La pace per gli Irochesi e per i Fanes (Dolomiti)

Non riconoscendo l’altro come altro, per respingerlo nell’insignificanza o per dominarlo o assimilarlo, l’uomo ha inibito la propria crescita, ha sacralizzato la propria parzialità

Ernesto Balducci, “La terra del tramonto”

A questa brama d’integrità, che ci prende nel momento in cui ci imbattiamo in ciò che ci manca e ci mette di fronte alla nostra imperfezione, diamo il nome di eros, amore…due parti, due parzialità o incompletezze, che si cercano per combaciare e congiungersi in totalità e completezza.

Gustavo Zagrebelsky, “Simboli al potere”

L’idea della congiunzione degli opposti – la coincidentia oppositorum che accomuna tanto il pensiero di Jung quanto quello di Eliade alla tradizione orientale e al pensiero mistico – non solo anima una più vasta concezione dell’essere umano in quanto unità psico-soma e unità microcosmo-macrocosmo ma diventa anche uno dei motivi che ritornano con forza all’interno della cultura del Novecento, sia come forza di un archetipo che si impone autonomamente, sia come fascinazione di un’idea che permette di riscoprire e attivare l’archetipo operante in ogni individuo.

Aldo Carotenuto, “Jung e la cultura del XX secolo”

Tutte le culture mitologiche testimoniano un particolare interesse per il fenomeno dei gemelli, qualunque sia la forma sotto la quale vengono descritti: perfettamente simmetrici oppure uno scuro e l’altro luminoso, l’uno teso verso il cielo e l’altro verso la terra, l’uno bianco e l’altro nero. Nella mitologia celtica sono il giorno e la notte, il sole e la luna e rappresentano le tensioni interne dell’uomo, l’ambivalenza dell’universo mitico e le tensioni per adeguarvisi.  […] la paura per i gemelli è la paura…dell’immagine esteriore della propria ambivalenza, la paura della oggettivazione, delle analogie e delle differenze, della individuazione e della indifferenziazione collettiva. Dolasilla e Lujanta, le due gemelle dei Fanes, sono il sole e la luna. Il loro contrasto viene risolto con l’allontanamento di Lujanta, la gemella lunare, rapida dalle marmotte. Dolasilla, la gemella solare, assurgerà invece alla regalità e alla guida del popolo. […]. Tutto il poema è un connubio tra sacralità e violenza, come presupposto della rotazione universale. […]. Il tempo ciclico viene rappresentato, nel racconto, dalla ritualità: l’anno vecchio e l’anno nuovo, l’estate e l’inverno, la pioggia e la siccità, i re e le regine, il bene e il male, si scontrano in battaglie che simboleggiano il loro avvicendarsi.

Brunamaria Dal Lago, “Il regno dei Fanes: racconto epico delle Dolomiti”

Sappiamo che le armi, in un mondo civile, non possono servire ad altro che a difendersi e che la forza è legittima solo se viene impiegata in conformità con il diritto e come ultimo ricorso. Lo sappiamo e ce lo continuiamo a ripetere ma, ogni due, tre anni spunta fuori una nuova guerra aggressiva ma “giusta” in qualche angolo del mondo a cui partecipare. Sono pochissimi quelli che ritengono che la schiavitù sia meglio della libertà e la guerra meglio della pace, ma la guerra e l’asservimento continuano ad esistere. Il nostro mondo ha già visto e subito abbastanza spargimenti di sangue, violenza e morte, eppure continuiamo a razionalizzarli come necessari. Siamo afflitti da una naturale predilezione per il conflitto e, più in genere, da gravi problemi relazionali. La nostra società è un incessante conflitto di ego singoli e collettivi (patrie, nazioni, razze, fedi, classi, generi, ecc.). La guerra è solo la condizione più estrema di questa nevrosi sociale che ci rende più agevole minacciare qualcuno, piuttosto che articolare delle parole gentili. Molti tra quelli che hanno provato ad indicarci la via sono stati uccisi: Rabin, Arafat, Martin Luther King, John Fitzgerald Kennedy, Robert Kennedy, Aldo Moro, Benazir Bhutto, Dag Hammarskjöld, Olof Palme. I quattro evangelisti canonici e Platone riferiscono che anche Gesù e Socrate sono stati messi a morte.

 Gli operatori di pace devono fronteggiare ostacoli a dir poco monumentali, che non possono essere ridotti alla semplice constatazione che l’umanità è egoista, aggressiva, competitiva e violenta.

Penso sia vano cercare di pacificare il mondo. Solo una tirannia globale ci riuscirebbe, sopprimendo chimicamente le emozioni umane, ossia ciò che ci rende speciali e degni di esistere e che rende la vita stessa degna di essere vissuta. Sono invece convinto che sia decisamente molto più realistico provvedere a fare in modo che le guerre si diradino, eleggendo i politici migliori, facendo buona informazione e sorvegliando l’operato delle oligarchie. Possiamo anche realisticamente mantenere una pace stabile in un’area più limitata, come la nostra regione alpina. Sono convinto che l’autogoverno locale rende più agevole la transizione verso un mondo in cui sia possibile, per citare JFK, “ritrarsi dall’ombra della guerra e cercare la via della pace”. Una ricerca infinita.

La problematica del potere, prima ancora che quella della natura umana, deve essere collocata al centro dell’analisi della guerra. Che si tratti di democrazie o di società autoritarie, è il potere centrale che decide delle sorti di una nazione e solo una cittadinanza consapevole, informata ed attiva – ossia che eserciti la sua sovranità costituzionalmente sancita, limitando l’autorità dei governanti – è in grado di indirizzare il paese verso la pace, in luogo della guerra. Nelle piccole comunità nessuno accumula così tanto potere da essere nella posizione di decidere autonomamente ed arbitrariamente se scatenare una guerra. Serve un vasto consenso che viene immediatamente sondato tramite un’assemblea straordinaria. Un leader guerrafondaio può essere rimosso (o addirittura soppresso). Nelle nazioni più grandi, invece, un governo può entrare in guerra senza chiedere il parere del parlamento ed ignorando le manifestazioni di protesta di milioni di cittadini (es. guerra in Iraq). Diceva, saggiamente, Hermann Göring (un mostro, ma con un cervello fuori del comune):

 “È ovvio che la gente non vuole la guerra. Perché mai un povero contadino dovrebbe voler rischiare la pelle in guerra, quando il vantaggio maggiore che può trarne è quello di tornare a casa tutto intero? Ma sono i capi che decidono la politica dei vari stati ed è sempre facile trascinarsi dietro il popolo. Basta dirgli che sta per essere attaccato e accusare i pacifisti di essere privi di spirito patriottico e di voler esporre il proprio paese al pericolo. Funziona sempre, in qualsiasi paese”.

Quel che ci manca è la conoscenza. Purtroppo siamo anche ignoranti e le persone ignoranti istituiscono sistemi sociali ignoranti perché è così che credono di dover operare. Le persone ignoranti eleggono politici inadatti al compito, si fidano ingenuamente delle autorità e non distinguono la propaganda dall’informazione legittima, convinte come sono che solo l’altra fazione mente e che loro stanno dalla parte del bene e della verità.

Il Grande Pacificatore era un disseminatore di conoscenza.

Un’epopea irochese narra di un Grande Pacificatore (Hiawatha) che arreca gaiwoh (equanimità, virtuosità), skenon (salute) e gashasdenshaa (forza, sovranità). Gaiwoh è la giustizia realizzata tra uomini e nazioni ma è anche l’aspirazione a vedere che la giustizia prevalga. È un desiderio più forte del piacere e del bisogno di avere ragione: è un tipo di amore. Skenon è chiarezza di intendimento e integrità fisica, due precondizioni per l’ottenimento della vera pace. Gashasdenshaa è l’autorità sostenuta dalla forza necessaria, una forza che dev’essere in armonia con le leggi universali. La società ideale è quella della casa comune in cui ciascuno ha il suo focolare, ma si convive sotto lo stesso tetto. Là il pensare rimpiazza l’uccidere.

Il Grande Pacificatore deve affrontare Atotarho, un capo malvagio ed antropofago, per convertirlo. Atotarho è come un ciclope – mangia gli ospiti che non sono stati invitati – ed assomiglia anche a Medusa: i suoi capelli sono un groviglio di serpenti e nessun uomo è in grado di guardarlo in faccia. Il suono della sua voce terrorizza l’intera regione. Ma senza di lui non si potrà assicurare la pace. Il Grande Pacificatore ce la fa con un trucco. Fa in modo che il suo volto si rifletta nell’acqua di un pentolone in cui il cattivo sta per preparare il suo pasto umano, cosicché Atotarho scambi il suo volto – saggio, forte e virtuoso – per il proprio e si renda conto della dissonanza tra un tale aspetto e la pratica del cannibalismo, ossia il culmine dell’egocentrismo, l’assimilazione integrale dell’altro da sé. Scioccato, Atotarho cade in depressione, ma il Grande Pacificatore lo aiuta: lo invita a seguirlo in ogni luogo in cui abbia commesso del male per predicare il nuovo verbo della pace come potere (Kayanerenhkowa). La chiave della conversione è la volontà di non imporre la verità o la spiritualità su chi non è pronto a riceverla. Atotarho diventa a sua volta un grande operatore di pace proprio in virtù della grandezza della sua forza interiore, che prima lo rendeva così malvagio e terrificante. Viene “sconfitto” e si converte quando in lui si risveglia la consapevolezza del potere dell’amore e della sapienza che è in lui. All’intensità della sua resistenza – non vuole sentire ragioni, non sono gli argomenti a persuaderlo – corrisponde l’intensità della sua bontà. In questa tradizione irochese il male degli uomini è bontà malindirizzata e malconcepita, malintesa, è amore che opera spinto da una paura sbagliata, uno sforzo equivocato nei mezzi e nelle finalità, uno spirito aggiogato ad un padrone disperato, energia umana sprecata, guastata e deviata dal suo corso migliore.

I popoli che gli Europei hanno considerato incivili intendevano la pace in modo molto diverso dal nostro, che corrisponde da vicino alla quiete che segue la vittoria di una fazione sull’altra. La loro pace era dinamica ed includeva tutte le forze della vita, nella natura e nell’uomo, compreso quello che chiamiamo “male”. Era una concezione inclusiva, non esclusiva: lotta, sofferenza, dolore, errori e stoltezze, passione, tenerezza, rabbia e sconfitta. Persino la guerra era inclusa nell’idea di pace, una guerra condotta in un certo modo e con certe motivazioni. L’assolutismo pacifista era completamente estraneo alla loro mentalità ed è un’invenzione della modernità occidentale. Vivere in pace significava accogliere la vita in tutti i suoi aspetti, le quattro direzioni cardinali, tutte le creature. Il contrario di questo significato della pace e della giustizia è quello che divide e separa le parti della realtà e le mantiene distinte, un moralismo che sminuisce l’interconnessione, l’interdipendenza della vita. Ci sono cose che vanno distrutte e persone che vanno uccise (es. Hitler/Stalin), ma non certo per plasmare il cosmo a nostro piacimento, bensì unicamente perché il cosmo si ricostituisca, per conto suo.

Gli antropologi hanno spesso notato che le comunità dei popoli “tradizionali” erano spesse bipartite in una metà bassa ed una alta, Terra e Cielo, estate e inverno, pace e guerra, femminile e maschile, legate da rapporti al tempo stesso di rivalità e di cooperazione ed accompagnate da una gestione duale dei poteri da parte di un capo civile e di uno religioso. Nell’ambito mitologico la bipartizione trova riscontro nel mito delle origini, che assegna a due eroi culturali, talora gemelli o comunque fratelli, il merito di aver fondato la comunità, mentre, nella concezione dell’universo, alla bipartizione del gruppo sociale corrisponde quella del resto dell’universo degli esseri e delle cose dell’universo, distinti ed aggregati per accoppiamento di opposti: Rosso e Bianco, Chiaro e Scuro, Giorno e Notte, Nord e Sud, Est ed Ovest, Cielo e Terra. Questo stesso aspetto è evidente anche in Cina, dove la polarizzazione yin-yang, che si manifesta già nelle realizzazioni artistiche di epoca shang, mostra la tensione verso una coincidentia oppositorum, una congiunzione che risulta evidente nell’iconografia che mostra gufi con occhi solari ed emblemi della luce adornati con simboli della notte e dell’oscurità, in modo da rappresentare la ciclicità del processo di alternanza tra le due manifestazioni cosmiche complementari.

In Grecia abbiamo Dioniso e Apollo, che varie raffigurazioni ritraggono come androgini. Lo spirito apollineo è razionale, formale, luminoso ed armonico, all’insegna misura e proporzione. Lo spirito dionisiaco è estatico, creativo, oscuro, all’insegna della passione sensuale. Eros e Thanatos, l’impulso creativo e l’impulso entropico/distruttivo (anche autodistruttivo). Empedocle insegnava che l’universo è in costante metamorfosi, si genera e decade, grazie a Amore e Discordia/Odio, che operano in tutto ciò che è animato e in tutto ciò che è inanimato. Eros unisce tutte le forme di vita e Thanatos le separa e le disperde. Composizione e decomposizione sono forze di eguale intensità, eterne e mescolate in ugual misura in tutte le cose, in un’interazione necessaria.

Gesù il Cristo è un maestro delle contraddizioni, delle antinomie. Esaminiamo alcune delle sue parabole. Buon Samaritano: il “degenerato” è un giusto, il “giusto” è un degenerato. Vignaioli: i primi saranno gli ultimi, gli ultimi saranno i primi. Figliol Prodigo: il ribelle è festeggiato, l’obbediente si ribella. L’esattore delle tasse e i farisei: il peccatore è salvato, il salvato è peccatore. Il seminatore: l’abbondanza di semi non garantisce una buona mietitura, pochi semi possono dare buoni frutti. Giudizio Finale: chi sembra celebrare il Cristo è invece servo dell’Anti-Cristo e chi è perseguitato è invece il vero credente. La pecora perduta: quella persa vale più delle 99 salvate.

Analogamente, il vangelo greco degli Egiziani, che è databile tra la fine del I secolo e la metà del secondo secolo a.C., descrive il modo in cui sarà possibile avere accesso al Regno di Dio: “quando quei due (maschio e femmina) saranno uno solo, nell’esterno come nell’interno, e il maschio con la femmina non sarà né maschio né femmina”. La Seconda lettera di Clemente recita: “interrogato da qualcuno su quando verrà il Regno, il Signore stesso rispose: “quando i due saranno uno, il fuori come il dentro e il maschio con la femmina né maschio né femmina”.

Anche nei vangeli canonici la riconciliazione degli opposti è implicita nella risposta di Gesù agli apostoli che gli chiedono cosa si debba fare per assicurarsi un posto nel Regno dei Cieli: “Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli”. (Matteo 18, 2-4). Come pure negli effetti della gloria: “E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; io in loro, e tu in me; acciocché siano perfetti nell’unità” (Giovanni, 17:22-23). Paolo di Tarso esprime una posizione assolutamente conforme: “Non c’è qui né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina; poiché voi tutti siete uno in Cristo Gesù” (Galati 3, 28). Che riafferma in una diversa epistola (Colossesi, 3, 8-11): “Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca. Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti”.

La contrapposizione tra creazione/entropia, ordine/caos, spirito/materia, coscienza/sonno, forza centrifuga/forza centripeta, libertà/controllo è necessaria e bilanciata. Ibn al-Arabi insegna che l’imperfezione deve esistere perché, se non ci fosse, la perfezione dell’esistenza sarebbe imperfetta; se non ci fosse mancanza, non ci sarebbe creazione. Non c’è luce senza oscurità, non c’è verità senza errore, non c’è bianco senza nero. Un’interdipendenza immortalata dalla mitologia mondiale che parla di due gemelli, uno buono ed uno malvagio– lo si trova tra i cristiani ebioniti, in Lattanzio (il “Cicerone cristiano”), nella Cabala, in Jacob Boehme, tra i nativi americani, nei simboli zodiacali dei pesci e dei gemelli: Baldur e Loki, Osiride e Set, Enki ed Enlil, Apollo e Dioniso e così via.

L’epica dei Fanes, riesumata dalla memoria storica ladina e pubblicata da Brunamaria Dal Lago Veneri, offre ulteriori spunti relativi al motivo della riconciliazione degli opposti. Il giornalista e scrittore Enrico Groppali, nella sua introduzione, sottolinea (p. 6) che “il poema si fonda sul principio-cardine della specularità, se non addirittura della gemellarità…Così la regina partorisce due gemelle: Lujanta, luminosa come la luna, che sprofonderà nel regno sotterraneo delle Marmotte, e Dolasilla, incarnazione araldica del sole, che sarà destinata alla lotta, alla sopraffazione, alla conquista…le forze del bene sono parafrasate in un guerriero che si chiama “Ey de Net” (occhio della notte) perché è in grado di scorgere, attraverso le tenebre, la luce della coscienza”.

La strega Tcicuta, una specie di Circe, avverte l’eroe Duranno (Dal Lago Veneri, 1989, p. 62): “La tua Dolasilla ha avuto già più volte i suoi ammonimenti, ma non pare farci caso. Lei, figlia delle marmotte, si è fatta aquila. Camminerà e inciamperà sulla via del potere, invece di scegliere la via dell’amore. E tu, da principe, ti farai servo. Anche questo era stato detto”. Il campo di papaveri intona allora un mesto canto: “Che guerriero sei tu mai? Diventerai quello che desideri. Solo un portatore di scudo e servirai la tua dea fino alla sua morte”. Duranno è un eroe che sa mettersi al servizio del prossimo, un vero altruista, qualcuno che si sente indebitato, non creditore nei confronti del mondo, qualcuno che sa che il miglior servizio per se stessi è quello di servire gli altri e che se tutti facessero così la violenza si sopirebbe e la pace regnerebbe. Si fa “donna” (umile portascudo), mentre la sua donna si fa “uomo”, glorioso eroe guerriero. Dolasilla sa bene che la sua parabola sarebbe coincisa con quella del Regno dei Fanes: alla sua maggior gloria sarebbe succeduta la rovina e la morte. Se ne duole (p. 78): “sono fra le donne la più sfortunata. Vivo da uomo, questo è il mio destino, vado in guerra da guerriera e porto morte invece di aiuto”. Il re traditore, intossicato dalla brama di possesso insoddisfatta, dalla sua hybris, si sfoga con guerre di conquista, ma scopre che il momento del suo trionfo coincide con quello della sua rovina. Lo aveva previsto la strega Tcicuta. Il Regno dei Fanes era spacciato, il suo imperialismo lo aveva condannato all’oblio. Il suo futuro non era più aperto, era già scritto: i possibili scenari alternativi si erano ridotti ad uno solo, la distruzione.

Tcicuta spiega a Duranno/Ey de Net: “non lasciarti ingannare nobile Duranno, il regno dei Fanes è condannato e tu niente potrai fare per salvarlo. Le parole sono state pronunciate. Il re desidera solo il potere e per lui è troppo tardi”. Infatti, dopo la vittoria, i suoi alleati, nemici dei Fanes, lo irridono: “Re senza trono, falso re, non possiedi più né terre, né corona. Tua figlia splendida eroina, hai mandato a morte con l’inganno”. La sua sorte è quella di essere impietrito, nell’angoscia, ma anche fisicamente: il suo corpo si tramuta in pietra: “Il falso rege, il re straniero, è condannato alla pietrificazione. Pietrificare significa punire per uno sguardo illecito. È la punizione dell’umana incontinenza e dei desideri di potere sul mondo della conoscenza. Il re è punito non solo per aver abbandonato i Fanes, ma soprattutto per aver desiderato l’Aurona”, spiega Dal Lago Veneri (pp. 94-95).

U’ulteriore manifestazione della tensione tra gli opposti è esemplificata dai nomi dei tre figli del re di Contrin, chiamati rispettivamente il Bello, il Grande e il Forte, anche se sono pigri, vigliacchi e libertini. Incapaci di difendere il regno, gli assalitori Trusani non ne lasciano pietra su pietra.

Un figlio adottivo del re di Contrin, Lidsanel, l’eletto che dovrà restaurare la grandezza dei Fanes, finisce per sgozzare l’altro figlio adottivo, petulante ed invidioso, e viene esiliato. Da principe si riduce alla condizione massimamente infima di brigante (p. 119): “La grandezza degli Arimanni s’è perduta: dal coraggio si è passati alla sfrontatezza. E gli Arimanni antichi sono occhi chiamati Latrones. Sulle vette oscure, nel buio le lingue di fiamma danzano ancora la danza della morte. Questi sono i gloriosi campi bagnati dal sangue della nostra gente. Tutto, tutto è ormai perduto”. L’ex principe viene ribattezzato Cafusc, Capo Fosco e si crede una sorta di Robin Hood: “Cafusc, Cafusc, così nero eppure bianco come l’onore appena nato. Cafusc disperde i nemici come il falco gli armenti, Cafusc uccide il re e dà da mangiare alle genti”. Ma diventa un incrocio tra Don Chisciotte, l’Orlando Furioso e un volgare vandalo. Preso da un insano furore, improvvisa duelli e tenzoni con gli alberi e gli animali del bosco: “Chi vi ha concesso, stolti, di sfidarmi nel mio stesso territorio”, grida furiosamente agli alberi. Poi insegue i cervi urlando: “voi barbari, nudi, rivestiti solo del vostro pelo, non sapete che sono un re difeso da mille guerrieri?”. Gli animali fuggono e Cafusc gli grida dietro: “che razza di principi siete se non conoscete che la fuga. Ognuno di voi mi dia un pegno – tu la mano, tu il piede”. Con queste terribili parole cavalca nei boschi, mutila animali e piante, istiga un suo immaginario seguito alla battaglia e alla vendetta: “Dietro di me, miei prodi, avanti nella battaglia, uccidiamo tutti”. Da salvatore designato dei Fanes a mostro psicopatico e dissennato.

Proprio la sua follia, però, lo riscatta. Salva un guerriero, Tarlui, dai suoi assalitori, convinti che sia davvero alla testa di un manipolo di seguaci. Il guerriero lo riconosce, si ricorda del suo destino e dice ai suoi pastori: “Abbiate fiducia in questo uomo. Anche se è stato bandito diverrà pastore, perché così è scritto” (p. 124). L’antica runa recitava: “Lidsanel Lidsanel da re ti sei fatto bandito e poi pastore di pecore cosa ancora riserverà il tuo destino?”.

Dal Lago Veneri descrive il guerriero Tarlui om Tyr: “signore delle battaglie, è nume tutelare della giusta vittoria. Non è il signore dello scontro sanguinario, della violenza esasperata, dell’efferatezza bellica, ma il protettore della guerra intesa come soluzione estrema della contesa fra due parti. Dio della guerra, dunque, ma anche dio del diritto” (p. 150). Tarlui, “amante più della falce che della spada”, è un guerriero di professione, ma diventa il fondatore di una comunità di pace e di giustizia. L’ennesima dimostrazione del fatto che “tutto il poema è un connubio tra sacralità e violenza, come presupposto della rotazione universale. […]. Il tempo ciclico viene rappresentato, nel racconto, dalla ritualità: l’anno vecchio e l’anno nuovo, l’estate e l’inverno, la pioggia e la siccità, i re e le regine, il bene e il male, si scontrano in battaglie che simboleggiano il loro avvicendarsi” (p. 154).

Esiste una diffusione planetaria e trans-temporale di riti e miti riguardanti la ricomposizione unitaria della coppia binaria, indice del riconoscimento universale dell’importanza del principio della coincidenza degli opposti. Apprendiamo che le parti sono in equilibrio, si incontrano e fondono agli estremi, due metà di un cerchio. Nel punto di congiunzione dei semicerchi si crea un perfetto equilibrio. Senza una metà non c’è l’altra, senza oscurità non c’è luce, in un grande ciclo naturale, che è pure pedagogico. Apprendiamo che l’equilibrio è naturale. Una parte della creazione procede verso lo squilibrio (che considera equilibrio) e l’altra verso l’equilibrio: assieme generano un equilibrio dinamico. Le forze opposte nella natura si incontrano ed il risultato può essere una polarizzazione in un senso o nell’altro, oppure si può raggiungere un equilibrio simmetrico, o un equilibrio parziale su un versante o sull’altro. Ogni potenziale si realizza nei punti di intersezione. Tutto è parte dell’equilibrio che compone ciò che chiamiamo Universo, o Creazione.

Non è che il bene e il male non esistono. Il Male è dolore e timore insensati, brutali, crudeli, futili perché irredimibili, lo spreco di vita, l’ingiustizia titanica, la rabbia sorda e violenta. Il punto è che sono interdipendenti. Ciò che è oggettivamente buono è la realtà nella sua interezza e ciò che è oggettivamente cattivo è la sua frammentazione. Ciò che alla mente ordinaria appare come opposizione, contrasto e contraddizione è un’unità trascendente, la riconciliazione dei contrari interconnessi, chiamata coincidentia oppositorum. Pace e giustizia discendono da tale comprensione. La vita è una relazione misteriosa ed intima tra forze opposte e la legge dovrebbe essere ciò che preserva questa relazione e, nel farlo, il dinamismo della vita. La Caduta è l’illusione che i contrari si escludono a vicenda.

Gli integralismi, i fanatismi diffondono l’idea che ci sia una parte della natura umana che deve essere distrutta, senza che sia possibile ricostituire l’unità fondamentale dell’essere. Questo male nasce proprio dalla scelta umana di escludere le forze del “male” dalla nostra vita e dalla nostra mente consapevole. Quando questo male viene isolato, cresce fino a distruggere un bene che, innaturalmente separato, è indifeso. Da qui scaturiscono il razzismo, il segregazionismo, la guerra sterminatrice, la pulizia etnica, il genocidio e tutto l’orrore di cui siamo capaci.

La pace non è dunque un qualcosa di passivo, non è assenza di conflitto, ma una forza che armonizza le azioni e gli impulsi della vita umana in tutte le loro molteplicità e contrasti. La forza che chiamiamo pace è, nell’universo e nell’individuo, una qualità della mente, un’energia cosciente. La pace fa da ponte tra due forze contrapposte. Il male è la forza che ostacola fatalmente l’azione della forza riconciliativa, la discesa della colomba, lo Spirito Santo, nella vita umana (Needleman, 2003). Satana deriva dall’ebraico satan che significa l’avversario. Il diavolo viene dal greco diabolos, “colui che divide” e significa l’accusatore, il diffamatore, il mentitore. Nella sua prima forma il demonio è uno strumento divino e serve delle sacre finalità. Per questo Gesù chiama Pietro “Satana” ma gli ordine di mettersi dietro di lui come discepolo – “va dietro a me, Satana”, in luogo di quella che è stata per lungo tempo l’errata traduzione “Lungi da me, satana!” (Matteo 16:23) –, quando Pietro dimostra di non aver capito il senso del suo messaggio. Che la Chiesa abbia scelto proprio “Satana” come suo fondatore è estremamente significativo.

Il gotha della letteratura, della filosofia e della religione mondiale – Blake, Jung, Goethe, Jacob Boehme, Meister Eckhart, Gesù, Paolo di Tarso, Socrate, Pitagora, Friedrich Schlegel, Shakespeare, Empedocle, taoismo, buddhismo, cabala, Honoré de Balzac, Ursula Le Guin, Victor Hugo, Heine, Emerson e molti altri – abbracciò questa cosmologia in cui il male è un tono discordante, una nota dissonante che arricchisce la sinfonia universale, in quanto il Grande Compositore sa come risolvere ogni dissonanza in una consonanza, ogni malevolenza e malefatta in armonia, per ispessire e conferire pregio alla trama dell’esistente. Nell’ambito terreno, personale, il senso di tutto questo è una filosofia dell’esistenza e della politica che non vuole costringere le persone a comportarsi in un dato modo, ma persuaderle gentilmente a migliorarsi con l’apprendimento, con la coltivazione delle facoltà intellettuali e spirituali per una partecipazione consapevole e critica alla vita propria e della comunità, smascherando menzogne e facendo evaporare illusioni. È la filosofia della libertà, non del rigore, e sta alla base della maieutica socratica, della predicazione di Gesù ma anche dell’idea di America (la maggior parte dei fondatori erano iniziati alla massoneria o, come è il caso di Jefferson, in stretti rapporti con massoni) e delle democrazie europee uscite dalla terribile esperienza del nazi-fascismo.

Non saranno gli hippies a cambiare il mondo – esaurita l’indignazione, è tempo di fare sul serio

di Stefano Fait

Victor Hugo, “I Miserabili” (Les Misérables)

Per il momento per quello che vediamo, anche in vertenze molto difficile, non vediamo elementi che ci possano ricondurre al clima violento degli anni Settanta. Ovviamente non ci auguriamo che tornino fenomeni di violenza e dobbiamo avere tutti la massima vigilanza. Vedo amarezza ed esasperazione crescente. Siamo contemporaneamente con livelli di disoccupazione che non ci ricordavamo da tempi infiniti, siamo con tanti lavoratori in cassa integrazione e con migliaia di esodati senza lavoro e senza pensioni. Non si vede un’iniziativa che crei un posto di lavoro che sia uno. È normale che i lavoratori pensino che ci sia un accanimento se in questa situazione si dice loro che alla crisi uniamo anche il fatto che licenziare sarà più facile. È sbagliato pensare di ridurre le tutele in questa stagione di crisi. Aver tolto la possibilità per il giudice di reintegrare i lavoratori significa togliere quell’effetto deterrente, che finora aveva impedito nel nostro Paese che il licenziamento diventasse uno strumento generalizzato nelle aziende. Certo c’è il rischio che la tensione salga, perché si continua nell’idea che si possa dividere il Paese.

Susanna Camusso, 25 marzo 2012

Nella prefazione all’edizione del 1944 di “Confidenze di Hitler”, di Hermann Rauschning, venuta alla luce clandestinamente a Padova, nella Repubblica di Salò, per i tipi de Il Torchio, l’anonimo traduttore, A.F., scriveva “ecco appunto una fondamentale diversità fra questa e le precedenti guerre: le crudeltà individuali, “illegali”, sono diminuite; quelle sistematiche, “legali”, di cui è responsabile un comando o un governo, sono immensamente aumentate. La violenza è organizzata, la crudeltà imposta, la rapina metodica, il terrore ufficiale (p. VII). Un po’ più oltre l’autore delinea un’interpretazione realistica – che trovo molto persuasiva – del principio di libertà: “chi invoca la libertà non è mosso da ottimismo ingenuo, ma da pacato pessimismo. Proprio la fredda constatazione che i moventi fondamentali delle umane azioni sono gli interessi e gli egoismi, porta a suggerire, come primo e fondamentale rimedio agli eccessi antisociali, il controllo esercitato da interessi e da egoismi diversi e opposti. E questo controllo funziona soltanto con la libertà di parola, di stampa, di riunione, di associazione, di sciopero. Non è, no, l’umanitarismo democratico che spinge a invocare la libertà; è invece il realismo critico che ritiene la libertà condizione indispensabile per quel necessario controllo”.

Infine, a coronamento di un ragionamento di particolare acutezza, il richiamo alla coincidentia oppositorum – una delle mie predilezioni: “esistono molecole, ioni, ormoni, apparati, che sono detti “antagonisti” non già perché esauriscano il loro compito in una dispendiosa lotta scambievole, ma perché agendo o reagendo in senso opposto a diversi stimoli, o anche a uno stesso stimolo, ottengono il mirabile risultato di mantenere un’alta sensibilità funzionale e uno stabile vicendevole equilibrio. Quando il benefico gioco degli antagonismi regolatori è interrotto per il prevalere di una sola parte, incominciano le manifestazioni morbose” (pp. IX-X).

Questi sono, per l’appunto, i tre fattori decisivi per la riuscita della rivoluzione che porrà fine al presente status quo e, ce lo auguriamo, ci condurrà in un Mondo Nuovo meno ipocrita ed iniquo di questo:

  1. la constatazione che la società in cui viviamo è così intrinsecamente corrotta da essere irriformabile. Chi detiene il potere al momento attuale non si farà MAI da parte e non è per nulla raccomandabile. Molto presto la maschera cadrà, il guanto di velluto sarà tolto e nessuno potrà più ignorare una realtà in cui “la violenza è organizzata, la crudeltà imposta, la rapina metodica, il terrore ufficiale”;
  2. l’idealismo degli indignati, convinti che la mera protesta prolungata farà cambiare atteggiamento a chi di dovere, è deleterio, futile e ottuso. La mitezza nei confronti della tracotanza e della violenza ha la stessa efficacia del belato di un agnellino nel tenere alla larga un branco di lupi. Arriva il momento in cui bisogna battersi per la libertà e la dignità: “Non è, no, l’umanitarismo democratico che spinge a invocare la libertà”;
  3. il conflitto, l’antagonismo sono l’anima della democrazia, quando non sono fini a se stessi. Quando però una parte, spinta da un’irrefrenabile hybris, decide di monopolizzare ogni forma di potere e risorsa, lasciando le briciole all’altra (1% vs. 99%), “il benefico gioco degli antagonismi regolatori è interrotto per il prevalere di una sola parte e incominciano le manifestazioni morbose” (cf. la psicopatia che sociopatizza l’intera società). A quel punto, è dovere di ciascuno di noi ristabilire l’equilibrio tra le forze contrarie, per il bene di chi verrà dopo di noi.

Chi mi segue da tempo sa che sono contrario alla violenza che non sia per autodifesa (e per difendere gli innocenti inermi). Ho sempre perorato la causa dello sciopero generale e continuerò a farlo, perché il Mondo Nuovo che ho in mente dovrà essere molto meno iniquo di questo, molto meno egoista di questo, molto meno avido di questo e perciò molto meno violento di questo. Purtroppo le mie analisi mi hanno portato a concludere che la rivoluzione ci sarà in ogni caso, che mi/ci piaccia o no (e io vorrei tanto che non ci fosse, perché la considero una sconfitta), perché chi comanda non cerca il dialogo, la negoziazione e il compromesso. Vorrei tanto che non fosse così, ma la situazione è a dir poco terribile. Ho appena sentito al notiziario radio che gli Italiani hanno cominciato a rubare frutta e verdura dai campi e dagli orti!! Quanto più in basso di così dovremo finire, ancora?

Fatta questa premessa, è necessario esaminare le cause della sconfitta degli indignati/indignados/occupanti e provare a mostrare come il loro fallimento possa dimostrarsi benefico per chi si è posto come obiettivo quello di contrastare e sconfiggere le politiche neoliberiste proposte come rimedio ad crisi globale causata da, guarda un po’, politiche neoliberiste (!).

Tra parentesi, l’indice del lavaggio del cervello che abbiamo subito è misurato da quel 20% di elettori del centrosinistra che colloca Monti, un neoliberista convinto ed orgoglio di esserlo, nell’area di centrosinistra (!!!). Di buono c’è che, molto probabilmente, 3 mesi fa erano molti di più.

La sconfitta del movimento di protesta globale è solo congiunturale ed è di buon auspicio.

Controllato da leader inetti o sabotatori, il movimento ha sprecato l’occasione di agganciarsi alla primavera araba ed ha rinviato il suo sbocco naturale: la Rivoluzione. “Naturale” solo perché viviamo in oligarchie, non democrazie. Una volta i potenti erano meno fessi, avidi ed egoisti di quelli attuali e sapevano mantenere un discreto equilibrio tra le forze, pur privilegiando la sommità della piramide.
Sia come sia, i semi dell’indignazione daranno frutti quest’anno, giacché la popolazione euro-americana (e non solo), estenuata dalle politiche di governi intenti a demolire lo stato sociale, prenderà in mano il testimone, ignorando bellamente le scemenze postmoderniste e neo-hippy di indignati ed occupanti. Il 2012 sarà, per l’appunto, l’anno della Rivoluzione, quella con la R maiuscola, in Egitto come in Europa, nel Nord America come in Asia:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/14/il-2012-e-lanno-della-rivoluzione-vi-spiego-perche/

Non ci sarà spazio per i fighettini di piazza Tahrir, gli inetti di Puerta del Sol e i seccatori di piazza Battisti (Trento).

Chi era presente alla manifestazione pro-autonomia del 10 marzo in piazza Battisti avrà constatato l’inciviltà di alcuni tra gli occupanti No-Tav, incapaci di intuire che usare un megafono per sovrastare le voci di chi interveniva, imponendo il loro messaggio, tra i fischi dei presenti, era una pugnalata alla schiena delle benemerite comunità della Val di Susa. Questi protestatari di professione non sembrano minimamente inclini a mettersi al servizio della comunità: sono troppo immacolati e melodrammaticamente eroici per volersi sporcare le mani. Le loro urla e le occupazioni sono autoreferenziate: l’unica comunità che potrebbero voler abitare è quella che rispecchi le loro convizioni e gratifichi il loro ego. Non credono nell’unità nella diversità, ossia nel pluralismo democratico: se potessero, farebbero in modo che la realtà e l’altrui percezione della realtà si conformasse ai loro desideri. Non paiono disposti ad adattare i propri desideri al dato reale ed alle esigenze delle persone che li circondano. Come Victor Hugo diceva di Robespierre: “hanno la forza della linea retta”.

In questo, non sono per nulla diversi dalle autorità che avversano.

Sono quelli che, con il loro assolutismo, fanno fallire ogni progetto di riforma della società ed ogni rivoluzione:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/14/se-incontrerete-questo-tipo-di-rivoluzionari-isolateli-sono-mortiferi/#axzz1od3sL7a5

Molti, tra gli indignati, hanno un profilo psicologico di questo tipo.

Tra i leader intellettuali del movimento degli occupanti (Occupy Wall Street – OWS) più nocivi, vorrei citare David Graeber e Slavoj Zizek, i due maggiori sabotatori del movimento di protesta contro gli eccessi del capitalismo monopolistico (ne approfitto per precisare che il capitalismo delle origini era un fattore di emancipazione: sono stati gli oligopolismi, ossia la deregulation, a trasformarlo in un meccanismo di asservimento).

Graeber è questo personaggio qui:

http://www.ilpost.it/2011/10/04/david-graeber-occupy-wall-street/

Io, come lui, sono convinto che l’anarchismo sia di gran lunga la migliore organizzazione sociale concepibile ma, a differenza sua, ho il buon senso di aver preso coscienza della sua INATTUABILITÀ in questo mondo.

La democrazia rappresentativa con robuste iniezioni di democrazia diretta, autonomismo, tutela dei beni comuni e cooperativismo è la migliore approssimazione possibile all’utopia anarchica. Il valore combinato di questi “additivi” deriva precisamente dalla loro capacità di mirare all’anarchismo senza perdere di vista la concretezza della natura e dell’esperienza umana.

Chiunque voglia realizzare l’anarchismo integrale in terra è un pirla e sarà causa di immensi patimenti per chi lo seguirà.

Chiunque intenda avviare una rivoluzione su basi anarchiche è un pirla al quadrato (vedi premessa).

Mi pare che il segreto di un movimento capace di realizzare un cambiamento autentico e non solo cosmetico stia nella capacità di tenersi alla larga da due estremi. Uno è quello dell’attesa messianica del leader carismatico/guru che ci guiderà verso un avvenire migliore: le pecore seguono i pastori, gli esseri umani dovrebbero agire coralmente, consapevolmente, responsabilmente, senza affidare le proprie sorti ad un deus ex machina.

Questo estremo è incarnato dal pensiero di Zizek, che oscilla tra il nichilismo ed il totalitarismo (classici compagni di merenda):

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/27/partigiani-del-terrore-sicari-della-rivoluzione-slavoj-zizek/#axzz1od3sL7a5

L’altro estremo è l’utopismo ingenuo, relativista e vacuo di Graeber, su cui non mi voglio soffermare.

Si deve tenere a mente che Occupy Wall Street non ha preso l’avvio a Wall Street ma in contemporanea con la primavera araba, a Madison, nel Wisconsin, uno stato governato da un politico repubblicano autoritario ed intenzionato a vincere un braccio di ferro con sindacati ed impiegati pubblici dello stato, uno scontro che lui stesso aveva reso inevitabile, con il suo tentativo di liberalizzare il “suo” stato, ossia di soggiogare sindacalisti e lavoratori. In piazza Tahrir si vedevano cartelli di solidarietà nei confronti della lotta di Madison ed un egiziano acquistò pizze da distribuire agli scioperanti. Sono i semi di una futura rivoluzione globale coordinata su internet.

Quel che è mancato, finora, è stato, appunto, il coordinamento, tra lavoratori, studenti, disoccupati e cittadini scontenti (es. ipertassazione per alcuni, dispense, agevolazioni ed elusioni fiscali per altri) o rovinati dalle speculazioni (es proprietari di case pignorate). È assai probabile che una guerra forgerebbe spontaneamente questo nesso e molto saldamente, forse indissolubilmente. Obama ha appena annunciato che la finestra per la diplomazia con l’Iran si sta chiudendo [è mai stata aperta? Dopo quello conferito a Kissinger, il Nobel per la Pace a Obama è il più ridicolo della storia: ormai lo potrebbe vincere anche Mugabe].

Invece di un coordinamento e di richieste concrete, c’è stata abbondanza di chiacchiere ed occupazioni piuttosto sterili, senza che il movimento se la sia sentita di incolpare il comandante della nave, Obama, di quel che sta accadendo. Se al posto di Obama ci fosse stato Bush avremmo già avuto barricate nelle strade di tutte le principali città americane. Se non è così è perché c’è ancora speranza nelle capacità e volontà di Obama di salvare capra e cavoli, sebbene molti abbiano preso coscienza del fatto che la sua amministrazione è pesantemente influenzata da collaboratori con un passato, anche recentissimo, alla solita Goldman Sachs, la stessa banca d’affari che ha dato fraudolentemente via libera all’ingresso della Grecia nell’eurozona ben sapendo cosa ciò avrebbe comportato nel giro di qualche anno.
In Spagna il fallimento è stata la diretta conseguenza della presenza al governo del “progressista” Zapatero e al timore di un’alternativa ultraconservatrice, se non neo-franchista. Un’ulteriore ragione è che la guida del movimento – intellettuali giovani e meno giovani – l’ha spinto in un avvitamento solipsistico e narcisistico fatto di eterne e vacue sedute assembleari che ricordano vagamente quelle dileggiate da Nanni Moretti. Molto fumo, poco arrosto: un po’ come Gandhi.

Soprattutto, si registra scarsissima attenzione alla tragica situazione delle altre categorie di cittadini – anziani, contadini, lavoratori, minoranze, ecc. – che, di conseguenza, non si sentono coinvolti e non rispondono con entusiasmo alle sollecitazioni di indignati ed occupanti.

Il problema è che se questo movimento, invece di evolvere imparando dai suoi errori, si spegne, ci sarà una fondata possibilità che la società americana, in special modo ma non esclusivamente quella, degeneri in senso autoritario. È emblematico l’esempio dell’Egitto e dei “fighetti di piazza Tahrir” che, non avendo neppure cercato di coinvolgere il resto della popolazione, hanno scacciato un autocrate per ritrovarsi con una giunta militare molto più oppressiva di Mubarak. È compito di tutti noi quello di assistere il movimento e, possibilmente, indirizzarlo verso sbocchi più trasformativi.

Finchè alla testa del movimento ci saranno teste d’uovo intossicate dalle loro fantasie egoistiche la gente resterà una massa informe, invece di organizzarsi per difendere la classe media e il restante 99%; prima o poi arriverà un incantatore a servire gli scopi dell’1%.

L’obiettivo di chi ha le idee piuttosto chiare su cosa sia necessario fare dev’essere quello di fare in modo che il movimento si espanda costantemente, adoperi la necessaria circospezione e formuli obiettivi chiari, ampiamente condivisibili, migliorativi, cioè a dire un’alternativa al sistema attuale. Se pensiamo a quanto indecente e fallimentare sia quest’ultimo, che ogni giorno che passa si scava la fossa con la vanga della sua superbia e incoscienza, non dovrebbe essere un compito al di sopra delle nostre possibilità.

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