Qual è il retroterra ideologico del signore dell’Alto Adige, Michl Ebner?

Twitter [non in italiano]

Facebook [in italiano]

michl-ebner-vi

Su Arno Kompatscher in quanto persona non posso pronunciarmi, giacché come Landeshauptmann non l’ho ancora visto all’opera. Quello che posso dire, però, è che la sua candidatura è stata favorita dal quotidiano Dolomiten, e dunque della famiglia Ebner. E qui siamo proprio nuovamente davanti a uno di quei nodi del sistema che io critico nel mio libro: gruppi d’interesse, lobby, personaggi influenti legati ad altri personaggi influenti, soprattutto nel campo dell’economia. In questo modo vengono create vere e proprie bolle di consenso tutt’altro che trasparenti. In un certo senso, pensando a Kompatscher, il mio libro esercita allora un ammonimento: attento, stai molto attento a non farti stritolare.

Hubert Frasnelli

http://www.salto.bz/it/article/14102013/hubert-frasnelli-il-sistema-ce-ancora

Michl-Ebner-Otto-von-Habsburg-war-ein-grosses-persoenliches-Vorbild_artikelBox
Ottone d’Asburgo Lorena e Michl Ebner

Ottone d’Asburgo Lorena (1912-2011) è uno degli eroi della destra sudtirolese, che include l’ala economica della SVP guidata, tra gli altri, da Michl Ebner. Ebner, fratello di Toni Ebner, direttore del Dolomiten, di gran lunga il maggior quotidiano di lingua tedesca dell’Alto Adige, è un ex senatore ed ex europarlamentare, amministratore delegato del più grande gruppo editoriale dell’alto Adige (Athesia), presidente della Camera di Commercio della provincia di Bolzano, vicepresidente della Banca di Trento e Bolzano, regionalista e nemico del melting pot (fusione di culture, tradizioni e destini), come spiega in un intervista per “Il Cristallo” (“Regioni e Unione Europea”, 2011), pur tuttavia fautore del plurilinguismo “per comunicare efficacemente con clienti e fornitori all’estero” (Alto Adige, 5 novembre 2012).

Ebner è stato amico, collega e collaboratore di Ottone d’Asburgo.

Il pensiero economico dell’ultimo arciduca ereditario d’Austria e d’Ungheria non era particolarmente raffinato, ma s’inseriva a pieno diritto nella tradizione della scuola austriaca, fondata da Carl Menger (1840-1921), rampollo della piccola nobiltà boema, fondatore della scuola austriaca di economia, consulente economico presso la casa d’Austria, nonché tutore, confidente ed amico intimo del principe ereditario Rudolf. Da Menger si dipana un filo rosso neoliberista (Younkins 2005) che, passando per Hayek (ammiratore di Pinochet), von Mises (ammiratore dei cancellieri austriaci integralisti cattolici e proto fascisti Ignaz Seipel ed Engelbert Dollfuss), Ayn Rand – arcinemica dello stato sociale e dei poveri, finché la salute cagionevole non la indusse ad avvalersene – e Milton Friedman (implacabile critico della democrazia, teorico dell’“economia dello shock”, anche nota come “capitalismo dei disastri”), arriva alla destra radicale statunitense dei Tea Party Patriots (il loro referente per l’Italia è Oscar Giannino) ed alle politiche di austerità della troika, criticate da ben 8 premi Nobel per l’economia e, paradossalmente, da una mezza dozzina degli stessi analisti del FMI e della Banca Mondiale.

Il lettore prenda nota: il Ludwig von Mises Institute ed il Cato Institute, due think tank neoliberisti, hanno dimostrato nella loro storia una marcata simpatia per le privatizzazioni, i secessionismi e i confederati (quelli che fortunatamente hanno perso la guerra civile). Giusto per inquadrare il retroterra ideologico degli aderenti a questa scuola di pensiero.

Dopo essere fuggito dall’Europa in quanto ebreo perseguitato, Von Mises sopravvisse fino al 1969 negli Stati Uniti solo grazie ai finanziamenti della Rockefeller Foundation e del mecenate Lawrence Fertig, che gli pagava il salario da docente all’Università di New York. Prima di poter insegnare a New York ricevette un incarico da Ottone d’Asburgo, anch’egli in esilio negli Stati Uniti, nel Comitato Nazionale Austriaco, che riuniva espatriati austriaci nostalgici dell’impero e che riuscì, grazie al suo lobbismo, a cancellare la complicità dell’Austria nel Terzo Reich, creando il mito della prima vittima di Hitler:

La cosa non riguarda solo ambienti dell’estrema destra o conservatori: qui è tutta la cultura politica austriaca, le forze politiche che hanno governato nel secondo dopoguerra a considerare l’Austria solo come una vittima del nazismo, assolutamente incolpevole. Non c’è motivo perché debba fare i conti con il proprio passato nazista perché l’Austria non è stata nazista. Ora questa è una falsificazione storica colossale, perché si sa benissimo che l’adesione degli austriaci al nazismo è stata più radicale, più convinta di quella dei tedeschi al Terzo Reich. Il libro di Hillberg lo dimostra molto chiaramente: fra i funzionari della macchina di sterminio la presenza austriaca è fortissima, Eichmann non è affatto un caso isolato. Così Hillberg documenta molto bene come il primo sistematico sterminio di ebrei avvenne in Serbia intorno al ’41, prima, cioè, che venisse lanciata la soluzione finale, e fu compiuto direttamente dagli austriaci della Wehrmacht. Questi sono dati che troppo facilmente vengono oscurati e dimenticati (Pier Paolo Poggio 2000).

 

Mises continuò a rivolgersi a Ottone chiamandolo “Sua Altezza Imperiale” anche negli anni Sessanta. Negli anni Quaranta, in un suo rapporto sulla possibilità di una restaurazione della monarchia in Austria dopo la sconfitta del nazismo, Mises concluse che sarebbe stata fattibile ed accettabile, se la popolazione l’avesse approvata con un referendum, perché solo un sovrano eletto avrebbe potuto garantirsi una base di consenso sufficientemente ampia da potergli permettere di regnare. Questa, e non una qualche irrefrenabile vocazione democratica, è la sconveniente origine della tanto acclamata fede referendaria-plebiscitaria di Ottone d’Asburgo (Hulsmann 2007).

Il Dolomiten del suo carissimo amico e strettissimo collaboratore all’europarlamento Michl Ebner (come gli altri media conservatori di entrambe le sponde dell’Atlantico), ha celebrato le gesta di un uomo che aveva come scopo precipuo nella sua vita quello di riprendersi ciò che riteneva gli spettasse di diritto: la sovranità sulla Mitteleuropa.

Non che abbia mai cercato di nasconderlo in alcun modo. Nel 1976, in uno dei suoi tanti saggi – “Idee Europa: Angebot der Freiheit” – scriveva: “L’idea imperiale risorgerà nella forma dell’unificazione europea” (Die reichische Idee wird in Gestalt der europäischen Einigung neu erstehen).

Carlo, figlio di Ottone, destinato a portare avanti la crociata del padre, ha assicurato  che “i principi dell’idea di Impero come ordine sovranazionale, assieme al principio di sussidiarietà come struttura a base cristiana della nostra società, possono costituire il piano regolatore per il futuro” (Cardini et al. 2008, p. 6).

Nel 1999 Ottone si recò in Alabama, al Ludwig von Mises Institute di Auburn, per omaggiare l’economista al quale è stato intitolato l’istituto (“The Mises I Knew”, 5-6 febbraio 1999), raccontando come l’aveva conosciuto, che impressione se n’era fatto e quale lascito teorico ne aveva ricavato.

Il militante mitteleuropeista esordiva ripetendo per l’ennesima volta la frottola che aveva raccontato per oltre 50 anni, ossia che l’Austria era stata conquistata dai nazisti contro la sua volontà e ne era la prima vittima; inoltre lui si era dovuto battere come un leone per ristabilire la verità storica contro quelli che chiamava i “fanatici politici di alcune nazioni confinanti con l’Austria” ed anche contro certi politici austriaci in esilio pronti a tradire (dal suo punto di vista) l’Austria. Secondo lui Von Mises – che nel 1922 celebrava la riuscita della Marcia su Roma – era un eroe che aveva affrontato la tempesta, senza seguire l’esempio dei traditori.

Lo definiva un faro nella notte, un aristocratico nel vero senso della parola, per i servigi che aveva reso al suo paese ed al mondo. Di quel tipo di aristocrazia che rappresenta un nuovo genere di nobiltà che stava emergendo già allora, indipendentemente dall’ordinamento dello stato in cui viveva. La paragona al sistema feudale giapponese, un’evidente, seppure implicita, allusione a “Un’utopia moderna” di H.G. Wells (“A Modern Utopia”, 1905), un romanzo che l’autore britannico aveva concepito anche come un programma politico di edificazione di uno stato mondiale diretto da un’élite di samurai – così li chiamava – una nobiltà volontaria di tecnocrati specialisti nella gestione dei problemi globali che ricevono speciali privilegi ed onori nell’adempimento dei propri compiti.

È molto probabile che il favore con cui guardava agli auspici di Wells gli fosse stato trasmesso da Richard Coudenhove-Kalergi, aristocratico per parte paterna e materna (la madre era giapponese, discendente di samurai, legata agli ambienti della potentissima setta Soka Gakkai), ideologo di un’Europa neo-aristocratica, vicino all’austrofascismo, fervente nietzscheano, ostile al suffragio universale, fondatore di Paneuropa, collega, amico e sostenitore di Ludwig von Mises.

Nel suo primo articolo, Platons Staat und die Gegenwart (1919), Coudenhove-Kalergi, esprimeva la sua ammirazione per il progetto platonico di una società guidata da un’oligarchia di esperti (una tecnocrazia).

In seguito divenne fautore di un progetto di riforma politica dall’alto che prevedeva: (a) il superamento dello stato-nazione, principale responsabile dell’abolizione dell’aristocrazia; (b) la concentrazione del potere nelle mani di intrecci di poteri privati; (c) la restaurazione di una società aristocratica capace di sposare la tradizione con la volontà di potenza di stampo nietzscheano (Gusejnova 2012).

Ottone/Otto, suo amico e discepolo, proseguirà questo stesso progetto, guarnendolo con una generosa spolverata di neoliberismo, acquistata all’ingrosso della Mont Pelerin Society.

Nel suo intervento, Ottone descriveva la Mont Pelerin Society, di cui fece parte, come un’organizzazione quasi decisiva per le sorti del mondo. È un centro studi della destra liberista neoconservatrice – quella, per intenderci, di Reagan, Pinochet, Thatcher, Bush padre e figlio, Sarah Palin, del laissez-faire darwinista sociale, nemica delle campagne per i diritti civili e contraria alle proteste contro le guerre. Estremamente ostile alle politiche economiche espansive di F.D. Roosevelt e di Charles De Gaulle.

Molti dei suoi membri partecipavano anche alle iniziative di Paneuropa, l’associazione presieduta da Ottone d’Asburgo, che caldeggiava il sorgere di un’Europa delle Regioni che smantellasse gli stati.

Non è per un accidente del caso che l’Istituto von Mises sia stato inaugurato nello stato più razzista e reazionario degli Stati Uniti, l’Alabama: come detto, i neoliberisti, salvo rare eccezioni, simpatizzano per i Confederati, ossia per i difensori della schiavitù, della supremazia bianca, del latifondismo, del patriarcato, di una società castale ed iper-competitiva, ma priva di qualunque rete di salvataggio e pezza di appoggio per chi non ce la fa (Mirowski/Plehwe 2009).

La partecipazione alle riunioni della Mont Pelerin Society, ricordava quel giorno del 1999 “mi fornì quelle conoscenze economiche di base che sono indispensabili per cominciare una carriera politica”.

Osservava come nella metropolitana di Vienna la vista di un nero fosse diventata una cosa normale, ma aggiungeva che ciò avrebbe creato enormi problemi, tensioni internazionali di incredibile gravità.

Per porre rimedio alla crescente confusione del mondo, concludeva il suo intervento auspicando più democrazia diretta, elezione diretta dei capi di stato, la frammentazione del mondo in piccole comunità, perché la libertà è meglio protetta in piccole entità. “Le grandi federazioni del futuro saranno grandi condomini con tanti piani e tanti appartamenti”, annunciava profetico, “solo così sarà possibile togliere di mezzo tremendi dittatori come Slobodan Milosevic e Saddam Hussein e ristabilire la pace nel mondo”.

Il pensiero politico ed economico di Ottone d’Asburgo armonizza perfettamente i due filoni della destra, che hanno l’obiettivo comune di prendersi una rivincita sulla Rivoluzione Francese, sul socialismo e sul costituzionalismo repubblicano (Luverà 1999; Caramani/Mény 2005; Salzborn, 2005).

Paneuropa, nel corso degli anni, si è così riproposta di realizzare l’unità del mondo cristiano europeo (1953); ha ammonito che “se la cristianità dovesse scomparire dal continente, l’Europa morirebbe a sua volta, perché non è la Croce ad aver bisogno dell’Europa, ma l’Europa ad aver bisogno della Croce” (1976); ha ribadito che la cristianità è l’anima d’Europa (1980); si è incaricata, dagli anni Novanta in poi, di portare avanti la ri-evangelizzazione del continente (Neuevangelisierung).

Ottone d’Asburgo, integralista cattolico, legato agli ambienti oligarchici ed etnonazionalistici più reazionari è stato commemorato per 13 giorni in Austria e per una settimana sul Dolomiten, come se fosse morto un imperatore ed un padre dell’Europa futura. L’Europa futura di Ottone d’Asburgo sembra però piuttosto una proiezione delle fantasie di chi vorrebbe riesumare un passato che non vuole passare, in cui le élite governano le masse senza incontrare resistenze, il cattolicesimo funge da collante e disinnesca le tensioni causate dalle disparità sociali e dall’autoritarismo, le gerarchie tra i popoli, le classi, le razze, le culture, i sessi sono stabilite una volta per tutte, inamovibili. È un mondo patriarcale, vetero-testamentario, sessista, omofobo, anti-democratico, xenofobo, al servizio dei grandi poteri privati, omologante in cui l’utile giustifica quasi ogni mezzo. Ma tutto questo viene mascherato da un ossequio di facciata al multilinguismo, ai diritti fondamentali (dei popoli, non dei singoli), all’unificazione europea, al consociativismo come baluardo contro la tirannia dei mercati, all’universalismo cattolico (che però esclude la pari dignità dei non-cattolici).

Nel 2000, al parlamento della Repubblica Ceca, il figlio di Ottone, Carlo (Karl von Habsburg), studioso del conservatorismo di Edmund Burke – uno dei massimi oppositori della rivoluzione francese e del carattere liberal-progressista di quella americana – ha pronunciato un peana per il suo mentore Russell Kirk, uno studioso che, negli Stati Uniti, incarna la quintessenza del pensiero conservatore. Reaganiano indomabile, è l’autore di “The Conservative Mind: From Burke to Santayana” (1953), in cui riassume i valori fondativi della mentalità contro-rivoluzionaria ed anti-illuminista. Per questi ideologi il mondo non è stato creato accidentalmente, ma con un fine preciso, provvidenziale. Lo stesso vale per la struttura della società. Il riformismo sociale è contrario alla volontà divina (o della natura) ed è destinato a fallire perché la nostra comprensione è limitata. Ogni cambiamento dovrebbe essere modulato in modo tale da limitarne gli effetti sociali. La società è governata da un’aristocrazia naturale composta dagli individui migliori e più potenti. L’unico diritto naturale è quello della proprietà privata. La democrazia minaccia la proprietà privata attribuendo poteri al volgo. Istinti e pregiudizi hanno una funzione importante e debbono guidare il comportamento umano: infatti una persona può anche essere stolta, ma la specie è saggia. Ne consegue che la tradizione non può e non deve essere sovvertita da un gruppo di riformisti.

Karl ha avuto come precettore Thomas Chaimowicz (Università di Salisburgo e Istituto Internazionale di Studi Europei “Antonio Rosmini” di Bolzano), un cosiddetto paleo-conservatore (persino Kirk definisce “arcaica” la sua visione del conservatorismo), amico personale e consigliere di Ottone d’Asburgo, al quale si rivolgeva chiamandolo, pure lui, “imperatore”.

Michl Ebner, al centro di un importante conflitto di interessi in Alto Adige, è un neoliberista fautore di un’Europa che superi la forma organizzativa degli stati-nazione e che si componga di regioni con un profilo etnolinguistico fortemente radicato (intervista al “Cristallo”, LIII 1, 2011).

La festa di compleanno per i suoi 60 anni e per i 40 anni di attività all’Athesia si è svolta nientemeno che nell’abbazia di Stams, in Austria, legata alla figura del suo fondatore, il conte Mainardo II, considerato il progenitore della nazione tirolese. Centinaia di invitati, due ore circa di liturgia solenne celebrata dall’abate stesso, alla presenza delle élite di Tirolo, Trentino, Slovenia, Croazia e di politici giunti direttamente da  Roma, Vienna e Bruxelles. Un’aristocratica pomposità auto-celebrativa che non si vedeva dai tempi dell’impero asburgico o, meglio ancora, da quello carolingio, in un luogo che fu impiegato dai nazisti per accogliere gli optanti sudtirolesi per il Reich.

C’è la speranza che queste ritualità non siano in alcun modo collegate ad un eventuale progetto di restaurazione di un ente sovranazionale, nato sulle ceneri dell’Unione Europea. Una sorta di impero multinazionale (multi-comunitario), federalista, regionalista e, soprattutto, cristiano, sul modello asburgico, ma anche carolingio, però declinato secondo le sensibilità contemporanee: la famosa terza via tra l’imperialismo mercantile ed il nazionalismo.

http://www.diploweb.com/La-fin-de-l-Etat-Nation-Surprise.html

È un’idea che circola da tempo negli ambienti politologici della cosiddetta Nuova Destra ed è stata elaborata, tra gli altri, da Alain de Benoist, Franco Cardini, Guy Héraud e Ottone d’Asburgo.

L’europarlamentare Biagio De Giovanni, nell’apprendere i contorni di questo progetto dei democristiani tedeschi, denunciò nel corso del dibattito svoltosi a Strasburgo il 28 settembre 1994 la forzatura che si stava programmando di mettere in atto:

L’Europa unita non può nascere dall’interno dell’egemonia di un direttorio politico o di un imperialismo federativo. Si tratta di una forzatura politico-culturale che va contro il Trattato di Maastricht, si tratta dell’affermazione di un’Europa carolingia che registra i rapporti di forza e li stabilizza così come sono, rafforzandoli anche per il futuro secondo una progressione geometrica”.

Un paio di anni dopo, in occasione di una conferenza tenuta a Praga nel gennaio del 1996 (l’intervento era intitolato “La NATO in Jugoslavia. Perché?” ed è facilmente reperibile in rete) Sean Gervasi, già consulente economico nell’amministrazione Kennedy – rassegnò le sue dimissioni in segno di protesta per la disastrosa tentata invasione di Cuba del 1961 – e docente alla London School of Economics ed all’Università di Parigi-Vincennes,  nonché  Consulente del Comitato delle Nazioni Unite sull’Apartheid, prefigurò precisamente il tipo di evoluzione del progetto europeo paventato da De Giovanni:

Il centro sarà la regione più sviluppata da tutti i punti di vista: sarà la più avanzata tecnologicamente e la più ricca; avrà i livelli salariali più alti e i redditi pro capite maggiori; si dedicherà esclusivamente alle attività economiche più profittevoli, quelle che la pongono in posizione di comando del sistema. La Germania si occuperà perciò di pianificazione industriale, progettazione, sviluppo tecnologico, ecc., di tutte le attività insomma di programmazione e coordinamento dell’economia delle altre regioni. Via via che ci si allontana dal centro, i vari cerchi concentrici avranno livelli di sviluppo, ricchezza e redditi più bassi. […]. La Germania dunque, coll’appoggio degli Stati Uniti, punta a una razionalizzazione capitalista di tutta l’economia europea intorno a un potente nucleo tedesco. La crescita e gli alti livelli di ricchezza del nucleo devono essere sostenuti dalle attività subordinate della periferia. La periferia deve produrre generi alimentari, materie prime e prodotti industriali per l’esportazione verso il nucleo e i mercati d’oltremare.…Gran parte dell’Europa orientale e dell’ex Unione Sovietica è dunque destinata a rimanere un’area permanentemente arretrata o relativamente sottosviluppata. Realizzare la nuova divisione del lavoro in Europa significa vincolare per sempre queste regioni a una condizione di arretratezza economica”.

La crisi dell’eurozona ha reso molto più concreta questa prospettiva, che Lucio Caracciolo (Caracciolo 2010, p. 56) ha condannato senza appello:

Questa forse è la peggiore delle derive della tecnocrazia, che tendendo a esautorare la politica riporta in auge gli stereotipi culturali. Come se vi fossero Paesi geneticamente dediti a spendere e spandere, e altri Paesi costitutivamente dediti alla virtù. In ogni stereotipo, come in ogni leggenda, c’è una base di verità. Farne però la regola immutabile, il destino di un popolo, è la fine della politica. Nel caso dell’euro, concepire come hanno fatto e tendono di nuovo a fare i tedeschi, un Euronucleo di Paesi automaticamente virtuosi, è un modo di ragionare antipolitico. Una sorta di etnomonetarismo. Trascurando..che la stessa Germania, oltre naturalmente alla Francia, ha allegramente deviato dalle presunte virtù e dalle regole scritte in più di un’ occasione. E dimenticando che gli altri europei hanno pagato un prezzo molto alto per l’unificazione tedesca, contribuendo allo sforzo di Berlino volto a riempire il buco nero della Rdt con enormi trasferimenti finanziari, dai risultati peraltro discutibili. E purtroppo questo etnomonetarismo si sposa con analoghe tendenze interne agli Stati membri. Penso anzitutto al Belgio, ma anche all’Italia, alla propaganda leghista sull’inconciliabilità fra Nord e Sud.

Un piano di ingegneria istituzionale su scala continentale che non si discosta da quello già rifiutato da Luigi Einaudi circa un secolo fa perché “[una tale federazione] avrebbe corso il rischio di essere dominata dalla Germania e in tal modo si sarebbe riproposto lo schema di una Mitteleuropea sotto l’egemonia tedesca, che era il progetto di tanti intellettuali e politici degli Imperi Centrali” (cit. Cressati, 1990, p. 27).