Luigi Gallo e i luoghi comuni anti-immigrati

Luigi Gallo, assessore alla Partecipazione, al Personale e ai Lavori Pubblici del comune di Bolzano, ha saputo centrare il cuore del problema con un tempestivo intervento sull’Alto Adige (25 luglio 2012), in risposta ad una litania di luoghi comuni anti-immigrati contenuta in un paio di lettere inviate al quotidiano locale da alcuni lettori. Un commento che pone in risalto l’insufficienza del paradigma utilitaristico del calcolo costi-benefici in una società che fomenta le guerre tra i poveri per preservare uno status quo spaventosamente iniquo:

“Negli ultimi giorni sono state pubblicate due lettere di cittadini che avevano come tema la crisi, la povertà che avanza e i presunti privilegi degli immigrati. Non sono le prime e ormai non mi scandalizzo più, né giudico: ognuno guarda la realtà con gli strumenti che ha e dal punto di vista delle sue condizioni di vita materiale. Gli anatemi non servono a cambiare la percezione delle persone soprattutto in un’epoca di sofferenza economica. Tuttavia non si possono mai far passare luoghi comuni come verità acquisite. Massimo rispetto quindi per i due lettori in quanto cittadini ma anche massima chiarezza nel ribadire loro che i cittadini immigrati che ormai fanno parte della nostra società non hanno nessun privilegio rispetto ai cittadini italiani, nessuno. Anzi, subiscono ancora trattamenti differenziali e spesso discriminatori. La stragrande maggioranza dei cittadini immigrati è in età lavorativa e lavora realmente, producendo una ricchezza economica che è molto maggiore di quanto non ricevano in prestazioni sociali; detto in altri termini, sono i contributi dei lavoratori immigrati che ci aiutano a pagare le pensioni degli italiani così come sono le prestazioni lavorative degli immigrati che fanno andare avanti ospedali, case di riposo e cantieri. I due lettori hanno sacrosanta ragione a lamentare una drammatica crisi economica che colpisce giovani, pensionati, lavoratori; ma dovrebbero rivolgere i propri strali verso altri bersagli; mentre loro guardano male il carrello della spesa del vicino immigrato o notano con invidia la marca della sua auto di “seconda mano”, qualche decina di speculatori a livello mondiale – con un clic sulla tastiera di un computer – guadagna miliardi di euro con operazioni di Borsa che mandano sul lastrico interi paesi, Italia compresa; le conseguenze sono poi che i governi di quei paesi devono tagliare gli ospedali, le scuole e le pensioni per risparmiare e pagare interessi astronomici sul titoli di stato. Forse i due lettori potrebbero prendersela con queste politiche economiche che tagliano pensioni e diritti del lavoro mentre gli evasori fiscali rimangono salvi. Certo, è più facile guardare il vicino di casa che viene dal Marocco o dal Pakistan e pensare che sia colpa sua, ma non è così. Piaccia o meno, semplicemente non è così. Avete tante ragioni cari signori ma la guerra fra poveri serve solo distruggere la solidarietà fra le persone e a far ridere “quelli in alto, ma molto in alto” che decidono la nostra vita. Sta a voi decidere da che parte stare…”
http://ricerca.gelocal.it/altoadige/archivio/altoadige/2012/07/25/NZ_29_04.html

L’obbligo di morire in una società che invecchia – un altro delirio della torre d’avorio

di Stefano Fait

La frase “non mi sento ancora pronto per morire” non esenta una persona anziana dal dovere di farlo. Raggiungere l’età di 80 anni senza sentirsi pronti a morire è già di per sé un fallimento morale, l’indicazione di un’esistenza dissociata dalla realtà fondamentale della vita. Il dovere di morire può sembrare severo, e talora lo è, ma se davvero ci tengo alla mia famiglia, il dovere di proteggerla sarà spesso accompagnato da un profondo desiderio di farlo. Normalmente uno vuole proteggere le persone che ama: non è solo un dovere, è anche un desiderio. Di fatto, posso facilmente immaginare di volere risparmiare alle persone che amo il peso della mia esistenza più di quanto possa volere altre cose.

John Hardwig, “Dying at the Right Time: Reflections on Assisted and Unassisted Suicide”, 1996

La tesi che esiste un dovere di morire potrà sembrare ad alcuni come una risposta sbagliata alle negligenze della società. Se la nostra società si prendesse cura di disabili, malati cronici ed anziani come sarebbe suo compito fare, ci sarebbero solo rari casi in cui far valere quest’obbligo. Alla luce delle contingenze presenti, sto domandando ai malati e disabili di fare un passo avanti ed accettare una responsabilità che la società non intende assumersene un’altra. […]. Non devo, perciò, vivere la mia vita e pianificarla partendo dal presupposto che le istituzioni sociali proteggeranno la mia famiglia dalla mia infermità ed invalidità. Sarebbe da irresponsabili. Più plausibilmente, spetterà a me proteggere le persone che amo.

John Hardwig, “Is there a duty to die?”, Hastings Center Report 27, no. 2 (1997), p. 34-42

Queste persone animate dalle migliori intenzioni [come Hardwig], ahimé, non vivono nel mondo reale…Il loro mondo ideale non contiene figli e figlie o generi e nuore che non dimostrano amore e rispetto verso i loro genitori e suoceri…dove gli eredi non sono oberati da debiti che sarebbero saldati così facilmente se solo il nonno si desse una mossa a morire. Il loro mondo ideale contiene dottoresse ed infermieri che non necessitano di alcun tabù perché sono naturalmente più virtuosi, nobili ed intelligenti delle altre persone…medici ed infermiere che non trattano mai i loro pazienti sprezzantemente e non si stufano mai di avere a che fare con vecchi sporchi e molesti…che non falsificherebbero mai le cause della morte e non violerebbero mai la legge. [in questo mondo ideale] persino i dottori che hanno già violato le norme vigenti contro l’eutanasia non violerebbero o interpreterebbero arbitrariamente nuove leggi in materia.

Jenny Teichman, “Social ethics”, pp. 84-85

Il caso di Eluana dimostra ancora una volta che le persone restie ai condizionamenti vengono mal tollerate; reclamando il diritto alle loro libertà fondamentali sovvertono l’ordine prestabilito e questo infastidisce e spaventa.

Beppino Englaro – una riflessione applicabile anche al dibattito sul dovere di morire

John Hardwig, Dan Callahan, John Beloff, Margaret Pabst Battin, Judith Lee Kissell, Marilyn Bennett, Julian Savulescu, John Harris si sono tutti espressi in favore del dovere di morire. Lo ha fatto anche Richard Lamm, governatore del Colorado negli anni Ottanta.

John Harris (“Immortal Ethics”, Annals of New York Academy of Sciences, 1019, pp. 527-534, 2004), immagina un futuro in cui si porranno in essere pulizie generazionali (sul modello della pulizia etnica) decidendo collettivamente quanto a lungo è ragionevole che una persona possa vivere e garantendo che il numero più ampio possibile di persone possa farlo in buona salute fino a quell’età limite, per poi “invitarle” a suicidarsi – ingenerando nell’opinione pubblica un certo tipo di aspettative, nonché imbarazzo, disagio e vergogna in un ottuagenario che non voglia morire. In alternativa, suggerisce Harris, ci si potrebbe astenere dal somministrare certe cure o servizi di assistenza, oppure si potrebbe riprogrammare il genoma in modo tale da riattivare i geni dell’invecchiamento per dar spazio alle nuove generazioni, in uno scenario perfettamente descritto in un recente film che consiglio a tutti di vedere:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/01/in-time-occupy-hollywood-e-la-lotta-di-classe-del-terzo-millennio/

Nietzsche approverebbe, visto che definiva i malati [e lui stesso era malato] dei parassiti della società la continua esistenza dei quali, in certe condizioni, è indecente.

Dovremmo domandarci qual è la linea che separa il diritto di scegliere il suicidio e il dovere di scegliere di liberare gli altri della nostra presenza.

Il sacrosanto diritto di morire con dignità e quindi l’altrettanto sacrosanto diritto al suicidio assistito, non deve convertirsi gradualmente dapprima nel dovere di morire con dignità, poi nel diritto della società di insistere che le persone muoiano dignitosamente ed infine nell’eutanasia involontaria. Purtroppo però, come testimoniano i filosofi sopracitati, quando la qualità della  ed il suo costo sociale diventano i criteri principali per valutare se una vita sia degna di essere vissuta, improvvisamente uno si trova a dover meritarsi di poter vivere. Ingranaggi della megamacchina, abbiamo valore solo se siamo efficienti:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/18/la-soluzione-finale-alla-questione-dei-disabili-secondo-il-governo-inglese-cazzi-loro/

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/19/questa-e-blasfemia-questa-e-pazzia-questa-e-oxford-quando-linfanticidio-diventa-un-diritto-inalienabile/

Non è implausibile immaginare che un giorno saranno inaugurati dei corsi di gestione mortuaria.

Dovremmo tener conto del fatto che quello del vecchio eschimese che si fa trasportare via dal ghiaccio verso la morte è un mito occidentale non confermato dai dati etnografici e, se anche fosse vero, noi non viviamo sulla banchisa polare, come forse molti hanno intuito.

Come può essere saggio generare delle pressioni morali o persino normative che spingano gli individui a porre termine alla propria vita (e che avranno effetti devastanti su chi ha già fantasie suicide)? È un genere di società in cui è desiderabile vivere quello che persuade persone di qualunque età che si trovano nella condizione di costituire un “fardello” per la famiglia e per la collettività che è giusto sentirsi in dovere di togliersi di mezzo con un suicidio o un suicidio assistito?

Che messaggio stiamo mandando alle persone che sono già molto anziane, molto malate e gravemente disabili? Si rendono conto, questi “filosofi morali”, che prima o poi anche loro rientreranno in una queste categorie? Non è abbastanza evidente che questo discorso indurrebbe moltissime persone che già si sentono in colpa a sentirsi di troppo sebbene non lo siano, e questo proprio quando il progresso tecnologico consente loro di condurre vite meno dipendenti dagli altri e più attive di quel che sarebbe stato lecito attendersi in passato?

Anni di assistenza a persone non-autonome mi hanno insegnato che prendersi cura del prossimo non è solo un peso, può anche essere un piacere ed una lezione di vita impareggiabile. Lo stress, l’ansia e anche il fastidio di certi momenti è più che compensato da un rapporto umano fatto di dialogo, di esplorazione dell’interiorità di entrambi e di affetto, se non amore.

Che reazione avrei se dovessi scoprire che una persona di cui dovevo prendermi cura ha scelto di togliersi la vita per non importunarmi con la sua presenza? Come potrei sentirmi sicuro che non malinterpreterà certe mie parole o gesti, decidendo che i sacrifici di cui mi faccio carico sono eccessivi? E che cosa succederebbe se il tentativo di suicidio di questa persona fallisse, aggravando ulteriormente la sua condizione: dovrei completare l’opera io?

Com’è possibile che questi pensatori non siano capaci di pensare alle ramificazioni più essenziali dei loro ragionamenti? Si sentono razionali perché sanno ipersemplificare l’esperienza umana? Non sono forse pagati per esercitarsi nel pensiero profondo, insegnando ai loro studenti a fare lo stesso? Oppure gli unici ragionamenti validi, per loro, sono quelli che gratificano il loro ego, le loro predilezioni, e che non si insozzano nelle contraddizioni, incertezze e complicazioni della realtà vissuta?

A me pare che l’inevitabile deriva morale di una società che accetta il dovere di morire la porterà a declinarlo nel senso del dovere di uccidere. Se io ho il dovere di morire e non lo faccio, non c’è ragione di impedire a qualcun altro di togliermi la vita al posto mio, assolvendo un compito assegnatogli implicitamente dalla società. Qualcuno potrebbe andare in giro a uccidere vecchi, malati e disabili proclamandosi un giustiziere, un raddrizzatore di torti, un’esecutore della volontà generale.

La somma ipocrisia di questa società è che si possano immaginare certe situazioni future solo in virtù del fatto che gli elettori continuano a votare stolidamente a fidarsi dei media e a votare per politici che approvano esenzioni fiscali per i ricchi o sussidi per le grandi industrie e banche e continuano a spendere per gli armamenti di destra o “sinistra” che siano.

DIRITTO ALLA VITA, DIRITTO ALL’ABORTO E DIRITTO AL SUICIDIO

Il diritto alla vita comprende, naturalmente, anche il diritto al suicidio. Non si può pensare che il suicidio sia un reato se si stabilisce che la mia vita è mia e di nessun altro, tanto meno proprietà dello stato, della società o di un dio/dèi. Se la mia vita è mia – e solo un fanatico mitomane indegno della mia attenzione potrebbe pensare che non lo sia – la posso anche concludere prematuramente e la società non ha il diritto di tenermi in vita contro la mia volontà. Il diritto all’aborto è collegato al diritto al suicidio nel senso che la donna non può essere considerata come un mero strumento biologico di perpetuazione della Vita. Entrambi questi diritti scaturiscono da e tutelano il senso che la mia vita non è una proprietà e non può essere adoperata da altri, né tantomeno sprecata da altri.

Se non capiamo questo semplice concetto rischiamo, un giorno, di risvegliarci in una società in cui lo stato si è fatto paladino della qualità della vita e ha promulgato norme che sanciscono l’obbligo di provvedere tutti i cittadini del servizio di una morte rapida e confortevole tramite la sospensione di trattamenti medici somministrati a pazienti la cui “qualità della vita” è anche solo marginalmente compromessa.

IL RISPETTO DELLA VITA UMANA E DELLA SUA DIGNITÀ

Una persona che non è più consapevole o normodotata non è meno umana degli altri, tanto quanto un maschio non è meno mammifero solo perché non ha le mammelle. L’unico significativo discrimine tra esseri umani è la morte. Prima si è interamente umani, poi lo si è meno; ma ancora permane, giustamente, un particolare rispetto per la salma che, di norma, non è trattata come un semplice ammasso di materia organica. Per come la vedo io, se perdessimo il rispetto per la dignità dei vivi e dei morti non saremmo più degni di continuare ad esistere e sarebbe meglio che una pestilenza ci spazzasse via tutti al più presto.

 

Questa è blasfemia, questa è pazzia! Questa è Oxford! – Quando l’infanticidio diventa un diritto inalienabile

a cura di Stefano Fait

Se una malattia non è stata scoperta durante la gravidanza, se qualcosa è andato male durante il parto, o se le circostanze economiche, psicologiche o sociali sono cambiate e il prendersi cura della prole diventa un peso insostenibile per qualcuno, allora alle persone dovrebbe essere data la possibilità di non essere costrette a fare qualcosa che non sono in grado di sopportare.

Alberto Giubilini e Francesca Minerva perorano la causa dell’infanticidio (febbraio 2012)

Quando abbiamo deciso di scrivere questo articolo sull’aborto post-natale non avevamo idea che il nostro lavoro potesse sollevare un dibattito così acceso.

Francesca Minerva e Alberto Giubilini, lettera aperta

La mancata consapevolezza che ha un neonato è confrontabile con quella di una persona malata o anziana non in grado di comprendere, riconoscere e autogestirsi. Operando in modo estensivo come hanno fatto i due ricercatori, allora, potremmo eliminare tutti i disabili gravi, i malati di Alzheimer in stato avanzato, etc.

Rita Guma

Tempi davvero oscuri, i nostri.

Chi apprezza la libertà personale e l’autonomia/sovranità della propria comunità dovrebbe fare attenzione a quel che si dice nell’ambito bioetico, perché si comincia discutendo di natura umana e di ciò che è ammissibile in relazione ad essa e si finisce poi per discutere di società e di cosa è ammissibile in relazione ad essa.

Se l’infanticidio diventa lecito e addirittura doveroso, allora lo diventeranno anche la tortura, la pulizia etnica, la sospensione definitiva della democrazia. Questa è la direzione che ha preso la nostra civiltà e i conservatori britannici sembrano fungere da illustri apripista:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/18/la-soluzione-finale-alla-questione-dei-disabili-secondo-il-governo-inglese-cazzi-loro/

Ed è solo l’inizio:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/09/lavvento-di-gattaca-quando-i-complotti-sono-alla-luce-del-sole/

Il compito di un pensatore di buona volontà è quello di contrastare e riconsegnare all’oblio queste tesi, passando poi il testimone a chi le combatterà alla prossima riemersione.

Nel corso della Nuova Depressione, a meno di un secolo da quella precedente, succede di assistere al riemergere di argomentazioni condannate dalla storia e dal buon senso ma rese improvvisamente “trendy” dalle circostanze eccezionali in cui ci troviamo a vivere [cf. il magnifico Marco Paolini: http://www.ilfoglio.it/soloqui/7521]

È il caso del diritto all’infanticidio, che fa il paio con il dovere di suicidarsi o farsi sopprimere per ragioni di budget, un’altra brillante trovata della bioetica anglo-americana che sarà l’oggetto di un altro post.

Il diritto all’infanticidio è stato proposto da due bioetici italiani, Alberto Giubilini (Monash University a Melbourne) e Francesca Minerva (Università di Melbourne) in un articolo intitolato “After-birth abortion: Why should the baby live?” [“Aborto post-natale: perché il neonato dovrebbe vivere?], apparso sul Journal of Medical Ethics, la creatura del bioeticista australiano Julian Savulescu, noto per le sue posizioni controverse riguardo a moltissimi temi, quali l’eugenetica, l’eutanasia, la clonazione, il transumanesimo e la democrazia. Nel 2009, in un intervento intitolato “Unfit For Life: Genetically Enhance Humanity or Face Extinction”, Savulescu ha affermato che la nostra situazione è tale che o optiamo per uno stato totalitario che ci impedisca di farci del male (fino alla nostra estinzione), oppure dovremo alterare drasticamente il nostro corredo genetico per renderci inoffensivi.

Oltre che da Savulescu, questa tesi è stata difesa, tra gli altri, da Roberto Mordacci, docente di filosofia morale all’Università San Raffaele di Milano:

http://moraliaontheweb.com/2012/02/29/la-non-notizia-dellaborto-post-natale-infanticidio/#more-6051

Il tema è perciò rilevante e non confinato ad una combriccola di simil-pensanti con la passione per l’Australia.

Oggi Savulescu insegna a Oxford ed è direttore del Centro di bioetica applicata Uehiro. È una figura discussa, ma influente e riceve generosi finanziamente da chi ha interesse ad istruire l’opinione pubblica in quel senso fintamente progressista che maschera il desiderio di abbattere i principi costituzionali definendoli vacui tabù.

In questo articolo i suoi “discepoli” sostengono che i neonati non sono “persone reali” e non hanno un “diritto morale alla vita”. I due filosofi affermano che i genitori debbono poter uccidere il loro bambino, legalmente, nello scoprire che è disabile: “Lo status morale di un bambino è equivalente a quello di un feto, nel senso che entrambi non possiedono quelle proprietà che giustificano l’attribuzione ad un individuo di un diritto alla vita di un individuo”. Non essendo persone reali, i neonati sono solo “persone in potenza” e quindi non possono beneficiare del diritto morale alla vita.

Gli utilitaristi non riconoscono alcun diritto intrinseco a vivere, nessuna dignità inalienabile. Un bambino non è degno di vivere di per sé in quanto non è in grado di attribuire un significato e valore alla sua esistenza o alla privazione della medesima (omicidio legalizzato). Un bambino non può percepire la sua soppressione come una perdita, quindi non lo si può danneggiare uccidendolo, ossia impedendogli di sviluppare il suo potenziale di essere umano.

Questi ragionamenti sono contemporaneamente risibili e terribili e scaturiscono dalle menti di studiosi egotisti che non riconoscono l’esistenza di valori universali che non siano il piacere (edonismo) e l’utile (avidità), pilastri dell’egoismo individuale e collettivo.

Partendo da premesse riduzionistiche e materialistiche molto in voga ai tempi dei nazisti e ai nostri tempi, giungono, coerentemente, alle stesse conclusioni dei nazisti: esistono vite indegne di essere vissute e non è chi le vive a poter decidere da sé se la sua rientri in questa categoria. Sarà qualcun altro – genitori, famiglia, società, stato – a determinare il grado di accettabilità di un’esistenza, in accordo con parametri di normalità assolutamente arbitrari (non essendosi principi universali, non è neppure possibile stabilire cosa sia normale, utile e piacevole in senso assoluto). Se prevalesse questa logica, il diritto sarebbe plasmabile come argilla nelle mani di un vasaio e chi detiene il potere si vedrebbe conferito il potere di creare e ricreare l’umano, proprio come nel Terzo Reich, che aveva il suo “bravo” programma eugenetico di infanticidio, sterilizzazioni coatte e involontarie, eutanasia dei disabili, sterminio di massa degli indesiderabili e accoppiamenti selettivi per la promozione della supremazia ariana.

Questi campioni del libero ed audace pensiero non sono però sufficientemente coraggiosi da chiamare una cosa con il suo nome. Hanno coniato l’espressione “aborto post-natale” per evitare il termine “infanticidio”, proprio come al tempo dei nazisti l’omicidio selettivo era stata ribattezzato “eutanasia” e il genocidio era la “soluzione finale alla questione ebraica”.

I suddetti sono animati dalle migliori intenzioni, o almeno così ci assicurano. Infatti “allevare questi bambini potrebbe essere un fardello insopportabile per la famiglia e per la società nel suo complesso, che se ne dovrebbe far carico”. Meglio ucciderli subito, no? E che non se ne parli più. Morto un bimbo se ne fa un altro, come i papi.

Savulescu è paternamente molto orgoglioso dei suoi pupilli, che “presentano osservazioni motivate, basate su premesse largamente accettate”. È interessante notare come la megalomania del nostro lo spinga a proclamare che il suo punto di vista è una premessa largamente accettata, come se non esistessero pareri discordanti anche all’interno della scuola utilitaristica, solo una delle tante che costituiscono l’universo della filosofia morale e della bioetica. Sfortunatamente, come ha lucidamente intuito un internauta: “L’equivoco del mondo liberale anglosassone per cui tutto dovrebbe essere accettabile tranne la contestazione del proprio modo di impostare la discussione normativa sul reale è ormai in alcuni casi caratterizzata da tratti da pensiero unico, come se la forma e i contenitori del discorso pubblico razionale fosse univoci (cioè tendenzialmente i loro), e se all’interno di essi tutto è lecito e ragionevole, e al di fuori di essi tutto è barbarie e fondamentalismo”.

A me, personalmente, sfugge come si possa definire razionale un discorso che è completamente disgiunto da qualunque considerazione sociologica, antropologica, psicologica, giuridica, storica e persino filosofica non superficiale, ed insiste invece sull’ambito contabile. Ciò che è razionale per un computer o un’organizzazione non è necessariamente razionale per un essere umano e qui si tratta di applicare una razionalità umana all’ambito umano: una questione etica non si risolve con le procedure impiegate per risolvere un’equazione matematica.

Una logica così spoglia, dozzinale, rozza, asettica e non-umana assomiglia piuttosto alla modalità cognitiva standard degli psicopatici.

Non tutti gli utilitaristi sono psicopatici, ma tutti gli psicopatici sono utilitaristi. Più robusta è la propensione utilitaristica, più marcati sono i tratti di psicopatia:

http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0010027711001351

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/19/300-milioni-di-psicopatici-se-ne-fregano-della-nonviolenza-e-dei-diritti-ci-si-difende-informandosi/#axzz1pT9hf38H

Il che non implica certamente che gli utilitaristi à la Savulescu siano degli psicopatici, ma solo che, non essendolo, dovrebbero sentire un marcato disagio nel rendersi conto del degrado morale e cognitivo in cui sono sprofondati.

Gandhi o Arundhati Roy? La scelta che determinerà il futuro dell’umanità

 

a cura di Stefano Fait

 

 

Le grosse imprese commerciali e industriali hanno la loro personale scaltra strategia per trattare il dissenso. Con una minuscola parte dei loro profitti gestiscono ospedali, istituti educativi e fondazioni, che a loro volta finanziano ONG, università, giornalisti, artisti, cineasti, festival letterari e perfino movimenti di protesta. Usano la beneficenza per attirare nella loro sfera di influenza coloro che plasmano ed orientano l’opinione pubblica. È un modo di infiltrare la normalità, di colonizzare l’ordinarietà, così che sfidarle sembri tanto  assurdo  (o esoterico) quanto lo è sfidare la “realtà” stessa. Da qui a “non esiste alcuna alternativa”, il passo è breve ed agevole.

Arundhati Roy

http://www.ft.com/intl/cms/s/0/925376ca-3d1d-11e1-8129-00144feabdc0.html

Mussolini è un enigma per me. Molte delle riforme che ha fatto mi attirano. Sembra aver fatto molto per i contadini. Inverità, il guanto di ferro c’è. Ma poiché la forza (la violenza) è la base della società occidentale, le riforme di Mussolini sono degne di uno studio imparziale. La sua attenzione per i poveri, la sua opposizione alla superurbanizzazione, il suo sforzo per attuare una coordinazione tra il capitale e il lavoro, mi sembrano richiedere un’attenzione speciale. […] Il mio dubbio fondamentale riguarda il fatto che queste riforme sono attuate mediante la costrizione. Ma accade anche nelle istituzioni democratiche. Ciò che mi colpisce è che, dietro l’implacabilità di Mussolini, c’è il disegno di servire il proprio popolo. Anche dietro i suoi discorsi enfatici c’è un nocciolo di sincerità e di amore appassionato per il suo popolo. Mi sembra anche che la massa degli italiani ami il governo di ferro di Mussolini.

M.K. Gandhi, Lettera a Romaine Rolland, dicembre 1931

Democrazia indiana? Non ci può essere alcuna democrazia in una società divisa in caste, pervasa di religioni fatalistiche  e misantropiche. L’India non è la più grande democrazia del mondo, non è moderna e non è laica. È dominata da un’élite oligopolista neofeudale che intrattiene rapporti neocoloniali con l’impero anglo-americano (potenza militare di Washington, potenza finanziaria della City di Londra) e sbatte in faccia a centinaia di milioni di poveri la sua opulenza in una nazione che si permette di esportare cibo mentre milioni di suoi cittadini vivono nella miseria più nera. Il sistema giudiziario protegge i ricchi (che possono uccidere restando impuniti) ed opprime i poveri (specialmente le donne). L’esercito è impiegato per tutelare gli interessi di pochi latifondisti a detrimento delle popolazioni degli stati di Tamil Nadu, Jharkand, Madya Pradesh, Orissa, Bengala, Bihar, che sono perennemente in rivolta, nell’indifferenza del mondo.

La struttura reazionaria dell’India fu molto utile al dominio britannico, che perciò non fece nulla per smantellarla, anzi la coltivò assiduamente. Oggi conviene agli oligopoli capitalisti, un terribile mix di oscurantismo orientale e avidità rapace occidentale: il peggio immaginabile. Tra la civiltà di un’umanità solidale e la barbarie della legge della giungla imposta da un’èlite che ha come unico obiettivo quello di restare tale, l’India è stata costretta a scegliere quest’ultima. L’ascesa del marchionnismo in Italia è un monito: non possiamo permetterci di sentirci al sicuro da questo genere di derive.

Qui si inserisce il discorso sull’ipocrisia della nonviolenza gandhiana. Gandhi ha predicato la nonviolenza a masse di oppressi in una della società più brutalizzanti che si possa immaginare. Che senso aveva convincere le masse a stare calme e non reagire, come una placida mandria, senza mai condannare la classe/casta dominante che con le sue consuetudini, leggi e politiche economiche diffondeva ed acuiva le disparità sociali, traendone lauti profitti? Non era e non è ancora oggi la peggiore delle violenze, questa? La violenza di interessi di parte mascherati da fatalismo, da “così va il mondo, è sempre stato così e così sempre sarà”? La violenza di una concezione nietzscheana del mondo?

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/24/morbido-e-bello-perche-amo-il-femminino-e-detesto-nietzsche-pur-ammirandolo/#axzz1nNrT1Utx

Con questa sua scelta di campo, Gandhi indossò i panni dell’apostolo di pace a beneficio del capitalismo più selvaggio e dell’imperialismo occidentale, persino di quello nazista, quando implorò Ebrei ed Inglesi di arrendersi mansuetamente all’aggressione nazista:

http://fanuessays.blogspot.com/2011/12/chi-era-veramente-gandhi.html

Ben diverso il comportamento di Arundhati Roy, che alle comode astrazioni di una realtà depurata dalle sue contraddizioni e ingiustizie preferisce la lotta contro una lurida quotidianità fatta di patimenti, iniquità, violenza incessante e multiforme, sfiducia e morte della speranza.

Gandhi annunciava al mondo di essere l’erede della migliore tradizione indiana, ma il Dharma dello Kshatriya gli ingiunge di proteggere i deboli e di aiutarli a proteggersi, non di esporli alla violenza contando sul fatto che, essendo numerosissimi, alla fine prevarranno quando l’oppressore sarà esausto. Questa è la logica utilitaristica dello scacchista, non di un autoproclamato campione dei diritti degli oppressi.

La Gita chiama ad essere correttori delle ingiustizie, non ad immolarsi senza resistere, senza neppure difendersi, come prescritto dalla Satyagraha, che raccomanda di essere pronti a morire e patire ogni sofferenza, purché non sia mai ricambiata. Il Satyagrahi rinuncia al diritto all’autodifesa e si vota al sacrificio supremo, alla sua dipartita. Lo spiega Gandhi: “l’unico dovere di un Satyagrahi è quello di sacrificare la sua vita a qualunque compito gli sia toccato. Questo è il fine più nobile che possa realizzare. Una causa spalleggiata da Satyagrahi così nobili non può mai essere sconfitta”. In questa maniera, assicurava Gandhi, il cambiamento sarebbe avvenuto spontaneamente, i forti si sarebbero sentiti in obbligo di effettuare le necessarie riforme.

Abbiamo visto che la storia ha dato torto a Gandhi. L’India indipendente non è un’India sensibilmente migliore di quella coloniale e i “nobili Satyagrahi” sono morti portando con sé nella tomba (nella cenere dei crematori) la loro causa.

Il Kshatriya, come il Satyagrahi, non temeva la morte, ma assegnava un valore alla vita, inclusa quella degli altri che si affidavano a lui cercando protezione. Per lui le due condizioni non erano esattamente intercambiabili come per Gandhi, che non sembrava dare valore alle vite dei suoi seguaci se non in funzione del trionfo della sua dottrina. Anche il semplice buon senso ci insegna che se una persona si trova a dover sostenere l’impegno di proteggere degli indifesi, l’ultima cosa che dovrebbe fare è cercare una morte “eroica” (patetica) ed “esemplare” (pessimo esempio) per mano di chi poi passerà ad eliminare le persone ora completamente indifese. Gandhi non comprese mai il senso di questa responsabilità, che gli spettava in quanto figura pubblica che sfidava, a suo modo, il potere ed in quanto esponente del Partito del Congresso (Indian National Congress) e del Congresso indiano per il Sudafrica (South African Indian Congress – SAIC); non la ritenne mai quell’ovvietà che appare come tale a qualunque persona di buon senso ed il cui raziocinio non sia obnubilato dal fanatismo ideologico.

Perché un avversario determinato ad averla vinta dovrebbe mostrare del buon cuore nel vedere che i suoi bersagli sono risoluti a non combattere e a non difendersi? È come rubare un leccalecca ad un bambino. L’aggressore consegue i suoi fini con inattesa ed eccitante disinvoltura. Lo Kshatriya, al contrario, è perfettamente consapevole del fatto che un cuore indomito ed una volontà di ferro non ottengono alcun risultato se non si è propensi ad usare la forza per proteggere se stesi e gli altri dall’aggressione e far valere i propri diritti e quegli degli altri. Tutti i più nobili rivoluzionari della storia, da Spartaco, a Zapata, a Sun Yat-sen l’hanno dato per scontato, molto assennatamente. È necessario combattere per proteggere la gente dalla sofferenza o per non esporla ad ulteriore sofferenza, se necessario fino alla neutralizzazione dell’aggressore/bullo, come si fece con i nazisti e come si è sempre fatto con chi è recidivo e dimostra di capire solo il linguaggio della forza (es. psicopatici/bulli):

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/16/golpe-psicopatico/#axzz1nNrT1Utx

Una difesa efficace, per lo Kshatriya, si basa sulla negoziazione (in cui si cercano di strappare i termini migliori), sull’approntamento di difese efficaci, sull’alleanza con i nemici dei propri nemici.

L’ahimsa era il monopolio del bramino, che non era tenuto a difendere la comunità, non essendo parte del suo dharma: il contributo del bramino apparteneva alla sfera intellettuale ed educativa (a volte esoterica e mistico-sciamanica) e gli era ben chiaro che qualcuno doveva sporcarsi le mani al posto suo, lo Kshatriya appunto, che doveva consigliare al meglio, se voleva avere ancora una comunità a cui impartire i suoi insegnamenti. Per di più l’ahimsa era ristretta ad una parte dei bramini, i Sannyasi, gli individui che aspiravano alla liberazione, non era certo pensata per le masse che non avevano alcun desiderio/predisposizione in tal senso. L’ahimsa era un mezzo per un ben determinato fine, non uno strumento di universale pacificazione.

Non si capisce come un devoto della Bhagavad Gita quale si considerava Gandhi potesse fraintendere il messaggio centrale del testo, contenuto nel discorso di Krishna ad Arjuna, che è tutto fuorché non-violento, essendo un’esortazione a combattere per ristabilire un equilibrio tra le forze – il Dharma, appunto – che era stato compromesso dall’altra fazione, che comprendeva alcuni suoi cugini (di qui i crucci di Arjuna).

L’interpretazione gandhiana di questo documento è intellettualmente disonesta ed equivale a dire che Gesù in realtà stava dalla parte delle autorità, contro le masse: un totale sovvertimento del messaggio originario. Per far valere il suo punto di vista Gandhi fu costretto a concludere che le descrizioni delle azioni e delle situazioni della Gita dovevano essere puramente allegoriche. Il che può anche essere vero, ma è insensato (o disonesto, appunto) dedurne che le forze che si scontrano a livello spirituale non debbano estroflettersi anche a livello materiale e che quindi l’insegnamento di Krishna non sia applicabile alla realtà fisica. Tanto più che proprio il dio spiega che le azioni umane non sono determinate unicamente dal loro libero arbitrio, che la realtà è un campo di battaglia tra forze cosmiche soverchianti (cf. Lost: Jacob e l’Uomo in Nero) e che ciascuno è chiamato a recitare una parte sul palcoscenico della storia:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/08/lost-eroi-nella-tempesta/

L’equivoco gandhiano non può che essere il frutto di una fanatica avversione alla violenza che, peraltro, non sembra averlo guidato nel suo ruolo di marito e di genitore (inflessibile, ma solo quando gli conveniva!):

http://fanuessays.blogspot.com/2011/10/il-vero-gandhi-nulla-di-cui-essere.html

Gandhi era convinto che solo una persona depurata da ogni difetto poteva farsi giudice del prossimo e delle sue malefatte. Era dunque un manicheo, un intellettuale che vede il mondo in bianco e nero: i puri (virtualmente inesistenti) e gli impuri (onnipresenti). La realtà è invece policroma. Gli Alleati, durante la Seconda Guerra Mondiale non erano certo puri, anzi, ma il nemico, il nazismo, era quanto di più impuro si fosse visto fino ad allora sulla faccia della terra e fu dunque correttamente contrastato con ogni mezzo disponibile. Falcone e Borsellino non erano forse sufficientemente puri per giudicare i mafiosi? Pertini non era sufficientemente puro per ricoprire il ruolo di Presidente della Repubblica?

Gandhi era un moralista troppo rigido, convinto che fosse possibile stabilire cosa fosse bene e male in senso assoluto, quando invece a noi umani è concesso solo di vedere le ombre del bene e del male, del giusto e dello sbagliato: vediamo i raggi del sole senza poter vedere il Sole, come suggeriva Agostino di Ippona.

Furono la sua vanità e la sua ambizione a renderlo inflessibile e spietato nei suoi rapporti con il prossimo e fin troppo indulgente in quelli con il suo ego, spingendolo a costringere una popolazione di centinaia di milioni di individui a redimersi ai suoi occhi, come quando affermò di pretendere che i musulmani indiani confessassero le loro colpe e si pentissero delle loro malefatte davanti a lui, come avevano fatto gli Hindu di Calcutta. Quanta superbia, quanta vanagloria in questa pretesa! Proprio lui che non riteneva che nessuno potesse essere giudice del prossimo e quindi fosse autorizzato ad usare la forza contro un antagonista: caduto, come Adamo, nella trappola del narcisismo, dell’hybris, dell’autobeatificazione:

http://fanuessays.blogspot.com/2011/11/il-narcisista-umanitario-parte-prima_14.html

http://fanuessays.blogspot.com/2011/12/limperialismo-umanitario-e-la.html

FONTE: http://www.scribd.com/doc/29991057/Violator-of-the-Kshatriya-Dharma

L’ALTERNATIVA A GANDHI È ARUNDHATI ROY

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/31/arundhati-roy-e-i-gattoni-tracotanti/#axzz1nNrT1Utx

 

La trascrizione tradotta del suo discorso a Zuccotti park, rivolto agli occupanti/indignati, il 16 novembre 2011:

Il capitalismo non può garantire benessere e giustizia sociale per tutte le persone.

Ieri la polizia ha sgombrato Zuccotti park, ma oggi le persone sono tornate. La polizia dovrebbe sapere che la protesta di Occupy Wall street non è una lotta per il territorio. Non stiamo combattendo per occupare un parco, ma per la giustizia. Giustizia non solo per il popolo degli Stati Uniti, ma per tutti. Con la protesta cominciata il 17 settembre, siete riusciti a introdurre un nuovo immaginario, un nuovo linguaggio politico nel cuore dell’impero.

Avete riportato il diritto di sognare in un sistema che cercava di trasformare tutti i suoi cittadini in zombie stregati dall’equazione tra consumismo insensato, felicità e realizzazione di sé. Per una scrittrice, lasciate che ve lo dica, questa è una conquista immensa. Non potrò mai ringraziarvi abbastanza.

Oggi l’esercito degli Stati Uniti conduce una guerra di occupazione in Iraq e in Afghanistan. I droni statunitensi uccidono civili in Pakistan e altrove. Decine di migliaia di soldati americani e di squadre della morte stanno entrando in Africa. Se spendere migliaia di miliardi dei vostri dollari per occupare l’Iraq e l’Afghanistan non dovesse bastare, oggi si parla anche di una guerra contro l’Iran. Dai tempi della grande depressione, la produzione di armi e l’esportazione di conflitti sono state gli strumenti fondamentali con cui gli Stati Uniti hanno stimolato la loro economia. L’amministrazione del presidente Barack Obama ha concluso un accordo con l’Arabia Saudita che prevede la fornitura di armamenti per 60 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti sperano di vendere migliaia di bombe antibunker agli Emirati Arabi Uniti. E hanno venduto aerei militari per cinque miliardi di dollari al mio paese, l’India, che ha più poveri di tutti i paesi dell’Africa messi insieme. Tutte queste guerre – dal bombardamento di Hiroshima e Nagasaki al Vietnam, dalla Corea all’America Latina – sono costate milioni di vite umane. E sono state tutte combattute per garantire l’american way of life.

Quattro proposte

Oggi sappiamo che l’american way of life – il modello a cui dovrebbe aspirare tutto il resto del mondo – ha fatto sì che negli Stati Uniti 400 persone possiedano la ricchezza di metà della popolazione. Ha significato migliaia di persone sbattute fuori dalle loro case e dal lavoro mentre il governo di Washington salvava le banche e le multinazionali: il gruppo assicurativo Aig ha ricevuto, da solo, 182 miliardi di dollari.

Il governo indiano adora la politica economica statunitense. Grazie a vent’anni di economia di libero mercato, oggi i cento indiani più ricchi possiedono beni che valgono un quarto del pil del pae­se, mentre più dell’80 per cento dei cittadini vive con meno di 50 centesimi al giorno.

Duecentocinquantamila agricoltori trascinati in una spirale di morte hanno finito per suicidarsi.

L’India lo chiama progresso, e oggi si considera una superpotenza. Come voi, anche noi indiani abbiamo una popolazione ben istruita, bombe nucleari e un livello di diseguaglianza vergognoso.

La buona notizia è che la gente ne ha abbastanza e non vuole più accettare tutto questo. Il movimento Occupy Wall street si è unito a migliaia di altri movimenti di resistenza in tutto il mondo grazie ai quali i più poveri tra i poveri si alzano in piedi per fermare l’avanzata delle multinazionali.

In pochi sognavamo di poter vedere voi – i cittadini degli Stati Uniti che stanno dalla nostra parte – combattere questo sistema nel cuore stesso dell’impero. Non trovo le parole per spiegare quanto tutto questo significhi.

Loro (l’1 per cento) dicono che non abbiamo richieste precise da fare. Non sanno, forse, che la nostra rabbia da sola sarebbe sufficiente a distruggerli. Ma ecco alcune proposte – alcuni miei pensieri “prerivoluzionari” – su cui possiamo riflettere insieme.

Noi vogliamo mettere un freno a questo sistema che fabbrica ineguaglianza. Vogliamo mettere un limite alla smisurata accumulazione di ricchezza da parte di alcuni individui e alcune società. Ecco le nostre richieste.

Primo. Mettere fine alle proprietà incrociate nel mondo degli affari. I produttori di armamenti, per esempio, non possono controllare reti televisive, le società minerarie non possono gestire i giornali, le aziende non possono finanziare le università, i gruppi farmaceutici non possono controllare i fondi per la sanità pubblica.

Secondo. Le risorse naturali e i servizi essenziali – acqua, elettricità, sanità e istruzione – non possono essere privatizzati.

Terzo. Tutti hanno diritto a una casa, all’istruzione e all’assistenza sanitaria.

Quarto. I figli dei ricchi non possono ereditare la ricchezza dei genitori.

Questa lotta ha risvegliato la nostra immaginazione. Da qualche parte, nel suo cammino, il capitalismo ha ridotto l’idea di giustizia al solo significato di “diritti umani”, e l’idea di sognare l’uguaglianza è diventata blasfema. Non stiamo combattendo per giocherellare con la riforma del sistema. Questo sistema deve essere sostituito. Da militante, rendo omaggio alla vostra lotta.

Salaam e zindabad.

Traduzione di Giuseppina Cavallo.

Internazionale, numero 929, 23 dicembre 2011

Arundhati Roy è una scrittrice indiana. Il suo libro più famoso è Il dio delle piccole cose (Guanda 1997).

http://www.internazionale.it/news/arundhati-roy/2011/12/27/lo-chiamano-progresso/

L’alternativa alla nonviolenza ipocrita e disfattista di Gandhi è la libertà, quella vera:

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/30/la-liberta-quella-vera/#axzz1nNrT1Utx


è l’autodifesa (in stile aikido), l’uso della forza e della violenza difensiva temperata da onestà intellettuale, equità, rispetto per i diritti e la dignità altrui e per i principi democratici, rifiuto di vedere nel prossimo una propria appendice o unicamente uno strumento per il proprio tornaconto, rifiuto di trasformarsi da vittime in aggressori:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/02/la-collera-dei-miti-sullimmoralita-di-pacifismo-e-nonviolenza/#axzz1nNrT1Utx

L’indignato dei nostri giorni può essere un vero Kshatriya:
http://www.informarexresistere.fr/2011/12/21/vendetta-e-rivoluzione-globale-leroe-indignato-in-omero-e-in-shakespeare/#axzz1nNrT1Utx

 

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