentire l’Imperativo Categorico di diffondere la nostra roba. Una giustificazione sensata di questo punto di vista è che il mondo è più bello se girano idee, invenzioni, pensieri edificanti – memi. Lo sanno bene quelli fra noi che abbiano incontrato maestri bravi o che hanno incontrato a caso nei libri o nell’universo del WWW nozioni o ragionamenti che ci hanno cambiato la vita. Cambiamola anche agli altri – diamo occasioni. Siamo servizievoli.

In inglese “serve” ha gli stessi significati dell’italiano “servire”, ma ne ha uno in più. Vuol dire anche:    “accettare la chiamata o la vocazione a servire il Paese non solo sotto le armi (come in italiano), ma anche nell’amministrazione o nella giustizia”.

Esorto a servire non solo il Paese – ma il mondo e gli sconosciuti che lo abitano.

Il motto del Principe Albert, marito della Regina Vittoria, era:

Ich diene – io servo.”

Giro giro tondo, casca il mondo – l’Apocalisse e il segreto delle cattedrali gotiche

Nulla esiste finché non è misurato.

Niels Bohr, Nobel 1922.

Un elettrone è una potenzialità immateriale finché non viene osservato.

Max Born, Nobel 1954.

Se non sono disturbati dall’osservatore, gli elettroni non sono cose, non esistono nello spazio e nel tempo, la loro esistenza è meramente potenziale. Emergono in una condizione di esistenza reale ma provvisoria nell’atto di misurazione che è quindi un atto creativo.

Erwin Schrödinger, Nobel 1933.

Per ciò che riguarda le particelle che costituiscono la materia, non sembra esserci alcuno scopo nel considerarle come composte di qualche materiale. Sono, in un certo senso, pura forma, nient’altro che forma; ciò che si manifesta di volta in volta in osservazioni successive è questa forma, non uno specifico frammento di materia.

Erwin Schrödinger, Nobel 1933.

Le più piccole unità di materia non sono, di fatto, oggetti fisici nel senso ordinario della parola; sono forme, strutture o, nell’accezione platonica, Idee, di cui si può parlare in modo non ambiguo solo nel linguaggio della matematica.

Werner Heisenberg, Nobel 1932.

La gente pensa sempre che, quando si dice “realtà”, si sta parlando di qualcosa di chiaramente noto a tutti, mentre invece per me il più importante e più arduo compito del nostro tempo è lavorare alla costruzione di una nuova idea di realtà.

Wolfgang Pauli, Nobel 1945, lettera a Markus Fierz, 1948.

Gli elementi costitutivi del mondo fisico sono quelli che chiamiamo eventi. Un evento non persiste e non si sposta come un pezzo di materia tradizionale: esiste semplicemente per un suo breve attimo e poi cessa.

Bertrand Russell, “L’ABC della relatività”.

Se si era inizialmente creduto che nel corso del progresso delle scienze tutto ciò che è ‘trascendentale’ sarebbe stato progressivamente soppresso, perché in ultima analisi si poteva ricondurre tutto ad una spiegazione razionale, si dovette poi ammettere che il mondo materiale che per noi è così tangibile, si dimostra invece sempre più simile ad apparenza e si dissolve in una realtà che non è fatta di cose e di materia, ma di forme che predominano. […] La fisica quantistica ci ha confermato ancora una volta che la nostra esperienza scientifica, la nostra conoscenza del mondo, non rappresenta la realtà ultima ed intrinseca, qualunque significato si voglia attribuire a queste espressioni.

Hans-Peter Dürr, fisico nucleare e quantistico tedesco, 1986.

Ora sappiamo che l’immagine del mondo offerta dai nostri organi di senso, che pure funziona perfettamente nella vita di ogni giorno, ha poco a che fare con la realtà. Ciò che ci sembra solido e impenetrabile è perlopiù vuoto […]. Di conseguenza, la nostra definizione intuitiva della materia è completamente distorta dai filtri che i nostri organi di senso interpongono fra un oggetto e noi. Si tratta di una definizione essenzialmente pragmatica, basata sul genere di informazioni che si sono rivelate più utili nella ricerca del cibo, nella lotta contro i predatori e per il successo riproduttivo. Come strumenti di conoscenza, queste informazioni sono quasi prive di valore.

Christian De Duve, biochimico belga, Nobel per la medicina nel 1974 (2002).

Se l’universo è vivo, le emozioni possono avere un significato cosmologico.

Shimon Malin, fisico teorico, Colgate University, 2012.

Questo lungo saggio è in realtà un prontuario per chi sospetta che l’apocalisse (“Rivelazione”/”Disvelamento”) sia prima di tutto un’opportunità e sia catastrofica solo per chi non vede al di là del proprio naso. Il testo è un’analisi di un certo filone della tradizione ermetica in cui s’innesta sorprendentemente bene l’Interpretazione di Copenaghen della fisica quantistica. In teoria, a tempo debito, il lettore avveduto dovrebbe essere in grado di mettere a frutto ciò che ho illustrato, che rappresenta comunque solo una rozzissima, necessariamente parziale ed insoddisfacente interpretazione di un aspetto della realtà.

N.B. L’ermetismo può essere benigno o maligno, per questo bisogna cercare di conoscerlo.

Per Fulcanelli (1972) la cattedrale è un capolavoro d’art goth, ossia “d’argot”. Perché argot? Argot è “il linguaggio particolare di tutti quegli individui che sono interessati a scambiarsi le proprie opinioni senza essere capiti dagli altri che stanno intorno”. Possiamo decodificare questo linguaggio ermetico? Forse almeno in parte. In molti hanno già contribuito al disvelamento. L’esoterismo delle cattedrali medievali è stato già indagato da insigni studiosi come Otto von Simson e Paul Frankl, due storici dell’arte tedeschi naturalizzati americani, e da Emile Mâle, storico dell’arte francese e membro dell’Académie Française, tutti e tre affascinati dall’influenza dell’ermetismo neo-pitagorico e neo-platonico sulle armonie architettoniche di quei magnifici edifici, inestricabilmente legata all’idea di un ordine morale ideale. Chi scrive si augura di integrare quanto è già stato detto, lasciando a chi verrà in seguito il compito di proseguire l’opera.

Per arrivare a comprendere il codice gotico è necessario calarsi nei panni di persone che avevano una concezione spirituale della vita e vedevano la cattedrale come l’immagine della città divina, la Gerusalemme celeste. La struttura delle cattedrali rispecchia le leggi divine esemplificate dalle forme platoniche e dalle armonie orfico-pitagoriche: idee perfette, eterne, incorruttibili esistenti in un universo soprasensibile e quindi non percepibile dall’essere umano in condizioni normali, prima della morte. Nel mondo terreno, la matematica, la musica, la luce (i colori) e l’architettura sono emanazioni di questa dimensione iperuranica.

La scuola di Chartres era particolarmente imbevuta di nozioni pitagoriche e neoplatoniche, specialmente attraverso la sintesi di Boezio (Masi, 1983). Enorme fu l’influenza del Timeo di Platone – il protagonista dell’omonimo dialogo è un pitagorico –, ma anche di Marziano Capella, Macrobio, Porfirio, Simplicio, Cassiodoro, Dionigi l’Aeropagita, Isidoro di Siviglia, Clemente Alessandrino, Vitruvio, Giamblico e, naturalmente, Plotino e Pitagora. L’essenza del messaggio che ne trassero fu che l’umanità si faceva distrarre eccessivamente dalle tentazioni materiali, allontanandosi sempre più da Dio. Per rettificare questa cattiva inclinazione era indispensabile coltivare la frugalità ed impiegare le chiese come anticipazione del Regno di Dio e come tramite fra umano e divino. La cattedrale gotica era “musica divina congelata”, così concepita in ossequio al misticismo numerico e geometrico dei suoi architetti che, per la verità non era universalmente condiviso: il Duomo di Milano, ad esempio, fu costruito senza dedicare una particolare attenzione ai calcoli esoterici, alle “misure del cosmo”.

Invece gli “inventori” del gotico furono tre amici: il vescovo Enrico di Sens, l’abate Sugerio di Saint-Denis e il vescovo Goffredo di Lèves, a Chartres. Erano accomunati dalla medesima ispirazione spirituale e culturale. Per loro, come per molti loro epigoni, la cattedrale gotica rimandava alla Città Celeste dell’Apocalisse, al Tempio di Salomone, alla scala di Giacobbe che congiunge la terra e il mondo ultraterreno, all’Arca di Noè che ha salvato e salverà l’umanità alla fine dei tempi, al cosmo nel suo complesso (Harries, 1977).

Non ci fu forse mai una vera e propria cesura con il passato. Chartres sorse su un edificio pagano preesistente che era stato adattato per ospitare la prima basilica cristiana. È Giulio Cesare a dirci che la città era la capitale del culto druidico gallico e meta di solenni pellegrinaggi. Gli assunti ontologici fondamentali non pare siano cambiati poi troppo, nei secoli. “Lo spazio sacro cristiano permetteva una penetrazione delle realtà metafisiche nel mondo profano, proprio come avevano fatto gli spazi sacri dell’antichità. Durante il periodo dell’intenso interesse di Newton per il significato dei templi antichi, i suoi contemporanei discutevano se si poteva dare un’interpretazione simile anche degli antichi monumenti britannici” (Dobbs, 2002, p. 125).

La luce rivestiva un ruolo fondamentale in questa sacralizzazione dello spazio e del tempo, giacché “tutte le creature sono “luci” che con la loro esistenza testimoniano la luce divina e in tal modo mettono in grado l’intelletto umano di percepirla” (Simson, 2008, p.63). La storica dell’arte americana Christiane Joost-Gaugier ha descritto il suo impiego nelle cattedrali (ma lo stesso discorso può essere applicato anche ai templi megalitici celtici): “la luce del sole illumina lo spazio sottostante, simile a una caverna; in tal modo la luce abbagliante del mondo superiore facilita l’ascesa dell’anima, che può ricevere la verità e la conoscenza” (Joost-Gaugier, 2008, p. 283). Un’immagine che ci rinvia al mito della caverna platonica. La stessa funzione spettava alla geometria, anch’essa incaricata di condurre l’anima alla verità, attraverso la presa di coscienza del principio delle concordanze e delle contrarietà che si equilibrano vicendevolmente nell’ordine armonioso del cosmo. Joost-Gaugier chiarisce che, per gli architetti di quelle opere, i numeri non erano freddi, erano una forma dinamica di energia che esercitava un decisivo impatto sulla vita e la morte dei singoli e della comunità. Sugerio era entusiasta della catarsi prodotta in lui dalla “sua” chiesa. Il credente era trasportato da un piano inferiore ad un piano superiore, un “Regno Celeste” che lui chiamava anche “la Fonte della Sapienza”. Lo storico francese Georges Duby spiega che al cuore di St. Denis c’è un’idea potente, eterna, di derivazione spiccatamente plotiniana: “Dio è luce. Ciascuna creatura partecipa a questa luce iniziale, non-creata e creatrice. Ciascuna creatura riceve e trasmette l’illuminazione divina in accordo con la sua capacità, cioè a dire, secondo l’ordine in cui è collocata nella scala degli esseri…scaturito da un irraggiamento, l’universo è uno zampillio luminoso che discende a cascata…Un legame d’amore bagna tutto il mondo, visibile ed invisibile” (de La Roncière & Attard-Maraninchi, 2001, p. 55)

Il carattere iniziatico delle cattedrali è indiscutibile (Scott, 2003; Stephenson, 2009), ma l’opera che, a mio parere, ha saputo meglio interpretare questo spirito dell’epoca è quella di von Simson – “La cattedrale gotica: il concetto medievale di ordine” –, ammiratissima da Jacques Maritain. Un lavoro che mostra come la cattedrale gotica fosse intesa a rappresentare la realtà sovrannaturale: “il medioevo viveva alla presenza del soprannaturale, che imprimeva il suo suggello su ogni aspetto della vita umana. Il santuario era la soglia d’accesso al cielo. Nell’ammirare la sua perfezione architettonica l’emozione religiosa oscurava l’esperienza estetica dell’osservatore. Non accadeva diversamente ai costruttori della cattedrale” (Simson, 2008, p. 5). In un’epoca di visioni, l’abate Suger asseriva di aver progettato St. Denis in base ad una visione celeste, dove le armonie percepibili dai sensi rinviano a quelle che gli eletti potranno vivere da beati nel regno dei cieli, dove sussiste un parallelismo tra creazione e redenzione e tra il cosmo e il Cristo, come Verbo incarnato e archetipo dell’Uomo come centro dell’universo (Simson, ibidem).

In sintesi, l’ipotesi esplorata in questo saggio è che le cattedrali siano effettivamente degli edifici concepiti per fungere da costellazioni di archetipi, ausili che permettono di innescare un qualche tipo di processo nella mente dell’iniziato, mentre lascerebbero indifferente il visitatore occasionale. La traccia analitica potrà sembrare labirintica – come in ogni percorso iniziatico – ma il lettore accorto, dopo un lungo e speranzoso tragitto, noterà una luce in fondo al tunnel e, inaspettatamente, si accorgerà di trovarsi in prossimità della meta.

Adamo ed Eva

I suoi discepoli dissero, “Quando ci apparirai, e quando tornerai a visitarci?” Gesù disse, “Quando vi spoglierete senza vergognarvi, e metterete i vostri abiti sotto i piedi come bambini e li distruggerete, allora vedrete il figlio di colui che vive e non avrete timore.”

Vangelo di Tommaso, 37

Il racconto biblico di Adamo ed Eva è un mito ed i miti rivelano motivi archetipici, ossia profonde verità sulla condizione umana che spesso, nella nostra quotidianità, ci sfuggono.

Cerchiamo di capire come una parte dell’umanità – il racconto biblico trova numerose corrispondenze nell’area medio-orientale e mediterranea (cf. Pandora) – ha immaginato la condizione umana prima della Caduta. Questo ci sarà d’aiuto quando si tratterà di capire lo scopo ultimo di certi simbolismi inseriti non certo casualmente nelle cattedrali.

Enkidu, un’importante figura mitologica sumera, era un uomo coperto di peli e capelli lunghissimi, che viveva fuori dalla cerchia delle mura di Uruk e “brucava l’erba insieme con le gazzelle, si affollava con le bestie selvatiche alle pozze d’acqua e gioiva in compagnia degli animali” (Campbell, 1992). Un giorno fu scorto da un giovane cacciatore che si rivolse al re di Uruk, Gilgamesh, per chiedergli come doveva comportarsi con lui. Gilgamesh lo consigliò di portare con sé una prostituta del tempio e presentarla a quest’Uomo Selvaggio in tutta la sua nuda bellezza: “Sarà tentato, cederà alle sue grazie e da quel momento in poi gli animali lo eviteranno”. Così fece il cacciatore ed Enkidu, proprio come l’Adamo biblico, “mangiò la mela”: “Per sei giorni e sei notti Enkidu giacque con la donna del tempio, dopodiché ritornò fra gli animali. Ma questi lo fuggirono ed Enkidu se ne stupì. Il suo corpo era indolenzito, le ginocchia si piegavano – egli non era più come prima e non poteva raggiungere gli animali” (Campbell, ibid.). Ad Enkidu non rimase che rassegnarsi alla sua nuova condizione e cercare rifugio all’interno della città, finendo per diventare il migliore amico e consigliere del re Gilgamesh. Adamo è ricollegabile al sumero Adapa, grande saggio che perse l’opportunità di diventare immortale perché si fidò del dio Enki, creatore dell’uomo e sostenitore della tesi che la morte è una componente fondamentale dell’esperienza umana. Allo stesso modo, Gilgamesh non riesce a conquistare l’immortalità per via di un serpente che gliela ruba.

È forse da una libera interpretazione di questi miti che nasce la narrazione della cacciata dal Paradiso Terrestre. Tuttavia, se prendiamo in esame più attentamente la narrazione biblica scopriamo che essa è simbolicamente e semanticamente molto più feconda. Vi propongo un’interpretazione che deve molto al magnifico John Milton, al critico letterario statunitense Stanley Fish (1967), al filosofo francese Jean-Marc Rouvière (Rouvière, 2009) e al filosofo statunitense George Kateb (2006).

Nell’Eden Adamo è fuori della storia, vive nell’armonia perché nulla gli è d’ostacolo, nulla gli impedisce di essere e di mantenersi nella sua condizione originale e permanente. Non è in divenire, ma è pienamente in atto. È eternamente gioioso, ammira l’Eden com’è, non come un fenomeno, infatti non vi è separazione tra soggetto ed oggetto, manca la soggettività della nostra coscienza. La sua percezione del reale non passa attraverso il mondo fenomenico, quello dei sensi. È come se non avesse un corpo, come se non fosse incarnato. Infatti, poco prima di cacciarli, “l’Eterno Iddio fece ad Adamo e alla sua moglie delle tuniche di pelle, e li vestì” (Genesi: 3, 21).

Prima di avere i “vestiti di pelle” e prima di aver mangiato la mela, non si rendevano neppure conto di essere nudi. È la carne che ci situa temporalmente e spazialmente, che forma il mondo attorno a noi. Inizialmente Adamo ed Eva non erano nudi, è la Caduta che comporta determinazioni sessuali, culturali, sociali e dunque morali. Adamo non conosce il bene e il male perché è in comunione con Dio, con la Verità, non sa cosa significa distanziarsi da essa e dover discernere il vero dal falso e il bene dal male. È fuori dalla sfera etica perché è completamente immerso nel vero, nella purezza e nell’innocenza.

Adamo è però comunque libero e consapevole: gli è concessa la scelta di non servire Dio come suo giardiniere. È lui ad accettare il suo ruolo: nomina tutte le cose e gli animali, accoglie la presenza di Eva come se fosse la cosa più naturale del mondo, ma rifiuta la proibizione di mangiare la mela; diritto, questo, che gli era pienamente concesso. Adamo è un uomo disinteressato e privo di vanità, fino al momento in cui cede alla tentazione. Come vedremo, il tema della tentazione è la chiave di lettura del simbolo del labirinto. Adamo fa il bene perché contempla incessantemente il bello in una dimensione in cui predestinazione e libertà sono identiche. Il serpente tenta lui ed Eva promettendo loro che diventeranno come Dio: una promessa ridicola, dato che il serpente stesso non l’ha certo attuata.

Caduta significa che Adamo ed Eva accettano l’auto-centramento (soggettivizzazione: io prima di tutto il resto!) e quindi il distanziamento da Dio, la fine della comunità con Dio e con gli animali e la natura tutta. Non è solo una brama di sensualità fine a se stessa: la coppia aveva a disposizione tutto l’Eden, incluso l’Albero della Vita Eterna, che fino ad allora non gli era stato negato, e viveva in una condizione di perfetta letizia. Essendo in comunione con Dio, non mancava nulla, tranne lo status di dio. Senza il serpente tentatore non si sarebbero mai neppure accorti di una “mancanza” a cui sopperire.

Fu dunque un atto di sfida, di orgoglio, che emulava quello del serpente stesso, un angelo caduto che era perfettamente consapevole della risibilità della sua promessa, ma si compiacque di trascinare nell’abisso gli innocenti: “Amo Dio ma gli preferisco me stesso. Il suo ordine mi sta bene, ma preferisco essere io a gestirlo, perché non mi fido del tutto di lui. Mi fido più di me stesso. Posso fare meglio di lui, se mi doto di una conoscenza assoluta e di una vita eterna. Posso prendere il suo posto”.

Adamo non riesce a lasciare che il cosmo proceda per suo proprio conto, vuole intervenire. Così facendo, invece di liberarsi, s’imprigiona. Così facendo entra nella storia, nel tempo, nel decadimento e morte, nella sofferenza, nel travaglio, perde l’innocenza, la sua prospettiva morale diventa soggettiva: allontanato dalla Verità, non sa più cosa sia giusto fare, vive in una perenne tensione tra il bene che dovrebbe fare ed il male che fa. I suoi stessi figli commetteranno il primo omicidio, un fratricidio.

L’aspetto interessante della questione è che l’esilio non trasferisce la coppia primigenia altrove. Essa rimane nei paraggi: è infatti necessaria la presenza di un angelo con la spada fiammeggiante per tenerla lontana. L’Eden è sulla Terra, come credeva anche Cristoforo Colombo, tra i tanti. Qualcosa prima impediva ad Adamo ed Eva di rendersi conto del mondo “esterno”. Ora qualcos’altro impedisce loro di rientrare nel Giardino. È come se Adamo ed Eva non vedessero più quel che vedevano prima, come se usassero occhi diversi. Forse si trovavano ancora nello stesso posto, nell’Eden, ma non lo vedevano più come prima, come un Paradiso Terrestre. Dal momento in cui avevano scelto di autocentrarsi, invece di vivere in comunione con il divino, la loro prospettiva si era ristretta drasticamente, come un’automutilazione, come una lobotomizzazione. Se avessero abbandonato questa prospettiva egocentrica forse sarebbero stati come gatti nella notte, ed avrebbero visto che l’Eden era ancora a portata di mano. Ma il pomo, invece di renderli più consapevoli, li aveva resi meno consapevoli, tagliati fuori dalla comunicazione con Dio, isolati dalla Verità e dall’Amore, condannati al divenire del tempo.

La Caduta

Gesú gli rispose e disse: «In verità, in verità ti dico che se uno non è nato di nuovo, non può vedere il regno di Dio». Nicodemo gli disse: «Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può egli entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e nascere?». Gesú rispose: «In verità, in verità ti dico che se uno non è nato d’acqua e di Spirito, non può entrare nel regno di Dio.

Giovanni 3, 3-5.

La Caduta è la caduta nell’ego, nel soggettivismo, è la caduta di Narciso, che proietta se stesso nella natura e fa in modo che essa si conformi ai suoi desideri. Non solo Adamo ed Eva non si fidano del loro padre, ma non si scomodano neppure di chiedergli le ragioni della sua proibizione, che non era neppure troppo ingenerosa. Genesi spiega che «l’Eterno Iddio diede all’uomo questo comandamento: “Mangia pure liberamente del frutto d’ogni albero del giardino; ma del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché, nel giorno che tu ne mangerai, per certo morrai”» (Genesi 2, 16-17). Adamo può fare ciò che vuole nel Giardino, Dio si limita ad ammonirlo: attento, se mangi di quell’albero perderai tutto ciò che hai. Eva risponde al Serpente che la proibizione è motivata, non è un capriccio: “Non ne mangiate e non lo toccate, che non abbiate a morire” (Genesi 3:3). Però non sembra aver colto il senso di questa motivazione, a causa della sua inesperta innocenza. Così il serpente la inganna: “No, non morrete affatto” (Genesi 3:4). L’errore di Eva è dunque quello di fidarsi più di uno sconosciuto e delle sue promesse che di suo padre, che pure l’ha collocata in un Paradiso. Perché assumersi un tale rischio? Se ha ragione Dio la disobbedienza equivale alla morte. Chi vorrebbe giocarsi tutto prendendo per buone le parole di un essere inferiore, per di più affidato alla propria custodia?

Eppure il Serpente conquista la preda con l’esca della Conoscenza del Bene e del Male: “Iddio sa che nel giorno che ne mangerete, gli occhi vostri s’apriranno, e sarete come Dio, avendo la conoscenza del bene e del male” (Genesi 3:5)]. Quale disillusione ne è conseguita. La presunta conoscenza empirica del bene e del male non ha impedito a nessuno, neppure ai due progenitori, di compiere il male: Eva ha tentato Adamo e tradito la fiducia di Dio, Caino ha ucciso Abele. Pare che, a partire da quel fatale boccone, l’umanità abbia sempre, sostanzialmente, compiuto i propri interessi egoistici razionalizzando il male che commetteva, forse proprio come il Serpente.

L’umanità perde la vita eterna, l’accesso diretto alla Verità, l’innocenza e la pace. Davvero un pessimo affare! Prima della tentazione regnava l’armonia tra Adamo ed Eva e nei rapporti con la natura e gli animali in generale. Sapevano spontaneamente tutto quel che era indispensabile per una vita ideale. Non vedevano nulla che fosse falso o malvagio, perché vivevano nella verità. Dopo la tentazione si vergognano di essere nudi come gli altri animali, cercano di nascondersi da Dio pur sapendo che è onnisciente ed onnipresente, temono la voce di Dio, che pure non si era risparmiato per renderli felici, senza chiedere nulla in cambio salvo di non mangiare un singolo frutto. Adamo denuncia all’istante la compagna, scaricando infantilmente le sue responsabilità per il misfatto: “La donna che tu m’hai messa accanto, è lei che m’ha dato del frutto dell’albero, e io n’ho mangiato” (Genesi 3:12). Eva non è da meno: “Il serpente mi ha sedotta, ed io ne ho mangiato” (Genesi 3:13).

Il Serpente, che già non doveva passarsela troppo bene se trascorreva il suo tempo cercando di manipolare il prossimo, perse l’uso degli arti e la posizione eretta: «Allora l’Eterno Iddio disse al serpente: “Perché hai fatto questo, sii maledetto fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali dei campi! Tu camminerai sul tuo ventre, e mangerai polvere tutti i giorni della tua vita”» (Genesi 3:14). La pace e l’armonia lasciarono il posto al conflitto, ai dissidi, alla violenza: “E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la progenie di lei; questa progenie ti schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno” (Genesi 3:15).

La caduta comporta l’ingresso nel tempo, nel divenire, nella durata, memoria ed anticipazione. Segna anche la perdita di facoltà sovrumane e della nobiltà d’animo. Adamo era un superuomo, dava un nome agli animali e comunicava con loro, era il giardiniere dell’Eden, il suo amministratore, ma non approfittava mai delle sue prerogative e poteri. Tutto questo ha fine. Il frutto dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male si rivela essere un simbolo di restrizione della conoscenza. Il principio archetipico femminile si allea con la parte sbagliata e, contrariamente a quel che si attendeva, perde gran parte della conoscenza e del potere perché, come pare ovvio a noi, in retrospettiva: credere che tutta la conoscenza possa provenire da un’unica fonte è un abbaglio autodistruttivo, contraddice la realtà, allontana dalla Verità ed imprigiona in un labirinto di illusioni ingannevoli, preparando la strada alla nostra rovina.

Non è però una condanna definitiva, non tutto è perduto. Gesù ha assicurato che ritornerà a giudicare i vivi e i morti e a restaurare l’Eden, il Regno di Dio. Così, per John Milton, Maria è la seconda Eva. Infatti, nell’arte medievale che decora le cattedrali gotiche, spesso Maria ed Eva sono fisicamente identiche: Ave Maria è l’inversione di Eva. Come Gesù riscatta l’errore di Adamo, Maria riscatta quello di Eva.

Perché la Caduta/Cacciata?

Beato l’uomo che sopporta la tentazione, perché una volta superata la prova riceverà la corona della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano.

Lettera di Giacomo

Di norma, quando uno cade, cerca di capire perché sia caduto, in modo da evitare di commettere lo stesso errore e risparmiarsi le dolorose conseguenze. Come Fulcanelli, sono dell’opinione che le cattedrali gotiche fossero dei libri aperti che avevano la funzione di istruire i discenti principalmente in questa materia: dove abbiamo sbagliato, come possiamo rimediare.

Al tempo della caduta Adamo ed Eva sono completamente inesperti, privi di infanzia, di educazione, di esperienza. Sono innocenti e puri come bambini. Per Ireneo Adamo era, metaforicamente, un infante. Dio dice ad Adamo che può mangiare tutti i frutti che vuole ma non quelli dell’albero della conoscenza del bene e del male, perché ciò lo condannerà a morte. Adamo non poteva capire il significato di bene e male, perché la sua comunanza con Dio forniva risposte immediate ai suoi interrogativi. Il serpente tentatore spiega ad Eva che mangiando il frutto proibito i suoi occhi si apriranno e sarà in grado di ottenere la facoltà divina di distinguere tra bene e male, ma non è chiaro come Eva possa capire quale sia la posta in gioco, visto che non ha alcuna conoscenza dei termini della questione. Dunque cosa la spinge a soccombere alla tentazione?

Agostino, nell’illustrare la sua interpretazione della Caduta, enfatizza l’aspetto del diventare come dèi in termini di autorità e potere. Il peccato originale è quello di aver creduto di poter essere il faro di se stessi, di aver complottato per deporre Dio e prenderne il posto prima ancora di aver mangiato il frutto. Clemente d’Alessandria e Ireneo sono concordi: per Adamo ed Eva tutto doveva sembrare un gioco spensierato, in una realtà nuova, da esplorare. Erano al di là del bene e del male perché non si ponevano neppure il problema di poter commettere il male. Per loro, incuranti di ciò che va da sé, fare il bene era un istinto insopprimibile. In generale si concorda sul fatto che Eva abbia agito in buona fede ed abbia offerto il frutto per lealtà e spirito di condivisione. Che ingiustizia – avranno pensato i due progenitori archetipici – creare un albero così speciale per poi apporvi un tabù eterno, ossia una tentazione eterna in presenza del tentatore ed una schiavitù eterna, perché non c’è seduzione più facile di quella di ciò che non si può avere, anche se non si sa neppure a cosa serva.

John Milton, nel Paradiso Perduto, motiva la scelta di Adamo ed Eva di precipitare nella materialità fisica e quindi nella mortalità con il desiderio di preferire la conoscenza carnale (corporea) alla contemplazione. Mi pare la spiegazione più logicamente plausibile. Anche nella tradizione rabbinica la storia della Caduta è la storia dell’acquisizione della sessualità. È la conoscenza peccaminosa: il frutto del peccato. Filone l’Ebreo associa il Serpente alla brama di piacere. La mente si allontana da Dio quando è sviata dai sensi che operano sotto l’influenza del piacere. L’influenza del Fedone platonico fu determinante:

– “E a questa perfetta conoscenza può pervenire soltanto colui che alla verità si volge con la sola mente, e non sorregge la sua ragione con alcun senso del corpo, ma solo in sé e puro, con la mente pura, cerca di attingere il vero, astraendosi, più che sia possibile, dagli occhi, dagli orecchi, dal corpo tutto, poiché questo sconvolge l’anima e non le permette di acquistare verità e sapienza. Non è forse quest’uomo, o Simmia, colui che potrà, più di ogni altro, cogliere la realtà?

– Tu dici il vero, o Socrate – rispose Simmia.

– Dunque – seguitò Socrate – tutte queste considerazioni devono formare nei veri sinceri filosofi un’opinione tale da indurli a ragionare pressappoco così: pare che ci sia come un sentiero a guidarci verso la verità, perché fino a quando abbiamo il corpo, e la nostra anima è mescolata con un siffatto malanno, noi non riusciremo mai a raggiungere ciò che desideriamo. Infatti il corpo ci dà infinite brighe per la necessità del nutrimento; e se poi esso si ammala, nuovi impedimenti si frappongono alla nostra ricerca del vero. È ancora il corpo che ci riempie di amori, di passioni, di terrori, di immaginazioni, di vanità infinite, per cui non ci riesce di fermare il pensiero su cosa alcuna finché siamo in sua balìa. E le guerre, le rivoluzioni, le battaglie, chi le produce se non il corpo e le sue passioni? Le guerre, infatti, scoppiano per la brama di ricchezze, e queste noi siamo stretti a procurarcele per il corpo, incatenati come siamo al suo servizio, per cui non abbiamo più tempo di dedicarci alla filosofia. Il peggio è poi che se per un momento riusciamo ad essere liberi dal suo servizio e ci proponiamo di meditare su qualche cosa, ecco che tutto d’un tratto si pianta nel mezzo della nostra meditazione e tutto turba e scompiglia disanimandoci, così che per causa sua non siamo più in grado di contemplare la verità. Resta, quindi, dimostrato che, se noi vogliamo pervenire alla visione più pura del vero, dobbiamo distaccarci dal corpo e contemplare la verità con la sola anima. Allora soltanto, quando saremo morti, e non da vivi, come il ragionamento ci costringe ad ammettere, noi potremo possedere ciò di cui ci professiamo amanti: la Sapienza, cioè. […] Bisogna riconoscere, dunque, o Simmia, che tutti coloro i quali rettamente filosofano è come se si esercitassero a morire; perciò a loro la morte fa molto meno paura che agli altri”.

La lettura psicologica della Caduta fu approvata da Sant’Ambrogio e divenne molto influente nel corso del Medio Evo. Fu Agostino di Ippona ad opporvisi.

Il critico letterario statunitense Stanley Fish, uno dei massimi esperti dell’opera di Milton, scrive a proposito di “Il Paradiso Perduto”: “Satana è definito dall’abitudine di identificare i limiti della realtà con i limiti dei propri orizzonti”. Lo stesso problema di cui fanno esperienza Adamo ed Eva ed i loro discendenti dopo la caduta. Questo perché la venerazione di ciò che è secondario è, in fin dei conti, auto-venerazione perché accoglie come completa e definitiva, ossia come divina, la prospettiva limitata del credente. Accontentarsi della comprensione terrena significa fare di un’insufficienza umana un pregio, un vantaggio ed un feticcio. C’è una forte dose di autolesionismo in questo.

Infatti il Satana di Milton conclude che lui e gli altri ribelli si sono autogenerati perché “non sappiamo di alcun tempo in cui siamo stati diversi da quello che siamo”. È un ragionamento del tipo: esiste solo ciò che vedo e vedo solo ciò che voglio vedere. Ergo: esiste solo ciò che voglio che esista. Questa, come vedremo in seguito, è la maledizione del Minotauro o della Gorgone, contro cui ci mettono in guardia i costruttori delle cattedrali. Adamo ed Eva si sottomettono alla prospettiva soggettiva ed ai suoi limiti e questa diventa la loro realtà. Loro stessi diventano la realtà che hanno scelto di vedere. L’auto-venerazione inquina l’oggetto del suo culto, con la parzialità, l’arbitrio, l’invidia, la gelosia e l’orgoglio. Volgendo la loro immaginazione verso l’universo materiale, trascurano il disegno complessivo nella convinzione di poterne fare a meno.

Fish ritiene che, nella riflessione miltoniana, la Caduta non riguardi la materia di per sé, che è incorrotta nella sua essenza, ma solo gli agenti dotati di libero arbitrio ed autocoscienza. Sono alcuni di loro che, per una ragione o per l’altra, hanno incorporato la materia in un progetto il cui obiettivo è interrompere ogni relazione con Dio, opporvisi ed erigere un regno alternativo, caratterizzato da valori alternativi. Nel Paradiso Perduto di Milton leggiamo che gli effetti del libero arbitrio possono essere determinanti in un senso molto più ampio di quel che ci si potrebbe attendere. Il libero arbitrio è indipendente dal mondo, ma non è vero l’inverso. Ogni mia decisione trasforma la mia percezione del mondo e quindi la realtà del mio mondo, non semplicemente la mia relazione con esso. Continua Fish: “Quando Satana decide liberamente di rompere l’alleanza con Dio, non si limita a modificare la sua relazione con il potere che sostiene l’universo, modifica anche l’universo e ne crea uno nuovo, popolato da persone, eventi, possibilità, aspirazioni e fatti che prendono forma (per lui) simultaneamente rispetto alla sua auto-trasformazione. […]. Un mondo in cui non sai mai chi sta per essere creato o distrutto ed è meglio per te se arraffi ciò che puoi mentre sei ancora in tempo”.

Una volta che ha generato questo mondo, Satana è costretto a dimorarvi, a vedere ciò che gli è concesso di vedere, a trarre conclusioni e progettare le sue mosse sulla base della sua definizione della realtà (falsata). Se concepisce Dio come un tiranno paternalistico il cui regno è un mero accidente, quella concezione finirà per strutturare la sua comprensione di tutto ciò che accadrà da quel momento in poi. I ribelli non possono più vagliare adeguatamente delle alternative, perché hanno scelto di restringere il loro campo visivo e concettuale ed ora sono condannati a vedere in ogni cosa una conferma di quello in cui hanno sempre creduto.

Più oltre scopriremo come gli architetti delle cattedrali, memori di una lunga tradizione, avevano tentato di ovviare a questo problema.

Come si ritorna nell’Eden?

Egli lo creò maschio e femmina.

Genesi, I, 27

[L’alchimista] accede a esperienze iniziatiche che, man mano che l’opus progredisce, gli forgiano un’altra personalità, simile a quella che si ottiene dopo aver superato vittoriosamente le prove di un’iniziazione. La sua partecipazione alle varie fasi dell’opus è tale che, per esempio, la nigredo gli procura esperienze analoghe a quella del neofita nelle cerimonie di iniziazione, quando si sente inghiottito nel ventre del mostro, o sotterrato, o simbolicamente ucciso dalle Maschere e dai Maestri di iniziazione. […]. La fase che segue la nigredo, cioè l’opera bianca (albedo), corrisponde verosimilmente, sul piano spirituale, a una “risurrezione” che si traduce nell’appropriazione di alcuni stati di coscienza inaccessibili alla condizione profana.

Mircea Eliade

Lord Digory: “non devi piangere per Narnia, Lucy. Tutto ciò che contava della vecchia Narnia, tutte le creature più care, sono state portate nella vera Narnia attraverso la Porta. E ovviamente è differente, tanto differente come lo può essere una cosa vera da un’ombra o la veglia dal sogno”.

Era quella la differenza tra la vecchia e la nuova Narnia. Quella nuova era una terra più profonda; ogni roccia e fiore e stelo d’erba sembrava significare qualcosa di più. Non posso descriverlo meglio di così. Se un giorno ci andrete capirete di cosa sto parlando.

La ragione per cui amavamo la vecchia Narnia è che qualche volta sembrava un pochino come questa.

Lucy: “Hai notato che nessuno ha paura anche se ci prova ad averla?”

Il padre ringiovanito e felice.

Una mezz’ora potrebbe anche essere mezzo secolo perché il tempo lì non è come il tempo qui.

Lucy: “capisco. Questa è ancora Narnia e più reale e più bella della Narnia là sotto…capisco. Un mondo dentro un mondo. Narnia dentro Narnia”.

E qualunque cosa guardasse, non importa quanto distante fosse, una volta che aveva fissato lo sguardo su quella cosa, diventava nitidissima e vicina come se guardasse attraverso un telescopio.

“pensavo che la casa fosse andata distrutta”, disse Edmund.

“è così”, disse il Fauno. “Ma adesso stai guardando l’Inghilterra nell’Inghilterra, la vera Inghilterra proprio come questa è la vera Narnia. E in quella Inghilterra interiore nessuna cosa buona è andata distrutta”.

C.S. Lewis, “Le Cronache di Narnia”

Come si ritorna all’Eden? Questa è la questione centrale che tiene impegnate le tradizioni ermetiche di tutto il mondo, a partire dalla sciamanismo.

Nella cattedrale di Amiens il timpano della porta del Salvatore raffigura il giudizio universale. Per gli eletti si aprono le porte della Gerusalemme Celeste, i dannati saranno inghiottiti dal Leviatano. Questo esito sarà determinato dalla pesa delle anime, chiamata psicostasia. San Michele pesa le anime sulla bilancia come, prima di lui, Minosse o l’egizia Mâat. Nella teologia medievale, la risurrezione riguarda “corpi di gloria”, non di carne, restituiti ad un’età giovanile, come quello di Gesù alla morte, in accordo con la visione paolina: “Quanto a noi, la nostra cittadinanza è ne’ cieli, d’onde anche aspettiamo come Salvatore il Signor Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa” (Filippesi 3:20-21).

Ma perché attendere fino alla fine dei Tempi? Non sarebbe magari possibile arrivarci prima, adoperando certe tecniche di purificazione e redenzione? In fondo, agli apostoli che lo interrogano sull’attesa dell’avvento del Regno dei Cieli, Gesù replica: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!” (Luca 17, 20-21). Però in mezzo dove?

La mia tesi è che chi progettò le cattedrali credeva che ciò fosse effettivamente possibile e che il momento dipendeva unicamente dalla preparazione spirituale dell’iniziato. Il primo passo nell’iter di preparazione era la liberazione dalle identificazioni con le cose del mondo, specialmente l’identificazione con ego e con il proprio genere. La questione dell’aggiramento di Ego per accedere alla propria vera identità sarà discussa più diffusamente nella seconda parte del saggio. Qui mi preme investigare il tema dell’androginia spirituale.

Di norma si tendono ad enfatizzare le differenze tra uomini e donne, mentre invece dovrebbe essere ovvio a tutti che quello che ci accomuna è infinitamente di più di quel che ci separa. Io ipotizzo che i mastri muratori delle cattedrali avessero ben presenti certe esortazioni attribuite a Gesù, che si armonizzavano con una gnosi coltivata nei millenni e che ritroviamo nelle culture sciamaniche, appunto, che hanno caratterizzato la quasi totalità della storia umana ai quattro angoli del pianeta.

Tra gli scritti apocrifi, il Vangelo di Tommaso e il Vangelo greco degli Egiziani – che la Chiesa si premurò di distruggere ma che furono citati dagli stessi padri della Chiesa per confutarli, a testimonianza del fatto che continuarono a circolare clandestinamente nei secoli – offrono delle buone sintesi dell’autentica rivelazione. «Gesù disse loro: “Quando farete dei due uno, e quando farete l’interno come l’esterno e l’esterno come l’interno, e il sopra come il sotto, e quando farete di uomo e donna una cosa sola, così che l’uomo non sia uomo e la donna non sia donna, quando avrete occhi al posto degli occhi, mani al posto delle mani, piedi al posto dei piedi, e figure al posto delle figure allora entrerete nel Regno” » (Tommaso, 22). «Gesù disse: “Quando farete dei due uno diventerete figli di Adamo, e quando direte ‘Montagna, spostati!’ si sposterà”» (Tommaso, 105). «Simon Pietro gli disse, “Lasciate che Maria se ne vada, poiché le donne non meritano la vita” Gesù disse, “Io stesso la guiderò in modo da farla maschio, così anche lei potrà diventare uno spirito vivente somigliante a voi maschi. Poiché ogni donna che farà se stessa maschio, entrerà il Regno dei Cieli”» (Tommaso, 114).

Analogamente, il vangelo greco degli Egiziani, che è databile tra la fine del I secolo e la metà del secondo secolo a.C., chiosa, in risposta alla questione che dà il titolo dal capitolo: “quando quei due (maschio e femmina) saranno uno solo, nell’esterno come nell’interno, e il maschio con la femmina non sarà né maschio né femmina”. Infine, la Seconda lettera di Clemente, riporta: «interrogato da qualcuno su quando verrà il Regno, il Signore stesso rispose: “quando i due saranno uno, il fuori come il dentro e il maschio con la femmina né maschio né femmina”».

Il superamento (limitatamente alla sfera psicologica e spirituale) del dimorfismo sessuale è implicito nella risposta di Gesù agli apostoli che gli chiedono cosa si debba fare per assicurarsi un posto nel Regno dei Cieli: «Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli”». (Matteo 18, 2-4). Come pure negli effetti della gloria: “E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; io in loro, e tu in me; acciocché siano perfetti nell’unità” (Giovanni, 17:22-23). Paolo di Tarso esprime una posizione assolutamente conforme: “Non c’è qui né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina; poiché voi tutti siete uno in Cristo Gesù” (Galati 3, 28). Che riafferma in una diversa epistola: “Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca. Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti” (Colossesi, 3, 8-11).

Eva, in fondo, è il doppio di Adamo: proviene simbolicamente da una sua costola e, come lui, è creata a immagine e somiglianza del Padre. La mitologia mondiale ci offre innumerevoli esempi di coppie di antenati gemellari (Eliade, 1989). Nel Giardino del Paradiso Perduto non vi è una reale divisione di funzioni e ruoli nella coppia: vi è solo la condivisione della comunione con Dio. È solo con la caduta che a ciascuno è assegnato un ruolo e dei compiti ben precisi: Eva partorirà con dolore e sarà sottomessa al marito, Adamo si spaccherà la schiena nei campi.

Nel Simposio, il dialogo platonico che tocca il tema dell’androginia, gli androgini hanno forma sferica. Sono descritti come arroganti, sempre pronti a minacciare l’autorità divina, a cercare di sostituirsi gli dèi, come il Serpente e come Adamo ed Eva. Zeus ne ha abbastanza: li dimezza per renderli impotenti. Da quel momento in poi le due metà complementari si cercano, per riunificarsi e completarsi. La scissione corrisponde alla Caduta biblica in una realtà fatta di caducità, divenire, temporalità, finitezza, ignoranza, travaglio e sofferenza. Questo mito sembra voler insegnare che, inconsciamente, è possibile che il desiderio di “accoppiarsi” – sessualmente ed affettivamente, a prescindere dal genere del partner – sia uno sforzo (per sua natura fallimentare) di ritornare all’Età dell’Oro, all’Eden, come se quest’archetipo fosse particolarmente pressante, in noi.

È possibile che il motivo dell’androginia sia molto antico. “L’idea della bisessualità veicolata attraverso il mito dell’androginia si ritrova tanto nelle culture arcaiche quanto in quelle culture che hanno sviluppato forme di religione complesse. Sin dalle culture megalitiche, a partire dalle quali la bisessualità divina sembrerebbe chiaramente attestata, l’idea della divinità androgina, su cui si fonda l’ordine di svariate culture anche lontane nel tempo e nello spazio, consente di recuperare a livello mitico l’unità dei principi osservati nella realtà in forma separata. Un caso classico di androginazione rituale è rappresentato dagli operatori sciamani, in particolare siberiani ed indonesiani” (D’Agostino, 1997, p. 155).

L’endemicità transculturale della figura divina androgina ci fa pensare che anticamente non ci fu mai una società matriarcale, poi soppiantata da una società patriarcale. Sembra più probabile che il divino non fosse considerato maschile o femminile, ma come un principio compartecipe di entrambe le nature – che si manifestava nello Spirito, nelle stelle, nell’energia – che probabilmente ispirava una certa misura di egalitarismo in queste società immotivatamente considerate “primitive” (Eliade 1971, 1989; Sullivan, 1988). Nella Bhagavad Gita, Krishna dice: “Io sono il padre di questo mondo dei viventi, e sua madre”. Tiresia è in grado di comunicare con gli dèi e di predire il futuro perché è stato uomo, poi donna e poi ancora uomo. In “Mefistofele e l’androgine” (sic!), Eliade rilegge il principio della coincidentia oppositorum di Nicolò da Cusa come “definizione meno imperfetta di Dio”. Per Eliade, partendo dal medesimo presupposto, l’androginia diventa la chiave per avvicinarsi a Dio. L’androgino rituale, nell’esoterismo, è un modello di essere umano esemplare perché, a differenza dell’ermafrodita, che accumula l’anatomia dei due sessi senza fonderli, l’androgino unisce simbolicamente “la totalità delle potenze magico-religiose dei due sessi”. Rivisitando le teorie pitagoriche, platoniche, neoplatoniche, cabalistiche e le visioni del romanticismo europeo, dello sciamanismo e della mistica cristiana, Eliade dimostra l’esistenza di un filo conduttore all’interno di una scuola di pensiero che travalica confini ed epoche, per ritrovarsi nell’imperativo della reintegrazione progressiva dei sessi, che invece ogni società tende a separare in modo molto accentuato. Scoto Eriugena (IX secolo d.C.), uno dei massimi teologi cristiani medioevali, affermava che la divisione sessuale avrebbe avuto termine con la riunificazione dell’uomo nel trasfondersi di una parte del mondo terrestre nel paradiso. Il mistico tedesco Jacob Boehme riferiva di uno stato adamico caratterizzato dall’incorruttibilità, dall’androginia, dalla riproduzione angelica senza sesso (partenogenesi?) e dall’alimentazione non-materiale, condizione che si sarebbe replicata nel Regno di Dio.

Perfino un medico come Johann Wilhelm Ritter, amico di Novalis si lasciò catturare dal fascino della risoluzione androgina, concludendo nel suo “Fragmente aus dem Nachlass eines jungen Physikers” che “Eva è nata da un uomo senza aiuto della donna; Cristo è nato da una donna senza l’aiuto dell’uomo; l’Androgino nascerà da entrambi. Ma l’uomo e la donna si fonderanno in un unico fulgore” (Eliade, 1989, p. 63). Un altro medico, Franz von Baader, anche lui un erudito in fatto di cognizioni ermetiche, riteneva che l’androginia fosse la condizione “naturale” dell’umanità e che la divisione sessuale fosse episodica, legata alle leggi naturali di questo mondo. Di conseguenza l’umana perfezione discende dalla condizione primigenia dell’Antenato mitico, in cui convergono unità e totalità (Eliade, 1990). L’androginia originaria era accettata come un’ovvietà anche dal visionario poeta e pittore inglese William Blake.

Questa tensione trascendentalista dell’ermetismo è stata ottimamente riepilogata dallo storico delle religioni, Joseph Campbell (1992, pp. 190 e segg.): “l’idea fondamentale di tutte le discipline religiose pagane, sia orientali sia occidentali, durante il periodo in questione (primo millennio avanti Cristo) era che l’introspezione mentale (simboleggiata dal tramonto) avrebbe dovuto culminare nella realizzazione dell’identità in esse fra l’individuo (microcosmo) e l’universo (macrocosmo); quando si fosse ottenuto ciò, si sarebbero unificati i principi dell’eternità e del tempo, del sole e della luna, del maschile e del femminile, di Hermes e di Afrodite (ermafrodito) e dei due serpenti del caduceo. […] Coloro che, come Tiresia, hanno visto e sperimentato il mistero dei due serpenti, e che sono stati almeno in un certo senso, sia maschi sia femmine, conoscono entrambi gli aspetti della realtà; e pertanto essi hanno assimilato ciò che è l’essenza della vita e sono, quindi, eterni”.

Lo sciamano e il Graal (Sangue Reale)

Di quelli che hanno trovato se stessi, il mondo non è degno.

(Tommaso, 111)

Una luce misteriosa che lo sciamano percepisce improvvisamente nel suo corpo, nella testa, nel centro stesso del suo cervello, come un faro, inesplicabile, come un fuoco luminoso che lo rende capace di vedere nel buio, sia nel senso concreto che nel senso metaforico, perché ora, anche ad occhi chiusi, egli riesce a vedere attraverso le tenebre e a percepire cose e avvenimenti futuri, nascosti agli altri uomini. […].come se la capanna nella quale si trova si alzasse tutt’a un tratto; egli vede molto lontano dinanzi a sé, attraverso le montagne, proprio come se la terra fosse una grande pianura e il suo sguardo raggiungesse i confini della terra. Per lui non vi è più nulla di nascosto. Non solo è in grado di vedere molto lontano, ma può perfino scoprire le anime rubate.

Mircea Eliade

Quando i testi sumerici descrivono i paramenti della regalità citano anche oggetti come il tamburo (pukku) e la bacchetta (mikku), tradizionali “strumenti di lavoro” dello sciamano, il cui incarico è quello di difendere la sua comunità dalla sterilità, dalla fame, dalla morte, dalle malattie e, più in generale, dal male. Le saghe sumere sono letteralmente sature di temi sciamanici come il volo magico, l’animale-guida, la pianta magica, l’iniziazione del novizio, l’ascetismo, l’immortalità, i guardiani del cielo, il sogno sacro, i poteri guaritori, premonitori e profilattici. Anche il racconto evangelico abbonda di riferimenti sciamanici. Leggiamo di guaritori-esorcisti nati da una vergine, che digiunano e resistono alle tentazioni durante la loro iniziazione che si conclude con un battesimo e la discesa dello Spirito Santo in forma di un volatile totemico. Fanno risorgere i morti, camminano sull’acqua, sfamano gli affamati e modificano le condizioni atmosferiche, sono amati dalle folle per i loro miracoli, muoiono (ritualmente) e risorgono dopo tre giorni. Sono tutti motivi che si ritrovano nelle tradizioni orali pre-cristiane dello sciamanismo asiatico (Znamenski, 2007). Il sostrato sciamanico si estende dall’Atlantico all’India (McEvilley 2002) e in tutto il resto del mondo (Eliade & Couliano, 1990), con notevoli affinità anche in assenza di contatti diretti (Wilbert, 1993; Bocci, 2009). A me interessa evidenziare la relazione esistente tra sciamanismo, tradizione cavalleresca e simbologia pagano-cristiana nelle cattedrali gotiche.

Incamminiamoci nella direzione indicata dall’antropologo statunitense Michael Harner (Berkeley, Columbia e Yale) che, nel 1960, dopo aver assunto ritualmente delle sostanze psichedeliche sotto la supervisione di sciamani indigeni, ebbe questa visione: “vidi un’immagine luminosa fluttuare verso di me. La guardavo terrorizzato diventare sempre più grande e trasformarsi in una forma attorcigliata. La gigantesca figura di rettile contorto fluttuava direttamente verso di me. Il suo corpo risplendeva di tinte brillanti di verde, viola e rosso e, mentre si contorceva nel mezzo dei fulmini e dei tuoni, mi guardava con uno strano sorriso sardonico”. Questi esseri ofidici asserirono di essere i veri padroni del mondo e dell’umanità e lo esortarono ad accettare questo dato di fatto. Lui li scacciò con il bastone sciamanico e, in un secondo momento, lo sciamano che lo istruiva gli spiegò: “Oh, dicono sempre così. Ma sono solo i Padroni dell’Oscurità Cosmica” (Harner, 1982).

Si tratta evidentemente di una visione iniziatica. Il cavaliere è alle prese con il Mostro, con il Drago che dovrà uccidere se vorrà dimostrarsi degno del mandato che gli è stato assegnato. I precedenti sono illustri: Perseo, Teseo, Ercole, Ulisse, Davide e Uther Pendragon, padre di re Artù: secondo una tradizione il suo nome deriverebbe dall’uccisione di un drago. Decapitatolo, la testa gli servì a reclamare il trono per sé. Cadmo spappola la testa del serpente assassino che custodisce la sacra fonte curativa Castalia. Ercole uccide l’idra di Lerna ma anche Ladone, il drago-serpente guardiano che si era attorcigliato attorno all’albero dei pomi d’oro delle Esperidi, nel giardino di Atlante. Apollo uccide Pitone, presso la fonte sacra dell’oracolo di Delfi. Zeus doma Tifeo (Tifone), metà uomo e metà bestia.

Il drago viene ucciso da molti santi: san Michele, san Giorgio, san Galgano, san Leucio. Curiosamente, la tradizione vuole che San Giorgio sia nato a Tarso, dove Zeus combatté contro Tifone, e che la sua tomba si trovi a Giaffa dove Perseo si scontrò con Ceto. Sempre da Giaffa salpò Giona, diretto a Tarso, poco prima di finire nel ventre della “balena”. La Bestia precipita negli Inferi quando il Gesù miltoniano resiste alle tentazioni, superando le prove. Il Buddha compie la medesima impresa contro Mara. Il mostro rappresenta simbolicamente ego, il filtro che impedisce di vedere la realtà come effettivamente è e non come siamo costretti a vederla da una prospettiva autocentrata. La vittoria su ego consente all’eroe di accedere alla sapienza cosmica, che prima gli era preclusa. Il tema epico del cavaliere errante uccisore del drago ritorna nel motivo dell’arte medievale di Gesù che schiaccia il basilisco o il drago. Lo stesso vale per lo sciamano che si deve isolare nella foresta e trovare se stesso prima di poter espletare le sue funzioni in seno alla tribù. Anche Socrate e Gesù si isolano prima di intraprendere la loro missione.

L’Eroe della cerca del Santo Graal è Parsifal, nome forse etimologicamente riconducibile all’etrusco Phersu (altro guerriero che affronta la sua iniziazione nell’Ade), a Persefone, ma soprattutto a Perseo. La cerca è un percorso iniziatico di tipo sciamanico: come lo sciamano, Parsifal è chiamato a curare i mali del mondo e restituire la fertilità alla terra. Perseo e Parsifal sono tra i pochi eroi che hanno successo e non sono puniti dagli dèi. Perseo taglia la testa a Medusa, uccide il mostro marino, salva la damigella che poi sposa ed infine ascende al cielo: è il prototipo di tutti i cavalieri azzurri. Perché decapita Medusa? Perseo è un redentore e la nomina a cavaliere avviene attraverso una decapitazione simbolica: il sovrano tocca entrambe le spalle del cavaliere con una spada (“accollata”). Anche questo rientra nel rito della liberazione della coscienza dalla gabbia del corpo e quindi di ego. Analogamente, lo sciamano viene “smembrato”, come Dioniso, e poi ricomposto, magari con filo di ferro o giunti di ferro, il metallo con cui sono fatte le spade.

La missione dello sciamano avrà successo solo quando la sua comunità tornerà ad essere florida. È anche il motivo centrale dell’epopea del Santo Graal: la terra è isterilita, il re pescatore è gravemente malato, la sua reggia è diventata invisibile. Ci sono armi magiche (lancia insanguinata) e recipienti magici (calice). Il cavaliere deve riuscire a curare la malattia del re, che ha causato la carestia, e lo può fare solo ponendo le domande giuste, come ad esempio quale sia la funzione del Graal. Se lo farà il re non solo sarà curato, ma ringiovanirà e la terra tornerà feconda. L’Eden tornerà in terra ed il cavaliere sarà nominato nuovo custode del Graal.

Emma Jung, moglie di Carl Jung ed anch’essa psicanalista, assieme ad un’allieva svizzera di Jung, Marie-Louise von Franz, ha dedicato un inestimabile volume all’analisi degli archetipi contenuti nella saga del Graal (Jung & von Franz, 2002). Vorrei riepilogare i punti salienti del loro studio prendendo le mosse dal motivo del Paradiso Ritrovato, che le due autrici descrivono come “un tratto che si presenta con particolare forza nell’immaginario celtico”. L’aldilà celtico non è il soggiorno dei defunti ma una “terra dei vivi” (cf. le parole di Gesù), un “Elisyum degli immortali”: “Un mondo senza malattia né morte, in cui gli uomini vivono in eterna giovinezza come esseri divini, godendo di squisiti cibi e bevande e ascoltando dolce musica, un paese tuttavia che l’umanità ha perduto e verso il quale perciò solo pochi eletti possono ritrovare la strada (op. cit. p. 23). I lettori si ricorderanno che il Vecchio ed il Nuovo Testamento localizzano il Paradiso Terrestre / Regno di Dio sulla Terra, ma non in questo mondo: l’ubicazione è la medesima, la dimensione è invece parallela. Mentre i viventi incarnati si credono vivi, sono in realtà “morti”. La vera vita è nell’altro mondo. Così, nel poema “Diu Krone”, il re dice al trovatore del Graal: “sembriamo vivi, in realtà siamo morti”. Resta il potenziale di redenzione e rivitalizzazione: “questo paese si trova in mezzo al mondo abituale, ma nascosto dietro un magico velo di nebbia, e si rende visibile solo in situazioni particolari e a individui particolari” (ibidem).

Di fatto, Parsifal non riesce proprio a vedere il castello del re pescatore, per quanti sforzi faccia. È proprio un pescatore ad aiutarlo a trovare la strada. Anzi, per la precisione, glielo indica con il dito ed il cavaliere si accorge di averlo sempre avuto davanti agli occhi, senza riuscire a scorgerlo. Il castello si erge di fronte a lui, il cancello ed il portone sono aperti, come se fosse atteso. Eppure, senza l’intervento provvidenziale del pescatore, egli non l’avrebbe visto ed avrebbe continuato la sua ricerca. “Questo ricorda l’immagine archetipica del paradiso perduto”, osservano le due autrici.

Il pescatore e il re pescatore rimandano a Orfeo, il Pescatore (Eisler, 1921) e a Gesù, il Pescatore di uomini: “Venite dietro a me, e vi farò pescatori d’uomini” (Matteo 4:19). E ancora: “Il regno de’ cieli è anche simile ad una rete che, gettata in mare, ha raccolto ogni sorta di pesci; quando è piena, i pescatori la traggono a riva; e, postisi a sedere, raccolgono il buono in vasi, e buttano via quel che non val nulla. Così avverrà alla fine dell’età presente” (Matteo 13: 47-49). Jung e von Franz ci ricordano che in un papiro magico copto il Cristo è rappresentato nell’atto di pescare se stesso in forma di pesce. In alcune versioni della leggenda il re pescatore è chiamato Pelles o Pellam, che ci rimanda ad Apollo (Apollōn/Apellōn), il nume tutelare di Orfeo – Pitagora rendeva onore principalmente ad Apollo Iperboreo –, ma anche a Pwyll, il re gallese degli inferi. A Delo, la Danza della Gru di cui ci occuperemo in un apposito capitolo veniva eseguita in onore di Apollo.

A questo punto le autrici arrivano ad un’importante conclusione: “il vecchio re del Graal corrisponderebbe ad Adamo morto, il quale, come quest’ultimo, deve attendere un salvatore….[è] l’idea che in un certo senso all’inizio della creazione vi fosse un piano o un disegno segreto che corre da Adamo fino a Cristo e che collega la figura del primo padre dell’umanità con quest’ultimo. Dunque se nella leggenda del Graal vi è un riferimento a tale disegno divino, bisogna supporre che il piano di salvezza debba proseguire oltre Cristo, appunto presumibilmente fino a Perceval, cioè fino al tierz hom, fino alla realizzazione dello Spirito Santo” (p. 381).

In questo luogo le normali leggi dello spaziotempo non si applicano: il Re stenta a credere che Parsifal sia riuscito a coprire una distanza così estesa in un solo giorno. Nel Parsifal di Wagner l’accompagnatore del cavaliere gli spiega: “vedi, figlio mio, qui il tempo si fa spazio”. Le due studiose osservano le analogie con il processo alchemico: “la vita prodotta dall’opus o dal Graal è diversa da quella visibile, fisica. […] Con questa vita diversa non sembra che si voglia intendere la vita dopo la morte, bensì una vita che si svolge in questa vita ma su un altro piano” (p. 154). È un “essere presenti ma in modo inafferrabile, incomprensibile”.

Mentre lo spazio ed il tempo sono relativi, non lo sono i valori: la tavola è rotonda a rimarcare la pari dignità di chi vi siede attorno. Inoltre il cavaliere del Graal deve dimostrarsi degno dell’impresa, non dando sfoggio di forza e destrezza, ma di integrità morale e chiarezza di intenti e di intelletto; solo così potrà emulare i mistici, realizzando la divinità nella materia (una coscienza superiore), giacché il compito del cavaliere è “l’unione del mondo dell’aldiqua con quello dell’aldilà” (p. 198). Che questa non sia un’impresa facile è testimoniato dal fatto che Parsifal fallisce ripetutamente ed ogni volta è costretto a cercare di nuovo il castello. Perché fallisce? Perché si macchia della colpa di “agire sempre in modo inconsapevole. Non è tanto quello che fa ad essere sbagliato, quanto il fatto che in tutto ciò che fa egli non è consapevole delle conseguenze delle sue azioni” (p. 211).

Gesù, Fulcanelli e il Corpo Mistico

La trasformazione dei corpi in luce e della luce in corpi è pienamente conforme alle leggi della natura, perché la natura sembra affascinata dalla trasmutazione.

Isaac Newton

In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito…Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito.

Giovanni 3, 1-8

Il credente può restare interdetto nel leggere certi passi evangelici che riguardano la vera vita. Gesù si dichiara un irriducibile amante della vita, ma non di quella vita organica che la Chiesa sembra voler difendere oltre ogni ragionevole aspettativa. Gesù insegna che esiste un’altra vita, una vita sensibilmente più importante di questa, tanto che “chiunque è vivo per colui che vive non vedrà la morte” (Tommaso, 111). È beato chi “si è impegnato ed ha trovato la vita” (Tommaso, 58), ma il compito non è per niente facile: “stretta invece è la porta ed angusta la via che mena alla vita, e pochi son quelli che la trovano” (Matteo 7:14). È come inoltrarsi in un labirinto, ma è necessario farlo, perché “chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la sua vita per amor mio, la troverà” (Matteo 16: 25). Sarà una vita vera ed eterna, non come quella del presente, che equivale ad una morte vivente: “Chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha vita eterna; e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5:24). Il corpo di carne, infatti, è il fardello della caduta e Gesù non sa che farsene: “È lo spirito quel che vivifica; la carne non giova nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita” (Giovanni 6, 63). Il suo piano è incentrato proprio sul dono della vera vita: “io son venuto perché abbian la vita e l’abbiano in abbondanza” (Giovanni 10, 10). Questo l’ha ben compreso Paolo di Tarso, che rincara: “Perché ciò a cui la carne ha l’animo è morte, ma ciò a cui lo spirito ha l’animo, è vita e pace” (Romani 8:6).

La mia (e non solo mia) tesi è che la funzione del labirinto, dall’antichità all’epoca delle cattedrali e oltre (cf. alchimia, meditazione trascendentale, misticismo), sia stata quella di educare l’iniziato alla cerca del Graal, ossia alla realizzazione della vera vita già in questo mondo, prima dell’avvento del Regno, eludendo quindi i condizionamenti imposti alla coscienza dalla Caduta. Non mi interessa dimostrare che ciò sia possibile, ma semplicemente che questo era l’obiettivo, più o meno realistico. L’idea era quella di emulare Gesù, il Cristo risorto.

Stando a quello che ci è stato tramandato, nessuno è in grado di riconoscere Gesù risorto. Né Maria di Magdala: “Mentre parlava si voltò e vide Gesù in piedi, ma non sapeva che era lui. Gesù le disse: – Perché piangi? Chi cerchi? Maria pensò che era il giardiniere e gli disse: – Signore, se tu l’hai portato via dimmi dove l’hai messo, e io andrò a prenderlo. Gesù le disse: – Maria! Lei subito si voltò e gli disse: – Rabbunì!” (Giovanni 20,14-16). Né i due discepoli in viaggio per Emmaus, che lo scambiano per un viandante e fanno un tratto di strada con lui senza capire chi sia. Solo in una locanda, quando benedice il pane e lo spezza, capiscono: “In quel momento gli occhi dei due discepoli si aprirono e riconobbero Gesù” (Luca 24, 31). Sulle rive del lago di Tiberiade, i discepoli che pescano non paiono essere più lucidi e perspicaci: “Era già mattina, quando Gesù si presentò sulla spiaggia, ma i discepoli non sapevano che era lui. Allora Gesù disse: Gettate la rete dal lato destro della barca e troverete pesce. I discepoli calarono la rete. Quando cercarono di tirarla su non ci riuscivano per la gran quantità di pesci che conteneva. Allora il discepolo prediletto di Gesù disse a Pietro: – È il Signore!” (Giovanni, 21: 4-7). Qualcosa è successo al corpo di Gesù. È come se non fosse presente in carne ed ossa, ma in una sua emanazione sotto un’altra forma, una forma cangiante e spesso di difficile identificazione.

Gli Atti di Giovanni, un corpo di scritti apocrifi attribuiti all’apostolo Giovanni e risalente al II secolo d.C., molto popolare, ma bandito dalla Chiesa con il secondo concilio di Nicea, nel 787, sono ancora più espliciti. In essi, oltre a trovare una preziosa descrizione di un girotondo danzante chiamato choreia (come la Danza della Gru – si veda oltre) in cui Gesù conduce e canta un inno, mentre gli apostoli rispondono con un “amen”, possiamo leggere una perfetta sintesi della credenza nella possibilità di “passare oltre”, in una dimensione materialmente meno densa, quasi compiendo un balzo quantico (su questo punto rimando agli studi del fisico teoretico Shimon Malin).

Riporto il passaggio quasi integralmente, perché è molto pittoresco ed istruttivo: “Dopo aver scelto Pietro e Andrea, che erano fratelli, venne da me e da mio fratello Giacomo, dicendo: “ho bisogno di voi: venite”. Mio fratello, udite queste parole, mi disse: “Giovanni, che cosa vuole quel bambino che sta sulla riva e che ci chiama?” Io chiesi: “Quale bambino?” E lui di nuovo: “quello che ci fa cenni”. Io risposi: “A forza di guardare il mare, fratello mio, non vedi più bene. Io vedo un uomo, là in piedi, bello, piacevole e cordiale”. Ma lui disse: “io non lo vedo, fratello. Comunque, andiamo a vedere che cosa vuole”. E così, dopo aver portato a terra la barca, lo vedemmo; ed egli ci aiutò nella manovra. Ma quando ce ne andammo, pensando di seguirlo, egli apparve a me alquanto calvo, ma con una barba fitta e fluente, mentre a Giacomo apparve un giovane con la prima barba. Eravamo, pertanto, entrambi perplessi sul significato di ciò che avevamo visto. E, mentre lo seguivamo, la perplessità andò sempre più aumentando…Cercando di vederlo da vicino, non scorsi mai le sue palpebre sbattere: aveva gli occhi sempre aperti. E talvolta mi sembrava un piccolo e brutto uomo, talvolta uno altissimo. Inoltre c’era in lui un’altra stranezza: quando ci sedemmo a mangiare, egli mi strinse al petto, che talvolta mi appariva tenero e molle, e talvolta duro come pietra…talvolta quando lo toccavo, incontravo un corpo solido, materiale, ma talvolta sembrava fatto di una sostanza inconsistente, non materiale. Se qualche volta veniva invitato da qualche fariseo e accettava l’invito, noi lo accompagnavamo, e davanti ad ognuno di noi veniva messa una pagnotta. Ma egli benediva la propria e la divideva fra tutti; e con quella piccola porzione noi ci saziavamo, mentre le nostre pagnotte restavano intere…Spesso, quando camminavo con lui, volevo vedere le impronte dei suoi piedi, per verificare se rimanevano sul terreno, perché era come se egli si librasse sul suolo; e, in effetti, non le vidi mai”.

Quello di Gesù è, ora, un corpo mistico; come, ci viene detto dai suoi estimatori ed amici, quello di un esperto di cattedrali gotiche, l’alchimista Fulcanelli. Eugène Canseliet, intervistato dal giornalista Henri Rode, afferma di aver incontrato Fulcanelli a Siviglia nel 1953, in Andalusia, vent’anni dopo il suo decesso e di non essere riuscito a riconoscerlo. Questo perché il suo non era più un corpo fisico ma un “corpo di gloria”: Fulcanelli era stato capace di realizzare l’opus alchemica. Leggiamo il suo resoconto: “Ero in viaggio in Spagna, non lontano da Siviglia, dov’ero ospite di un amico proprietario di una bella dimora con una terrazza ed una doppia scalinata che dava sul parco. All’improvviso avvertii la presenza di Fulcanelli nei paraggi”. Ma tutto quel che riesce a scorgere è un bambino di dieci anni ed una ragazza, accompagnati da un pony e da due levrieri: il tutto sembrava uscire da un dipinto del Vélasquez, constata. Poi, però, un’altra sera, vede una giovane dama, una sovrana, che porta al collo il toson d’oro. Ella gli rivolge un cenno col capo ed è come se Fulcanelli gli sussurrasse: “mi riconosci?”. In un’altra intervista, concessa a Robert Amadou e poi inclusa nel libro di quest’ultimo intitolato “Le Feu du Soleil – Entretien sur l’Alchimie avec Eugène Canseliet”, Canseliet conferma: “Fulcanelli non c’è più. È ancora sulla terra, ma è nel Paradiso terrestre. Che cosa sta facendo? Non ho potuto vedere nulla… È venuto a trovarmi al mio laboratorio…due volte”. Fulcanelli e l’estensore degli Atti di Giovanni considerano la materia impura e ne traggono la conclusione che una vita più spirituale deve essere, letteralmente, meno materiale.

Lo storico britannico Brian J. Gibbons ha offerto un contributo mirabile su questo filone della tradizione ermetica (Gibbons, 2004) che, va detto, non è assolutamente un monopolio europeo (Eliade, 1992; Sullivan, 1988; McEvilley, 2002). Gibbons chiarisce che per il pensiero ermetico la Caduta è una “repentina transizione da uno stato incondizionato e non contingente a uno stato condizionato e contingente” (p. 97) concernente la coscienza che, alla caduta, si sdoppia in una coscienza trascendente ed una coscienza egoica, incatenata alla materialità del mondo. Solo la coscienza trascendentale è veramente oggettiva, ossia è in grado di vedere la realtà come effettivamente è. Ego, invece, a causa della sua corporeità, è intrinsecamente ed irrimediabilmente soggettivo e si percepisce come un oggetto speciale tra tanti altri oggetti. L’unica maniera per tornare alla condizione pre-Caduta è quella di aggirarlo privilegiando, come Paolo di Tarso, lo spirito rispetto al corpo. Gibbons cita una serie di opinioni davvero sorprendenti – per la mentalità contemporanea – di teologi, filosofi e studiosi dell’occulto, che peraltro concordano con quanto affermato da Ireneo e San Paolo: esiste un corpo naturale distinto dal corpo spirituale (1 Corinzi 15, 44) e quest’ultimo si manifesterà alla fine dei Tempi: “Or questo dico, fratelli, che carne e sangue non possono eredare il regno di Dio né la corruzione può eredare la incorruttibilità. Ecco, io vi dico un mistero: non tutti morremo, ma tutti saremo mutati, in un momento, in un batter d’occhio, al suon dell’ultima tromba. Perché la tromba suonerà, e i morti risusciteranno incorruttibili, e noi saremo mutati” (1 Corinzi 15, 50-52).

Il poeta Samuel Pordage (1633 – c.1691) credeva che gli spiriti “hanno corpi che sono distinti da sé, ma non grevi come i nostri corpi, soggetti ai nostri sensi esterni, ma soggetti ai nostri sensi interni” (Gibbons, op. cit., p. 98). William Law (1686 – 1761), teologo britannico ammiratore di Boehme, era dell’idea che “un altro tipo di visione, un altro modo di vedere le cose si aprì ad Adamo dopo la caduta” (ibidem, p. 103). Il medico, filosofo ed alchimista polacco Michał Sędziwój (1566–1636) confermava che “l’ombra della natura sui nostri occhi è il corpo” (ibid.). Anche William Blake ne era convinto: la realtà percepita è un’illusione, “l’uomo non ha un corpo distinto dall’anima perché quello chiamato corpo è una porzione di anima che così viene percepita dai cinque sensi, ed è l’involucro principale dell’anima in questa era” (ibidem). Ecco come Lodovico Sinistrari (1622 – 1701) frate francescano che fungeva anche da consultore per il Tribunale dell’Inquisizione di Pavia, inquadrava la questione. Esistono “creature razionali che hanno spirito e corpo”, ma con “una corporeità meno grossolana e più sottile di quella dell’uomo”. Questi esseri, che pure sono meno speciali di quegli spiriti che non si subordinano alla densità materiale della corporeità o semi-corporeità, possono attraversare gli oggetti solidi ed “essendo il loro corpo meno grossolano di quello dell’uomo, comprendendo meno elementi mescolati insieme ed essendo perciò meno composito, non soffrono così facilmente le influenze avverse e sono perciò meno soggetti alla malattia di quanto lo sia l’uomo: la loro vita supererebbe la nostra” (Gibbons, op. cit., p. 103).

Ripeto, qui non è in questione la veridicità di questa interpretazione della realtà: mi preme solo far rilevare ai lettori quanto fosse diffusa e come, pur in tutte le sue declinazioni, mantenesse una fisionomia riconoscibile. La ritroviamo nel mistico tedesco Jacob Boehme che immagina (o “vede”) un Adamo originariamente splendido, chiaro e cristallino, capace di “attraversare la terra e la pietra, non essendo ostacolato da nulla” (Gibbons, ibid., p. 110). Facoltà che gli era concessa in quanto, nei corpi sottili, “le facoltà sensoriali erano impiegate assai scarsamente e quelle spirituali prevalevano, così come oggi le prime prevalgono sulle seconde”, spiegava il filosofo ed alchimista gallese Thomas Vaughan (1621 – 1666). A questo punto Gibbons ci reintroduce nella fitta problematica riguardante l’androginia. Il corpo sottile è prerogativa dell’essere che trascende le distinzioni di genere e le distinzioni in genere. La perfezione primordiale del corpo edenico permette l’auto-ingravidazione con la forza del pensiero, dell’immaginazione, un altro tema comune ai popoli indigeni del Sudamerica (Sullivan), tra gli altri (cf. gli studi etnografici di Claude Lévi-Strauss e Vittorio Lanternari).

L’obiettivo dell’alchimista, del mistico o dello sciamano è il medesimo: il suo corpo non deve ostruire la sua volontà – N.B: volontà della coscienza, non bramosie fisiche – più di quanto il vetro ostruisca la luce. Non occorre odiare il corpo ed è sommamente sbagliato commettere il suicidio come rifiuto categorico della realtà materiale, ma è certamente indispensabile comprendere che esso rappresenta un ostacolo e che bisogna preferire l’incorporeo al corporeo; anche se il primo pare così sfuggente, anche se il secondo intende resistere ad ogni tentativo di domarlo (come nell’iconografia cinese del saggio taoista che cavalca la tigre). L’immagine impiegata è quella di una lanterna con il vetro affumicato: l’anima fatica a rilucere all’interno del corpo, come se mancasse l’aria. Per Blake il corpo è una catena, per Balzac l’anima è un detenuto in cella, per Schelling l’umanità ha perso la sua centralità ed è diventata una cosa tra tante cose: “ha voluto essere una particolarità, chiedendo per sé un essere proprio [Seyn] e diventando perciò lo stesso che una cosa” (Gibbons, op. cit. p. 61).

Al contrario, la faticosa ricerca dell’alchimista si conclude con la trascendenza. Un discepolo di Paracelso, Oswald Croll, descrive così gli “uomini santi” che hanno avuto successo: “con la virtù del loro spirito divinizzato hanno goduto, già in questa vita, i primi frutti della Risurrezione e hanno avuto un saggio del Regno Celeste” (Eliade, 1991, p. 146).

Il Labirinto e le Cattedrali

pa-si-te-o-i me-ri

da-pu-ri-to-jo po-ti-ni-ja-me-ri

“Un’anfora di miele a tutti gli dei

Alla Signora del Labirinto, un’anfora di miele”.

Iscrizione cretese

Come successione numerica, o tramite quella sua straordinaria incarnazione geometrica che è la spirale aurea, la Divina Proporzione si ritrova nelle misure del corpo umano, nei cristalli di neve, nelle conchiglie, nelle corna dell’ariete, nella disposizione di semi e foglie, nella conformazione dei fiori, nel volo degli uccelli rapaci, nel vorticare degli uragani, nel volgersi delle spirali delle galassie….Le falene si avvicinano al fuoco su cui s’immoleranno seguendo una spirale logaritmica. Le straordinarie geometrie dei frattali, che crescono all’infinito diventando sempre più complesse, si moltiplicano con un ritmo scandito dalla successione aurea.

Sebastiano Fusco, prefazione a “Il numero d’Oro”, di Matila C. Ghyka, p. 13

Una leggenda indonesiana narra che la caduta dell’umanità dallo stato di grazia fu provocata dal rifiuto di un dono divino. Il Creatore era molto generoso con le sue creature umane, che potevano ottenere qualunque cosa, come manna dal cielo. Tuttavia, un giorno, il Creatore offerse loro una pietra, che fu rifiutata: “che cosa ce ne facciamo?” – protestarono gli esseri umani – “Dacci qualcosa di più utile”. Fu così che al posto della pietra ricevettero una banana, il corrispettivo indonesiano della famigerata mela: “poiché avete scelto la banana, la vostra vita sarà come la sua…se aveste scelto la pietra la vostra vita sarebbe stata come la vita della pietra, immutabile ed immortale”.

È interessante notare che per Wolfram von Eschenbach il Graal era una pietra e l’alchimista Arnoldo di Villanova lo chiama lapis exilis, la pietra filosofale: “Questa esile pietra è davvero di poco costo; è disprezzata dagli sciocchi ma ben più apprezzata dai saggi”. Da un punto di vista linguistico, la parola labirinto ha la medesima radice di lapis, pietra o gemma, che ci riporta agli ambienti alchemici del lapis philosophorum (James, 1977). La pietra filosofale, come la cattedrale gotica, hanno questo in comune con la Torre di Babele: sono dei tentativi di ristabilire la comunicazione con il divino dopo la Caduta: “la costruzione [della Torre] costituisce un tentativo disperato dell’uomo di riallacciare – anche contro la volontà di Dio stesso – il patto tra sé e Lui, spezzato a causa del peccato originale. In tal senso la costruzione affermerebbe un’aspirazione alla rigenerazione, al ripristino della condizione primigenia di pace e di unità con Dio” (Grossato, 2000).

In Inghilterra esiste ancora una “Torre di Babele”, che richiama alla mente il dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio, “La grande Torre di Babele”. Si tratta di della torre di Glastonbury, posta su una collina e circondata da un labirinto. L’archeologo britannico Philip Rahtz (Rahtz & Watts 2003) ed il suo compatriota, lo storico Geoffrey Ashe (Ashe, 1979), datano il labirinto di Glastonbury ad un periodo compreso tra il secondo ed il terzo millennio avanti Cristo, dunque precedente alla fioritura della civiltà cretese. Bisogna immaginare una persistenza più remota, oppure un’origine nordica, come ritenevano gli studiosi del diciannovesimo secolo.

Il labirinto è un motivo fondamentale perché si ritrova in molte cattedrali, associato a simbolismi pre-cristiani e ciò, naturalmente, necessita di una spiegazione. I labirinti hanno comunque avuto vita dura e Cipriano non lascia adito a dubbi: “Chorea est circulum cuius centrum est diabolus, qui in medio tripudiantium ignem concupiscentiae inflammabat”. Al suo centro c’è il diavolo che, danzando, accende gli animi di desiderio. Per quanto ne sappiamo, il più antico labirinto pavimentale in una chiesa cristiana è del quarto secolo e si trovava nella Basilica di Reparato, ad El Asnam, vicino ad Algeri, nella cui cattedrale è poi stato traslato. Anticipava lo schema poi adottato a Chartres.

Nella cattedrale di Cremona è conservato un mosaico mutilato più antico dell’edificio attuale, che raffigura un labirinto e due combattenti, uno dei quali con una testa animale e l’indicazione Centavrvs. Il centuro è un essere per metà umano e per l’altra metà equino. Nella mitologia greca il centauro Chirone è un educatore – “il molto saggio Chirone, maestro ora di musica, ora di giustizia e di medicina” (cf. Plutarco) – e, tra i suoi discepoli, troviamo proprio Teseo, l’uccisore del Minotauro, un essere per metà umano e per l’altra metà taurino. Che il Minotauro non fosse un mostro sanguinario lo si intuisce anche da un manoscritto del nono secolo proveniente dall’abbazia di St.-Germain-des-Prés, che reca l’immagine di un labirinto con al centro il Minotauro assiso su un trono (Matthews, 1922): una figura regale, non certo un serial killer. Su una moneta di Cnosso il Minotauro è un uomo che indossa una maschera di toro (Matthews, 1922); presumibilmente, si tratta di un maestro di iniziazioni in attesa dell’adepto.

Lo sospettava anche il poeta irlandese Yeats, che associava il Minotauro alla Sfinge, un altro essere in parte umano ed in parte ferino. L’enigma della sfinge ci rinvia al labirinto cretese ma anche al castello del Graal. La Sfinge divora chi non risponde correttamente ad un suo quesito. Il Minotauro “divora” chi si perde nel labirinto. Il cavaliere deve porre il corretto quesito altrimenti il castello scomparirà e la gente morirà per la carestia. Il Minotauro è stato demonizzato dai posteri, ma il toro bianco non poteva essere un simbolo negativo. La madre di Minosse era stata fecondata da Zeus in forma di toro e Minosse aveva pregato Poseidone di inviargli un toro dal mare per indicare che la sua sovranità su Creta era legittima. Inoltre nella cultura egizia la sfinge era una figura positiva.

Storicamente, è ipotizzabile che i labirinti decorassero almeno 60 santuari italiani. Oggi, tra quelli più importanti, sono rimasti solo Ravenna, Lucca, Pontremoli, Pavia. Il labirinto della basilica di San Michele Maggiore – prego il lettore di notare che San Michele è un uccisore di draghi e che nelle isole britanniche i labirinti sono spesso associati a chiese consacrate a San Michele o a Maria (Eva che schiaccia la testa del serpente con il piede) – è in gran parte scomparso, ma un disegno nella biblioteca vaticana lo riproduce integralmente: aveva un’estensione di tre metri e mezzo di estensione ed illustrava la storia di Teseo e del Minotauro. Teseo impugnava una clava “erculea” ed il Minotauro brandiva una spada, mostrando la testa decapitata della sua ultima vittima. A fianco, una scritta in latino Theseus intravit, monstrumque biforme necavit (“Teseo entrò ed uccise il mostro biforme”). Il labirinto era circondato ai quattro angoli da un’oca, da Pegaso (cavallo alato), da un drago e da una capra. Ai lati Davide uccideva Golia, il cui scudo recava l’iscrizione sum ferus et fortis cupiens dare vulnera mortis (“sono selvaggio e forte e desidero infliggere ferite mortali”. La replica di Davide, anche lui armato con la medesima clava, era: sternitur elatus stat mitis ad alta levatus (“i forti saranno umiliati, i miti saranno esaltati”). Infine, sull’altro lato, l’immagine del pesce, simbolo di Cristo, il re pescatore che pesca se stesso. Sulla sommità, una figura regale a rappresentare l’Anno, fiancheggiato da aprile e maggio, ad indicare i riti agrari. Il labirinto era spesso associato a calendari e carte zodiacali (Wright, 2004).

A Pontremoli al posto di Teseo e del Minotauro ci sono le lettere JHS (Gesù). A Lucca riappaiono Teseo e il Minotauro (ormai cancellati). A San Vitale a Ravenna, l’unico labirinto diverso da quello di Chartres, veniamo invitati a cercare la salvezza ad ovest, verso il tramonto e non ad est (l’alba è legata ad Orione, l’arciere assassino, ed all’occultismo nero). I labirinti italiani sono troppo piccoli per essere percorsi cerimonialmente: occorreva usare lo sguardo o le dita per compiere il percorso di salvezza. È invece indubbiamente la Francia delle cattedrali gotiche la patria dei labirinti cristiani, a volte chiamati La Maison Daedalus, oppure Chemin de Jérusalem, daedale, o meandre. Il centro si chiamava ciel o Jérusalem. Tra gli altri nomi: “Labirinto di Salomone” o “Prigione di Salomone” (Wright, 2004). Salomone, come Chirone, incarna la saggezza. La cattedrale della cittadina francese di Saint-Omer, vicino a Calais non è arricchita da un labirinto pavimentale, ma una lastra nascosta dall’organo reca incisa la parola IhERVSALEM e ritrae un paesaggio idillico attorno ad un ampio circolo diviso in tre settori ormai cancellati (Matthews, 1922).

Altri labirinti si trovavano in Germania, a Colonia, e in Inghilterra, a Canterbury, ma non ve n’è più traccia, né sono descritti nei loro particolari. Quei testi ecclesiastici che descrivono questi labirinti omettono di menzionare la loro funzione, che pure doveva essere centrale, almeno in origine. Ciò non sorprende, data la loro natura esplicitamente pre-cristiana. D’altronde le iscrizioni paleocristiane non mostrano alcun interesse nei confronti dei labirinti. Un’ulteriore indicazione del fatto che questa “moda” è di origine celtica, non mediterranea. Nonostante sia ormai chiaro che nelle isole britanniche non esistono labirinti nelle cattedrali, vi abbondano quelli rurali, dedali ritagliati nel tappeto erboso (turf mazes), che spesso rassomigliano a quello di Chartres.

Sono convinto che gli antichi labirinti di pietra siano i modelli dei labirinti gotici.

Innanzitutto, l’etimologia di “labirinto”, che proverrebbe da labrys, l’ascia bipenne attributo dello Zeus cretese, è molto probabilmente errata. Su basi lessicografiche il termine andrebbe invece ricondotto a labra o laura, ad indicare una grotta, una caverna, una casa di pietra o una casa nella pietra (Ieranò, 2007). Santarcangeli (2005) ritiene che la desinenza greca –inda, che si usa solamente per i giochi dei bambini, dovrebbe far propendere per una traduzione del termine “labirinto” come “gioco della caverna”. Rimaniamo comunque nell’ambito dell’ipogeo sacro, della caverna di Platone, insomma, un tempio sotterraneo dedicato ad una dea ctonia, trasfigurata poi in Persefone, la dea degli Inferi. E Minosse non è forse il giudice degli Inferi? Karoly Kerényi osserva che la Signora del Labirinto, a Creta, è la regina degli Inferi e che “il labirinto è il mundus, ovvero il mondo nell’accezione cristiano-medievale, concepito come una specie di regno infero” (Kerényi, 1983, p. 51). Il nome Arianna – la Signora del Labirinto, appunto – si compone del prefisso intensivo ari unito all’aggettivo hagne, con il significato di “intangibile”, “nel senso di un’intangibilità propria di chi è sottratto all’umano, alla sua buona come alla sua cattiva natura…la sua purezza è da intendersi come segno che contraddistingue ciò che è sovrannaturale” e Persefone corrisponde più di ogni altra dea a questo profilo (Ieranò, 2007).

Eliade ci ricorda che le Grandi Dee sono talvolta raffigurate con un fuso in mano: “Esse filano il filo della vita” (Eliade, 1989). Come Arianna, come Penelope che attende il suo compagno, di ritorno da una labirintica odissea, ma soprattutto come le Moire: “Altre tre donne sedevano in cerchio a uguale distanza, ciascuna sul proprio trono: erano le Moire figlie di Ananke, Lachesi, Cloto e Atropo, vestite di bianco e col capo cinto di bende; sull’armonia delle Sirene Lachesi cantava il passato, Cloto il presente, Atropo il futuro” (La Repubblica di Platone: X,135,34). Ananke, è bene sottolinearlo, ricopriva un ruolo centrale nei riti misterici dell’orfismo e il filo “indica sempre un collegamento dei vari stati di esistenza tra di loro e con il principio che li anima” (Santarcangeli, 2005, p. 11).

Un altro archetipo estremamente potente, insomma. Tant’è vero che in Francia, fino al secolo scorso, era stata documentata l’esistenza di un gioco chiamato Labyrinthe in cui i bambini si tengono per mano formando una catena e due corridori, chiamati rispettivamente le tisserand (il tessitore – Teseo?) e la navette (la spoletta – Arianna?), devono intrecciarli come in un ordito (Matthews, 1922).

Nel suo bel saggio Giorgio Ieranò, storico dell’università di Trento, aggiunge un’annotazione importante: “Non sarà un caso, forse, che la stessa Persefone sia stata, come Arianna, vittima di un ratto da parte di Teseo: un ratto in questo caso mancato, poiché il Signore dei morti intervenne per salvare la sua sposa, trasformando l’eroe ateniese in una statua di marmo” (Ieranò, op. cit. p. 42). Emerge qui un importante parallelo con la vicenda di Perseo e della Gorgone: “al centro [del labirinto] domina, in fattezze non umane, la dea primordiale dal volto di Gorgone” (Kerényi, 1983, p. 125). D’altra parte la radice perse- appartiene alla sfera semantica dell’oltretomba (Ieranò, op. cit.) e, nelle Dionisiache, Nonno di Panopoli attribuisce a Perseo la morte di Arianna. Santarcangeli (op. cit.) ci porta a Malta, nel complesso sotterraneo su più piani di Hal Saflieni, dove nei pressi dell’ipogeo era collocato un tempio megalitico oracolare dedicato alla Dea Madre. Poi cita Emmanuel Anati, il massimo esperto italiano di incisioni rupestri della Val Camonica: “questi labirinti sono talvolta identificabili in figure di mostri…La leggenda del Minotauro trova senza dubbio là le sue origini. Non di rado essi hanno l’aspetto di un ovario femminile, con un’uscita e dei meandri che conducono verso un volto schematico di mostro, al centro. Stranamente, nell’arte megalitica questo simbolo della fecondità sembra essere associato al culto dei morti” (Santarcangeli, ibidem, p. 90:

Ritornando all’etimologia del nome: “è più probabile che la parola derivi dall’asianico labra/laura, “pietra”, “grotta”. Il labirinto designava quindi una cavità sotterranea ricavata dall’uomo” (Eliade, 1990, p. 149). Labirion è anche un cunicolo, ad esempio quello delle talpe – si pensi ai meandri del labirinto. Il Laurion è da sempre un’area mineraria greca e Paolo Santarcangeli (2005) segnala che a Creta e nell’Asia Minore vi era un culto dedicato a Zeus Labrandos, o Labraundos, ricollegabile a toû lábrous, la caverna consacrata alla dea ctonia. Questi era uno Zeus androgino, con sei mammelle disposte triangolo. Il che non esclude naturalmente l’associazione labirinto-ascia bipenne. L’antropologo francese Gilbert Durand (1960) ha rimarcato la relazione tra l’ascia bipenne (labrys) e la già citata androginia (l’unione di una doppia sessualità).

Il linguista e mitologo tedesco Hermann Güntert (1932) ricollocò la culla di questo tema nell’area celtica e questa mi pare una direzione di ricerca particolarmente fruttuosa, sulla scia del connazionale Ernst Krause (“Die Trojaburgen Nordeuropas”, 1893) che aveva stabilito una correlazione tra il nome Troia e l’antico Tedesco drajan, il gotico thraian, il celtico troian, il medioinglese trowen, tutti con il significato di “girare, aggirare, ingannare”. William Henry Matthews, che cominciò ad interessarsi di labirinti dopo aver servito nell’esercito inglese sul fronte occidentale nella Grande Guerra (vicino ad Arras, Amiens, Abbeville, Albert e Saint Omer), aveva individuato nel gallese tro (giro, variazione, tempo), una possibile radice comune, riscontrabile nel tedesco drehen (girare, voltare). Aveva documentato anche un’altissima frequenza nell’associazione del labirinto con il nome “Troia” nelle isole britanniche (Troy, droia), in Scandinavia (Troja, Trö, Tarha) ed in Etruria (Truia). Riteneva probabile che la città avesse preso il nome dal cerimoniale e non vice versa e che la radice del nome “troia” originariamente indicasse l’atto di svoltare o volgersi, come in Caerdroia, la Città di Troia, che in gaelico presumibilmente si pronunciava Caer y troiau, la Città Tortuosa (Matthews, 1922). Lo stesso autore riferisce che nella mitologia slavonica un mostro a tre teste si chiama Trojano, in Iran il mostro si chiama Druja, o Draogha ed in India Druho. In Serbia ci sono danze popolari che si chiamano Trojanka e Trojanac. L’Alcazar di Siviglia contiene un Jardin de Troy.

A questo proposito, Santarcangeli precisa che l’ipotesi di una diffusione da nord “non può essere respinta con sicurezza, allo stato attuale delle conoscenze…Anche di recente, uno studioso quale Kerényi non si sentiva di escludere senz’altro questa ipotesi” (op. cit., p. 93). Va detto, per inciso, che molti studiosi, tra i quali Strabone, il celebre letterato inglese Robert Graves e l’eminente storico Sir Moses I. Finley (emerito a Cambridge e membro dell’Accademia Britannica), si sono domandati come mai l’Iliade e l’Odissea siano ambientate nel Mediterraneo se il clima descritto è freddo, piovoso e nevoso, il colore dell’acqua del mare è grigio, il mare stesso è impetuoso e di ardua navigazione, le maree sono di tipo oceanico e si ammirano aurore boreali. È dunque possibile che la cultura micenea, e prima ancora quella minoica, abbiano ricevuto apporti sia dalla Mesopotamia e dall’Egitto, sia dal Nord Europa, per poi fonderli e rielaborarli sincreticamente. Per questa ragione la tauromachia della Galizia celtibera può essere utilmente raffrontata con quella cretese e i labirinti più arcaici dell’area euro-mediterranea si trovano sulle coste europee atlantiche, specialmente in Spagna. Alcuni risalgono al tardo neolitico, ossia sono più antichi delle grandi civiltà dell’Egitto e della Sumeria (Saward, 2003). Quelli cretesi sono invece databili al tredicesimo secolo avanti Cristo, l’epoca in cui si colloca tradizionalmente la Guerra di Troia.

Il sospetto di un’origine nord-europea è, a mio avviso, rafforzato dal nome della danza che si eseguiva nel labirinto, attorno ad un altare di corna di toro: la Danza della Gru, o geranos (ingl. crane, ted. Kranich). È possibile, come vedremo, che la stessa danza sacra fosse in voga anche nell’Europa celtica (inclusa la Val Camonica) dove è possibile ipotizzare che al posto delle corna di toro si impiegassero corna di cervo. Kernunnus o Cernonos è il dio cornuto associato agli animali (specialmente cervi e tori) , all’abbondanza, ad Apollo (tra i Gallo-Romani) e nume tutelare dei mercanti marittimi. Si conosce il suo nome perché fu trovato sul “Pilastro dei barcaioli” (Pilier des nautes), nelle fondamenta di Notre Dame a Paris. Nelle raffigurazioni, spesso possiede una testa animale su un corpo umano, come il Minotauro o i centauri e nelle terre celtiche si verificò una sovrapposizione sincretica tra questo dio pagano e Gesù (Jung & von Franz 2002). Peraltro Keraunos è uno degli appellativi di Zeus, un termine, inusuale, con cui si designava il suo fulmine (James, 1977).

Labirinto e Gioco dell’Oca

Nella preistoria la caverna, molte volte assimilata a un labirinto o trasformata ritualmente in un labirinto, era contemporaneamente il teatro delle iniziazioni e il luogo in cui si seppellivano i morti. A sua volta il labirinto era equiparato al corpo della Terra Madre. Penetrare in un labirinto – o in una caverna – equivaleva ad un ritorno mistico alla Madre.

Mircea Eliade

L’ultima conoscenza è quella del sé…rispecchiato nella propria coscienza. Ecco la profonda motivazione del perché in fondo al labirinto sia collocato di frequente uno specchio.

Paolo Santarcangeli

Il labirinto originario, può essere quadrato o ellittico, ma è sempre unicursale ossia si compone di un unico itinerario che, per quanto intricato, è destinato a raggiungere il centro. Fino alla moda dei giardini rinascimentali tutti i labirinti avevano un percorso predeterminato, senza biforcazioni e false uscite: dovevano consentire a chi li percorreva di arrivare all’uscita senza perdersi. Nessuna possibilità di errore, per almeno 3000 anni. Ciò rafforza l’idea di un loro significato liturgico ed esclude l’ipotesi che servissero la mera funzione di esercizio intellettuale, come avvenne quando se ne smarrì il significato, all’alba della modernità. Era una questione di perseveranza, non di scelta: un’unica uscita, un unico ingresso e ci si muove inesorabilmente verso il centro.

Nei Paesi Baltici ed in Scandinavia sopravvivono racconti che descrivono alcuni aspetti del cerimoniale legato al labirinto. In certe occasioni una ragazza recitava la parte della Dea Madre ponendosi al centro del labirinto, un punto che designava l’Aldilà. Uno o due uomini recitavano invece la parte del Dio Celeste che liberava o rapiva la Dea Madre dalla prigionia del Castello dell’Ade. Una volta liberata la dea si univa in matrimonio al dio a suggellare il trionfo sul tempo e sulla morte. Echi di Orfeo ed Euridice (Kraft, 1985).

Il motivo centrale dell’odissea labirintica – dal neolitico a Chartres – è quello della vittoria sulla morte, ossia sulla falsa vita, la vita aggrappata alla materialità e indifferente alla spiritualità. Il labirinto è un diagramma non solo della struttura dell’universo, ma anche del viaggio dell’anima nella sfera materiale. Il percorso verso il centro è quello discendente, il ritorno verso l’esterno è ascendente. Chi non sconfigge il Minotauro-Satana-Doppelgänger perderà la sua anima e non potrà più risalire verso la sfera spirituale e divina. Gesù e la Madonna servono ad assistere l’anima nelle fasi più cupe (Critchlow, Carroll, Vaughan Lee, 1975). Non è una coincidenza che i commentatori medievali di Ovidio abbiano stabilito un parallelo tra Teseo e il Cristo. Teseo era un guerriero, come tutti gli eroi dei labirinti, ma lo fu, nonviolentemente, anche Gesù.

Un commento molto illuminante di Pietro Maria Campi – ne “dell’historia ecclesiastica di Piacenza” (1651) – sul labirinto di San Savino, anch’esso simile a quello di Chartres, ci aiuta a capire la funzione del labirinto nell’ambito ecclesiastico: “il labirinto illustra il mondo attuale, ampio all’entrare e molto stretto all’uscire. Così, irretiti da questo mondo, oberati dal peccato, si ritorna alla dottrina della vita con difficoltà”. La dottrina della vera vita, a cui abbiamo già accennato. Il labirinto è la vita terrena, all’insegna del dominio di Satana. Questi, come Mara, il tentatore di Gautama Siddharta, è forse un simbolo archetipico, ma resta il fatto che si proclama signore di questo mondo. Gesù non lo contraddice, non lo smentisce. Anzi, resiste fattivamente alle tentazioni del Signore del Mondo: non le considera illusorie o ludiche. Il potere corrompe e sono solo la nostra presunzione ed il nostro egocentrismo che ci fanno credere che la cosa riguarda qualcun altro, non noi. Gesù permette di uscire dal labirinto come, in precedenza, la vittoria sul Minotauro, simbolo dell’entropia, della tendenza discendente nella creazione, dallo spirito alla materia grezza, garantiva la salvezza, l’elezione.

Giorgio Ieranò parla del labirinto come itinerario iniziatico, “rito di passaggio dal profano al sacro, dall’effimero e illusorio alla realtà ed all’eternità” (2007, p. 28). Ego è il Minotauro da abbattere, l’essere metà animale (carnale) e metà umano (spirituale), ossia non ancora pienamente umano. Per questo la più antica raffigurazione di un labirinto ecclesiale, contenuta in un manoscritto per il calcolo calendariale della Pasqua, datato 1072 e redatto in Italia, reca l’iscrizione Quattuor haec sunt bona: spernere mundum/ nullum / sese/ sperin. “Quattro sono le opere perfette: disprezzare il mondo, non disprezzare nessuno, disprezzare se stessi ed essere disprezzati” (Morrison, 2003).

Paolo Santarcangeli ha ravvisato un nesso tra il labirinto ed il gioco dell’oca – forse originariamente una gru psicopompa, guidatrice delle anime nell’aldilà? –, che è un labirinto univiario. La sua casella 42 è quella del labirinto. Fulcanelli, come sempre, si spingeva anche più oltre. Secondo lui il Gioco dell’Oca è “un labirinto popolare dell’Arte sacra e una raccolta dei principali geroglifici della Grande Opera” (Fulcanelli, 1973: p. 109). Il 42, spiega Santarcangeli, è “il sette di bastoni, su cui è raffigurato un viandante sull’orlo di un abisso! Volge indietro lo sguardo, perché è atterrito. Di fronte a lui, ma separato dall’abisso, c’è un castello…La carta ammonisce anche di non cedere alle esitazioni e agli indugi” (op. cit. p. 267). La progressione verso il centro del labirinto, oltre i sette giri di mura della città-fortezza, è graduale ed è variamente rappresentato “come il punto interno di un giardino recintato; allora è spesso un albero, l’albero della vita; oppure una sorgente che scorre verso le quattro direzioni. […]. Questa entità, questo centro può anche essere raffigurato come una torre, un castello, una città celeste, il castello del Graal” (op. cit. p. 146). Vale la pena di considerare che, nel diciottesimo secolo, i fedeli paragonavano il labirinto della cattedrale di Chartres ad un gioco dell’oca (Jeu de l’oie) (Wright, 2004, p. 221).

I riferimenti araldici a labirinti da affrontare con fede, speranza ed umiltà, rafforzano l’ipotesi che il labirinto raffigurasse il percorso esistenziale di ciascuno, ostacolato da brame, desideri, tentazioni continue e facilitato solo dall’esile filo di Arianna, ossia dalla fede in un disegno sovrumano che dà un senso alla creazione (Matthews, 1922). Diversi miti indicano la necessità che l’eroe si sottoponga ad un periodo di meditazione e resistenza alle tentazioni, come Gesù nel deserto.

Pensiamo a Giona, inghiottito da un grande pesce, nel cui stomaco rimane per tre giorni e tre notti. A Gesù: “Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così starà il Figliuolo dell’uomo nel cuor della terra tre giorni e tre notti” (Matteo, 12: 40). A Pinocchio, che deve restare nel pescecane fino al momento della rinascita come bambino vero. A Cappuccetto Rosso nella pancia del lupo. A Perseo, aiutato da Andromaca – come Arianna aiutò Teseo ad uccidere il Minotauro e Medea aiutò Giasone, l’ennesimo discepolo di Chirone, a rubare il vello d’oro sorvegliato da un drago insonne – ad uccidere il mostro marino Ceto, dopo esserne stato inghiottito. A Ercole, che si getta nelle fauci del mostro marino per salvare la principessa incatenata sulla spiaggia come offerta sacrificale. Resta tre giorni nel ventre del mostro, poi esce vittorioso avendolo abbattuto. Un dettaglio ci aiuta a capire la natura dell’impresa: ora è calvo, come per tonsura rituale. L’eroe polinesiano Mutuk, ingoiato da un pescecane, si salva perché questi si arena per la bassa marea, allora Mutuk “prese una conchiglia che aveva dietro l’orecchio e con quella scavò nel corpo dello squalo, fino ad aprirsi un buco abbastanza largo. Quando fu scivolato fuori dal quella strana prigione, si avvide che non aveva più un solo capello” (Egli, 1993, p. 247). Una leggenda dei nativi dell’Isola di Vancouver l’eroe finisce nella pancia di una balena con i suoi tre fratelli: “come raggiunsero lo stomaco, tagliarono con alcune conchiglie le interiora del cetaceo, e per ultimo staccarono anche il cuore. Allora la balena morì. Presto fu portata a riva. Gli uccellini e gli altri animali vennero sulla spiaggia ed aprirono la balena, dalla quale uscirono l’eroe ed i suoi fratelli. Quando si videro, si misero a ridere: dentro la pancia uno dei fratelli aveva perso tutti i capelli, tanto era il caldo che faceva là dentro” (ibidem, p. 248).

Vorrei proporre ai lettori la lettura junghiana di questo motivo archetipico: “Allorché Giona fu ingoiato dalla balena, non si trovò semplicemente imprigionato nel ventre del mostro, ma vide straordinari misteri. Questa opinione deriva dal Rabbi Eliezer, ove è detto: Giona penetrò nella sua bocca come un uomo penetra in una grande sinagoga e si arresta. I due occhi del pesce erano come lucernari che davano luce a Giona. Rabbi Meir disse: una perla era sospesa nelle viscere del pesce dando luce a Giona come il sole a mezzogiorno, consentendogli di vedere tutto quello che c’era nel mare e negli abissi. Nelle tenebre dell’inconscio è nascosto un tesoro, quello stesso tesoro difficile da raggiungere che nel nostro testo, come anche in molti altri luoghi, viene descritto come perla luminosa, oppure come mistero” (Jung, 1993, p. 324).

L’aggancio con lo sciamanismo (e l’orfismo, cf. Eliade, 1992; Graf, 1995) è inevitabile. Gli sciamani siberiani rimangono rinchiusi nelle yurte per tre giorni, senza né mangiare, né bere e deve visitare gli inferi. In un mito degli albori, il primo sciamano, guidato dai suoi animali totemici, deve penetrare in una caverna rivestita di specchi, con una luce al centro e due donne che lo attendono per istruirlo: “le caverne hanno una parte importante anche nell’iniziazione degli sciamani nord-americani; è in luoghi siffatti che gli aspiranti hanno i loro sogni e incontrano i loro spiriti ausiliari (Eliade 1992, pp. 72-73). È stato detto, persuasivamente, che trance sciamaniche ispiravano le pitture rupestri dei Cro-Magnon (Lewis-Williams, 2002). In Grecia le esperienze di soggiorno nelle grotte erano associate a condizioni estatiche-mistiche. La Caverna di Platone è il mondo dell’apparenza: chi si libera dalle catene e vede la realtà com’è sarà deriso da chi è ancora prigioniero dell’ignoranza e vede solo ombre proiettate sulle pareti della caverna, scambiandole per la realtà. Ma in Grecia le caverne erano soprattutto luoghi di illuminazione in cui si poteva ottenere una conoscenza sovrumana, luoghi di unioni sacre, come quelle tra Peleo e Teti, tra Giasone e Medea, tra Enea e Didone. Rea diede alla luce Zeus e lo nascose in una caverna. Persino Apollo, il dio ontologicamente più distante dall’oscurità e dal sottosuolo aveva un oracolo in una grotta (Ustinova, 2009).

I Greci, da Pitagora a Socrate ed oltre, erano convinti che il corpo fosse un intralcio sulla strada della vera conoscenza, ossia della sapienza. Nel Fedone Platone riporta il dialogo tra Socrate e Simmia, di cui questo è un estratto esemplificativo: “Intendo dire questo: il senso della vista e dell’udito, ad esempio, danno a noi certezza assoluta, oppure hanno ragione i poeti quando continuamente ci dicono che noi non udiamo, né vediamo nulla di preciso? E se questi sensi non sono né sicuri, né precisi, che cosa dovremmo dire degli altri ancora più manchevoli di questi? Non ti pare?

– Certamente – disse.

– Quando, dunque – continuò Socrate – l’anima riesce ad attingere il vero? Perché se essa si accinge a ricercare la verità con l’aiuto del corpo, è evidente che sarà da questo tratta in inganno.

– Proprio così.

– Non è forse nella paura attività di ragione che si rende a lei manifesta la verità?

– Certamente.

– E questa attività non si esplica ancor meglio quando l’anima non è conturbata da nessuna di tali sensazioni, né dalla vista, né dall’udito, né dal dolore, né dal piacere, ma tutta in sé raccolta, abbandonando completamente il corpo, senza più alcuna comunanza né contatto con esso, tende solamente alla verità?

– Dici proprio bene.

– Non è questa, allora, la ragione per la quale l’anima del filosofo disprezza profondamente il corpo e rifugge da esso e aspira a rimanere sola, tutta in sé raccolta?

– Certamente”.

Per questa stessa ragione, come argomenta brillantemente Julia Ustinova (2009), raggiungere degli stati alterati di coscienza per deprivazione sensoriale o inalando esalazioni gassose sotterranee – entrambe tecniche che richiedevano la permanenza in una caverna – era un’operazione che incontrava l’approvazione, o addirittura l’ammirazione, della società greca del tempo. La storica israeliana accenna a sperimentazioni contemporanee effettuate in stanze completamente isolate in cui i soggetti fanno esperienza di allucinazioni entro poche ore. Si capisce, dunque, come mai la tradizione greca ci tramandi di ricorrenti visite di Pitagora a grotte ed ipogei e del bisogno di un giovane Socrate guerriero di restare isolato dai suoi commilitoni in certi momenti del giorno. La Scuola eleatica aveva la propria camera sotterranea dedicata alle meditazioni e Parmenide ha narrato la sua esperienza mistica di un volo sciamanico nell’Ade fino ad incontrare la Dea, che gli ha mostrato la verità. Quale verità? Parmenide, in un curioso parallelo con il buddhismo, allude alla necessità di non fidarsi delle percezioni sensoriali e di capire che il mondo delle apparenze è illusorio: la realtà è unitaria ed infinita (Ustinova, op. cit.). Ustinova precisa che questa è precisamente l’esperienza della realtà che si ricava da una stanza a deprivazione sensoriale in condizioni sperimentali.

La Danza della Gru e le Cattedrali

Se l’immagine del labirinto ha una storia millenaria questo significa che per migliaia di anni l’uomo è stato affascinato da qualcosa che in qualche modo gli parla della condizione umana o cosmica.

Umberto Eco

Chi attraversa il labirinto, deve passare per gli intrichi e gli inganni dell’oscurità per vincere la morte: così come gli Ebrei fecero per ‘sette’ giorni il giro delle mura di Gerico, così come gli Achei assediarono Troia per ‘sette’ anni. I rigiri delle viscere e le linee tracciate sul fegato sono uno specchio microcosmico del corso delle costellazioni celesti. Tale corso cosmico fu riprodotto nella ‘danza’, trasponendo nella categoria del tempo la rappresentazione spaziale. Giace nelle profondità la rappresentazione misterica dei grande alvo materno e del labirinto in cui dovrà vagare l’uomo esposto all’impegno della vita.

Paolo Santarcangeli

Secondo Kerényi ogni ricerca sui labirinti dovrebbe prendere le mosse dalla danza.

Cerchiamo di capire perché.

Quello del labirinto è un archetipo universale. La medesima raffigurazione appare in tutto il mondo: Brasile, Arizona, Islanda, Creta, Egitto, India e Indonesia. In queste aree i labirinti sono spesso aree cerimoniali dedicate alle danze sacre ed altri rituali (Saward, 2003). I labirinti erano usati per un gioco con la palla e la danza tra gli indiani Hohokam vicino a Phoenix, in Arizona e ad Auxerre, nella cattedrale. Una Danza della Gru veniva tradizionalmente eseguita anche a Slupsk, in Polonia, in un labirinto gigantesco fatto di zolle d’erba (Saward, ibidem). Spirali rassomiglianti alle circonvoluzioni cerebrali si rinvengono dalla Val Camonica alle Nuove Ebridi a nord-est dell’Australia (Wright, 2004).

Rainer Tom Zuidema riferisce ciò che vide Juan Diez de Betanzos, forse il migliore cronista spagnolo in Perù al tempo della conquista. Durante la prima notte di luna piena successiva al solstizio invernale, gli inca eseguivano una cerimonia propiziatoria, chiamata Purucaya: “dapprima uscirono tutti i nobili, donne e uomini, col volto annerito e andarono sulle montagne vicino a Cuzco, dove lui (Pachacuti Inca) aveva seminato e raccolto. Là e per le strade della città essi lo chiamarono e gli chiesero, ora che stava col padre suo, il Sole, di mandar loro buoni raccolti e di tener lontane le malattie. Quindi si presentarono sulla piazza quattro uomini mascherati, due su un lato e due sull’altro, avevano ricchi addobbi di penne d’uccello e ognuno era tenuto con una lunga fune da dieci donne, con le quali stava una fanciulla con un sacchetto di foglie di coca e un fanciullo che trascinava un ayllu, “boleadoras” (fionda). Ogni gruppo di donne sembra rappresentasse il “volere del (defunto) signore” che esse potevano liberare o trattenere con la fune. Dopo questa azione, comparivano sulla piazza due drappelli di soldati che si davano battaglia e la metà superiore vince la metà inferiore, proprio come Pachacuti aveva sempre vinto in guerra, poi due squadre di donne, vestite da uomini con corone di penne, scudi e alabarde, facevano il giro della piazza danzando. “con queste loro cerimonie il loro signore andava in cielo”.

Guamam Poma de Ayala, il più grande cronista indigeno, in quella stessa epoca la descriveva come segue: “danzavano uniti da una lunga fune per tutte le strade ed all’alba, formando una spirale, si avvicinavano al re seduto sul trono nella piazza”. Infatti, sempre secondo lui, il sole “siede sul suo trono un giorno e regna da quel grado principale [del solstizio di dicembre]. Poi siede in un altro trono in cui si ferma a regnare da quel grado [dell’altro solstizio]”. Da un seggio all’altro “si sposta ogni giorno senza mai fermarsi” (Aveni, 1993, p. 338).

I Luiseño californiani costituiscono un ottimo termine di paragone. Credevano che la Stella Polare fosse il capo supremo delle stelle che, come un popolo obbediente, le ruotavano attorno: “infatti durante le cerimonie sacre, i celebranti danzavano attorno al fuoco seguendo lo stesso senso del movimento circolare che le stelle fanno attorno al polo celeste” (Romano, 1998, p. 97).

Questo costume e la credenza che lo ha generato, trova la sua corrispondente espressione euro-asiatica nella “Danza delle Gru”. A Delos questa danza, chiamata geranos: i danzatori impugnavano una corda e cominciavano a ballare attorno ad un altare costruito con corna sinistre di toro o giovenca, girando a sinistra – nella direzione della morte – per andare all’origine della vita. Il corego si chiamava geranoulkos, ossia “colui che tira le gru” e, in quanto morente, era zoppo. Ne fanno menzione Plutarco (“Vita di Teseo”), Virgilio (“Eneide”, Libro V), Ovidio (“Metamorfosi”), Cicerone (“Sulla natura degli dèi”), Plinio il Vecchio (“La Storia Naturale”) e Callimaco (“Inno a Delo”). Omero, nell’Iliade (libro XVIII), descrive il labirinto per la danza che Dedalo approntò per Arianna ed il cui impiego fu insegnato da quest’ultima a Teseo. È raffigurato sullo scudo di Achille. Arianna ed altri giovani si tengono per mano, alternandosi tra maschi e femmine, formando una catena ed il disegno di un labirinto. Il capofila conduce la catena verso il centro e poi esce nella direzione opposta. Le ragazze indossano ghirlande, i ragazzi impugnano delle daghe.

Perché le daghe? “La danza armata dei Cureti costituiva probabilmente una cerimonia iniziativa…alcune caverne servivano alle confraternite per i loro riti segreti…Il labirinto riprende ed amplia tale funzione: penetrare in una caverna o in un labirinto equivaleva ad una discesa agli Inferi, dunque ad una morte iniziativa rituale” (Eliade, 1990, p. 148). I Cureti non possono non far pensare ai Salii romani ed ai loro riti metallurgici e della fecondità, ma ancora più sbalorditiva è la somiglianza con i Marut indiani e la loro Danza delle Spade. Nelle isole Shetland esiste (-eva) ancora un residuo di questo motivo rituale: lì la Danza della Spada (Papa Stour, dall’antico norvegese Pâpey in Stôra si eseguiva a Natale, con sette danzatori, il cui leader era l’ennesimo draghicida, San Giorgio. Ormai molti anni addietro fu avanzata la suggestiva ipotesi che questi giovani danzatori armati, spesso sacerdoti-guerrieri, siano stati il modello per l’epopea dei Cavalieri del Graal (Weston, 1920). È possibile, se teniamo conto del fatto che nell’Eneide, Virgilio racconta che il figlio di Enea, dopo la fuga da Troia in fiamme, gioca con i suoi amici al Ludus Troiae (o Lusus Troiae), il Gioco di Troia, una processione a cavallo i cui movimenti ricordano a Virgilio il labirinto cretese.

Granet (1959) attesta la presenza della Danza della Gru in Cina, Gasparini (1973) la riscontra nei paesi slavi, mentre Lévi-Strauss rileva che miti e riti legati alla figura del danzatore zoppo che ordina il cosmo con l’aiuto di balli circolari e/o spiraliformi esiste in Cina, nello Utah e tra i Bororo e confessa di non saper spiegare questa corrispondenza con il suo metodo strutturalista (Lévi-Strauss, 1966).

Ulteriori tracce individuate in Vietnam: “La decorazione dei tamburi e delle asce costituisce un documento unico sulla vita e sui costumi degli uomini che popolavano il paese negli ultimi secoli prima dell’era cristiana…Intorno al sole dai molteplici raggi che occupa il centro piano di un tamburo, si snoda, fra greggi di cervi e voli di uccelli acquatici, una precessione di personaggi vestiti in modo originale e bizzarro. Tengono in mano nacchere che ritmano i movimenti della loro danza. Sono accompagnati da suonatori di khem e di tamburi…Al di sotto del piatto, su un rigonfiamento circolare del tamburo, sono raffigurate barche con guerrieri armati di asce, di frecce e di giavellotti. Indossano tutti la spoglia di un airone o di una gru che dà loro l’apparenza di uomini – uccelli…” (Le Thàhn Khoi, 1979, pp. 62-63). Probabilmente anche i Cayapó dell’Amazzonia si rifacevano alle medesime credenze astronomiche quando celebravano le loro feste formando un’unica colonna danzante che si distendeva concentricamente attorno al centro del villaggio (Turner, 1997).

A Mahiyangana, nel cuore dello Sri Lanka, Maria Silvia Codecasa assiste ad un rituale molto particolare (1994, pp. 38-39). I partecipanti “si spalmarono sul corpo una sostanza appiccicosa, per impastarsi addosso del kapok e fili di paglia. Sembravano uccelli pateticamente dilettanti….in lunga fila ondeggiante, brandendo lunghissime e sottili aste di bambù, i Vedda attraversarono la folla seguendo il loro capo. Cantavano una melodia monotona, interrotta da improvvisi gridi. Era meno di una danza, un accenno di danza. Improvvisamente la fila volse a destra, si avvolse a spirale, accelerando il ritmo dei passi e in pochi istanti le figure irte di paglia formarono un gruppo compatto, dentro il quale sembrava che ognuno combattesse contro tutti, sollevando una nuvola di polvere, kapok e frammenti di paglia. Pochi attimi e già i combattenti emergevano dalla nuvola, nudi e sudati, ma ancora scrollando con aria bellicosa i loro giavellotti di bambù. […] Quella danza di uccelli…e stranamente, prima che i Vedda cominciassero a danzare, io avevo pensato: “danza delle gru”….L’avevano danzata Teseo e i suoi compagni, dopo aver ucciso il Minotauro nel labirinto cretese. Secondo un’altra fonte, Dedalo gliel’aveva insegnata affinché si orientassero nel labirinto, che era un labirinto a spirale”.

Kerényi cita la relazione dello scrittore tedesco Ludwig Uhland (1767-1862), durante un suo viaggio in Svizzera, a Greyerz, nel cantone di Friburgo: “una domenica sera, sul prato del castello di Greyerz, sette persone iniziarono una danza in cerchio che ebbe termine soltanto il martedì successivo, al mattino, nella grande piazza del mercato di Sanen, dopo che settecento fra giovanetti e fanciulle, uomini e donne, si erano lasciati trascinare in quel corteo, che sembrava la spirale di una chiocciola” (Kerényi, 1983, p. 49). Il commento dello storico e filologo ungherese è che il corego prima si muove nella direzione della morte, verso il centro della spirale, poi si volge all’indietro e ripercorre la strada all’incontrario, verso la rinascita. Constatazione che ribadisce nella sua analisi delle somiglianze tra la Danza della Gru e la Danza Maro polinesiana, in cui la direzione della morte è anche quella della nascita. Il che corrobora l’impressione che il labirinto, almeno inizialmente, non fosse un vero labirinto, ma una spirale tracciata nel terreno all’interno di un tempio megalitico o sul suolo di una caverna sacra. Ne era convinto Hermann Kern, un curatore museale che ha completato quella che è forse la più vasta e sistematica ricerca sui labirinti della storia (Kern, 1981): il proto-labirinto era una danza. Come quella immortalata da John Milton nel Paradiso Perduto, dove gli angeli in tripudio per la nascita di Gesù, formano una spirale danzante attorno al trono di Dio. Filone di Alessandria (20 a.C. – 50 d.C.) ha trasmesso ai posteri una descrizione tratteggiata di una danza circolare eseguita dalla setta ascetica neopitagorica dei Terapeuti, a replicare la danza cosmica dell’armonia delle sfere, per accedere alle rivelazioni divine. Il teologo Clemente alessandrino (II-III secolo) la paragonava alle danze degli angeli. Abbiamo già visto che il testo apocrifo Atti di Giovanni ne faceva cenno: “Chi non danza, non sa cosa accade”.

Ma perché la gru? Perché la gru era considerata un simbolo di immortalità ed era sempre descritta in compagnia degli Immortali (Eliade, 1991). È stato detto che la Danza della Gru (geranos), prendesse il nome dai movimenti dei danzatori, simili a gru in formazione oppure perché loro stessi si adornavano come delle gru, come avveniva tra gli Ostiachi siberiani, che indossavano pelli di gru durante il relativo cerimoniale sciamanico (Matthews, 1922). Non è irrilevante rammentare ai lettori che Dedalo, l’inventore del labirinto, è anche l’unico che riesce ad uscirne volando, un volo sciamanico effettuato con quelle stesse ali (di gru?) che segneranno il destino del figlio Icaro.

La Danza della Gru veniva eseguita, sotto il nome di pilota, nelle cattedrali francesi di Auxerre, Amiens, Sens e Chartres e probabilmente anche a Reims, Besançon e molte altre (Lepore, 2002). Si eseguivano danze ecclesiastiche cantando e passandosi una palla, come ad Auxerre, nella cattedrale di Santo Stefano, in occasione dei vespri del lunedì di Pasqua o a Natale. Il corego (decano) guidava la fila seguendo il percorso del labirinto e passando la palla lungo la catena, come se fosse il gomitolo di Arianna (Morrison, 2003). Il suo carattere pagano e promiscuo portarono però alla sua proibizione, tra il sedicesimo ed il diciassettesimo secolo. Ciò significa che la tradizione era talmente radicata che ci vollero secoli per estirparla. Lo storico della musica Craig Wright (Yale) menziona il resoconto di un folklorista in visita ad un villaggio del meridione francese nel 1838, dove assistette all’esecuzione di un ballo a spirale con fazzoletti al posto della corda chiamato “la danza cretese dei Greci” (la danse candiote des Grecs), in cui il corego era chiamato Teseo. Da quella stessa danza derivano l’hasapiko ed il sirtaki (di Zorba). Più recentemente, quell’idea di fondo è stata ripresa e rivista nella strada spiraliforme di mattoni gialli del Mago di Oz.

La Gorgone

L’atteggiamento usuale con cui è dipinta Medusa – accovacciata, con le braccia sollevate, con la lingua a penzoloni sopra il mento, con gli occhi sbarrati è una posa caratteristica della guardiana dell’altro mondo nei culti del maiale della Melanesia. Qui essa è custode della strada per l’aldilà e chi vuole passare deve offrirle un maiale (come sostituto simbolico della propria persona). E Medusa sta proprio in un posto simile nella sua caverna ai limiti del mondo, sulla strada che porta all’albero delle mele d’oro.

Joseph Campbell

Non siamo soli ad affrontare l’avventura, perché gli eroi di tutte le epoche ci hanno preceduti. Il labirinto non ha più segreti. Dobbiamo semplicemente seguire il filo lungo il percorso dell’eroe, e dove pensavamo di incontrare un mostro, troveremo un dio. Dove pensavamo di uccidere altri, uccideremo noi stessi. Dove pensavamo di dover cercare all’esterno, ci ritroveremo invece al centro della nostra esistenza. E dove avevamo pensato di essere soli, avremo tutto il mondo al nostro fianco.

Joseph Campbell

I capostipiti del genere eroico sono Gilgamesh ed Enkidu che, assieme, si inoltrano in una foresta di cedri per salvare una vergine divina (principessa) tenuta prigioniera da un mostro dal volto “cupo come la notte”, il gigantesco demone Khubaba, o Humbaba, “il capo irto delle corna del bufalo selvatico”, guardiano di un Oltretomba labirintico e fortificato, “la fortezza di intestini”: “abitatore di una foresta incantata, percorsa da sentieri segreti e viottoli senza uscita…l’uomo delle viscere, così detto perché il suo viso è fatto di interiora” (Kerényi, 1983, p. 34).

La saga narra che Gilgamesh, oppresso dalle preoccupazioni di un sovrano che ha a cuore le sorti dei suoi sudditi, decide di partire alla volta del Paese dei Cedri per uccidere il suo guardiano, ritenuto responsabile della miseria della città di Uruk e la cui descrizione rispecchia quella che poteva essere la metamorfosi simbolica dell’attività vulcanica: “Enlil lo ha designato quale settuplice terrore ai mortali […] il suo ruggito è come uragano, la sua bocca è fuoco, il suo alito è morte”. Lo accompagna il suo scudiero Enkidu, che era stato precedentemente strappato alla vita delle foreste e dirozzato. La sera prima dello scontro Enkidu ha un incubo: il mostro lo afferra e lo getta nell’abisso urlando: “vola verso il basso, verso la dimora dell’oscurità, verso la casa di Irkalla [l’Ade]. Scendi nella sua dimora, da dove non esce più chi vi è entrato. Scendi per la strada che nessuno può rifare, se la sua via non si svolge a destra e a sinistra!”. Antesignano di Perseo, di Teseo e di Ercola, Gilgamesh supera la prova iniziatica e riesce ad uccidere il gigante decapitandolo. La sua testa recisa finisce in una sacca di pelle, come quella della Medusa. Di norma Humbaba veniva raffigurato con il volto a forma di viscere o di serpenti intrecciati, qualche volta anche come un gigante monocolo, come il ciclope Polifemo, figlio di Poseidone, incontrato ed ucciso da Ulisse nell’Odissea di Omero, all’interno di una caverna.

La testa di serpenti ci spinge ad esaminare meglio la figura della Medusa o Gorgone (Hopkins, 1934). Essa appare sovente nell’arte etrusca e in latino “larva” e “persona” sono sinonimi che indicano gli spettri e le maschere. Come mai? “Persona” deriva etimologicamente da Phersu (phèrsuna, = “appartenente al Phersu”, ossia la maschera, appunto), termine etrusco collegato a Perseo e Persefone (Phersipnai) e forse a Parsifal, cavaliere del ciclo arturiano.

Nella Tomba degli Àuguri a Tarquinia (VI secolo a.C.), Phersu (si pronuncia “fersu”) è rappresentato con una maschera sul volto, una barba probabilmente posticcia, una giubba maculata ed un cappuccio. Compare assieme ad un guerriero dalla testa avvolta in un panno che brandisce una nodosa clava con la quale si difende da un molosso che lo azzanna e che è tenuto al guinzaglio dallo stesso Phersu. Altrove Phersu appare anche mentre danza e suona con la testa rivolta all’indietro o con una clava ed uno scudo. È stato fatto notare che nelle pitture murali etrusche Ade è raffigurato con un cappuccio di pelle di lupo o cane che richiama il kunee usato da Perseo e la maschera di Phersu. Ecco la descrizione di Ermes: uomo barbuto con un copricapo (un pilos con il cocuzzolo appuntito) e un corto mantello, indossa stivali alati e porta il caduceo. A volte corre o danza suonando la lira e guardando dietro di sé al di sopra della spalla. Altre volte suona la lira mentre guida una processione sacrificale che comprende Eracle (con la sua pelle di leone), che scorta agli Inferi, esattamente come fa con Perseo ed Ulisse. Atlante confonde i due eroi, forse perché sono la stessa figura, proveniente da due tradizioni diverse, che ad un certo punto si sono fuse sincreticamente.

Hermes e Phersu sono psychopompos, ossia guidano le anime dei morti e proteggono i viventi che si addentrano nell’Ade. Hermes aiuta Perseo a sconfiggere Medusa e a prendere la Gorgeiè képhalè, la testa della Gorgone. La stessa espressione è usata nell’Odissea quando Ulisse teme l’arrivo improvviso di una testa mostruosa che lo impietrirebbe all’istante, poiché l’Ade non è posto per i viventi. Di nuovo il tema della pietrificazione. Quella testa terribile è proprietà di Persefone, signora dell’Ade, che la usa come guardiana, come Cerbero. È la Maschera del Potere supremo, quello di vita e di morte, di progressione bio-spirituale o di regressione allo stato minerale, il più remoto gradino dell’evoluzione. Potenza di terrore. Gli astronomi arabi chiamano la costellazione Perseo Hamil Ras al Ghul, “Colui che porta la testa di Ghul”, testa che è Beta Persei, la stella Algol, la più diabolica e nefasta del cielo, che prende il nome da un demone o un’orca del deserto che assale i viaggiatori e li divora cominciando dai piedi. Gli Ebrei la chiamano Rosh ha Satan, la testa di Satana.

Quella di Perseo è un’impresa epocale. Omero lo definisce “preminente tra tutti gli uomini”. Da quel momento in poi la Testa della Gorgone diventa strumento per rettificare i torti e le ingiustizie del passato, ristabilendo gli equilibri cosmici. Ercole taglia le teste dell’Idra, Perseo quella di Medusa, per poi uccidere il drago che tiene prigioniera Andromeda. Anche San Michele uccide il drago, diventando la controparte cristiana di Perseo. San Michele è lo sterminatore dell’Anticristo – il quintessenziale psicopatico, che indossa la maschera della santità per sedurre le vittime –, è accompagnatore delle anime dei morti in cielo (psicopompo), soppesatore delle colpe e dei peccati delle anime medesime nel giorno del giudizio, protettore dell’umanità dalle calamità naturali.

C’è un drago anche vicino al paese di San Michele, nei pressi di Trento. È il Basilisco di Mezzocorona, che si fa ingannare da uno specchio: risponde ad ogni sguardo con il medesimo sguardo, a ogni suo gesto con un simmetrico gesto e, così distratto, si fa uccidere, diventa polvere. La sua caduta come riduzione allo stato minerale: polvere alla polvere. Come Narciso, il basilisco si ammira e perde di vista la realtà vera, è sviato dal suo doppio, dalla maschera. Così è per Medusa: uno specchio la condanna riflettendo il suo sguardo mortifero. Ricordo che al centro dei labirinti ipogei si poneva uno specchio e uno specchio – o per meglio dire un calderone pieno d’acqua in cui specchiarsi –, era collocato anche al centro del nekromanteion di Efira, uno degli oracoli più celebrati dell’antica Grecia, perché là i vivi potevano entrare in contatto coi morti e farsi predire il futuro, senza bisogno di alcuna intermediazione sacerdotale. Nell’Odissea Omero spiega che è proprio lì che Ulisse si reca per discendere negli Inferi ed interrogare Tiresia. L’archeologo greco Sotirios Dakaris prese per buone le indicazioni di Omero e di Pausania e le usò per rintracciare questo luogo, riuscendovi: il nekyomanteion o necromanteion, un labirintico santuario di Persefone, era posto sotto una chiesa tardo-bizantina. Nell’intrico di corridoi e meandri bui, secondo l’archeologo greco una riproduzione in miniatura dell’inferno, gli scavi disseppellirono recipienti per le offerte di latte, miele e vino, resti di molluschi e ossa di maiale, l’anima sacrificale della Dea dell’Ade, dalla Grecia fino alla Melanesia (Dakaris, 1993). S’intuisce una continuità che comincia all’epoca dei Cro-Magnon e prosegue con le meditazioni dei pitagorici nelle camere sotterranee, per arrivare alle catacombe dovei i primi cristiani pregavano e digiunavano.

 Pare di poter dire che, quantomeno nell’ambito mediterraneo e medio-orientale, la caratteristica precipua dell’eroe civilizzatore o salvatore – il vero e proprio Menschenfreund – sia quella di combattere contro la Maschera del Potere, il cui tratto distintivo è la facoltà di tramutare in pietra o polverizzare chi non sa guardare oltre le apparenze, chi non riconosce la minaccia che si cela dietro di essa. Di che minaccia si tratta? Io credo che il significato ultimo di questo mitema archetipico, la sua morale più profonda sia quella di non lasciare che orgoglio e brama di potere impietriscano prima e polverizzino poi la nostra coscienza. Gli eroi sono tutti individui con una personalità forte, schierata in favore della dignità e del rispetto per il prossimo. Purtroppo l’uomo è affascinato dal potere, non può più distogliere lo sguardo. Si fa assorbire, risucchiare nel suo vortice, imprigionare nel suo regno, dopo essere stato strappato a se stesso, alla propria identità, individualità, personalità, indipendenza di giudizio. È invaso e posseduto e non se ne rende conto. Si fa mettere le redini, domare, addomesticare ed addestrare. È il rischio che corre Dottor Bill, in Eyes Wide Shut, quando la curiosità lo sta per fagocitare in un gorgo di corruzione e violenza governato da potenti mascherati. Ma ha la possibilità di scegliere e si salva, torna a casa come Dorothy, nel “Meraviglioso Mago di Oz”: “Casa dolce casa”. Il potere inganna e manipola, ma non può violare il libero arbitrio, può solo influenzare le persone facendole sbagliare. È quel che fa con Eva, nel Paradiso Terrestre, sfruttando le debolezze di ego.

Il potere egocentrico parla di trascendenza e spiritualità, ma sono termini ai quali conferisce un senso ben diverso. Questa spiritualità non trascende la materia, la compenetra è, in modo apparentemente contraddittorio, uno spiritualismo materialista incentrato sull’assolutizzazione di questo mondo. È un feticismo della materia che ambisce a trascenderla solo per governarla meglio. Potere significa diritto di disprezzare, uccidere e rimodellare la Creazione a proprio piacimento. Significa un ego mascolino armato e corazzato per affrontare un mondo che avverte sempre sull’orlo della disintegrazione. Il potere egocentrico è insicuro ma indossa la maschera della marzialità, della solidità, dell’inamovibilità, del turgore fallico, del corpo-macchina che ama le strutture rigide e prescrittive, quelle che rassicurano, placano, confortano, tengono sotto controllo i pericoli emozionali e forniscono confini e barriere nette.

Il vero problema è allora la mancanza di obiettività, la nostra incapacità di vedere le cose come stanno, la nostra propensione a scambiare i nostri desideri/paure per la realtà, la nostra riluttanza a fare realmente attenzione agli effetti di quel che diciamo e facciamo e a quel che dicono e fanno gli altri. Tutti dicono di saper distinguere tra bene e male, ma poi quasi tutti sono convinti di compiere il bene. Perché? Perché, inconsciamente, per via del nostro egocentrismo connaturato, siamo convinti che la nostra personale visione della realtà sia più vera di quella altrui – o meno vera, se siamo succubi.

Neghiamo, dispoticamente, a chi sta sotto di noi il medesimo grado di realtà che assegniamo a noi stessi e, servilmente, attribuiamo a chi sta sopra di noi un grado di realtà maggiore del nostro. In entrambi i casi l’altro non è mai reale/vero quanto lo siamo noi. Per questo non facciamo veramente attenzione. Inoltre, se gli altri sono meno reali di noi o noi ci sentiamo meno reali degli altri, non ci verrà forse spontaneo di voler cambiare l’universo, invece di accettarlo per quello che è? Non ci verrà spontaneo di cercare di cambiare gli altri invece di cambiare noi stessi? E non è quella la radice di ogni male? Non è l’estirpamento di questo vizio il fine ultimo del rito del labirinto?

Conclusione – Il Cristo e la Fine dei Tempi

Beato chi, come Teseo, potrà uscire dal suo labirinto personale una volta per sempre. Ma la vicenda dell’uomo a cui non arride tanto favore degli dèi è più grave, quindi il suo errare sarà lungo quanto la vita. Eppure, l’aver raggiunto la camera segreta anche una sola volta – per illuminazione spirituale o per una meditazione perfetta – modificherà la sua coscienza per sempre: “chi è stato felice una volta, non potrà mai essere distrutto”.

Paolo Santarcangeli

È scritto che la vita si rifugi in un sol luogo, apprendiamo cioè che esiste un paese nel quale la morte non toccherà gli uomini, quando sarà il terribile momento del duplice cataclisma. Tocca a noi cercare, poi, la posizione geografica di questa terra promessa, dalla quale gli eletti potranno assistere al ritorno dell’età d’oro. Perché gli eletti, figli di Elia, secondo le parole della Scrittura, saranno salvati. Perché la loro fede profonda, la loro instancabile perseveranza nella fatica avrà fatto meritare loro d’essere elevati al rango di discepoli del Cristo-Luce. Essi porteranno il suo segno e riceveranno da lui la missione di ricollegare all’umanità rigenerata la catena delle tradizioni dell’umanità scomparsa.

Fulcanelli

Una credenza invero curiosa quella di Fulcanelli. Ci imbattiamo in questa affermazione nel capitolo conclusivo di un saggio del celebre alchimista Fulcanelli, intitolato “Il mistero delle cattedrali e l’interpretazione esoterica dei simboli ermetici della Grande Opera”, pubblicato per la prima volta nel 1926. Invero, il Gioco di Troia è quasi certamente ancorato all’idea di morte e rigenerazione e di catastrofe e rivelazione (“apocalisse”). Infatti, oltre alla stessa Troia, “i nomi attribuiti nel Nord Europa a queste spirali di pietra vanno considerati come definizioni del “tempo della morte”, a meno che non intervengano particolari ragioni a dimostrare il contrario. Sono in genere nomi di città distrutte: Babilonia, Ninive, Gerico, Gerusalemme, Lisbona (probabilmente solo in epoca successiva al famoso terremoto)” (Kerényi, 1983, p. 46).

Gli architetti delle cattedrali senza dubbio non ignoravano la necessaria dimensione escatologica ed apocalittica del messaggio cristiano, che acquista senso solo in questa prospettiva finalistica, com’è testimoniato dalla preponderanza dei motivi apocalittici nelle cattedrali (Emmerson, McGinn, 1992). “L’immaginazione cristiana aveva trovato una forte fonte di stimoli nella profezia della Nuova Gerusalemme dell’Apocalisse e la chiesa medievale era concepita come immagine di quella futura beatitudine celeste. La visione di Giovanni della città celeste della Nuova Gerusalemme era usata nel rituale di consacrazione di una chiesa, come la visione di Ezechiele del Tempio, dato che si riteneva che anche questa avesse prefigurato la Gerusalemme Celeste” (Dobbs, 2002, p. 124).

La profezia di Gesù è nota: “Or voi udirete parlar di guerre e di rumori di guerre; guardate di non turbarvi, perché bisogna che questo avvenga, ma non sarà ancora la fine. Poiché si leverà nazione contro nazione e regno contro regno; ci saranno carestie e terremoti in vari luoghi; ma tutto questo non sarà che principio di dolori. Allora vi getteranno in tribolazione e v’uccideranno, e sarete odiati da tutte le genti a cagion del mio nome. E allora molti si scandalizzeranno, e si tradiranno e si odieranno a vicenda. E molti falsi profeti sorgeranno e sedurranno molti. E perché l’iniquità sarà moltiplicata, la carità dei più si raffredderà. Ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato” (Matteo 24:6-14). Per inciso, si tramanda che Giovanni, l’autore del libro dell’Apocalisse, abbia scritto il testo in seguito ad una visione profetica in una caverna di Patmos.

Imbevuti com’erano di cultura greca, i costruttori di cattedrali non potevano non conoscere il Timeo di Platone, che contiene questo interessante passo: “Ma uno di quei sacerdoti, che era molto anziano, disse: Solone, Solone voi Greci siete sempre ragazzi, un vecchio fra i greci non esiste! All’udire queste parole, egli chiese: Ma che vuoi dire? Siete tutti spiritualmente giovani, – rispose – perché nelle vostre menti non avete nessun’antica opinione formatasi per lunga tradizione e nessuna conoscenza incanutita dal tempo. E il motivo è questo: avvennero e avverranno ancora per l’umanità molte distruzioni in molti modi, le più grandi con fuoco e l’acqua, e altre minori per infinite altre cause. Quel fatto che si racconta anche fra voi, ossia che un tempo Fetonte, figlio di Elios, dopo aver aggiogato il cocchio di suo padre, non fu capace di guidarlo sulla via tracciata dal padre e per questo bruciò le regioni terrestri e morì lui stesso folgorato, viene narrato in forma mitica; ma la verità è la deviazione dei corpi che girano in cielo intorno alla terra e la combustione, a grandi intervalli di tempo, delle regioni terrestri per sovrabbondanza di fuoco. In quei momenti, chi abita sui monti e in luoghi alti e aridi è esposto alla morte più di quelli che abitano presso i fiumi e il mare: per noi il Nilo è provvidenziale per molti aspetti, e straripando ci libera anche in quelle circostanze da quest’inconveniente. Quando invece gli dei inondano la terra per purificarla con le acque, i pastori e i mandriani si mettono in salvo sui monti, ma gli abitanti delle vostre città vengono trascinati in mare dai fiumi”.

Oggi la scienza conferma che questi eventi sono realmente avvenuti e presumibilmente si potranno verificare di nuovo (Napier, 2010; Anderson et. 2011). Ci possiamo fare qualcosa? No. Dobbiamo seguire il consiglio di Fulcanelli e cercare una terra in cui “la morte non toccherà gli uomini”? Alla luce di ciò che abbiamo appreso, quella di Fulcanelli è forse un’allegoria alchemica, oppure un’esortazione a trovare dentro di sé, in una rivoluzione della coscienza, la strada per il castello del Graal e per l’uscita dal labirinto, piuttosto che in una frenetica ricerca del “posto giusto”.

Di che vita parlava, Gesù? (della vita, della morte e delle esperienze extracorporee)


Dedicato a Franz!
(entrambi ;o)

Gesù disse, “I cieli e la terra si apriranno al vostro cospetto, e chiunque è vivo per colui che vive non vedrà la morte.” Non dice Gesù, “Di quelli che hanno trovato se stessi, il mondo non è degno?” [Tommaso, 111 – s’incontra spesso l’espressione “colui che vive”].

“Stretta invece è la porta ed angusta la via che mena alla vita, e pochi son quelli che la trovano” [Matteo 7:14]

“Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la sua vita per amor mio, la troverà” [Matteo 16:25]

“E se la tua mano ti fa intoppare, mozzala; meglio è per te entrar monco nella vita, che aver due mani e andartene nella geenna, nel fuoco inestinguibile” [Marco 9:43]

“In lei (la Parola, il Logos) era la vita; e la vita era la luce degli uomini” [Giovanni 1:4]

“In verità, in verità io vi dico: Chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha vita eterna; e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” [Giovanni 5:24]

“Eppure non volete venire a me per aver la vita! [Giovanni 5:40]

“È lo spirito quel che vivifica; la carne non giova nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita” [Giovanni 6:63]

“Il ladro non viene se non per rubare e ammazzare e distruggere; io son venuto perché abbian la vita e l’abbiano in abbondanza” [Giovanni 10:10]

Gesù le disse: “Io son la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muoia, vivrà” [Giovanni 11:25]

“Chi ama la sua vita, la perde; e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà in vita eterna” [Giovanni 12:25]

“Perché ciò a cui la carne ha l’animo è morte, ma ciò a cui lo spirito ha l’animo, è vita e pace” [Romani 8:6].

Un lungo estratto da Michael Talbot, “Tutto è uno: l’ipotesi della scienza olografica”, Milano: Urra, 2004.

[un romanzo ammonitore di Talbot: http://www.versacrum.com/vs/2012/02/michael-talbot-vivono-di-notte.html]

L’accesso alla realtà olografica diventa disponibile esperienzialmente quando la nostra coscienza è libera dalla sua dipendenza dal corpo fisico. Fino a quando rimaniamo legati al corpo e alle sue modalità sensoriali, la realtà olografica può al meglio essere un costrutto intellettuale. Quando si [è liberi dal corpo], la si sperimenta direttamente. Ecco perché i mistici parlano delle proprie visioni con tale certezza e convinzione, mentre coloro che non hanno sperimentato questo regno in prima persona restano scettici o addirittura indifferenti.

Kenneth Ring, Ph.D. – Life and Death

[N.B. Non ho mai avuto un’esperienza extra-corporea in stato di veglia, ma a suo tempo mi è capitato più di un fatto interessante legato alla relatività spazio-temporale e mi sento di poter confermare quanto scritto sopra – tra l’altro sono sicuro che molti tra i miei lettori avranno avuto esperienze singolari, ma i dogmatismi materialisti e riduzionisti di certa scienza (per ora egemone) e dell’opinione pubblica inibiscono il dibattito. Come sempre, ognuno raccoglierà quel che ha seminato. Io ho seminato anche qui  e qui, nella speranza che la paura della morte non comprometta la nostra integrità, retto sentire e retto agire in situazioni-limite].

Il tempo non è la sola cosa illusoria in un universo olografico. Anche lo spazio va visto come prodotto della nostra modalità di percezione. Questo è ancora più difficile da comprendere dell’idea che il tempo è un costrutto, poiché quando si tratta di tentare di concettualizzare «l’assenza di spazio» non esistono facili analogie, nessuna immagine di universi ameboidi o futuri in cristallizzazione, alle quali ricorrere. Siamo talmente condizionati a pensare in termini di spazio come un assoluto, che ci è difficile perfino cercare di immaginare come potremmo vivere in un regno nel quale lo spazio non esiste. Tuttavia, vi è la prova che in definitiva non siamo limitati dallo spazio più di quanto non lo siamo dal tempo.

Possiamo trovare un convincente indizio del fatto che questa è la realtà nei fenomeni extracorporei (esperienze nelle quali la consapevolezza conscia di un individuo sembra distaccarsi dal corpo fisico e viaggiare verso altri luoghi). Le esperienze extracorporee, od OBE, sono state riferite attraverso la storia da individui di ogni ceto. Aldous Huxley, Goethe, D. H. Laurence, August Strindberg, e Jack London tutti riferirono di averne vissute. Esse erano note agli egizi, gli indiani del Nord America, i cinesi, i filosofi greci, gli alchimisti medievali, i popoli oceanici, gli induisti, gli ebrei e i musulmani. In uno studio multi-culturale su 44 società non-occidentali, Dean Shiels riscontrò che soltanto tre di esse non credevano nelle esperienze extracorporee.1 In uno studio analogo, l’antropologa Erika Bourguignon studiò 488 società del mondo – o approssimativamente il 57 percento di tutte le società conosciute – e trovò che 437 di esse, o l’89 percento, aveva almeno qualche tradizione a questo riguardo.

Anche oggi, gli studi indicano che queste esperienze sono ancora diffuse. Il defunto dottor Robert Crookall, geologo presso la University of Aberdeen e parapsicologo dilettante, indagò casi sufficienti da riempire nove libri sul tema. Negli anni Sessanta, Celia Green, la direttrice dell’Institute of Psychophysical Research di Oxford, condusse un sondaggio su 115 studenti alla Southampton University e riscontrò che il 19 percento ammise di avere avuto un’esperienza extracorporea. Quando 380 studenti di Oxford furono intervistati sullo stesso argomento, il 34 percento di essi diede una risposta affermativa.3 In un’indagine su 902 adulti, Haraldson trovò che l’8 percento aveva sperimentato l’uscita dal corpo almeno una volta nella vita.4 E un sondaggio del 1980 condotto dal dottor Harvey Iruin della University of New England in Australia rivelò che il 20 percento di 117 studenti ne aveva sperimentata una.5 Calcolando la media, questi dati indicano che approssimativamente una persona su cinque avrà un’esperienza extracorporea in qualche momento della sua vita. Altri studi suggeriscono che l’incidenza potrebbe avvicinarsi maggiormente a una su dieci, ma il fatto rimane: questi fenomeni sono ben più comuni di quanto la maggior parte delle persone non si renda conto.

La tipica esperienza extracorporea è solitamente spontanea e si verifica il più delle volte durante il sonno, la meditazione, l’anestesia, la malattia e casi di dolore traumatico (sebbene possano verificarsi anche in altre circostanze). Improvvisamente, una persona ha la vivida sensazione che la sua mente si è separata dal corpo. Frequentemente si trova a fluttuare al di sopra del corpo e scopre di potere viaggiare o volare verso altri luoghi. Che tipo di sensazione è scoprirsi liberi dal corpo e osservarlo dall’alto? In uno studio del 1980 condotto su 339 casi di viaggio extracorporeo, il dottor Glen Gabbard della Menninger Foundation di Topeka, il dottor Stuart Twemlow del Topeka Veterans’ Administration Medical Center e il dottor Fowler Jones dello University of Kansas Medical Center trovarono che un esorbitante 85 percento descrisse l’esperienza come piacevole e più della metà di esso disse che era gioiosa.

Conosco la sensazione. Ebbi una uscita dal corpo spontanea da adolescente, e una volta superato lo shock dell’essermi ritrovato a fluttuare sopra il mio corpo e di avere fissato me stesso addormentato sul letto, passai momenti indescrivibilmente esilaranti, volando attraverso i muri e spaziando sopra le cime degli alberi. Durante il mio viaggio sconfinato, mi imbattei perfino in un libro preso a prestito da una biblioteca che una vicina aveva perso, di modo che il giorno seguente fui in grado di dirle dove si trovasse. Descrivo questa esperienza dettagliatamente in Beyond the Quantum. Non è di poco significato che anche Gabbard, Twemlow e Jones studiarono il profilo psicologico di coloro che avevano avuto esperienze extracorporee e scoprirono che erano psicologicamente normali ed erano in generale estremamente ben adattati. Al convegno del 1980 dell’American Psychiatric Association essi esposero le proprie conclusioni e dissero ai loro colleghi che il rassicurare i pazienti che le uscite dal corpo sono fenomeni comuni e il consigliare loro libri sulla materia potrebbe essere «più terapeutico» del trattamento psichiatrico. Insinuarono inoltre che i pazienti potrebbero trarre più sollievo parlando a uno yogi che a uno psichiatra!

Malgrado questi fatti, la quantità di scoperte statistiche non è tanto convincente quanto i veri resoconti di simili esperienze. Ad esempio, Kimberly Clark, un’assistente ospedaliera di Seattle, nello stato di Washington, non prese l’argomento seriamente finché non incontrò una paziente dell’unità coronarica di nome Maria. Molti giorni dopo essere stata ricoverata all’ospedale, Maria subì un arresto cardiaco e fu velocemente rianimata. La Clark la visitò più tardi quel pomeriggio, aspettandosi di trovarla ansiosa circa il fatto che il suo cuore si era fermato. Come si aspettava, Maria era agitata, ma non per la ragione che aveva previsto.

Maria disse alla Clark di avere sperimentato qualcosa di molto strano. Dopo che il suo cuore si era fermato, si era trovata improvvisamente a guardare in basso dal soffitto e a osservare i dottori e le infermiere che lavoravano su di lei. Poi qualcosa sopra il viale che conduceva alla sala di rianimazione la distrasse e appena «si pensò» lì, fu lì. Poi Maria «pensò il cammino» fino al terzo piano dell’edificio e si trovò di fronte una scarpa da tennis. Era una vecchia scarpa e notò che il mignolo aveva fatto un buco nella stoffa. Notò anche parecchi altri dettagli, come il fatto che la stringa era bloccata sotto il tacco. Dopo che Maria ebbe finito il suo resoconto, pregò la Clark di andare sul davanzale e vedere se vi era una scarpa, in modo da poter confermare se la sua esperienza era reale o meno.

Scettica ma incuriosita, la Clark uscì e guardò verso l’alto sul davanzale, ma non vide nulla. Salì al terzo piano e iniziò a entrare e uscire dalle stanze dei pazienti guardando attraverso finestre talmente strette, che dovette premere il viso contro il vetro per riuscire anche solo a vedere il davanzale. Finalmente, trovò una stanza nella quale premette il viso contro il vetro e, guardando verso il basso, vide la scarpa da tennis. Tuttavia, dal suo punto di visuale non poteva dire se il mignolo avesse consumato una parte della scarpa o se un qualsiasi altro dettaglio descritto da Maria fosse corretto. Fu solo quando ebbe recuperato la scarpa che confermò le varie osservazioni di Maria. «L’unico modo nel quale avrebbe avuto quella prospettiva sarebbe stato se si fosse trovata sospesa appena fuori, molto vicina alla scarpa da tennis», afferma la Clark, che da allora crede nelle esperienze extracorporee. «Fu per me una prova molto concreta».

Vivere questo tipo di esperienza durante un arresto cardiaco è relativamente comune, tanto comune che Michael B. Sabom, cardiologo e professore di medicina alla Emory University e medico interno all’Atlanta Veterans’ Administration Medical Center, si stancò di sentire i suoi pazienti raccontare simili «fantasie» e decise di sistemare la faccenda una volta per tutte. Sabom selezionò due gruppi di pazienti, uno composto da 32 cardiopatici cronici che avevano riferito di esperienze extracorporee durante i loro infarti, e uno costituito da 25 cardiopatici cronici che non ne avevano mai avuto esperienza. Poi intervistò i pazienti domandando a coloro che avevano avuto le esperienze di descrivere la propria rianimazione come l’avevano vista dallo stato extracorporeo, e chiedendo a coloro che non avevano avuto l’esperienza di descrivere ciò che immaginavano si fosse verificato durante la loro rianimazione.

Di questi ultimi, 20 compirono errori consistenti nel descrivere le proprie rianimazioni, 3 diedero descrizioni corrette ma generiche, e 2 non avevano assolutamente idea di cosa fosse avvenuto. Fra coloro che avevano avuto l’esperienza, 26 diedero descrizioni corrette ma vaghe, 6 diedero descrizioni altamente dettagliate e precise della propria rianimazione, e uno diede un resoconto dettagliato talmente preciso che Sabom ne fu sbalordito. I risultati lo ispirarono a indagare ancora più profondamente nel fenomeno, e come la Clark, è ora divenuto un acceso credente e tiene molte conferenze sul tema. Sembra « non esservi alcuna spiegazione plausibile dell’esattezza di queste osservazioni che coinvolga i consueti sensi fisici», dice. «L’ipotesi extracorporea sembra semplicemente meglio adattarsi ai dati disponibili».

Benché le uscite dal corpo sperimentate da simili pazienti siano spontanee, alcune persone si sono sufficientemente impadronite di questa capacità da lasciare il corpo a loro piacimento. Uno dei più famosi di questi individui è un ex dirigente radiofonico e televisivo di nome Robert Monroe. Quando Monroe ebbe la sua prima esperienza extracorporea verso la fine degli anni Cinquanta, pensò di stare impazzendo e immediatamente cercò cure mediche. I dottori che consultò non trovarono nulla di anomalo, ma egli continuò ad avere le sue strane esperienze e a esserne intensamente disturbato. Infine, dopo avere appreso da un amico psicologo che gli yogi indiani dichiaravano di lasciare il corpo continuamente, egli iniziò ad accettare il suo involontario talento. «Avevo due possibilità», ricorda Monroe. «Una era l’assunzione di sedativi per il resto della mia vita; l’altra era di imparare qualcosa circa questo stato così da poterlo controllare».

Da quel giorno in poi, Monroe iniziò a tenere un diario scritto delle sue esperienze, documentando attentamente ogni cosa che imparava riguardo allo stato extracorporeo. Scoprì di potere passare attraverso oggetti solidi e percorrere grandi distanze in un batter d’occhio semplicemente pensandosi «là». Riscontrò che le altre persone raramente si accorgevano della sua presenza, sebbene gli amici, che andava a trovare mentre era in questo «secondo stato», rapidamente iniziarono a credergli, quando ne descrisse con esattezza gli abiti e le azioni al momento della sua visita fuori dal corpo. Scoprì anche di non essere solo nella sua esperienza e occasionalmente si imbatté in altri viaggiatori disincarnati. Egli ha catalogato finora le sue esperienze in due libri affascinanti, Journeys Out of the Body e Far Journeys.

Le esperienze extracorporee sono anche state documentate in laboratorio. In un esperimento, il parapsicologo Charles Tart riuscì a fare identificare correttamente a un’abile sperimentatrice extracorporea, che identifica soltanto come la Signora Z, un numero di cinque cifre scritto su un pezzo di carta, che sarebbe stato raggiungibile solo se avesse fluttuato nello stato incorporeo.11 In una serie di esperimenti condotti all’American Society for Psychical Research a New York, Karlis Osis e la psicologa Janet Lee Mitchell trovarono parecchi soggetti capaci di «venire in volo» da vari luoghi del paese e di descrivere correttamente una vasta gamma di immagini bersaglio, che includevano oggetti disposti su un tavolo, disegni geometrici colorati messi su uno scaffale sospeso liberamente vicino al soffitto, e illusioni ottiche che potevano essere viste soltanto quando un osservatore scrutava in uno speciale dispositivo attraverso una piccola finestra.12 Il dottor Robert Morris, direttore della ricerca alla Psychical Research Foundation di Durham, in Nord Carolina, ha perfino usato animali in grado di avvertire visite extracorporee. In un esperimento, ad esempio, Morris trovò che un gattino appartenente a un soggetto extracorporeo di talento di nome Keith Harary cessava regolarmente di miagolare e iniziava a fare le fusa ogni volta che Harary era invisibilmente presente.

Le esperienze extracorporee come fenomeno olografico

Considerate nell’insieme, le prove sembrano inequivocabili. Sebbene ci venga insegnato che «pensiamo» con i nostri cervelli, questo non è sempre vero. Nelle giuste circostanze la nostra coscienza – la parte di noi che pensa e percepisce – si può distaccare dal corpo fisico ed esistere quasi ovunque voglia. La nostra attuale conoscenza scientifica non è in grado di spiegare questo fenomeno, ma esso diventa molto più facile da trattare in termini olografici.

Ricordate che in un universo olografico l’ubicazione stessa è un’illusione. Proprio come l’immagine di una mela non possiede un’ubicazione specifica su una porzione di pellicola olografica, in un universo organizzato olograficamente anche le cose e gli oggetti non possiedono una posizione definita; ogni cosa è nonlocale, in definitiva, inclusa la coscienza. Quindi, sebbene la nostra coscienza sembri essere localizzata nelle nostre teste, in alcune condizioni può altrettanto facilmente sembrare collocata nell’angolo superiore della stanza, librarsi su un prato erboso, o fluttuare di fronte a una scarpa da tennis al terzo piano di un edificio.

Se l’idea di una coscienza nonlocale sembra difficile da afferrare, un’analogia utile può essere trovata ancora una volta nei sogni. Immaginate di sognare o di trovarvi a una mostra d’arte affollata. Mentre vi spostate fra le persone e guardate le opere d’arte, la vostra coscienza sembra essere localizzata nella testa della persona che siete nel sogno. Ma dov’è in realtà la vostra coscienza? Una rapida analisi rivelerà che essa è in effetti in tutto quanto è parte del sogno, nelle altre persone presenti alla mostra, nelle opere d’arte, perfino nello spazio intrinseco del sogno. In un sogno, la collocazione è anch’essa illusoria, poiché tutto – gente, oggetti, spazio, coscienza e così via – si svela dalla più profonda e fondamentale realtà del sognatore.

Un’altra caratteristica decisamente olografica delle esperienze extracorporee è la plasticità della forma che una persona assume quando è fuori dal corpo. Dopo essersi distaccati dal corpo, coloro che hanno esperienze di questo tipo a volte si ritrovano in un corpo fantasmico che è una replica esatta del loro corpo biologico. Questo ha fatto sì che alcuni ricercatori in passato supponessero che gli esseri umani posseggano un «doppio fantasma» non dissimile al sosia nella letteratura. Comunque, recenti scoperte hanno sollevato problemi circa questa supposizione. Sebbene alcuni di coloro che hanno esperienze extracorporee descrivano questo doppio fantasmico come nudo, altri si ritrovano in corpi che sono completamente vestiti. Questo suggerisce che il doppio fantasmico non è una replica energetica permanente del corpo biologico, ma è invece un ologramma che può assumere molte forme. Questa idea nasce dal fatto che i doppi fantasmi non sono le sole forme nelle quali le persone si ritrovano durante le esperienze extracorporee. Esistono numerosi resoconti nei quali persone hanno percepito se stesse come palle di luce, nuvole di energia prive di forma, e addirittura senza nessuna forma discernibile.

Vi sono perfino prove che la forma assunta da una persona durante un’uscita dal corpo è una diretta conseguenza delle sue convinzioni e aspettative. Ad esempio, nel suo libro del 1961 The Mystical Life, il matematico J.H.M. Whiteman rivela di avere sperimentato almeno due di queste esperienze al mese nel corso della maggior parte della sua vita adulta, e riferisce di oltre duemila di questi eventi. Egli ha anche rivelato di essersi sempre sentito come una donna intrappolata nel corpo di un uomo, e che, durante il distacco, questo aveva come conseguenza il fatto che si ritrovasse in sembianze femminili. Whiteman sperimentò varie altre forme durante le sue avventure extracorporee, inclusi corpi di bambini, e ne ha dedotto che le convinzioni sia consce che inconsce fossero i fattori determinanti nella forma che questo secondo corpo assumeva.

Monroe ne conviene, e asserisce che sono le nostre «abitudini mentali» a creare le nostre forme extracorporee. Poiché siamo così avvezzi ad essere in un corpo, abbiamo una tendenza a riprodurre la stessa forma nello stato extracorporeo. In modo analogo, egli ritiene che sia l’imbarazzo che la maggior parte delle persone prova trovandosi nuda a far sì che gli sperimentatori di tale fenomeno inconsciamente si costruiscano abiti, quando assumono una forma umana. «Ho il sospetto che sia possibile modificare il Secondo Corpo in qualsiasi forma si desideri», dice Monroe.

Qual è la nostra vera forma, se forma è, quando siamo nello stato disincarnato?

Monroe ha trovato che quando abbandoniamo tutti questi tipi di travestimenti, siamo essenzialmente uno «schema di vibrazione [comprensivo] di molte frequenze interagenti e risonanti». Anche questa scoperta suggerisce in modo indicativo che ciò che si verifica sia qualcosa di olografico e offre ulteriore prova del fatto che noi – come tutte le cose in un universo olografico – siamo fondamentalmente un fenomeno di frequenze che la nostra mente trasforma in varie forme olografiche. Aggiunge anche credibilità alla conclusione della Hunt che la nostra coscienza è contenuta non nel cervello, ma in un campo energetico olografico plasmico che permea e circonda il corpo fisico.

La forma che assumiamo nello stato extracorporeo non è l’unica cosa che presenta questa plasticità olografica. Nonostante la precisione delle osservazioni fatte da viaggiatori extracorporei molto dotati durante le loro passeggiate fuori dal corpo, i ricercatori sono da tempo turbati da alcune delle madornali inesattezze che pure si presentano. Ad esempio, il titolo del libro della biblioteca smarrito in cui mi imbattei durante la mia esperienza era verde brillante quando ero nel mio stato disincarnato. Ma quando, dopo essere tornato al mio corpo fisico, andai a ricuperare il libro, vidi che la scritta era in realtà nera. La letteratura è colma di resoconti di discrepanze simili, casi in cui i viaggiatori extracorporei descrivevano con precisione una stanza distante gremita di persone, salvo il fatto che vi aggiungevano una persona o percepivano un divano dove in effetti vi era un tavolo.

In termini di idea olografica, una possibile spiegazione è che questo tipo di viaggiatori extracorporei non abbia ancora pienamente sviluppato la capacità di trasformare le frequenze che percepisce, mentre si trova in uno stato disincarnato, in una rappresentazione olografica assolutamente esatta della comune realtà. In altre parole, dato che i viaggiatori extracorporei sembrano fare assegnamento su una categoria di sensi interamente nuova, questi sensi potrebbero essere ancora incerti e non ancora competenti nell’arte di trasformare il dominio delle frequenze in un costrutto della realtà che appaia oggettivo.

Questi sensi non fisici sono ulteriormente ostacolati dalle costrizioni che le nostre convinzioni autolimitanti pongono loro. Molti abili viaggiatori extracorporei hanno notato che una volta sentitisi maggiormente a proprio agio nel loro secondo corpo, scoprirono di essere in grado di «vedere» in tutte le direzioni simultaneamente, senza voltare la testa. In altre parole, nonostante il vedere in ogni direzione sembri normale durante lo stato extracorporeo, essi erano talmente abituati a credere di poter vedere soltanto attraverso gli occhi – anche quando si trovavano in un ologramma non-fisico del loro corpo – che dapprima questa convinzione impedì loro di rendersi conto che possedevano una visione a 360 gradi.

Esiste prova che anche i nostri sensi fisici sono caduti vittime di questa censura. Nonostante la nostra ferma convinzione che vediamo con gli occhi, vi sono ancora testimonianze di individui che possiedono «la vista non oculare», o l’abilità di vedere con altre aree dei loro corpi. Recentemente, David Eisenberg, M.D., membro dello staff di ricerca clinica alla Harvard Medical School, ha pubblicato un resoconto su due sorelle cinesi di Pechino in età scolare che sono il grado di «vedere» sufficientemente bene con la pelle delle proprie ascelle, da leggere note e identificare colori. In Italia, il neurologo Cesare Lombroso studiò una ragazza cieca che poteva vedere con la punta del naso e il lobo dell’orecchio sinistro.18 Negli anni Sessanta, la prestigiosa Accademia Sovietica delle Scienze fece un’indagine su una contadina russa di nome Rosa Kuleshova, che era in grado di vedere fotografie e leggere giornali con i polpastrelli, confermandone le abilità. È significativo che i Russi esclusero la possibilità che la Kuleshova percepisse semplicemente le diverse intensità di calore accumulato che i differenti colori emanano naturalmente – la Kuleshova poteva leggere un giornale in bianco e nero perfino quando era coperto da una lastra di vetro riscaldato. La Kuleshova divenne talmente famosa per le sue abilità, che la rivista Life pubblicò infine un articolo su di lei.

In breve, vi sono prove del fatto che anche noi non siamo limitati a vedere solo attraverso i nostri occhi fisici. Questo è ovviamente il messaggio implicito nella capacità dell’amico di mio padre, Tom, di leggere l’iscrizione su un orologio, anche quando esso era nascosto dallo stomaco di sua figlia, nonché nel fenomeno della visione a distanza. Non si può fare altro che domandarsi se la vista non oculare non sia in effetti un’ulteriore prova che la realtà è invero maya, un’illusione, e il nostro corpo fisico, come pure l’apparente assolutezza della sua fisiologia, sia un costrutto olografico della nostra percezione quanto il nostro secondo corpo. Forse, siamo così profondamente abituati a credere che sia possibile vedere soltanto attraverso i nostri occhi, che perfino in ciò che è fisico ci siamo preclusi la gamma completa delle nostre capacità percettive

[N.B. il che potrebbe anche spiegare, ad esempio, come gli indigeni sudamericani siano riusciti a produrre la reazione chimica molto complessa alla base dello yagé, cf. Benny Shanon, “The antipodes of the mind: charting the phenomenology of the ayahuasca experience”, Oxford: Oxford university press, 2002].

Un altro aspetto olografico delle esperienze extracorporee è l’inconsistenza della separazione fra passato e futuro, che si verifica a volte durante questi tipi di esperienze. Ad esempio, la Osis e la Mitchell scoprirono che, quando il dottor Alex Tanous, un noto sensitivo e viaggiatore extracorporeo di talento dello stato del Maine, venne in volo e si accinse a descrivere gli oggetti da test che erano stati disposti su un tavolo, egli aveva la tendenza a descrivere cose che vi sarebbero state posate alcuni giorni più tardi!21 Questo suggerisce che la sfera che le persone penetrano durante lo stato extracorporeo è uno dei livelli più sottili della realtà dei quali Bohm parla, una regione più prossima all’implicito, e quindi più vicina al livello di realtà nel quale la scansione fra passato, presente e futuro cessa di esistere. In altre parole, sembra che invece di sintonizzarsi sulle frequenze che codificano il presente, la mente di Tanous si era inavvertitamente sintonizzata su frequenze che contenevano informazioni circa il futuro e le aveva trasformate in un ologramma della realtà.

Il fatto che la percezione che Tanous aveva della stanza fosse un fenomeno olografico e non una semplice visione precognitiva verificatasi soltanto nella sua testa è sottolineato da un altro fatto. Il giorno nel quale si era programmato che egli si cimentasse in un’esperienza extracorporea, la Osis chiese alla sensitiva di New York Christine Whiting di restare all’erta nella stanza e tentare di descrivere qualsiasi immagine le riuscisse di «vedere» comparire. Nonostante la Whiting ignorasse chi sarebbe arrivato in volo e quando, come Tanous compì la sua visita extracorporea, ella vide chiaramente la sua apparizione e descrisse che indossava pantaloni di velluto a coste marroni e una camicia bianca di cotone, gli indumenti che il dottor Tanous effettivamente indossava in Maine al momento del tentativo.

Anche Harary ha compiuto viaggi occasionali nel futuro, e conviene che le esperienze sono qualitativamente differenti dalle altre esperienze precognitive. «Le esperienze extracorporee nel tempo e nello spazio futuri, egli afferma, differiscono dai normali sogni precognitivi nel fatto che io sono decisamente «fuori» e mi muovo attraverso un’area nera, scura, che sfocia in una scena illuminata del futuro». Quando fa una visita extracorporea nel futuro, egli ha talvolta visto addirittura una silhouette del futuro se stesso nella scena, e non è tutto. Quando gli eventi a cui ha assistito infine si verificano, può anche percepire la sua identità corporea che viaggia nel tempo proprio nella scena insieme a lui. Egli descrive questa strana sensazione come «incontrare me stesso ‘dietro’ me stesso, come se io fossi due esseri», un’esperienza che certamente fa impallidire i normali déjà vu.

Si sono anche registrati casi di viaggi extracorporei nel passato. Il commediografo svedese August Strindberg, egli stesso un assiduo viaggiatore extracorporeo, ne descrive uno nel suo libro Legends. L’evento ebbe luogo mentre Strindberg si trovava seduto in un negozio di vini, e tentava di persuadere un giovane amico a non abbandonare la sua carriera militare. Per sostenere il suo punto di vista Strindberg rievocò un avvenimento passato che coinvolgeva ambedue, accaduto una sera in una taverna. Quando il commediografo si apprestò a descrivere l’evento, improvvisamente «perse conoscenza», per poi ritrovarsi seduto nella taverna in questione e rivivere l’evento. L’esperienza durò soltanto pochi momenti, e poi egli si ritrovò bruscamente nel suo corpo e nel presente. Si può anche arguire che le visioni retrocognitive esaminate nel capitolo precedente, nelle quali i chiaroveggenti erano effettivamente presenti e addirittura «fluttuavano» sopra le scene dell’episodio che stavano descrivendo, siano anch’esse una forma di proiezione nel passato.

In verità, leggendo la voluminosa letteratura ora disponibile sul fenomeno extracorporeo, si è ripetutamente colpiti dalle similarità fra le descrizioni dei viaggiatori extracorporei circa le proprie esperienze e le caratteristiche che siamo giunti ad associare a un universo olografico. Oltre a descrivere lo stato extracorporeo come un luogo dove il tempo e lo spazio non esistono più in senso stretto, dove il pensiero può essere trasformato in forme simili a ologrammi, e la coscienza è in definitiva uno schema di vibrazioni, o frequenze, Monroe fa notare che la percezione durante le uscite dal corpo sembra essere basata meno su «un riflesso di onde di luce» e più su «un effetto di radiazioni», un’osservazione che suggerisce ancora una volta che, quando si entra nel regno extracorporeo, si inizia a penetrare nel regno delle frequenze di Pribram. Anche altri viaggiatori extracorporei si sono riferiti alla qualità simile a quella delle frequenze del Secondo Stato. Ad esempio, Marcel Louis Forhan, uno sperimentatore extracorporeo francese che scrisse con lo pseudonimo di «Yram», dedica gran parte del suo libro, Practical Astral Projection, a descrivere le caratteristiche simili a quelle delle onde e apparentemente elettromagnetiche del regno extracorporeo. Altri ancora si sono espressi sul senso di unione cosmica che si prova durante questo stato e lo hanno riassunto come una sensazione che «ogni cosa è tutto», e «quello è ciò che io sono».

Per quanto olografica sia l’esperienza extracorporea, essa è soltanto la punta dell’iceberg, quando si parla di esperienza più diretta degli aspetti di frequenza della realtà. Sebbene le uscite dal corpo siano sperimentate soltanto da una minoranza di esseri umani, esiste un’altra circostanza nella quale entriamo tutti in un più stretto contatto con il dominio delle frequenze. Questo avviene quando viaggiamo in quella terra sconosciuta dalla quale nessuno mai ritorna. Il fatto, con il dovuto rispetto per Shakespeare, è che alcuni viaggiatori ritornano. E le storie che raccontano sono colme di particolari che hanno ancora una volta il sapore di cose olografiche.

L’esperienza di pre-morte

Al giorno d’oggi, quasi tutti hanno sentito parlare delle near-death experiences (esperienze di pre-morte) o NDE, avvenimenti nei quali gli individui che sono dichiarati clinicamente «morti», resuscitano, e riferiscono che durante l’esperienza hanno lasciato il corpo fisico e hanno visitato ciò che sembrava essere il regno dell’aldilà. Nella nostra cultura, le esperienze di pre-morte furono per la prima volta prese in considerazione nel 1975 quando Raimond A. Moody, Jr., uno psichiatra che possiede anche una laurea in filosofia, pubblicò la sua indagine bestseller sul tema, Life After Life. Poco tempo dopo, Elizabeth Kubler Ross rivelò di avere condotto simultaneamente una ricerca simile e di avere fatto le stesse scoperte di Moody. In effetti, come un numero sempre crescente di ricercatori iniziò a documentare il fenomeno, divenne sempre più chiaro che queste esperienze erano non solo incredibilmente diffuse – un sondaggio Gallup del 1981 rilevò che 8 milioni di americani adulti ne avevano sperimentata una, o approssimativamente una persona su venti – ma fornivano la prova più schiacciante avuta finora della sopravvivenza dopo la morte.

Come le esperienze extracorporee, quelle di pre-morte sembrano essere un fenomeno universale. Sono descritte per esteso sia nel Libro Tibetano dei Morti dell’ottavo secolo, che nel Libro Egiziano dei Morti che risale a 2500 anni fa. Nel decimo libro di La Repubblica, Platone fornisce un resoconto dettagliato di un soldato greco di nome Er, che tornò in vita pochi secondi prima che la sua pira funebre venisse accesa, dicendo che aveva lasciato il corpo ed era andato, attraverso un «passaggio», nella terra dei morti. Il Venerabile Bede dà un resoconto simile nella sua opera dell’ottavo secolo A History of the English Church and People, e in effetti, nel suo recente libro Otherworld Juourneys Carol Zaleski, un’assistente universitaria nell’ambito dello studio della religione a Harvard, fa rilevare che la letteratura medievale è colma di resoconti di esperienze di pre-morte.

Inoltre coloro che hanno vissuto l’esperienza non hanno particolari caratteristiche demografiche. Vari studi hanno mostrato che non esiste relazione fra il fenomeno e l’età, il sesso, lo stato civile, la razza, la religione e/o le credenze spirituali, la classe sociale di una persona, il livello di istruzione, il reddito, la frequenza in chiesa, la dimensione della comunità familiare o dell’area di residenza. Le esperienze di pre-morte, come i fulmini, possono colpire chiunque in qualsiasi momento. I devoti religiosi non hanno maggiore probabilità di averne una dei non credenti.

Uno degli aspetti più interessanti del fenomeno è la coerenza che si riscontra in tutte le esperienze. Una esemplificazione sommaria di una tipica esperienza di pre-morte si presenta come segue:

Un uomo sta morendo, e improvvisamente si ritrova a fluttuare sopra il proprio corpo e a osservare ciò che sta accadendo. In pochi istanti viaggia a grande velocità attraverso un’oscurità o un tunnel. Entra in un regno di luce abbagliante e viene caldamente accolto da amici e parenti morti di recente. Ode frequentemente musica di bellezza indescrivibile e vede luoghi – campi collinosi, valli colme di fiori e ruscelli scintillanti – più squisiti di qualunque cosa mai vista sulla terra. In questo mondo pieno di luce, egli non prova alcun dolore o paura ed è pervaso da un travolgente sentimento di gioia, amore e pace. Egli incontra un «essere (o esseri) di luce» che emana un senso di enorme compassione, da cui viene sollecitato a sperimentare una «visione retrospettiva della propria vita», un replay panoramico della sua vita. Egli viene talmente rapito dalla propria esperienza di questa più grande realtà, che non desidera null’altro che il rimanervi. Tuttavia, l’essere gli dice che non è ancora giunto il suo momento, e lo persuade a tornare alla vita terrena e a rientrare nel suo corpo fisico.

Va notato che questa è soltanto una descrizione generica e che non tutte le esperienze di pre-morte contengono tutti gli elementi descritti. Alcune possono mancare di qualcuna delle caratteristiche sopra citate, e altre possono contenere ulteriori ingredienti. Anche le manifestazioni simboliche delle esperienze possono variare. Ad esempio, sebbene coloro che hanno queste esperienze nelle culture occidentali tendano ad entrare nel regno dell’aldilà passando attraverso un tunnel, quelli di altre culture potrebbero camminare lungo una strada o sorvolare una massa d’acqua per raggiungerlo. Comunque, vi è uno sbalorditivo grado di similitudine fra le esperienze di pre-morte riferite da varie culture attraverso la storia. Ad esempio, la visione retrospettiva della vita, una caratteristica che si mostra ricorrentemente nelle esperienze odierne di questo tipo, è descritta anche nel Libro Tibetano dei Morti, nel Libro Egiziano dei Morti, nel resoconto di Platone di ciò che Er sperimentò durante il suo soggiorno nell’altro mondo e negli scritti yogici di 2.000 anni fa del saggio indiano Patanjali. Le similarità interculturali fra le esperienze di pre-morte sono state confermate anche negli studi convenzionali. Nel 1977, la Osis e Haraldsson paragonarono quasi novecento visioni dal letto di morte riferite da pazienti a dottori e altro personale medico, sia in India che negli Stati Uniti, e trovarono che, nonostante vi fossero varie differenze culturali – ad esempio, gli americani tendevano a vedere l’essere di luce come un personaggio religioso cristiano e gli indiani lo percepivano come induista – il «nucleo» dell’esperienza era sostanzialmente lo stesso e somigliava alle esperienze di pre-morte descritte da Moody e dalla Kubler-Ross.

Nonostante la visione ortodossa di queste esperienze affermi che si tratta soltanto di allucinazioni, esistono prove sostanziali che non sia così. Come per le esperienze extracorporee, quando coloro che sperimentano la pre-morte sono fuori dal corpo, essi sono in grado di riferire dettagli che non hanno modo di conoscere per via sensoriale. Ad esempio, Moody racconta di un caso nel quale una donna lasciò il corpo durante un intervento chirurgico, fluttuò nella sala d’attesa, e vide che sua figlia indossava indumenti scozzesi discordanti fra loro. Risultò che la domestica aveva vestito la bambina talmente in fretta, che non aveva notato l’errore e fu stupita quando la madre, che non aveva visto la bambina fisicamente, commentò il fatto. In un altro caso, dopo avere lasciato il corpo, una donna che stava sperimentando la pre-morte andò nell’atrio dell’ospedale e udì suo cognato che diceva a un amico che avrebbe probabilmente dovuto cancellare un viaggio d’affari e fungere invece da portatore della bara di sua cognata. Dopo che la donna si fu rimessa, rimproverò il suo sbalordito cognato per averla data per spacciata tanto in fretta.

E questi non sono nemmeno gli esempi più straordinari di consapevolezza sensoriale nello stato extracorporeo della pre-morte. Gli studiosi di questo fenomeno hanno trovato che perfino i pazienti ciechi, che non hanno avuto per anni la percezione della luce, possono vedere e descrivere con esattezza ciò che accade intorno a loro quando lasciano il corpo nel corso di una esperienza di questo tipo. La Kubler-Ross ha incontrato parecchi individui di questo tipo e li ha intervistati a lungo per verificare la correttezza delle loro dichiarazioni. «Con nostro stupore, erano in grado di descrivere il colore e lo stile degli abiti e i gioielli che le persone presenti portavano», afferma.

Più sconcertanti di tutte sono quelle esperienze di pre-morte e visioni dal letto di morte che includono due o più individui. In un caso, mentre una donna, che stava vivendo una di queste esperienze, si trovava a passare attraverso il tunnel e ad avvicinarsi al regno della luce, vide un amico che tornava indietro! Quando si incrociarono, l’amico le comunicò telepaticamente di essere morto, ma che era stato «mandato indietro». Anche la donna fu poi «mandata indietro», e dopo essersi rimessa scoprì che il suo amico aveva subito un arresto cardiaco approssimativamente nello stesso momento della sua esperienza. Vi sono numerosi altri casi registrati nei quali individui morenti erano a conoscenza di chi li attendesse nel mondo al di là, prima che fosse giunta notizia attraverso i normali canali della morte della persona.

E se vi sono ancora dubbi, un ulteriore elemento contro l’idea che queste esperienze siano allucinazioni è il loro verificarsi in pazienti che hanno EEG piatti. In normali circostanze, ogni qual volta una persona parla, pensa immagina, sogna o fa qualunque altra cosa, il suo EEG registra uno stato di enorme attività. Anche le allucinazioni sono rilevabili in un EEG. Ma esistono molti casi in cui persone con EEG piatti hanno avuto esperienze di pre-morte. Se le loro esperienze fossero state semplici allucinazioni, sarebbero apparse sui loro EEG.

In breve, considerando tutti questi fatti insieme – la diffusa incidenza delle esperienze di pre-morte, l’assenza di caratteristiche demografiche, l’universalità della sostanza dell’esperienza, la capacità di coloro che la vivono di vedere e conoscere cose senza l’ausilio dei normali mezzi sensoriali, e il verificarsi di questo fenomeno in pazienti con EEG piatti – la conclusione sembra inevitabile: le persone che hanno esperienze di pre-morte non soffrono di allucinazioni o fantasie illusorie, ma visitano veramente un livello completamente diverso della realtà. Questa è la conclusione raggiunta anche da molti studiosi del fenomeno.

Uno di questi è il dottor Melvin Morse, un pediatra di Seattle, nello stato di Washington. Morse iniziò a interessarsi di esperienze di pre-morte dopo avere curato la vittima di un annegamento dell’età di sette anni. Nel momento in cui la bambina fu rianimata, era in un coma profondo, aveva pupille fisse e dilatate, nessun riflesso muscolare né risposta corneale. In termini medici, questo significava un Coma Glascow di terzo grado, che indicava che ella era in un coma talmente profondo da non avere quasi alcuna possibilità di riprendersi. Malgrado queste previsioni, si riprese completamente, e quando Morse la visitò per la prima volta lei lo riconobbe e disse di averlo visto all’opera sul proprio corpo in coma. Quando Morse la interrogò ulteriormente, ella spiegò che aveva lasciato il corpo ed era passata attraverso un tunnel in paradiso, dove aveva incontrato «il Padre Divino». Il Padre Divino le aveva detto che lei non doveva ancora in effetti essere lì e le domandò se avesse voluto restare o tornare indietro. Dapprima ella disse che voleva rimanere, ma quando il Padre Divino le fece notare che quella decisione significava che non avrebbe più visto sua madre, cambiò idea e tornò al proprio corpo. Morse era scettico ma affascinato e da quel momento si impegnò ad apprendere tutto il possibile sulle esperienze di pre-morte. Al tempo, egli lavorava per un servizio di trasporto aereo in Idaho che trasferiva pazienti all’ospedale, e questo gli diede l’opportunità di parlare con un gran numero di bambini rianimati. Durante un periodo di dieci anni, egli intervistò ogni bambino sopravvissuto all’arresto cardiaco e ciascuno di essi ripetutamente riferì la stessa cosa. Dopo aver perduto conoscenza, si ritrovavano fuori dai propri corpi, osservavano i medici che lavoravano su di loro, passavano attraverso un tunnel e venivano confortati da esseri luminosi.

Morse continuò ad essere scettico, e nella sua ricerca sempre più disperata di qualche spiegazione logica, lesse tutto ciò che gli fu possibile reperire circa gli effetti collaterali dei farmaci che i suoi pazienti assumevano, ed analizzò varie spiegazioni psicologiche, ma nulla sembrava appropriato. «Poi, dice Morse, un giorno lessi un lungo articolo su una rivista medica che tentava di spiegare le esperienze di pre-morte come fossero vari trucchi del cervello». «A quel punto, avevo studiato ampiamente il soggetto e nessuna delle spiegazioni che questo ricercatore elencava era convincente. Mi fu infine chiaro che egli aveva mancato la spiegazione più ovvia – che queste esperienze sono reali. Aveva mancato di considerare la possibilità che l’anima realmente viaggi».

Moody fa eco a questo parere e dice che vent’anni di ricerca lo hanno convinto che coloro che sperimentano la pre-morte si sono davvero avventurati in un altro livello di realtà. Egli ritiene che la maggior parte degli studiosi di questo fenomeno sia della stessa opinione. «Ho parlato quasi con tutti gli studiosi del mondo circa il loro lavoro. So che la maggior parte di essi crede nel profondo che queste esperienze siano un barlume della vita dopo la vita. Ma in quanto scienziati e persone di medicina, essi non sono ancora riusciti a produrre prove scientifiche del fatto che una parte di noi continua a vivere dopo la morte del nostro essere fisico. Questa mancanza di prove li trattiene dal rendere pubblico ciò che sentono veramente».

Come risultato della sua indagine del 1981, perfino George Gallup Jr., il presidente del sondaggio Gallup, ne conviene: «Un numero crescente di ricercatori si è riunito e ha valutato i resoconti di coloro che hanno avuto strani incontri in prossimità della morte. E i risultati preliminari indicano in modo convincente una qualche sorta di incontro con un campo di realtà di un’altra dimensione. Il nostro ampio sondaggio è il più recente di questi studi e rivela anch’esso alcuni indizi che puntano verso un superuniverso parallelo di qualche tipo».

Una spiegazione olografica dell’esperienza di pre-morte

Queste sono asserzioni sbalorditive. Ciò che è ancora più stupefacente è che l’establishment scientifico ha per la maggior parte ignorato sia le conclusioni di questi ricercatori che la grande abbondanza di prove che li costringe a pronunciare simili affermazioni. Le ragioni di questo sono varie e complesse. Una di esse è che non è attualmente di moda nella scienza considerare seriamente qualsiasi fenomeno che sembri sostenere l’idea di una realtà spirituale, e, come citato all’inizio di questo libro, le convinzioni sono come assuefazioni e non allentano facilmente la loro presa. Un’altra ragione, come Moody osserva, è il pregiudizio diffuso fra gli scienziati che le sole idee ad avere un qualsiasi valore o significato sono quelle che possono essere dimostrate in senso strettamente scientifico. Un’altra ancora è, se queste esperienze sono reali, l’incapacità della nostra attuale conoscenza scientifica della realtà anche solo di iniziare a spiegarle.

Quest’ultima ragione, comunque, potrebbe non essere tanto problematica quanto sembra. Parecchi studiosi di esperienze di pre-morte hanno fatto notare che il modello olografico ci offre un modo di comprendere questi fenomeni. Uno di questi ricercatori è il dottor Kenneth Ring, professore di psicologia presso la University of Conneticut e uno dei primi ricercatori ad usare l’analisi statistica e le tecniche standarizzate di intervista per studiare il fenomeno. Nel suo libro del 1980 Life at Death, Ring dedica molte pagine argomentando a favore di una spiegazione olografica dell’esperienza. Detto in parole povere, Ring ritiene che anche le esperienze di pre-morte siano avventure in quegli aspetti della realtà più simili alle frequenze.

Ring basa la sua conclusione sui numerosi aspetti suggestivamente olografici del fenomeno. Uno di essi è la tendenza di coloro che lo sperimentano a descrivere il mondo al di là come un regno fatto di «luce», di «vibrazioni più alte» o di «frequenze». Alcuni di coloro che hanno vissuto l’esperienza si riferiscono addirittura alla musica celestiale che accompagna queste esperienze più come a «una combinazione di vibrazioni» che a suoni reali- osservazioni che Ring ritiene siano la dimostrazione che l’atto di morire implica uno spostamento di coscienza dal mondo ordinario delle apparenze verso una realtà maggiormente olografica di pure frequenze. Coloro che sperimentano la pre-morte spesso dicono anche che quel regno è soffuso di una luce più brillante di qualsiasi altra abbiano mai visto sulla terra, ma che, nonostante la sua incommensurabile intensità, non disturba gli occhi, caratterizzazioni che Ring crede siano un’ulteriore prova degli aspetti di frequenza dell’aldilà.

Un altro aspetto che Ring trova innegabilmente olografico sono le descrizioni di tempo e spazio di coloro che vivono queste esperienze nel regno oltre la vita. Una delle caratteristiche riferite più comunemente del mondo al di là è che esso è una dimensione nella quale tempo e spazio cessano di esistere. «Mi trovai in uno spazio, in un periodo di tempo, direi, dove spazio e tempo erano annullati», dice goffamente una persona dopo un’esperienza di pre-morte.36 «Deve essere al di fuori di spazio e tempo. Deve esserlo, perché… non è possibile includerlo in qualcosa di temporale», dice un altro.37 Dato che tempo e spazio sono inesistenti e la localizzazione è priva di significato nel dominio delle frequenze, questo è esattamente ciò che ci aspetteremmo di trovare, se questo tipo di esperienze avesse luogo in uno stato di coscienza olografico, dice Ring.

Se il regno della pre-morte è ancora più simile a quello delle frequenze rispetto al nostro livello di realtà, perché allora sembra avere una struttura? Dato che sia le esperienze extracorporee che quelle di pre-morte offrono ampia dimostrazione che la mente può esistere indipendentemente dal cervello, Ring crede che non sia troppo azzardato supporre che anch’essa funzioni olograficamente. Perciò, quando la mente è nelle frequenze più alte della dimensione prossima alla morte, continua a fare ciò che meglio fa, trasformare cioè quelle frequenze in un mondo di apparenze. O come Ring dice: «Credo che questo sia un regno creato dalle strutture interattive del pensiero. Queste strutture, o ‘forme di pensiero’, si combinano e generano configurazioni, proprio come le onde di interferenza formano configurazioni su una lastra olografica. E proprio allo stesso modo nel quale un’immagine olografica sembra essere completamente reale quando viene illuminata da un raggio laser, così le immagini prodotte dall’interazione di forme di pensiero sembrano essere reali».

Ring non è isolato nelle sue congetture. Nel discorso chiave del convegno del 1989 dell’International Association for Near-Death Studies (IANDS), la dottoressa Elizabeth W. Fenske, una psicologa clinica che esercita privatamente a Filadelfia, annunciò di credere che tali esperienze siano viaggi in un regno olografico di più alte frequenze. Ella è d’accordo con l’ipotesi di Ring che paesaggi, fiori, strutture fisiche, e così via, della dimensione dopo la vita sono formati dall’interazione (o interferenza) di strutture di pensiero. «Ritengo che siamo giunti al punto, nella ricerca sulle esperienze di pre-morte, in cui è difficile fare una scissione fra il pensiero e la luce. Nell’esperienza in prossimità della morte – osserva – il pensiero sembra essere luce».

Il paradiso come ologramma

Oltre a quelle citate da Ring e dalla Fenske, questo fenomeno possiede numerose altre caratteristiche che sono marcatamente olografiche. Come coloro che vivono esperienze extracorporee dopo essersi distaccati dal corpo, coloro che sperimentano la pre-morte hanno due forme possibili nelle quali trovarsi: una nuvola di energia libera dal corpo, oppure un corpo di tipo olografico scolpito dal pensiero. Nel caso della seconda possibilità, la natura del corpo creata dalla mente è spesso sorprendentemente ovvia per chi compie l’esperienza. Ad esempio, un uomo sopravvissuto a questa esperienza disse che, una volta fuoriuscito dal corpo, somigliava a «una sorta di medusa» e cadde morbidamente sul pavimento come una bolla di sapone. Poi, si espanse rapidamente nell’immagine fantasmica tridimensionale di un uomo nudo. Tuttavia, la presenza di due donne nella stanza lo mise in imbarazzo e, con sua sorpresa, questo senso di pudore fece sì che si ritrovasse improvvisamente vestito (le donne, comunque, non diedero alcun segno di essere in grado di vedere tutto questo).

Il fatto che i nostri sentimenti e desideri più intimi sono responsabili della creazione della forma che assumiamo nella dimensione dopo la vita è evidente nelle esperienze di altri che hanno vissuto la pre-morte. Persone che sono costrette in una sedia a rotelle nella propria esistenza fisica si ritrovano in corpi sani capaci di correre e danzare. Persone con arti amputati immancabilmente li riacquistano. Gli anziani spesso si ritrovano in corpi giovani, e, ancora più strano, i bambini si vedono spesso come adulti, un fatto che sembra riflettere il desiderio di ogni bambino di essere tale, o potrebbe, in senso più profondo, essere un’indicazione simbolica che nelle nostre anime alcuni di noi sono molto più vecchi di quanto ci rendiamo conto.

Questi corpi simili a ologrammi possono essere straordinariamente dettagliati. Nel caso che coinvolgeva l’uomo imbarazzato della propria nudità, ad esempio, il vestiario che aveva materializzato per se stesso si presentava in modo talmente particolareggiato, che poteva perfino vederne le cuciture nella stoffa! In modo analogo, un altro uomo che studiò le proprie mani mentre si trovava nello stato prossimo alla morte disse che erano «composte di luce con minuscole strutture», e quando le osservò da vicino, poté anche vedere «le delicate spirali delle sue impronte digitali e le linee di luce lungo le proprie braccia».

Anche parte della ricerca di Whitton è rilevante per quanto concerne questo argomento. Sorprendentemente, quando Whitton ipnotizzava i pazienti e li induceva a regredire allo stato intermedio fra le vite passate, anche loro riferivano tutte le classiche caratteristiche già riportate: passaggio attraverso un tunnel, incontri con parenti deceduti e/o «guide», entrata in uno splendido regno colmo di luce nel quale tempo e spazio non esistevano più, incontri con esseri luminosi e una visione retrospettiva della propria vita. In effetti, secondo i soggetti di Whitton, lo scopo principale della visione retrospettiva era di rinfrescare le loro memorie, così che potessero progettare la vita successiva più attentamente, un processo nel quale gli esseri di luce li assistevano delicatamente e non coercitivamente.

Come Ring, dopo avere studiato la testimonianza dei suoi soggetti, Whitton trasse la conclusione che le forme e le strutture che si percepiscono nella dimensione al di là della vita sono forme di pensiero create dalla mente. «Il famoso detto di René Descartes ‘penso, quindi sono,’ non è mai stato tanto pertinente quanto nello stadio fra le vite», dice Whitton. «Non vi è esperienza dell’esistenza senza il pensiero».

Questo era in special modo vero quando si trattava della forma che i pazienti di Whitton assumevano nello stato intermedio. Parecchi di loro dissero che se non pensavano non avevano nemmeno un corpo. «Un uomo descrisse questo dicendo che, se cessava di pensare, era soltanto una nuvola in una nuvola infinita, indifferenziata», egli osserva. «Ma appena iniziò a pensare, divenne se stesso» (uno stato di cose che stranamente ricorda il caso dei soggetti nell’esperimento di ipnosi reciproca di Tart, che scoprirono di non avere mani a meno che non le pensassero come esistenti). Dapprima, i corpi che i soggetti di Whitton assumevano somigliavano alle persone che erano state nella loro ultima vita. Ma col proseguire della loro esperienza nello stato intermedio fra le vite, divennero gradualmente una specie di insieme simile a un ologramma di tutte le loro vite precedenti. Questa identità composita aveva perfino un nome separato da ciascuno dei nomi che avevano usato nelle incarnazioni fisiche, sebbene nessuno dei suoi soggetti fosse in grado di pronunciarlo usando le proprie corde vocali.

Che aspetto hanno coloro che sperimentano la pre-morte, quando non si sono costruiti un corpo olografico? Molti dicono che non erano consapevoli di alcuna forma e che erano semplicemente «se stessi» o «la propria mente». Altri hanno impressioni più specifiche e si descrivono come «una nuvola di colori», oppure «una foschia», «una configurazione di energia», o «un campo energetico», termini che suggeriscono nuovamente che siamo tutti alla fine soltanto fenomeni di frequenza, configurazioni di qualche sconosciuta energia vibratoria celata nella più grande matrice del dominio delle frequenze. Alcuni di coloro che hanno vissuto l’esperienza asseriscono che, oltre a essere composti da frequenze colorate di luce, siamo anche costituiti di suono. «Mi resi conto che ogni persona e cosa ha la propria gamma di toni musicali, come pure la propria gamma di colori», disse una casalinga dell’Arizona che aveva avuto un’esperienza di pre-morte durante il parto. «Se potessi immaginare te stesso mentre ti muovi senza sforzo dentro e fuori fra raggi prismatici di luce e odi le note musicali di ciascuna persona che si uniscono e si armonizzano con le tue, quando passi loro vicino o le sfiori, avresti un’idea del mondo invisibile». La donna, che incontrò molti individui nel regno dell’aldilà che si manifestavano soltanto come nuvole di colori e suono, crede che i toni dolcissimi emanati da ogni anima siano ciò che le persone descrivono quando dicono di udire musica bellissima nella dimensione di pre-morte.

Come Monroe, molti di coloro che vivono l’esperienza riferiscono di essere in grado di vedere in tutte le direzioni simultaneamente, mentre si trovano nello stato disincarnato. Dopo essersi domandato che sembianze avesse, un uomo disse di essersi improvvisamente ritrovato di fronte alla propria schiena. Robert Sullivan studioso dilettante dell’argomento che vive in Pennsylvania e specializzato in esperienze di pre-morte vissute da soldati durante il combattimento, intervistò un veterano della Seconda Guerra Mondiale che aveva conservato temporaneamente questa capacità anche dopo essere tornato al proprio corpo fisico. «Egli sperimentò la visione a trecentosessanta gradi, mentre scappava da una trincea di mitragliatrici tedesche», dice Sullivan. «Non solo era in grado di vedere davanti a sé mentre correva, ma poteva vedere i mitraglieri che tentavano di prenderlo di mira da dietro».

Conoscenza istantanea

Un altro aspetto dell’esperienza di pre-morte che possiede molte caratteristiche olografiche è la visione retrospettiva della vita. Ring si riferisce ad essa come a «un fenomeno olografico per eccellenza». Anche Grof e Joan Halifax, un medico antropologo di Harvard e coautrice (con Grof) di The Human Encounter With Death, hanno sottolineato gli aspetti olografici della visione retrospettiva della vita. Secondo molti studiosi del fenomeno, incluso Moody, anche molti di coloro che sperimentano la pre-morte usano essi stessi il termine «olografico» per descrivere l’esperienza.

La ragione di questa definizione è ovvia appena si iniziano a leggere i resoconti delle visioni retrospettive della vita. Ripetutamente, coloro che hanno esperienza della pre-morte usano gli stessi aggettivi per descriverla, riferendosi a essa come a un replay panoramico incredibilmente vivido e tridimensionale della loro intera vita. «È come penetrare proprio all’interno di un film della tua vita» dice il protagonista di un’esperienza di questo tipo. «Ogni momento di ogni anno della tua vita è riproiettato nei più completi dettagli percepibili. Un ricordo assolutamente totale. E avviene tutto in un istante». «L’intera cosa era piuttosto strana. Ero lì; stavo effettivamente vedendo questi flashback; stavo veramente camminandovi attraverso, ed era così veloce. Eppure, abbastanza lento da poterlo assimilare interamente», dice un altro.

Durante questo ricordo istantaneo e panoramico, coloro che sperimentano la pre-morte rivivono tutte le emozioni, le gioie e i dispiaceri che hanno accompagnato ogni evento della loro vita. Per di più, provano anche tutte le emozioni delle persone con le quali hanno interagito. Percepiscono la felicità di tutti gli individui con i quali sono stati gentili. Se hanno commesso un atto offensivo, diventano acutamente consapevoli del dolore che la loro vittima aveva provato come conseguenza della loro sventatezza. E sembra che nessun evento sia abbastanza insignificante da essere trascurato. Mentre riviveva un momento della sua infanzia, una donna provò improvvisamente tutto il senso di privazione e impotenza che sua sorella aveva provato, dopo che lei (allora una bambina) le aveva sottratto un giocattolo.

Whitton ha dimostrato che gli atti sconsiderati non sono le sole cose a far provare rimorso agli individui durante la visione retrospettiva della loro vita. Sotto ipnosi, i suoi soggetti riferirono che anche i sogni e le aspirazioni mancate – cose che avevano sperato di realizzare durante la vita, ma non erano riusciti a portare a compimento – causavano loro accessi di tristezza. Anche i pensieri vengono riproposti con assoluta fedeltà durante la visione della vita. Chimere, volti visti una volta ma ricordati per anni, cose che ci hanno fatto ridere, la gioia provata nell’osservare un particolare dipinto, preoccupazioni infantili, sogni a occhi aperti da lungo dimenticati passano tutti attraverso la mente in un secondo. Come un protagonista dell’esperienza di pre-morte riassume, «nemmeno i tuoi pensieri sono perduti… Ogni pensiero era presente».

E così la visione retrospettiva della vita non è olografica soltanto nella sua tridimensionalità, ma anche nell’incredibile contenuto di informazione che il processo mostra. È olografica anche in un terzo senso. Come «l’aleph» cabalistico, un mitico punto nello spazio e nel tempo che contiene ogni altro punto nel tempo e nello spazio, essa è un momento che contiene ogni altro momento. Anche la capacità di percepire la visione retrospettiva della vita sembra essere olografica, poiché è una facoltà in grado di sperimentare qualcosa che paradossalmente è, allo stesso tempo, sia incredibilmente rapido che abbastanza lento da essere visto nei minimi dettagli. Come un protagonista dell’esperienza lo espresse nel 1821, è l’abilità di «comprendere simultaneamente l’intero e ogni sua parte».

In effetti, la visione retrospettiva della vita ha una forte rassomiglianza con le scene del giudizio dell’aldilà descritte nei testi sacri di molte delle grandi religioni del mondo, da quella egizia alla giudeo-cristiana, ma con una differenza cruciale. Come i soggetti di Whitton, coloro che sperimentano la pre-morte riferiscono universalmente di non essere mai giudicati dagli esseri di luce, ma di avvertire in loro presenza solo amore e accettazione. Il solo giudizio che mai si verifica è l’autogiudizio, e sorge esclusivamente dai sentimenti di colpa e pentimento personali di colui che la vive. Occasionalmente, gli esseri si impongono, ma anziché comportarsi in maniera autoritaria, fungono da guide e consiglieri il cui unico scopo è di insegnare.

Questa totale mancanza di giudizio cosmico e/o di qualsiasi sistema divino di punizione e ricompensa è stata e continua a essere uno degli aspetti più discussi del fenomeno fra i gruppi religiosi, ma è una delle caratteristiche maggiormente riferite dell’esperienza. Qual è la spiegazione? Moody crede che sia semplice quanto polemica. Viviamo in un universo molto più benevolo di quanto immaginiamo. Ciò non significa che tutto è approvato, durante la visione retrospettiva della vita. Come i soggetti ipnotizzati da Whitton, dopo essere giunti nel regno della luce, coloro che sperimentano la pre-morte entrano in uno stato di consapevolezza elevata, o metacoscienza, e divengono limpidamente onesti nelle proprie auto riflessioni.

Non significa nemmeno che gli esseri di luce non suggeriscano valori morali. Di esperienza in esperienza, essi danno enfasi a due cose. Una di esse è l’importanza dell’amore. Ripetono di continuo questo messaggio, che dobbiamo imparare a sostituire la rabbia con l’amore, imparare ad amare di più, imparare a perdonare e ad amare tutti senza condizioni, e imparare che a nostra volta siamo amati. Questo sembra essere il solo criterio morale usato dagli esseri. Perfino l’attività sessuale cessa di possedere il marchio d’infamia morale che noi esseri umani amiamo tanto attribuirle. Uno dei soggetti di Whitton riferì che dopo avere vissuto parecchie incarnazioni introverse e depresse, era stato vivamente consigliato di progettare una vita come femmina affettuosa e sessualmente attiva, per bilanciare lo sviluppo globale della sua anima. Sembra che nelle menti degli esseri di luce, la compassione sia il barometro della grazia; e ripetutamente, quando coloro che sperimentano la pre-morte si chiedono se un atto commesso fosse giusto o sbagliato, gli esseri replicano alle loro domande soltanto con una domanda: l’hai fatto per amore? Il motivo era amore?

È per questo che siamo qui sulla terra, dicono gli esseri, per imparare che l’amore è la chiave. Si rendono conto che è un impegno difficile, ma dichiarano che è cruciale sia per la nostra esistenza biologica che spirituale, in modi che forse non abbiamo nemmeno iniziato a contemplare. Perfino i bambini tornano dal regno prossimo alla morte con questo messaggio fermamente impresso nei loro pensieri. Un bambino che, dopo essere stato investito da un’automobile, fu guidato nel mondo al di là da due persone in tuniche «bianchissime», dice: «Ciò che ho imparato lì è che la cosa più importante è amare mentre sei in vita».

La seconda cosa che gli esseri enfatizzano è la conoscenza. Frequentemente, coloro che vivono l’esperienza commentano che gli esseri sembravano compiaciuti, qualora un evento che coinvolgeva la conoscenza o l’apprendimento fosse emerso durante la loro visione retrospettiva della vita. Alcuni vengono apertamente consigliati di dedicarsi, dopo essere tornati ai propri corpi fisici, alla ricerca della conoscenza, specialmente la conoscenza connessa alla crescita personale o alla capacità di aiutare le altre persone. Altri vengono stimolati da affermazioni come: «L’apprendimento è un processo continuo e continua anche dopo la morte», e: «la conoscenza è una delle poche cose che sarai in grado di portare con te dopo essere morto».

La preminenza della conoscenza nella dimensione dopo la vita è evidente anche in altro modo. Alcuni di coloro che hanno sperimentato la pre-morte hanno scoperto che in presenza della luce avevano improvvisamente accesso all’intera conoscenza. Questo accesso si manifestava in parecchi modi. A volte, giungeva in risposta a domande. Un uomo disse che tutto ciò che doveva fare era porre un quesito, ad esempio, cosa significasse essere un insetto, e istantaneamente vi si identificava. Un altro protagonista descrisse il fenomeno dicendo: «Puoi pensare a una domanda… e immediatamente conoscerne la risposta. È così semplice. E può essere qualsiasi domanda. Può riguardare un soggetto sul quale non sai nulla, e per comprendere il quale non ti trovi nemmeno nella giusta posizione, e la luce ti darà l’istantanea, corretta risposta e te la farà comprendere».

Alcuni di coloro che hanno sperimentato la pre-morte riferiscono il fatto che non avevano nemmeno bisogno di porre domande, per potere accedere a questa infinita biblioteca di informazione. Seguendo la visione retrospettiva delle loro vite, semplicemente d’improvviso sapevano ogni cosa, tutto quanto c’era da conoscere dall’inizio alla fine del tempo. Altri entravano in contatto con questa conoscenza dopo che l’essere di luce aveva compiuto qualche gesto specifico come agitare la mano. Altri ancora dissero che invece di acquistare la conoscenza, la ricordavano, ma che avevano dimenticato la maggior parte di quanto ricordato, appena tornati ai loro corpi fisici (un’amnesia che sembra essere universale fra quegli sperimentatori di pre-morte che hanno conosciuto questo tipo di visioni). Comunque stiano i fatti, sembra che una volta nel mondo al di là, non sia più necessario entrare in uno stato alterato di coscienza per potere accedere al regno dell’informazione transpersonale e infinitamente interconnesso sperimentato dai pazienti di Grof.

Oltre ad essere olografica in tutti i sensi già citati, questa visione di conoscenza totale ha un’altra caratteristica olografica. Coloro che vivono l’esperienza spesso dicono che, durante la visione, l’informazione giunge in «blocchi», che si registrano istantaneamente nella mente. In altre parole, anziché essere disposti in fila in maniera lineare come parole in una frase o scene in un film, tutti i fatti, dettagli, immagini e informazioni esplodono nella consapevolezza in un istante. Un protagonista dell’esperienza di pre-morte si riferì a queste esplosioni di informazione come a «fasci di pensiero». Monroe, che ha anch’egli sperimentato simili esplosioni istantanee di informazione durante lo stato extracorporeo, le definisce «palle di pensiero».

In effetti, chiunque possieda un’abilità sensitiva apprezzabile conosce questa esperienza, poiché essa è la forma nella quale si riceve anche l’informazione medianica. Ad esempio, a volte, quando incontro uno straniero (e occasionalmente, perfino quando odo il solo nome di una persona), una palla di pensiero di informazione circa quella persona lampeggia istantaneamente nella mia consapevolezza. Questa palla di pensiero può includere fatti importanti riguardanti la struttura psicologica ed emotiva della persona, la sua salute, e perfino scene appartenenti al suo passato. Trovo di avere particolarmente la tendenza a ricevere palle di pensiero circa persone che sono in una qualche sorta di crisi. Ad esempio, recentemente incontrai una donna e seppi all’istante che contemplava l’idea del suicidio. Ne conoscevo anche alcuni dei motivi. Come sempre faccio in simili situazioni, iniziai a parlarle e cautamente diressi la conversazione verso argomenti paranormali. Dopo avere appurato che era ricettiva alla materia, la misi a confronto con ciò che sapevo e la indussi a parlare dei suoi problemi. Le feci promettere che avrebbe cercato qualche sorta di consiglio professionale, invece della triste scelta che stava considerando.

Questo modo di ricevere informazione è simile a quello che ci rende consapevoli durante i sogni. Quasi tutti hanno avuto un sogno nel quale si trovano in una data situazione e improvvisamente sanno cose di tutti i tipi in proposito, senza che siano state loro dette. Ad esempio, potreste sognare di essere a una festa e appena vi arrivate sapete in onore di chi è stata data e per quale ragione. In modo analogo, ognuno è stato colpito da un’idea dettagliata o ispirazione improvvisa. Queste esperienze sono versioni ridotte dell’effetto della palla di pensiero.

Stranamente, poiché queste esplosioni di informazione paranormale giungono in blocchi non lineari, a volte mi sono necessari parecchi minuti per tradurle in parole. Come le gestalt psicologiche sperimentate da individui durante esperienze transpersonali, sono olografiche nel senso che sono «interi» istantanei, con i quali le nostre menti orientate verso una percezione temporale devono lottare per un attimo, per potersi districare e trasformarli in una disposizione sequenziale di parti. Quale forma prende la conoscenza contenuta nelle palle di pensiero sperimentate durante la pre-morte? Secondo coloro che hanno avuto l’esperienza, vengono usate tutte le forme di comunicazione, suoni, immagini olografiche in movimento, perfino la telepatia – un fatto che Ring ritiene dimostri ancora una volta che l’aldilà è «una sfera di esistenza dove il pensiero è re».

L’attento lettore si potrebbe immediatamente domandare perché la ricerca della conoscenza sia tanto importante durante la vita, se abbiamo accesso all’intera conoscenza dopo la morte? Coloro che hanno vissuto questo stato, interrogati sull’argomento, hanno risposto di non esserne certi, ma che sentivano fortemente che avesse qualcosa a che fare con lo scopo della vita e la capacità di ciascun individuo di espandersi e aiutare gli altri.

Progetti di vita e tracce di tempi paralleli

Come Whitton, anche gli studiosi della pre-morte hanno scoperto prove che le nostre vite, almeno fino a un certo punto, sono progettate in anticipo, e che ciascuno di noi gioca un ruolo nella creazione di questo progetto. Questo è evidente in parecchi aspetti dell’esperienza. Frequentemente, dopo essere giunti nel mondo della luce, viene detto a coloro che hanno l’esperienza che «non è ancora giunto il loro tempo». Come Ring fa notare, questa asserzione implica chiaramente l’esistenza di un qualche tipo di «progetto della vita».63 È anche chiaro che coloro che vivono la pre-morte giocano un ruolo nella formulazione di questi destini, poiché è spesso data loro la scelta se tornare o rimanere. Vi sono addirittura casi di protagonisti dell’esperienza ai quali è stato detto che quello era il loro momento ed era comunque stato loro concesso di tornare. Moody cita un caso in cui un uomo iniziò a piangere quando si rese conto di essere morto, perché temeva che sua moglie non sarebbe stata in grado di allevare il loro nipote senza di lui. Sentendo questo, l’essere gli disse che dato che non chiedeva per se stesso, gli sarebbe stato permesso di tornare.64 In un altro caso una donna arguì che non aveva ballato ancora abbastanza. La sua affermazione fece sì che l’essere di luce scoppiasse in una grande risata e fu concesso anche a lei il permesso di tornare alla vita fisica.

Il fatto che il nostro futuro è almeno parzialmente disegnato è evidente anche nel fenomeno che Ring chiama «flashforward». Occasionalmente, durante la visione della conoscenza, vengono mostrati a coloro che hanno l’esperienza barlumi del proprio futuro. In un caso particolarmente sensazionale, a un bambino protagonista del fenomeno furono rivelati vari fatti specifici sul suo futuro, inclusa l’informazione che si sarebbe sposato all’età di ventott’anni e avrebbe avuto due bambini. Gli vennero addirittura mostrati la sua immagine adulta e i suoi futuri bambini seduti in una stanza della casa che avrebbe a un dato punto abitato, e nell’osservare la stanza, notò qualcosa di molto strano sul muro, qualcosa che la sua mente non riusciva ad afferrare. Decenni più tardi e dopo che ciascuna di queste previsioni si era verificata, si ritrovò nell’esatta situazione a cui aveva assistito da bambino, e si rese conto che lo strano oggetto sul muro era un «termosifone ad aria», un tipo di termosifone che non era ancora stato inventato al tempo della sua esperienza.

In un altro flashforward altrettanto stupefacente, fu mostrata a una sperimentatrice di pre-morte una fotografia di Moody, le fu detto il suo nome per intero, e anche che, quando fosse giunto il momento, gli avrebbe raccontato la sua esperienza. L’anno era il 1971 e Moody non aveva ancora pubblicato Life After Life, quindi il suo nome e la fotografia non significavano nulla per la donna. Tuttavia, il momento «giunse» quattro anni più tardi, quando Moody e la sua famiglia casualmente si trasferirono proprio nella stessa via in cui la donna viveva. Durante la festa di Halloween, il figlio di Moody era in giro a fare «trick-or-treat» (N.d.T.) Frase pronunciata dai bambini che si presentano alla porta dei vicini nel giorno di Halloween, esigendo dei dolci e minacciando rappresaglie in caso di rifiuto) e bussò alla porta della donna. Dopo avere udito il nome del ragazzo, questa gli disse di comunicare a suo padre che aveva bisogno di parlargli, e quando Moody aderì all’invito, ella raccontò l’eccezionale storia.

Alcuni degli individui che hanno esperienze di pre-morte sostengono l’idea di Loye che esistono molti universi o tracce di tempi paralleli olografici. A volte, a coloro che vivono il fenomeno vengono mostrati flashforward e viene loro detto che il futuro a cui hanno assistito si verificherà solo se proseguiranno sul proprio sentiero attuale. In un singolare caso, fu mostrata a una protagonista dell’esperienza di pre-morte una storia della terra completamente diversa, una storia che si sarebbe sviluppata, se «certi eventi» non si fossero verificati intorno all’epoca del filosofo e matematico greco Pitagora, tremila anni fa. La visione rivelò che se questi eventi, dei quali la donna non chiarì l’esatta natura, non si fossero verificati, ora vivremmo in un mondo di pace e armonia caratterizzato «dall’assenza di guerre religiose e della figura di un Cristo».68 [lo sapevo, io, che Pitagora era uno di quelli giusti! ;o)] Simili esperienze suggeriscono che le leggi del tempo e dello spazio operative in un universo olografico potrebbero essere davvero molto strane.

Perfino coloro che vivono la pre-morte, ma non hanno esperienza diretta del ruolo che giocano nel proprio destino, spesso ritornano con una ferma comprensione dell’interconnessione olografica di tutte le cose. Come dice un uomo d’affari di sessantadue anni, che ebbe una di queste esperienze durante un arresto cardiaco: «Una cosa che ho imparato è che siamo tutti parte di un unico grande universo vivente. Se pensiamo di poter ferire un’altra persona o un’altra cosa vivente senza nuocere a noi stessi, siamo tristemente in errore. Adesso guardo una foresta, o un fiore, o un uccello e dico, ‘Quello è me, parte di me’. Siamo connessi con tutte le cose, e se inviamo amore attraverso quelle connessioni, allora siamo felici».

Potete nutrirvi ma non è indispensabile

Gli aspetti olografici e creati dalla mente della dimensione in prossimità della morte sono evidenti in una miriade di altri modi. Nel descrivere l’aldilà, una bambina disse che il cibo appariva ogni volta che lo desiderava, ma che non era necessario mangiare, un’osservazione che sottolinea ancora una volta la natura illusoria e simile a un ologramma della realtà dopo la morte.70 Perfino al linguaggio simbolico della psiche è data una forma «oggettiva». Ad esempio, uno dei soggetti di Whitton disse che quando fu introdotto a una donna che avrebbe avuto una parte importante nella sua vita successiva, anziché apparire come essere umano, ella apparve in una forma che era metà rosa e metà cobra. Dopo essere stato spinto a risolvere il significato del simbolismo, si rese conto che la donna e lui erano stati innamorati in altre due vite. Tuttavia, ella era anche stata per due volte responsabile della sua morte. Perciò, invece di manifestarsi come essere umano, gli elementi insieme amorevoli e sinistri del suo carattere fecero sì che apparisse in una forma simile a un ologramma che meglio simboleggiava queste qualità diametralmente opposte.

Il soggetto di Whitton non è isolato nella sua esperienza. Hazrat Inayat Khan disse che quando entrò in uno stato mistico e viaggiò verso le «realtà divine», gli esseri che incontrò apparvero anch’essi occasionalmente in forme metà umane e metà animali. Come il soggetto di Whitton, Khan comprese che queste trasfigurazioni erano simboliche, e quando un essere appariva in parte animale era perché l’animale simboleggiava una certa qualità che esso possedeva. Ad esempio, un essere che aveva grande forza poteva apparire con la testa di un leone, o un essere insolitamente sveglio e astuto poteva avere alcune delle caratteristiche di una volpe. Khan teorizzò che questa è la ragione per la quale le culture antiche, come quella egizia, ritraevano gli dei che governano il regno dell’aldilà con teste di animali.

La tendenza che la realtà in prossimità della morte ha nel modellarsi in forme simili a ologrammi che rispecchiano i pensieri, i desideri e i simboli che popolano le nostre menti, spiega perché gli occidentali tendono a percepire gli esseri di luce come figure religiose cristiane, mentre gli indiani li percepiscono come santi induisti e divinità, e così via. La plasticità del regno della pre-morte suggerisce che queste apparizioni possano essere né più né meno reali del cibo che la bambina sopracitata aveva materializzato col semplice desiderio, della donna che apparve come un misto di cobra e rosa, e degli indumenti fantomatici fatti apparire dal protagonista dell’esperienza che era imbarazzato della propria nudità. Questa stessa plasticità spiega le altre differenze culturali che si riscontrano nelle esperienze in prossimità della morte, come il perché alcuni di coloro che vivono il fenomeno giungono all’aldilà viaggiando attraverso un tunnel, alcuni attraversando un ponte, altri sorvolando una massa d’acqua, e altri ancora semplicemente camminando lungo una strada. Di nuovo, sembra che in una realtà creata soltanto dall’interazione di strutture di pensiero, perfino il paesaggio stesso è scolpito dalle idee e aspettative dello sperimentatore.

In questo frangente, è necessario sottolineare un punto importante. Per quanto sbalorditivo e sconosciuto il regno della quasi morte possa sembrare, le prove presentate in questo libro rivelano che il nostro livello di esistenza potrebbe non essere poi tanto diverso. Come abbiamo visto, anche noi possiamo avere un completo accesso all’informazione; per noi è soltanto un po’ più difficile. Anche noi possiamo occasionalmente avere flashforward personali e trovarci faccia a faccia con la natura fantasmica di tempo e spazio. E anche noi possiamo scolpire e rimodellare i nostri corpi, e a volte perfino la nostra realtà, secondo le nostre convinzioni; abbiamo giusto bisogno di un piccolo sforzo in più. Infatti, le abilità di Sai Baba [Sai Baba era una pessima, pessima persona e là fuori non c’è solo amore e luce, c’è anche chi, a buon diritto, ama oscurità e dolore, per il prossimo] suggeriscono che possiamo addirittura materializzare cibo semplicemente desiderandolo, e l’inedia di Therese Neumann offre prova che nutrirsi potrebbe essere in definitiva superfluo quanto lo è per gli individui nel regno della quasi morte.

In effetti, sembra che questa realtà e la successiva siano differenti in gradi, ma non in sostanza. Entrambi sono costrutti simili a ologrammi, realtà che sono fondate, come dicono Jahn e la Dunne, solo dall’interazione della coscienza con il suo ambiente. In altre parole, la nostra realtà sembra essere una versione più rigida della dimensione dopo la vita. Ci vuole un po’ più tempo perché le nostre credenze riscolpiscano i nostri corpi in cose come le stigmate simili a chiodi, e perché il linguaggio simbolico della nostra psiche si palesi esternamente sotto forma di sincronicità. Ma si manifestano, in un lento fiume inesorabile, un fiume la cui presenza persistente ci insegna che viviamo in un universo che stiamo soltanto iniziando a comprendere.

Notizie sul regno della pre-morte provenienti da altre fonti

Non è necessario essere in pericolo di vita per visitare la dimensione dell’aldilà. Esistono prove che il regno della pre-morte possa essere raggiunto anche durante le esperienze extracorporee. Nei suoi scritti, Monroe descrive parecchie visite a livelli di realtà nei quali incontrò amici deceduti.73 Un visitatore della terra dei morti ancora più abile era il mistico svedese Swedenborg. Nato nel 1688, Swedenborg fu il Leonardo da Vinci della sua epoca. In gioventù studiò scienza. Era il maggiore matematico della Svezia, parlava nove lingue, era incisore, politico, astronomo e uomo d’affari, costruiva orologi e microscopi per hobby, scriveva libri su metallurgia, teoria del colore, commercio, economia, fisica, chimica, attività minerarie e anatomia, e inventò prototipi di aeroplani e sottomarini.

Nel contempo, egli meditava anche regolarmente, e quando raggiunse la mezza età, sviluppò la capacità di entrare in trance profonde, durante le quali lasciava il corpo e visitava ciò che gli sembrava essere il paradiso, e conversava con «angeli» e «spiriti». Del fatto che Swedenborg sperimentasse qualcosa di profondo durante questi viaggi non vi può essere dubbio. Egli divenne talmente famoso per questa dote, che la regina di Svezia gli chiese di scoprire perché il proprio fratello deceduto aveva trascurato di rispondere a una lettera che lei gli aveva inviato prima della sua morte. Swedenborg promise di consultare il defunto, e il giorno seguente tornò con un messaggio che la regina confessò conteneva informazioni note soltanto a lei e al fratello deceduto. Swedenborg compì questo servizio parecchie volte per vari individui che cercarono il suo aiuto, e in un’altra occasione disse a una vedova dove trovare un compartimento segreto nella scrivania del suo defunto marito, nel quale rinvenne dei documenti di cui aveva disperatamente bisogno. Quest’ultimo fatto divenne talmente famoso, da ispirare il filosofo tedesco Immanuel Kant a scrivere un intero libro su Swedenborg intitolato “I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica” [a dire il vero questo testo giovanile era critico; il Kant più maturo invece prese sul serio la mistica e si convinse che Swedenborg era in grado di fare quel che sosteneva di fare]

Ma la cosa più straordinaria dei resoconti di Swedenborg circa il regno dell’aldilà è quanto riflettano da vicino le descrizioni offerte da coloro che sperimentano oggi il fenomeno della pre-morte. Ad esempio, Swedenborg parla dell’attraversamento di un tunnel scuro, di incontri con spiriti accoglienti, di paesaggi più belli di ogni altro sulla terra e dove tempo e spazio cessano di esistere, di una luce abbagliante che trasmette un senso di amore, apparendo dinanzi agli esseri di luce, e di un senso avvolgente di pace e serenità che circonda tutto.74 Egli dice inoltre che gli era permesso di osservare in prima persona l’arrivo in paradiso di coloro che erano appena deceduti, e di vedere mentre venivano sottoposti alla visione retrospettiva della vita, un processo che definì «l’apertura del Libro delle Vite». Ammise che durante il processo una persona assisteva a tutto quanto fosse mai stata o avesse fatto,» ma vi aggiunse una singolare novità. Secondo Swedenborg, l’informazione che emergeva durante l’apertura del Libro delle Vite era registrata nel sistema nervoso del corpo spirituale della persona. Quindi, per poter evocare la visione retrospettiva della vita un «angelo» doveva esaminare l’intero corpo dell’individuo «iniziando dalle dita di ciascuna mano, e proseguendo attraverso tutto il resto».

Swedenborg fa riferimento anche alle palle di pensiero olografiche che gli angeli usano per comunicare e dice che non sono diverse dalle rappresentazioni che poteva vedere nella «sostanza a onda» che circondava le persone. Come la maggior parte di coloro che vivono l’esperienza di pre-morte, egli descrive queste esplosioni telepatiche di conoscenza come un linguaggio pittorico talmente denso di informazione, che ciascuna rappresentazione contiene mille idee. La comunicazione di una serie di queste rappresentazioni può anche essere piuttosto prolissa e «durare fino a parecchie ore, in una disposizione sequenziale tale, di cui ci si può solo meravigliare».

Ma anche qui Swedenborg aggiunse una svolta affascinante. Oltre a usare raffigurazioni, gli angeli adoperano un linguaggio che contiene concetti che sono al di là della comprensione umana. In effetti, la ragione principale per la quale usano raffigurazioni è perché è l’unico modo di rendere una versione anche pallida dei loro pensieri e idee comprensibile agli esseri umani.

Le esperienze di Swedenborg confermano addirittura alcuni degli elementi meno comunemente riferiti dell’esperienza di pre-morte. Egli notò che nel mondo degli spiriti non è più necessario mangiare cibo, ma aggiunse che l’informazione ne prende il posto come sorgente di nutrimento. Disse che quando gli spiriti e gli angeli parlavano, i loro pensieri si fondevano in continuazione in immagini simboliche tridimensionali, specialmente di animali. Ad esempio, disse che quando gli angeli parlavano di amore e affetto «vengono mostrati bellissimi animali, come agnelli… Quando però gli angeli parlano di sentimenti malvagi, questo è raffigurato da animali spaventevoli, feroci e inutilizzabili, come tigri, orsi, lupi, scorpioni, serpenti e topi». Nonostante non sia una caratteristica riferita dai moderni protagonisti dell’esperienza, Swedenborg diceva di essere stupito di scoprire che in paradiso vi sono anche spiriti provenienti da altri pianeti, un’asserzione sbalorditiva per un uomo nato oltre trecento anni fa!

Più intriganti di tutte sono le asserzioni di Swedenborg che sembrano riferirsi alle qualità olografiche della realtà. Egli diceva, ad esempio, che sebbene gli esseri umani sembrino essere separati gli uni dagli altri, siamo tutti connessi in un’unità cosmica. Inoltre, ciascuno di noi è un paradiso in miniatura, e ogni persona è in verità l’intero universo fisico, è un microcosmo della più grande realtà divina. Come abbiamo visto, egli credeva anche che alla base della realtà visibile vi fosse una sostanza a onda.

In effetti, parecchi studiosi di Swedenborg hanno commentato sui molti parallelismi fra alcune delle sue concezioni e la teoria di Bohm e Pribram. Uno di questi studiosi è il Dottor George F. Dole, professore di teologia presso la Swedenborg School of Religion di Newton, in Massachusets. Dole, che possiede lauree conseguite a Yale, Oxford e Harvard, fa notare che uno dei principi basilari del pensiero di Swedenborg è che il nostro universo è costantemente creato e sostenuto da due flussi simili a onde, uno proveniente dal cielo e l’altro dalla nostra anima o spirito. «Se mettiamo insieme queste immagini, la somiglianza con l’ologramma è impressionante», dice Dole. «Siamo costituiti dall’intersezione di due flussi – uno diretto, proveniente dal divino, e uno indiretto, proveniente dal divino attraverso il nostro ambiente. Possiamo vedere noi stessi come schemi di interferenza, poiché l’afflusso è un fenomeno ondulatorio, e noi siamo il punto dove le onde si incontrano».

Swedenborg credeva anche che, nonostante le sue qualità effimere e fantasmiche, il paradiso fosse un livello di realtà più fondamentale del nostro mondo fisico. Esso è, diceva, la fonte archetipica dalla quale tutte le forme terrestri hanno origine, e alla quale tutte le forme ritornano, un concetto non troppo dissimile dall’idea di Bohm degli ordini implicito ed esplicito. Inoltre, anch’egli credeva che il regno dell’aldilà e la realtà fisica fossero differenti in gradazioni ma non in sostanza, e che il mondo fisico fosse semplicemente una versione statica della realtà del paradiso creata dal pensiero. La sostanza che include sia il paradiso che la terra «affluisce a stadi» dal divino, diceva Swedenborg, e «ad ogni nuovo stadio, diviene più generica e quindi più rozza e confusa, e diventa più lenta, e quindi più viscosa e fredda».

Swedenborg riempì quasi venti volumi con le sue esperienze, e sul letto di morte gli fu domandato se vi fosse qualcosa che volesse ripudiare. Egli rispose con fervore: «Tutto ciò che ho scritto è vero quanto il fatto che ora mi vedete. Avrei detto molto di più, se mi fosse stato permesso. Dopo la morte vedrete tutto, e allora avremo molto da scambiarci sull’argomento».

http://www.urraonline.com/libri/9788850322954/parte/brani

Perché non c’è pace? (Perché non c’è libertà?)

 

Questo grande male… da dove proviene? Come ha fatto a contaminare il mondo? Da che seme, da quale radice è cresciuto? Chi ci sta facendo questo? Chi ci sta uccidendo, derubandoci della vita e della luce, beffandoci con la visione di quello che avremmo potuto conoscere? La nostra rovina è di beneficio alla terra, aiuta l’erba a crescere, il sole a splendere? Questo buio ha preso anche te? Sei passato per questa notte?

Terrence Malick, “La sottile linea rossa”

Il più grande messaggero di pace della storia, Gesù il Cristo, ammoniva: “Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra. Non sono venuto a portare la pace, ma una spada” (Mt 10, 34; cf. 12, 51-53). Altrove, precisava: “Non sanno che sono venuto a portare il conflitto nel mondo: fuoco, ferro, guerra” (Tommaso, 16). Dichiarazioni piuttosto paradossali. Che cosa intendeva dire? Immagino fosse pienamente consapevole del fatto che il pensiero pacifista sarebbe stato ostacolato in ogni modo. Così è stato. I martiri della pace sono stati numerosi, i nemici della pace anche di più.

Realisticamente, poteva avere successo la satyāgraha gandhiana, se posta di fronte a gente come Martin Bormann – “Gli Slavi devono lavorare per noi. Quelli che non ci servono possono pure morire…La fertilità degli Slavi è indesiderabile. Possono usare contraccettivi o praticare l’aborto, più lo faranno meglio sarà. L’educazione è pericolosa. È sufficiente che sappiano contare fino a cento…ogni persona educata è un futuro nemico” (Memorandum, 1942) – e come Heinrich Himmler – “I più di voi sanno cosa significa trovarsi davanti a cento cadaveri, a cinquecento o a mille. Aver provveduto a tutto questo e, a parte le eccezioni costituite da alcuni episodi di umana debolezza, essere rimasti ugualmente corretti: ecco cosa ci ha resi duri” (discorso di Posen, 1943)? O avrebbe invece causato il sacrificio di altri milioni di persone disarmate?

Siamo come le pecore tra i lupi? Il colmo dell’ironia è scoprire che Hitler stesso lodava il pacifismo: “In verità, l’idea pacifista umanitaria va forse abbastanza bene una volta che l’uomo del più alto livello abbia conquistato ed assoggettato il mondo a tal punto da essere diventato il padrone assoluto di questo globo”. La pace totalitaria, l’annichilimento del dissenso e della diversità.

La vita del corpo e dell’anima non è una faccenda di pacifica contemplazione e quieta devozione. Spesso, dentro e fuori di noi, c’è un terribile caos, una lotta disarmante e crudele. Non è sempre facile affrontarla ed esiste il pericolo che il senso di impotenza che pervade la gente con forza sempre crescente ci porti a credere disfattisticamente che la guerra non possa essere evitata perché è il risultato di una mania di distruzione, propria della natura umana. Come vedremo, però, l’intensità degli impulsi distruttivi non significa che essi siano invincibili ed irrefrenabili. In fondo, se ci pensiamo bene, le democrazie entrano in conflitto quasi sempre proclamando che si tratta di una guerra difensiva. Generalmente gli esseri umani non sembrano contenti di assumere il ruolo di aggressori. Qualcosa vorrà pur dire. Ma allora perché continuiamo a farci prendere per i fondelli?

La mia ipotesi è che non ci sia niente di irrimediabilmente sbagliato nella natura umana e che il problema sia invece che noi tutti viviamo in oligarchie camuffate da democrazie liberali e laiche. La pace non ha alcuna chance in questo tipo di società, che non condanna apertamente l’egocentrismo, il narcisismo, il distacco emotivo, l’indifferenza, il nepotismo, l’egoismo, la meschinità, la volgarità, la superficialità, la manipolazione delle menti, la propaganda, l’arrivismo, l’anti-intellettualismo, ecc. Questi vizi primari e secondari sono tollerati ed in certi ambienti sono persino additati ad esempio, come segno di pragmatismo ed avvedutezza. Queste false democrazie, che ignorano lo spirito delle loro carte costituzionali, dei loro valori fondanti, sono terreno fertile per tutte le tragiche debolezze umane, dall’egotismo all’autoinganno, dalla propensione alla fallacia logica al bisogno di appartenenza e fusione, dalla dipendenza nei confronti delle figure autoritarie al manicheismo, al conformismo, all’orgogliosa ignoranza, alla percezione selettiva, all’inerzia ed all’isterilimento psichico e spirituale. Per questo continuano a farci fessi.
Non siamo malvagi di natura, ma…

Nessuno sa definire cosa sia la natura umana, eppure ci sono scienziati e filosofi che continuano ad imputarle ogni nefandezza, sebbene il diritto e la dottrina dei diritti umani possano fondarsi solo su una visione positiva dell’umanità. Si attacca non solo la consapevolezza di quel che potremmo realizzare se solo mettessimo a frutto le conoscenze scientifiche già disponibili, ma soprattutto la fiducia nell’essere umano in quanto tale e nelle sue capacità di scegliere con raziocinio e buon senso, che è poi l’essenza della cultura umanista ed illuminista.

Secondo Konrad Lorenz tutti i nostri mali sono causati dalla cessazione della selezione naturale. Siamo animali auto-addomesticati, e come tali ci siamo degradati. Il sociobiologo Edward Wilson auspica interventi genetici sulla nostra specie mirati ad imitare l’armoniosa comunità delle api. Il filosofo politico britannico John Gray ha dichiarato che “chi ama la terra non sogna di diventare il saggio custode del pianeta, sogna un’epoca in cui gli umani non contino più nulla”. Richard Wrangham, docente di bioantropologia ad Harvard, reputa che dentro ciascuno di noi alligni un Uomo Selvaggio, un atavismo, un retaggio del nostro passato preistorico che condiziona il nostro comportamento. Secondo lui “se presupponiamo che gli esseri umani siano fondamentalmente simili agli scimpanzé…questa intuizione biologica (sic!) ci insegna che gli uomini continueranno a cercare nuove opportunità per massacrare i propri rivali e che non dobbiamo mai abbassare la guardia. La brutta notizia è che dobbiamo lavorare sodo per impedire agli uomini di coalizzarsi per uccidere gli avversari”.

La misantropia “scientifica” è gravida di questo genere di stravaganti asserzioni. Esse partono da una premessa che la quotidianità stessa rivela essere manifestamente errata, e cioè che gli esseri umani passino il tempo ad aggredirsi invece di badare agli affari loro o cooperare tra loro. Se le cose stessero davvero così nessuna società umana potrebbe operare. Questo abbaglio nasce dall’attaccamento a due dogmi ben precisi: quello dell’innata malvagità dei maschi umani e degli scimpanzé maschi e quello secondo cui la civiltà umana è solo una sottile patina che fatica a trattenere le pulsioni spesso incontrastabili della biologia evolutiva, inscritte nel nostro corredo genetico, che ci ha resi eterni predatori e carnefici. Tutto questo naturalmente elude la questione delle considerevoli variazioni nell’incidenza di comportamenti violenti tra individui e tra culture ed il dato di fatto che la stragrande maggioranza degli uomini non ha mai assalito, violentato o ucciso qualcuno nella sua intera esistenza. Forse questi pensatori ritengono con tragica supponenza di essere tra i pochi esemplari della specie umana in grado di tenere a bada il selvaggio vigore dei loro geni.

Eppure, lo studio del comportamento dei soldati in combattimento dimostra che la gran parte degli esseri umani non prova alcun piacere nell’uccidere o usare violenza contro un proprio simile. Anzi, la necessità di un rigido, meticoloso e prolungato addestramento, che si avvale di ogni possibile tecnica inventata dagli scienziati del comportamento per placare le remore ed ansie di una coscienza colpevole (bestializzazione del nemico, trasferimento della responsabilità verso le autorità, cameratismo, uso di psicofarmaci ed alcolici, ecc.), è la prova migliore del fatto che la guerra non è un “fatto naturale”.

Patriottismo ed idealismo non sono mai stati sufficienti a convincere i soldati a massacrare e farsi massacrare, a vincere le inibizioni, l’ansia, i rimorsi ed i sensi di colpa. Si è stimato infatti che, durante i due conflitti mondiali, solo il 15-20 per cento dei soldati al fronte sparava contro il nemico ed in molti di questi casi si sparava in aria. Percentuali analoghe sono state riscontrate dall’esercito inglese nella guerra delle Falkland. A Gettysburg, dei 27.574 fucili recuperati, il 90 per cento non aveva sparato un sol colpo, ed altri 6000 avevano sparato solo qualche colpo. In uno scontro con gli Zulu, 12 pallottole inglesi su 13, pur sparate a bruciapelo, riuscirono a mancare il bersaglio. A Rosebud Creek, nel 1876, furono sparate 252 pallottole per ogni nativo americano colpito. Quando si abbandonano le chiacchiere e ci si affida ai dati empirici, ai fatti, si scopre che quel che ci hanno fatto credere erano sciocchezze.

Siamo violenti, siamo aggressivi, siamo egoisti, ma non lo siano irrimediabilmente, non lo siamo incessantemente, spesso lo siamo contro il nostro migliore istinto, contro “gli angeli migliori della nostra natura”, diceva Lincoln.

Di norma, quindi, gli esseri umani non sono capaci di uccidere un altro essere umano a distanza ravvicinata, neppure quando è in gioco la loro stessa sopravvivenza. Il costo psicologico dell’uccidere un proprio simile e, più in generale, del fare la guerra, è fatale alla psiche di milioni di soldati. I soli Stati Uniti, nella Seconda Guerra Mondiale, dovettero rimpatriare oltre mezzo milione di uomini in seguito a collasso psichico. Dopo due mesi di combattimento continuo il 98 per cento dei soldati subiva danni psicologici tali da ridurli ad uno stato vegetativo. Le allarmanti statistiche sui suicidi, divorzi, dipendenze, accattonaggio, ecc. tra i veterani del Vietnam parlano chiaro e molti psicologi temono che l’uso di psicofarmaci in Iraq ed Afghanistan produrrà un’epidemia di sociopatia tra i veterani.

Per questo gli strateghi consigliano di usare armi automatiche, l’aviazione, armi a lunga gittata (obici, cannoni, missili) ed armi robotiche. I fatti danno loro ragione: l’efficienza di combattimento è cresciuta stabilmente. Insomma l’unico modo per convincere gli esseri umani ad uccidersi tra loro è quello di robotizzarli e di distanziarli fisicamente e psicologicamente il più possibile, oggettificandoli. Per poter fare la guerra una società deve prima desensitivizzare e de-umanizzare chi la combatterà, nonché il fronte interno. Si deve sopprimere l’empatia:

http://fanuessays.blogspot.com/2011/11/i-cyloni-sono-gia-tra-noi.html

Chi è normale?

Le discipline scientifiche che si interessano della specie umana hanno raggiunto un punto di convergenza nell’affermazione dell’unicità dei singoli individui. Per la genetica ogni organismo è un prodotto squisitamente univoco dell’interazione dei geni con l’ambiente in ogni istante della vita di ciascuna persona. I genetisti di popolazione concordano nel dire che se c’è da fare una suddivisione della specie umana, l’unica distinzione netta e significativa è quella tra individui. I neurologi hanno dimostrato che non esistono due cervelli che siano identici, neppure tra gemelli omozigoti, perché le variazioni microscopiche di ogni cervello sono enormi. Secondo i linguisti le parole e le frasi, nella loro struttura e significato, hanno una storia che varia a seconda dell’esperienza e del contesto di ciascuna persona. Insomma, l’evidenza empirica demolisce ogni tentativo di essenzializzare e negare la straordinaria diversità dell’umano nelle sue innumerevoli espressioni, cioè il suo fascino e bellezza. Idee e valori personali potrebbero essere di enorme beneficio per la collettività, se fossero re-indirizzati in una direzione costruttiva e non distruttiva.

Quel che conta è che, stando ai dati scientifici disponibili, non esiste un’anima nera dell’umanità. La malvagità, la crudeltà, l’egoismo, l’aggressività sono fenomeni comuni all’intera specie ma in forme ed intensità sensibilmente diverse, in diretta correlazione con il grado di soppressione dell’intelligenza emozionale (cognizione sociale) e del pensiero morale, cioè dell’empatia – la capacità di sentire e fare propri gli stati emotivi altrui – e della capacità di prevedere le conseguenze delle proprie azioni. La propensione ad una condotta morale deriva dalla capacità empatica ed è importante indirizzare la nostra attenzione e i nostri sforzi in quella direzione.

Su questo pianeta esistono decine di milioni di esseri umani completamente privi di empatia e coscienza o con una coscienza residua, ridotta o menomata (narcisisti, psicotici, psicopatici, sadici, istrionici, schizoidi, pedofili, ecc.). Sono nati così o lo sono diventati in certi ambienti familiari caratterizzati da negligenza o abuso. Gli individui privi di empatia si definiscono psicopatici:

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/19/300-milioni-di-psicopatici-se-ne-fregano-della-nonviolenza-e-dei-diritti-ci-si-difende-informandosi/#axzz1iZkF2V7T

http://www.informarexresistere.fr/2011/11/18/psicopatici-in-giacca-e-cravatta/#axzz1iZkF2V7T

Esistono diversi modelli eziologici che spiegano l’insorgere della psicopatia, ma quello che mi convince di più considera la psicopatia come una variazione estrema di certi tratti distintivi di una personalità normale (qualunque sia il significato attribuibile a “normale”). È altamente probabile che all’origine di questa patologia vi sia una disfunzione o lesione del lobo frontale che determina la differenziazione tra psicopatia/sociopatia congenita o acquisita. Non esistono stime univoche sulla percentuale di psicopatici: il valore oscilla tra il 2 per cento ed il 6 per cento della popolazione nei paesi del Nord America e dell’Europa settentrionale e sembra diminuire gradualmente procedendo oltre gli Urali e verso l’Africa o il Centro-America. Gli psicopatici possono avere un grado elevato di intelligenza cognitiva ma sono incapaci di interpretare gli stati emotivi altrui e di discriminare fra bene e male. Pongono invariabilmente il proprio interesse davanti a tutto il resto. Di conseguenza tendono ad essere seduttori, bugiardi patologici, manipolatori, privi di scrupoli, rimorsi e di autocontrollo, emotivamente superficiali, irresponsabili, sessualmente promiscui, impulsivi, narcisi e megalomani. Insomma, sono dei perfetti predatori di esseri umani che mirano ai più alti livelli di affermazione sociale in termini di status e di potere. Il loro successo dipende dal grado di tolleranza di una società nei confronti di questo tipo di personalità. Per fortuna sono anche molto deboli nei ragionamenti contro-fattuali, quelli che consentono di immaginare scenari alternativi derivanti da scelte comportamentali diverse. Poiché non riescono a visualizzare una sufficientemente ampia selezione di opzioni, è possibile sfuggire alle loro trame.

Pur tenendo conto del fatto che molti di noi non hanno le capacità e le competenze necessarie a diagnosticare un disturbo mentale e che quindi non ha senso etichettare questa o quella persona, bisogna comunque essere consapevoli del fatto che il problema esiste. Secondo una dozzina di studi condotti in Nord America e nell’Europa settentrionale e centrale, mediamente fino al 14-15 per cento della popolazione soffre di disordini mentali, spesso più di uno (ossessivo-compulsivi, schizoidi, paranoidi, antisociali, dipendenti ed evitanti, istrionici, narcisisti, sadici e masochisti, schizotipici, passivi-aggressivi, borderline). Quasi una persona su sette non è in grado di pensare obiettivamente e vivere bene, serenamente. E queste statistiche non includono anoressia, bulimia, psicopatia e varie turbe psichiche che limitano drasticamente le normali attività delle persone.

La maggior parte delle persone non riesce a concepire l’idea che altri esseri umani possano ragionare e sentire in un modo sensibilmente diverso dal loro senza essere necessariamente “pazze”. È altrettanto difficile accettare l’idea che le ideologie attivino solo ciò che è latente. Non sono infatti le idee a deformare la personalità di un individuo, ma il contrario. Le idee tirano semplicemente fuori quel che di buono o cattivo c’è già dentro. Purtroppo la maggior parte di noi ha bisogno di credere che tutto sia sotto controllo perché la nostra autostima, la nostra psiche, necessitano di conferme, mentre l’ammissione di errori di giudizio o di deficienze cognitive e morali distruggerebbero le nostre fragili certezze e l’immagine di noi stessi che ci siamo creati negli anni.

Come uccidere l’empatia in tre mosse

La pace si uccide sopprimendo l’empatia. La prima mossa è quella di creare una rete di persone tendenzialmente anempatiche in un ambiente tossico per l’empatia, cioè impregnato di stimoli esterni che indirizzano la società verso una condizione di sociopatia prevalente. Chi ha letto le sconvolgenti pagine della fondamentale ed informatissima inchiesta “Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri”, della giornalista canadese Naomi Klein, non potrà fare a meno di sospettare che l’assetto socio-economico della cosiddetta civiltà occidentale renda più facile l’inserimento e la promozione di individui dalla coscienza molto debole. Questi, favoriti dall’assenza di scrupoli e dal maniacale perseguimento di obiettivi categorici, riescono ad esercitare un notevole ed insospettato potere di influenza sulla società.

Contemporaneamente, questa stessa civiltà sembra altresì votata a contribuire all’emergere di tendenze psicopatiche o schizoidi in persone altrimenti psicologicamente “sane”. Klein dimostra che i vizi e le dottrine di pochi hanno causato una buona fetta del male nel mondo negli ultimi decenni. Stiamo parlando di esseri umani di vasto potere ed ingenti risorse che si comportano esattamente come un branco di avvoltoi o iene, avventandosi sull’animale ferito per scarnificarlo. L’aggressione avviene attraverso guerre, colpi di stato, omicidi eccellenti, torture, ricatti, indebitamenti coatti, controllo dell’informazione e manipolazioni varie. Non è certamente un male “banale”, quotidiano. Realisticamente, la maggior parte delle persone non si comporterebbe così. Sono ricchi, sono istruiti ma commettono il male e non sentono rimorsi. Non è falsa coscienza, è assenza di coscienza. Perché? Numerosi studi sulla responsabilità imprenditoriale hanno rivelato che le multinazionali tendono a seguire le logiche e norme di condotta tipiche degli psicopatici. Sono genuinamente amorali, guidate unicamente dall’esigenza di generare profitto, programmate per crescere costantemente e distruggere i concorrenti più deboli. Non appena il sistema giuridico non può perseguirle, l’impunibilità si traduce in violazione sistematica delle leggi e dei diritti. Gli esempi sono ormai innumerevoli.

In generale un essere umano si astiene dall’uccidere qualcuno non perché ci siano leggi che lo vietano e puniscono gli assassini, ma perché sa/sente che è sbagliato. Il giroscopio interiore della coscienza stabilisce quali siano gli imperativi categorici e mantiene il più possibile fisso il baricentro morale. Le grandi aziende, specialmente le multinazionali, non possiedono questo senso morale ed è legittimo chiedersi se ce lo abbiano le nazioni, per quanto intensi siano gli sforzi di ammantarsi di una qualche legittimità superiore. È difficile discernere la differenza tra l’esportazione della democrazia e quella di un prodotto. Nel caso iracheno la differenza la fanno le centinaia di migliaia di vittime.

Gli ambienti patogenetici come questo sono il terreno di coltura ideale del fanatismo. Il fanatico, diceva George Santayana, “è un uomo che raddoppia gli sforzi quando si dimentica dei fini”. Comune a tutti i fanatici è l’amore per l’odio: “Odio, dunque sono”, oppure “ci odiano, dunque siamo”. C’è il fanatico che non tollera critiche al governo perché sono antipatriottiche e lui si identifica con la patria. C’è il fanatico che denuncia complotti internazionali contro la sua terra, la sua fede, il suo stile di vita (es. Eurabia). Ci sono poi i fanatici dalla “coscienza infelice”, quelli che detestano il loro tempo e la gente che li circonda e si sentono ostaggi nati troppo presto o troppo tardi. Vorrebbero stravolgere la loro epoca, muovendo la storia in avanti più celermente, oppure ricreando il tempo che fu, e sono disposti a sacrificare del “materiale umano” nel farlo. Ci sono fanatici che credono che ciascuno di noi sia stato plasmato dalla propria cultura e tradizione e che per questo esiste un rapporto quasi mistico tra noi ed i nostri antenati che va preservato ad ogni costo. Ogni fanatico si ritiene prima di tutto una vittima – piccola, fragile e vulnerabile – e per questo è innocente, puro ed infallibile per definizione. Le vittime sono incolpevoli e non riconoscono o non si curano del dolore che causano agli altri. Ma in fondo l’odio nasce proprio dal disprezzo per se stessi e da un senso di colpa represso. Il fanatico ha bisogno di un nemico che ripristini la fiducia in se stesso, nel significato della sua esistenza e nella giustezza della sua casa. Perde di vista l’obiettività, confonde il bene con i suoi desideri ed il male con tutto ciò che si oppone alla loro realizzazione, si aggrappa al dogmatismo e rifugge il dialogo.

I politici più cinici e scaltri sanno fare buon uso dei fanatici, che sono facilmente sedotti dalla trappola dell’autorità e potere. Li asserviscono educandoli all’odio, che annulla la personalità ed impedisce la comunicazione fra gli uomini, e li ricompensano con altro odio, un odio che ha bisogno di essere costantemente alimentato, pena il rischio di rivolta contro i loro stessi compagni d’odio o persino i loro capi. È un odio mistificante che si fa passare per amore e lealtà, quando invece non è altro che l’impulso egoistico e materialista di chi tenta disperatamente di garantirsi stabilità psichica e la certezza della sopravvivenza fisica. I suoi sforzi sono condannati al fallimento e svelano la sua mediocrità e l’ordinaria immoralità del suo contesto, popolato da mostri – i nazionalismi, i razzismi, i campanilismi, gli integralismi – che torcono l’anima delle loro vittime, per poi tramutarle in carnefici. È fin troppo facile per noi esseri umani ripudiare un comportamento morale razionalizzando le nostre azioni.

Il Golem

La seconda mossa necessaria ad ingannare l’opinione pubblica incline alla pace ed indebolire l’empatia consiste proprio nel dar vita ai summenzionati mostri ideologici, i golem. Abbiamo visto che in cima alla piramide dell’iniquità risiedono solitamente gli individui cronicamente privi di coscienza o dalla coscienza affievolita – a causa del mancato sviluppo della corteccia cingolata anteriore o per ragioni biografiche (es. infanzia traumatizzante).

Al livello inferiore s’incontrano i fanatici, quelli che una coscienza ce l’hanno ma l’hanno consegnata ad un Moloch ideologico (Razza, Etnia, Fede, Classe, Patria, Corporazione, ecc.).

Ancora più in basso sono collocati gli utili idioti, masse di conformisti de-individuati disposti a servire il maschio-alfa o il “comune sentire”. Hanno una mentalità autoritaria, quella di chi è forte coi deboli e debole coi forti. Anche il loro è male, ma solo questo è il male superficiale denunciato da Hannah Arendt, un male di ordine inferiore, appunto, che si può spiegare antropologicamente e sociologicamente senza ricorrere alle categorie della patologia mentale o dell’estremismo. Non sono fanatici o psicopatici a tempo pieno, ma agiscono in un contesto che genera tendenze di questo tipo. Sarebbero perfettamente in grado di comprendere i loro errori e pentirsi, una volta che le circostanze lo consentissero.

Il problema è che troppe persone continuano a credere che la Patria, lo Stato, l’Azienda, la Marca, la Squadra siano entità reali, vive, animate, con una propria identità e coscienza. Come umanizziamo gli animali, così antropomorfizziamo istituzioni, imprese, organizzazioni, ecc., cioè oggetti ed astrazioni. Riversiamo in loro affetti, risentimenti, sogni, aspettative, paure, desideri, ecc. e non ci accorgiamo che non è diverso dal credere in Babbo Natale. Soprattutto, non ci accorgiamo che ciascuno di questi golem è un mortale nemico dell’empatia perché per sua natura tende a dividere, a rendere le società più fredde, centripete, irreggimentate, rigide, turgide, confinate.

I golem avversano la fluidità, la sensualità, l’eterogenea frammentazione del reale, sono programmati per devivificare e desensitivizzare la realtà, per narcotizzare l’empatia. I golem non amano la vita, perché questa scorre ed è promiscua, mentre la società fredda è intransigentemente moralista, convinta di detenere la verità definitiva, in tutta la sua interezza, di rappresentare la purezza, l’autenticità assoluta, l’innocenza incarnata. Pur di vivere, pur di preservare la sua forma materiale, l’amante delle astrazioni (patria, etnia, lingua, cultura, società, stato, ecc.) tende a reificarle, a crederle vere, concrete, tangibili, dotate di volontà e coscienza. Un muro di auto-inganni, idolatria e feticci si frappone tra lui e la verità. Paradossalmente ed autolesionisticamente si lega a ciò che non è mai stato vivo, nell’illusione che lo sia. Tutto questo in luogo dell’amore per ciò che è vitale, spontaneo, creativo, evolvente, caldo, amorevole, fluido, imprevedibile, cangiante, liquido, sensuale, impuro, promiscuo come lo è la vita – panta rei, tutto scorre.

Le società calde, femminee, sono in perenne ebollizione, amano la complessità, la pluralità, la malleabilità, la sofficità, la liquidità, la costante trasformazione, l’ignoto e rifuggono ciò che è inturgidito, fisso, immobile, definito, tassidermico, tassonomico, corazzato, aggressivo, granitico, immutabile, ecc. Sono attratte dal vivente, dall’impulso vitale d’amore, dall’integrazione del tutto.

I suddetti golem dipendono dal nostro consenso per la loro esistenza; se non li rigenerassimo continuamente, si estinguerebbero. Eppure non ce la sentiamo di lasciarli morire, lasciamo che assorbano le nostre energie creative e vitali, ci lasciamo dominare da questi despoti, senza ribellarci. Facciamo loro indossare delle maschere allegre e giovali, benevole e rassicuranti, ma mostri sono e mostri rimarranno, perché è nella natura dello scorpione pungere la rana che lo sta aiutando a guadare il corso d’acqua.

La sopravvivenza di questi mostri dipende dalla quantità di energia che riescono a strappare a chi li venera. Sono espressioni di quella forma di vita che nella lingua hopi si chiama Powaqqatsi “la vita che consuma le forze vitali di altri esseri per promuovere la propria vita”. Sono come l’Anticristo di Solovev, che “credeva in Dio ma nel profondo del suo cuore preferiva se stesso”.

L’adoratore del golem commette un grossolano errore di falsa coscienza: percepisce un io insufflato, ma si tratta di un’illusione. Beandosi della sua “meritata” grandezza, non muove un dito per irrobustire l’individualità reale. Si autoinfantilizza e permette che il sistema ne tragga beneficio, mantenendolo in quello stato per addomesticarlo meglio. Perde la capacità di prendere le distanze, di ponderare la sua situazione e guardare la società in cui vive con un certo distacco, con l’occhio di un forestiero o di un nemico. Perde la capacità di essere un agente di pace e non di guerra. Finisce per lasciarsi arruolare in progetti che non sono mai stati suoi, magari autodistruttivi, ma ai quali si accoda per senso del dovere e sconfinata fiducia nella logica retrostante. È l’alienazione finale: non è più sé stesso, ma l’idea che qualcuno si è fatto di lui; è pronto per essere sacrificato, magari in una guerra tra golem.

Il Terrore

Chi ha paura di morire non si cura della sorte del prossimo, non si cura della pace. “E quando tornate a casa, date una sberla a vostro figlio e ditegli è la sberla del Ministro della Paura… guardatevi con sospetto, odiatevi, sparatevi…è straordinario…”. Questa è una battuta tratta da uno sketch del magnifico Antonio Albanese, ma rappresenta accuratamente la realtà. L’insicurezza induce alla regressione, la frustrazione all’aggressività, l’ansia all’autoritarismo, sino all’insorgere delle dittature che sanciscono quella che Fromm ha chiamato la fuga dalla libertà, che è anche una fuga dalla pace. L’ex agente dell’organizzazione clandestina Gladio, Vincenzo Vinciguerra, ha svelato sotto giuramento qual è la terza mossa della strategia volta all’annichilimento dell’empatia, ossia la disseminazione della paura di morire: “Si dovevano attaccare i civili, la gente, donne, bambini, persone innocenti, gente sconosciuta molto lontana da ogni disegno politico. La ragione era alquanto semplice: costringere … l’opinione pubblica a rivolgersi allo stato per chiedere maggiore sicurezza”. Lo scaltro Agente di Guerra sa che i golem operano al meglio solo se la parte “sana” della popolazione teme di morire e perciò si aggrappa ai golem per fare in modo che la loro estinzione non sia priva di significato.

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/25/della-paura-e-del-potere/#axzz1iZkF2V7T

La gente ha un’enorme paura della propria insignificanza, della propria fragilità e vulnerabilità. Troppe persone non vedono l’egocentrismo come un problema perché sono ossessionate dalla sopravvivenza personale, che rimane l’obiettivo primario della nostra componente animale. Abbiamo paura di morire ed il modo migliore di controllarci è attraverso il terrore (ed il senso di colpa). Tutti noi ci troviamo a lottare per conciliare la realtà della nostra mortalità fisica e la speranza (o fede) nell’immortalità dello spirito, in modo da riaffermare il significato della nostra esistenza in un universo apparentemente assurdo. I golem sono dei crudeli tiranni che produciamo per aprirci un varco di senso in un cosmo apparentemente indifferente alle vicende umane e soprattutto dall’oblio che segue il decesso di chi non ha lasciato un segno indelebile nella storia.

Un antropologo statunitense, Ernest Becker, ha esaminato questo secondo fattore, la paura dell’estinzione fisica e storica, ed è giunto alla conclusione che molte delle nostre azioni sono dettate dalla necessità di produrre un’interconnessione di significati e simbologie in grado di generare l’illusione della trascendenza della morte (Becker, 1982). Quindi non si tratta della semplice reazione di chi si sente fisicamente vulnerabile. Tutti noi vogliamo che la nostra esistenza abbia un senso, che conti qualcosa, che dia un contributo significativo ad un’entità durevole – la Chiesa, la Scienza, l’Etnia, la Società, la Razza, la Nazione o la Patria, la Comunità, la Cultura, l’Arte, la Rivoluzione, la Storia, l’Umanità, la Professione, ecc. – e la prospettiva della nostra morte rende quest’esigenza ancora più pressante. Scrivere un libro di successo può essere un buon modo di placare l’ansia esistenziale, ma in generale si opta per la fusione delle identità personali in miti collettivizzanti – progetti d’immortalità – che negano la morte: l’ossessione per l’estinzione della propria cultura ed identità di popolo coincide con l’ossessione per la propria morte e per la possibile mancanza di significato della propria esistenza e dell’ordine cosmico. Il culto per le celebrità rappresenta forse, inconsciamente, un mezzo per continuare a vivere fondendosi nel mito dell’eroe, sperando di acquisirne le proprietà magiche della permanenza ed invulnerabilità. Il problema è che questi progetti di immortalità sono indissociabili dall’affermazione di una verità assoluta che ci gonfia di un orgoglio narcisistico ed acritico e ci scherma da prospettive alternative, giudicate invariabilmente false, spingendoci ad attaccare i promotori di sistemi di immortalità diversi dai nostri. È la guerra.
Difendere l’umanità dai suoi detrattori

Come si contrastano le strategie empatocide? Come si possono tutelare delle oasi di pace negli anni a venire? Abbiamo una vera scelta? C’è sempre una scelta, anche se ci conforta l’illusione che sia tutto predeterminato o troppo più vasto e potente di noi per subire la nostra influenza. Innanzitutto è indispensabile astenersi dal dare ai loro corifei e paladini ciò che vogliono, ciò che pretendono, in special modo la nostra anima. La crudeltà, la tortura distruggono la coscienza/anima dei responsabili e feriscono quella delle vittime. Occorre mantenere le distanze, per quanto possibile. L’antropologo francese René Girard ci ricorda che non si deve mai scherzare col fuoco: “Hanno la violenza dalla loro, ma non possono esercitarla apertamente. L’importante è ottenere il libero consenso della vittima al suo supplizio – spezzare la resistenza di Giobbe, ma senza costrizione apparente – l’esigenza di una vittima consenziente caratterizza tanto il totalitarismo moderno quanto certe forme religiose e parareligiose del mondo primitivo”. Per questo è essenziale giovarsi della nostra conoscenza del fenomeno per auto-immunizzarci.

La ponerocrazia, il “governo dei malvagi” (dal greco ponēros, “malvagio, nocivo”), odia visceralmente la vita spirituale ed odia l’empatia, che è l’alimento della vita più elevata, quella spirituale. Dunque si può sconfiggere attraverso l’amore per l’umanità, la coscienza e la natura, l’integrità (la volontà di essere onesti con se stessi e con gli altri rispetto alle proprie motivazioni), l’indipendenza di giudizio, la forza di volontà, l’assertività e la libertà, l’immedesimazione nell’altro e non la proiezione della propria auto-percezione nell’altro. Si devono coltivare il senso di indignazione, di oltraggio, di risentimento di fronte ad infamie ed ingiustizie. Si deve ricercare la giustizia e tutelare il libero arbitrio. La volontà di seguire la voce della ragione, della conoscenza e della coscienza contro la voce delle passioni irrazionali è l’unica che ci permetta di approssimare la verità, la comprensione obiettiva della realtà e del proprio ruolo in essa. Bisogna cercare la verità sopra ogni altra cosa. La vigilanza, la circospezione e la curiosità, che portano alla conoscenza, sono la nostra miglior difesa, l’autocompiacimento il nostro tallone d’Achille.

La conoscenza ci protegge perché più si conosce, meno si ha paura, meno ci si angoscia e meno pericoli si corrono perché si capisce cosa sia necessario per proteggersi. La conoscenza è sconfinata, non ha limiti, dunque il suo valore è infinito.

La conoscenza ci fa capire che è nostro preciso dovere difenderci dai bulli, se non vogliamo che siano loro a determinare il futuro della nostra specie e della nostra civiltà:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/02/la-collera-dei-miti-sullimmoralita-di-pacifismo-e-nonviolenza/#axzz1iZkF2V7T

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