Piccolo nel grande è meglio

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PICCOLO È BRUTTO

Piccolo è bello e soprattutto è più facile prendere a calci chi sta sui cojones.

Anonimo

Si parla tanto di superare la prospettiva degli stati-nazione, ma la tendenza è diametralmente opposta. Invece di accorpare gli stati in organizzazioni transnazionali si stanno formando dei poli confederali circondati da una sovrabbondanza di micro e nano-stati, microscopiche entità amministrative con un Pil spesso inferiore al fatturato di una multinazionale o di una grande banca d’affari. C’erano circa una cinquantina di stati dopo la fine della seconda guerra mondiale. Oggi dopo la decolonizzazione, ma anche dopo la balcanizzazione del globo, sono quasi 200, senza contare certi distretti (es. City di Londra) o aree metropolitane (es. Chicago o New York) che si comportano come città-stato. Gli egoismi collettivi stanno spingendo verso la frammentazione, dividendo le aree più ricche da quelle meno privilegiate

Più frontiere ci sono, maggiori sono i rischi di frizione. Più piccoli sono gli stati, minori saranno le loro prospettiva economiche e militari (diventare un paradiso fiscale o un protettorato significa dipendere interamente dall’interesse altrui) e maggiori le probabilità che divengano delle pedine per i grandi giocatori dello scacchiere inglobale.

Quanto contano nel mondo Croazia, Slovenia, Macedonia, Serbia? Davvero poco. La Jugoslavia era il leader di un centinaio di paesi non-allineati.

Le nazioni più piccole e più deboli possono opporre ben poca resistenza agli oligopoli economico-finanziari e alle potenze egemoni. Così, per loro, la globalizzazione dei mercati si traduce in coercizione, intimidazione, sfruttamento, corruzione, autoritarismo: culture, valori, tradizioni, comunità locali contano davvero poco agli occhi dei grandi manovratori di ricchezze, che sono nella posizione di decidere che cosa e come debbano produrre le nazioni emergenti, quando e dove possano vendere la loro produzione, a che prezzo, quale debba essere il salario dei lavoratori, le condizioni di lavoro, le tutele, i sussidi, ecc. E, attraverso le istituzioni globali, possono anche decretare le politiche monetarie, fiscali, commerciali e bancarie di queste nazioni, punendo i riottosi. Gli abitanti del Terzo Mondo sanno molto bene che piccolo non è per niente bello in un mondo iniquo e prevaricatore.

Anche le piccole nazioni più ricche patiscono le conseguenze delle loro dimensioni ridotte. Le popolazioni di Belgio, Austria, Olanda, Svizzera, Danimarca sono in parte accomunate dalla paura di essere sommerse dagli immigrati, specialmente quelli musulmani, e di essere sminuzzate dal processo di integrazione europea e dalla globalizzazione. Molti cittadini di queste piccole patrie si sentono vittime di una manovra a tenaglia che li sta progressivamente snazionalizzando e votano in massa per dei partiti xenofobi e per dei quesiti referendari discriminatori. La paura è una cattiva consigliera e chi è piccolo tende ad essere più insicuro ed ad ingigantire i problemi.

Senza entità nazionali e federali chi amministrerebbe i parchi nazionali, la viabilità transcontinentale, i soccorsi ed aiuti di emergenza, la difesa, la lotta alla criminalità transnazionale? Chi tamponerebbe le conseguenze delle crisi cicliche della finanza? Chi si sforzerebbe di contrastare le disparità dovute alle rendite di posizione che nascono dalla concentrazione di ricchezze e di competenze in certi luoghi strategici? Migliaia di micro-comunità diventerebbero un gradito dono per quella porzione avida e priva di scrupoli delle élites, che prenderebbe il controllo di tutto le esistenti strutture di potere sfruttandole per i propri fini egoistici.

PICCOLO NEL GRANDE È MEGLIO

Il piccolo non è bello in quanto tale, come vuole un retorico slogan; lo è se rappresenta e fa sentire il grande, se è una finestra aperta sul mondo, un cortile di casa in cui i bambini giocando si aprono alla vita e all’avventura di tutti. L’identità autentica assomiglia alle Matrioske, ognuna delle quali contiene un’altra e s’inserisce a sua volta in un’altra più grande. Essere emiliani ha senso solo se implica essere e sentirsi italiani, il che vuol dire essere e sentirsi pure europei. La nostra identità è contemporaneamente regionale, nazionale — senza contare tutte le vitali mescolanze che sparigliano ogni rigido gioco — ed europea; del nostro Dna culturale fanno parte Manzoni come Cervantes, Shakespeare o Kafka o come Noventa, grande poeta classico che scrive in veneto. È una realtà europea, occidentale, che a sua volta si apre all’universale cultura umana, foglia o ramo di quel grande, unico e variegato albero che era per Herder l’umanità.

Claudio Magris

“Piccolo è bello” è un titolo che non è mai piaciuto a E.F. Schumacher, che lo considerava ingannevole, in quanto era convinto che l’obiettivo dovesse essere quello di realizzare il piccolo nel grande, non certo quello di ridimensionare tutte le attività umane. Fu scelto dall’editore perché “suonava bene”, ma l’economista restò convinto che offuscasse quello che era il messaggio del suo studio: non conta che un progetto sia piccolo o grande, conta che sia la scala appropriata e sostenibile, nel quadro di un consumo ottimale. Schumacher rigettava l’idea della decrescita, della miniaturizzazione dei cicli economici e delle società: “non è questione di scegliere tra crescita moderna e stagnazione tradizionale. Si tratta di trovare il giusto percorso di sviluppo, la Via di Mezzo tra materialismo dissennato e immobilismo tradizionalista”.
Ciò che importava, per lui, è che un’intrapresa non sia affetta da hybris (illusione di un potere illimitato) e avidità, che l’obiettivo non sia quello di dominare la natura, espandere illimitatamente i bisogni non spirituali (e quindi la dipendenza), addomesticare la natura umana meccanizzandola e focalizzando la sua attenzione su aspirazioni esclusivamente materiali e quantitative e monetizzare ogni valore non legato al profitto, bensì quello di garantire una prosperità universale che permetta di seguire un percorso di progresso qualitativo e morale.

Per farlo, Schumacher non raccomandava di tornare indietro: “L’uomo non può vivere senza la scienza e la tecnologia più di quanto egli possa vivere contrapposto alla natura”. Chiedeva una tecnologia dal volto umano, non in guerra con la natura, più originalità e creatività, più educazione e consapevolezza, più autodeterminazione a livello locale, più democrazia partecipata, meno gerarchie piramidali. Il che vuol dire anteporre le persone a tutto il resto: teorie, macchine, produzione, merci, profitto, ecc.

Dobbiamo uscire dalle logiche dicotomiche, dai dualismi che ci imprigionano: piccolo e grande possono e devono stare assieme (cf. Tao). Scegliere tra l’uno e l’altro è suicida.

L’insana idea dello Stato Libero del Sudtirolo e le mafie transnazionali

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Nel Terzo Millennio, il solito, volgare refrain; il solito manicheismo

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Volendo preservare l’unità spirituale e culturale del Tirolo ed il suo patrimonio storico…

Proposta di Costituzione per lo Stato Libero del Sudtirolo, a cura dei Freiheitlichen

Tra sfide e rancori in India nasce un nuovo stato, il Telangana…la scelta del Congresso sta già ottenendo un effetto boomerang negli altri territori dove ci si batte per l’indipendenza. A Kokrajhar gli animi sono surriscaldati…per una protesta dei separatisti del Bodoland, Karbi e Anglong che vogliono divorziare dall’Assam. Incidenti anche nel Darjeeling per i sostenitori del Gorkhaland, mentre in Uttar Pradesh la ex premier Mayawati Kumari ha rilanciato la sua idea di dividere in quattro il più popoloso stato indiano.
Raimondo Bultrini, il Venerdì, 16 agosto 2013

L’offensiva filo-separatista della stampa angloamericana ha raggiunto il suo culmine nella seconda metà del 2012. Il 12 luglio 2012 Marcia Christoff Kurapovna, neoliberista sloveno-americana residente a Vienna, pubblica sul Wall Street Journal un peana in favore della dissoluzione di Grecia e Italia in piccole città-stato. Ambrose Evans-Pritchard, figlio di un antropologo invischiato nella strategia del divide et impera dell’imperialismo britannico, preconizza la jugoslavizzazione della Spagna (Telegraph 25 settembre 2012). Il New York Times pubblica un articolo di due indipendentisti catalani dal titolo “prigionieri della Spagna” (2 ottobre 2012). Il blog Charlemagne dell’Economist prevede rivolte tra i giovani catalani se i loro sogni indipendentisti non saranno soddisfatti (26 novembre 2012). Quello stesso giorno, sulle colonne del Wall Street Journal, Raymond Zhong esorta i catalani a creare un loro stato più snello, più generoso verso le imprese, più pragmatico, più parsimonioso (leggi: meno welfare, più precariato, licenziamento dipendenti pubblici e congelamento dei salari).

François Thual, expert en géopolitique , qui présenté son dernier ouvrage “Géostratégie du crime” (éd. Odile Jacob), co-écrit avec Jean-François Gayraud, commissaire divisionnaire en poste au Conseil supérieur de la formation et de la recherche stratégique: « Nous ne sommes plus dans la série noire d’après-guerre ; désormais, sous l’action de puissances criminelles, les États eux-mêmes se trouvent contestés dans leur existence et doivent parfois battre en retraite. C’est la survie de nos démocraties qui est en jeu » : pour Jean-François Gayraud et François Thual, les phénomènes criminels sont bien loin d’échapper aux effets de la mondialisation, on le voit.
Pourquoi la grande criminalité internationale a augmenté de façon exponentielle ; comment la lutte contre le terrorisme et le recul de l’État un peu partout l’ont favorisée ; quelles sont les luttes de territoires entre organisations ; comment des empires criminels se constituent, menaçant l’équilibre des États ; comment l’argent sale pèse sur l’économie mondiale ; pourquoi les élites sont fragilisées : deux spécialistes croisent criminologie et géopolitique pour nous révéler les vrais dangers de demain et peut-être déjà d’aujourd’hui !
Conseiller du président du Sénat pour les affaires stratégiques, François Thual est professeur au Collège interarmées de défense (ex-Ecole de guerre). Il est l’auteur de nombreux ouvrages sur la géopolitique dont certains ont connu un succès mondial.

La sovranità è onerosa, per questo si cerca di condividerla. La fascinazione quasi maniacale e consumistica per la sovranità particolaristica sovraccarica i contribuenti; frammenta l’umanità depotenziandola e intensificando screzi, frizioni, timori, risentimenti; moltiplica la già abnorme pletora di staterelli a sovranità limitata; condanna le entità politiche minori a una pressoché istantanea ed irrevocabile subordinazione clientelare nei confronti degli stati maggiori: rafforza chi è già forte e indebolisce chi è già debole (divide et impera). In primo luogo le oligarchie mafiose transnazionali – ufficiali e non ufficiali – come spiega François Thual.

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federalismo sì

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separatismo no

La cultura è il grimaldello usato per abbattere lo stato di diritto (da parte di certi interessi criminali) e ogni progetto federalista (da parte di certi interessi geostrategici), facendo leva su sentimenti originariamente innocenti e positivi, ma che vengono pervertiti, esasperati.

Non esiste una cultura padana, trentina, italiana, o una cultura americana, cinese, ebrea, indiana, bantù. Gli esseri umani non sono automi che eseguono un programma culturale (software) caricato nel loro cervello (hardware) alla nascita. Non esistono due italiani che usano la lingua italiana allo stesso modo e non esistono due sudtirolesi che saprebbero mettersi d’accorso su cosa si debba intendere per cultura sudtirolese e Heimat. Ogni cultura è una narrazione e ogni individuo è un narratore che la interpreta, la racconta a modo suo, declinandola secondo le sue sensibilità, aggiungendo qualcosa qui e lì, e togliendo qualcos’altro altrove. La cultura è un prodotto dell’immaginazione umana ed ogni mente, essendo diversa, contribuisce a renderla porosa, flessibile, incessantemente mutevole, eterogenea. Ogni persona narra la “sua” cultura ponendosi in relazione con altre persone che narrano la loro e solo Dio potrebbe cogliere la narrazione complessiva nella sua interezza, senza sacrificarne la complessità. La cultura non è un’essenza o un oggetto, le culture non si scontrano tra loro, non si confrontano, non conversano, non agiscono: non sono degli esseri viventi che operano per nostro conto.

La cultura è una relazione dinamica tra soggetti che non hanno come priorità la conservazione della medesima, ma il vivere pienamente, al meglio delle proprie possibilità. Per farlo, tutti noi usiamo la cultura come uno strumento e apprendiamo ad adoperare altri strumenti, perché lo troviamo utile e piacevole, e talvolta ci inganniamo e trasformiamo la narrazione in una tavola delle leggi, in un fine e non un mezzo.

Ci inchiniamo alla lettera delle presunte “leggi culturali” anche quando esse sono interpretate in modo tale da tradirne lo spirito. Chiunque rilevi un’eventuale discrepanza è accusato di tradimento. È una degenerazione patologica dell’idolatria, una dipendenza che ci vincola a degli idoli al posto dei significati che sono chiamati a rappresentare. Si chiama razzismo culturalista e non è diverso o migliore del razzismo su basi biologiche. È una patologia della coscienza che sclerotizza e mortifica (rende morto) ciò che è vivo, imbalsama ciò che è mutevole e variabile, reifica un parto della fantasia umana. Una patologia che dissemina superstizione, paura e violenza ed ostacola la naturale disposizione dei singoli a fiorire, maturare, emergere, trascendere le proprie circostanze, eccellere, ciascuno secondo le proprie inclinazioni.

Come la lettera delle leggi subisce un processo di decadimento (entropia), mentre il suo spirito resta immortale, perché si basa su ciò che è giusto, così le culture possono decadere, se si allontanano dal loro spirito, che è quello di riflettere la comune, universale esperienza umana.

Cos’è il Male?

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Il debole lo abbatte, il forte che lo inghiotte.

Cloud Atlas

Un enorme buco nero che, nella sua foga di incrementare la propria potenza, inghiotte tutto ciò che gli sta intorno, senza esserne mai sazio. Inghiotte soprattutto, per rimanere sul piano filosofico, le anime degli uomini, le loro risonanze emotive ed affettive, i loro slanci ideali.

Luca Grecchi, “La filosofia politica di Eschilo”

L’entropia è la misura dell’aumento del disordine in un sistema ed equivale ad una perdita di informazione e quindi di vitalità. Il massimo dell’entropia per un essere umano si ha con il suo decesso.

Una comunità o una civiltà contrasta l’entropia (è neghentropica), quando riduce il disordine creando varietà e vita. In altre parole, quando permette un continuo scambio di idee, energia, persone. Il Terzo Reich è l’esempio più puro di civiltà entropica, a causa del suo isolamento, della sua uniformità, del suo bisogno di omologare, controllare e consumare ciò che lo circondava. In quanto sistema chiuso, era nato per estinguersi rapidamente, condannato com’era ad operare come un buco nero, per evitare il collasso. I nazisti si sentivano potenti perché potevano cannibalizzare altri popoli e nazioni ma, una volta che il resto del mondo riuscì ad organizzarsi per resistere all’assimilazione, all’imposizione di un unico paradigma, l’entropia nazista perse la partita.

Quando non riuscite a distinguere il governo dall’opposizione, vuol dire che l’entropia di un sistema politico è salita. Succede anche con certi prodotti di largo consumo, distinguibili solo dal marchio. Originalità, creatività, inventiva, immaginazione sono forze neghentropiche: diversificano, promuovono il cambiamento e quindi la vita.

Il parassitismo è perciò la quintessenza dell’entropia: prende senza voler dare, distrugge senza creare. Come un buco nero, appunto. Il parassita dipende dall’organismo che lo ospita, ma può anche causarne la morte. Vive sempre a spese degli altri, li vampirizza. Come la tenia: “Non semplicemente costanza dell’energia, ma massima economia dei consumi: sicché il voler diventare più forti, per ogni centro di forza, è l’unica realtà – non conservazione di sé, ma volontà di appropriazione, di diventare padroni, di diventare di più, di diventare più forti” (F. Nietzsche, “La volontà di potenza”).
https://versounmondonuovo.wordpress.com/2013/04/14/legoista/

Il parassita, come lo psicopatico, che è l’apoteosi del parassitismo, è dominato dalla paura di perdere il controllo, disperdendo la sua energia e non può quindi essere altro che predatorio e violento. È autolesionistico perché, consumando chi gli dà la vita senza restituire nulla al sistema, pone le basi per la sua morte.

La simbiosi, o mutualismo, è invece la solidarietà biologica tra esemplari di specie diverse che mettono in comune le loro specificità, scambiandosi dei “servizi” che beneficiano entrambe le parti. È creativa, non distruttiva come l’entropia. È una forza di integrazione, che permette alla vita ed ai sistemi complessi di esistere.

È una relazione di mutua compensazione ed equilibrio: “Io vi do un nuovo comandamento: che vi amiate gli uni gli altri. Com’io v’ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri” (Giovanni 13, 34). “Ma se uno ha dei beni di questo mondo, e vede il suo fratello nel bisogno, e gli chiude il proprio cuore, come dimora l’amor di Dio in lui?” (1 Giovanni 3:17).

Si deve mangiare il prossimo per vivere. Coccinelle e passerotti sono degli spietati carnivori, ma non sono parassitari, non sono malvagi.

Il male è, in buona sostanza, tutto ciò prende dal suo ambiente senza dare niente in cambio. Si comporta come un buco nero, un vampiro, un untore, un predicatore fanatico, uno psicopatico che sociopatizza la comunità in cui vive (es. Hitler o Stalin), un imperialista/colonialista (es. esportatori di “democrazia”) o, per i fan della fantascienza, gli alieni de “L’invasione degli Ultracorpi”, o i Borg di “Star Trek” (“Assimilando altri esseri alla nostra collettività, li portiamo più vicini alla perfezione”). Si sforza di omologare, assimilare quel che lo circonda, trasformandolo in una copia di se stesso.

Il maligno è un propagatore virale di entropia: diminuisce la variabilità della vita, semplifica la sua complessità, degrada la sua qualità, disturba i fecondi equilibri solidaristici, divide e contrappone solo per poter controllare e metabolizzare più facilmente, ci spinge ad attaccare il “male” che vediamo negli altri (es. omosessualità) senza renderci conto di quel che c’è in noi (repressione, intolleranza), cerca di distruggere l’unità nella diversità (unica garanzia di equilibrio e mutualismo), offusca ciò che andrebbe messo a fuoco, costringe a scegliere tra due alternative come se l’una escludesse l’altra (e magari occulta una terza opzione), cerca di arrestare l’evoluzione, il cambiamento, la creazione. Fa tutto questo perché brama la stasi, l’inerzia, l’uniformità, ovverosia la morte, la quiete eterna.

Approfondimento “esoterico”:
http://www.informarexresistere.fr/2012/01/18/la-sindrome-del-feto-egoista-come-vivono-e-cosa-pensano-gli-angeli-caduti/

L’ultimo anniversario di Israele?

 

Israele ha appena festeggiato i 64 anni dal giorno della sua creazione. Ormai reputo quasi certo che, a causa delle politiche dell’attuale governo israeliano, questo sia anche l’ultimo anno della breve ma intensissima storia di Israele.

Un commentatore del mio vecchio blog mi ha chiesto se conosco Gilad Atzmon. Confesso di non averlo mai letto e so solo che è detestato dagli antisionisti quasi quanto lo è dai sionisti. La cosa mi ha colpito, perché è un po’ quel che è successo a me e Mauro Fattor dopo la pubblicazione del nostro libro sull’Alto Adige e i suoi miti identitari.
Ho trovato quest’intervista, che credo possa esemplificare il suo pensiero.

Silvia Cattori: Il suo libro è stato appena pubblicato in Francia. Pur senza aver avuto una campagna promozionale, si sta vendendo bene, nonostante che i membri della Unione Ebraica Francese per la Pace (UJFP) e della International Jewish Antizionist Network (IJAN) abbiano lanciato una campagna contro di lei, all’interno del mondo della sinistra e dei movimenti di solidarietà con la Palestina, addirittura sei mesi prima dell’uscita della traduzione francese. È stupito da questi attacchi?

Gilad Atzmon: Come lei sa bene, sono anni che sono fatto oggetto di questo genere di campagne vili da parte degli ebrei antisionisti. È evidente come io sia percepito come un guastafeste. Non c’è da stupirsi: io sono contro qualunque forma di politica identitaria ebraica poiché le considero, tutte quante, esclusiviste e razziste. Purtroppo, allo stesso modo dei sionisti, molti gruppetti politici ebraici antisionisti sono apertamente impegnati in politiche altrettanto tribali, altrettanto razziste, altrettanto esclusiviste.

Ma esiste anche un problema ideologico. Io affermo apertamente che tutta la terminologia che loro usano è sbagliata. Il sionismo non è colonialismo, Israele non pratica l’Apartheid, e gli Israeliani non sono assimilabili ai sionisti. Il sionismo non è colonialismo: infatti, lo Stato ebraico dei coloni è privo di metropoli. Israele non è Apartheid: lo Stato ebraico non cerca di sfruttare i Palestinesi ma semplicemente di sbarazzarsene. In effetti, Israele si regge sulla filosofia dello spazio vitale, del Lebensraum. Detto in altre parole, lo Stato ebraico ha adottato l’ideologia razzista ed espansionista nazista. Ma gli ebrei che sono parte del nostro movimento [di solidarietà con i Palestinesi], non amano la similitudine con la Germania nazista. Di più, Israele non è esattamente il sionismo, e gli Israeliani non sono necessariamente sionisti. Israele è il prodotto dell’ideologia sionista e l’Israeliano è fondamentalmente un prodotto post-rivoluzionario. Ne consegue che il dibattito sionismo/antisionismo è molto poco pertinente con Israele, o nel quadro della politica israeliana. Riassumendo, tutta la terminologia che utilizziamo è ambigua, o addirittura fuorviante. E poiché io lo denuncio, immagino che sia del tutto naturale che alcuni vorrebbero eliminare il portatore di questo messaggio.

Silvia Cattori: In tanti la riconoscono come un pensatore serio e sincero in seno a questo movimento. La rispettano e ammirano. Lei ha il coraggio di incendiare il dibattito, infrangere i tabù, e di confrontarsi coi suoi detrattori con argomentazioni solide. Il fatto che l’UJFP in Francia e l’IJAN in Svizzera, per esempio, siano in grado di intimidire quanti l’apprezzano, pubblicano e invitano, non conferma forse la veridicità della sua posizione?

Gilad Atzmon: Queste officine ebraiche antisioniste non fanno che promuovere una causa tribale e marginale, raggruppano pochissime persone ma sono capaci di fare molto rumore. È chiaramente nell’interesse dei propugnatori del giudeo-centrismo mantenere in vita delle organizzazioni ebraiche dissidenti affinché detengano l’egemonia ebraica sul movimento di solidarietà con la Palestina e oltre. Tragicamente, ed è indubbio che sia così, questi movimenti non avranno mai alcuna possibilità di diventare movimenti di massa. Il loro messaggio è troppo esoterico. Così, ad esempio, perché mai una persona seria dovrebbe entrare in un gruppo di solidarietà se uno dei suoi principali obiettivi è la «lotta contro l’antisemitismo»? Se le persone sono realmente interessate al discorso della solidarietà con i Palestinesi, devono assicurarsi che si tratti di un movimento che sta diventando universale, un movimento guidato dalla compassione e da considerazioni etiche.

Forse vi sorprenderò. Io vorrei davvero vedere il maggior numero di ebrei possibile in questi movimenti; ma dovrebbero interessarsi di quelli che sono i veri problemi, cioè il calvario dei Palestinesi e la natura del potere politico ebraico. Fondamentalmente io studio il potere ebraico, è il mio oggetto di studio prediletto. Analizzo l’identità e la politica ebraica. Ed è del tutto sorprendente che i primi ad attaccarmi e a tentare di ridurmi al silenzio siano precisamente coloro che rivendicano di essere «attivisti ebrei della solidarietà con i Palestinesi». Già solo questo fornisce l’impressione che tali persone non sono affatto ciò che pretendono di essere, militanti della solidarietà. No, queste persone non sono altro che un’altra forma della AntiDefamation League.

Ma, lo sa, io sono felice di dibattere su questi temi. Se vogliono dibattere, che vengano a confrontarsi con me, a Londra o Parigi… se pensate che ho torto, venite a dibattere con me! Se sono in errore, venite a dimostrarmi le pecche del mio ragionamento: le mie informazioni sono erronee? Le mie argomentazioni parziali? No: in realtà nessuno è stato in grado di evidenziare il minimo errore nelle mie argomentazioni o nei fatti di cui parlo. Sanno solo ricorrere ad una trita tattica rabbinica, lanciare anatemi (herem). Perché ricorrono alla tattica talmudica? Perché probabilmente è esattamente ciò che sono, appartenenti al «popolo del libro» che perpetuano un orrido autodafé. Penso che se avessero potuto crocefiggermi, l’avrebbero fatto.

Silvia Cattori: I suoi detrattori sono determinati ad escluderla dal dibattito. È facile convincere quelli che non sanno nulla di come stanno le cose sostenendo che il suo polemizzare su giudaismo e antisionismo ebraico sarebbe alimentato da «razzismo» per il fatto che attribuisce «ad un intero gruppo di persone dei criteri negativi al fine di screditarli». Ma sono seri?

Gilad Atzmon: Allora, è sicuro che non sono seri. Io non mi occupo del giudaismo. Non critico niente del giudaismo anche se mi permetto di criticare talune interpretazioni che sono fatte dagli ebrei. Nemmeno critico con virulenza, in maniera generica, la politica ebraica, e l’antisemitismo ebraico in particolare. Ma le prime domande da sollevare qui riguardano il sapere perché a qualcuno dovrebbe essere interdetto dibattere sul giudaismo, la politica ebraica o l’antisemitismo ebraico. Il giudaismo è forse al di sopra di qualunque critica? La politica ebraica è forse intrinsecamente innocente? Gli antisionisti ebrei sono forse perfetti? È evidente che i miei detrattori aderiscono a questo giudizio, che più banale e inquietante non si potrebbe, secondo cui gli ebrei sono, in un modo o in un altro, dei prescelti, degli eletti, che il giudaismo è incontestabile e la politica ebraica intangibile. Ovviamente io non accetto questo approccio alle cose. Considerando l’impatto negativo che hanno le lobby politiche ebraiche nel fomentare una nuova guerra mondiale, criticare la politica ebraica significa amare davvero la pace.

Ci tengo inoltre a sottolineare che le preoccupazioni relative la «etnicità» o la «razza» sono estranee al mio lavoro. Nella totalità dei miei scritti non c’è il minimo riferimento agli ebrei in quanto «razza» o «etnia». Critico la cultura e l’ideologia ebraica in ragione del fatto che le organizzazioni IJAN, UJFP, ADL, la Zionist Federation, e compagnia, agiscono in quanto gruppi riservati ai soli ebrei e che le loro motivazioni sono ben lontane dall’essere universali o morali.

Silvia Cattori: Che mi dice «dell’antisemitismo classico» che le attribuiscono?

Gilad Atzmon: Dipende da cosa si intende per «antisemitismo classico». È vero che il XIX secolo ha prodotto una scuola di pensiero altamente critica nei confronti della cultura ebraica. Conosciamo bene questo dibattito tra Atene e Gerusalemme. Per quanto mi riguarda, era (e rimane) un dibattito molto interessante ed illuminante. Ha quanto meno avuto il merito di condurre generazioni di ebrei verso la riforma, l’umanesimo, la tolleranza.

In ogni caso siamo tutti d’accordo nel sostenere che l’antisemitismo è diventato un pensiero molto problematico, vile e criminale, nel momento in cui ha adottato una posizione biologica determinista. È dunque diventato fondamentalmente un discorso razzista darwinista. Ma, in un modo particolarmente scioccante, la politica ebraica (che sia di sinistra, destra o centro) si è imbevuta di questa sorta di attitudine razzista. Lei potrebbe, Silvia, aderire a uno di questi gruppi unicamente composti da ebrei che si pretendono «progressisti»? Io non credo. E sa perché? Non corrisponde affatto al profilo razziale indispensabile per esservi ammessa.

Silvia Cattori: Cosa risponde alle ricorrenti accuse di negazionismo?

Gilad Atzmon: Il negazionismo è, in tutta evidenza, una nozione sionista. Nessuno nega l’Olocausto, anche se alcune persone mettono in dubbio taluni elementi sul piano storico. Personalmente non prendo parte a dibattiti storici perché non sono uno storico. Tuttavia penso che la Storia debba rimanere un discorso aperto. Se qualcuno pensa che ho torto nell’affermare questo, che questa persona avanzi un argomento convincente. Ma attenzione: lui o lei dovrà anche spiegare cosa è inammissibile nella legge israeliana che riguarda la Naqba.

Silvia Cattori: Nel momento in cui si afferma che lei «attacca tanto gli antisionisti ebrei che i religiosi ebrei in termini razzisti », dunque, si mente?

Gilad Atzmon: Certo che si mente! È falso, è una totale deformazione dei miei scritti e del mio lavoro di ricerca. In tutti i miei scritti non si troverà alcuna critica del giudaismo o degli ebrei in quanto popolo, in quanto razza o in quanto etnia. Io non mi riferisco che alla sola ideologia, non al popolo. Sono irremovibile verso tutte le organizzazioni politiche riservate ai soli ebrei.

Considero taluni ebrei antisionisti e taluni ebrei di sinistra come «antisionisti sionisti» perché vedono nel loro essere giudei una qualità politica primaria. L’eminente sionista Haïm Weizmann ha detto: «Non esistono ebrei francesi, britannici, tanto meno americani. Ci sono solo ebrei che vivono in Francia, che vivono in Gran Bretagna o in America». Ciò significa che, nell’ideologia sionista, essere giudeo è una qualità primaria. Gli ebrei antisionisti o gli ebrei per la pace vedono chiaramente nel loro essere giudei una qualità primaria. Se non lo considerassero una qualità primaria, entrerebbero nel movimento per la pace e nel movimento per la solidarietà con la Palestina come tutti gli altri. Le ideologie ebraiche sono molto diverse le une dalle altre su numerose questioni. Ma tutte quante concordano su taluni punti fondamentali: l’Elezione, l’esclusivismo, la segregazione. La sola cosa in cui credono tutte, a l’unanimità, è che gli ebrei sono, in un modo o in un altro, il popolo eletto. Del resto, se gli ebrei non avessero niente di speciale, perché agirebbero attraverso gruppi in cui solo gli ebrei sono ammessi?

Silvia Cattori: Le rimproverano anche di suggerire l’idea che «l’oppressione colonialista israeliana non è frutto del sionismo ma il risultato del giudaismo».

Gilad Atzmon: Di nuovo, una caricatura. Per cominciare, lo ripeto, io non parlo del giudaismo, destrutturo l’ideologia ebraica. Posso arrivare a domandarmi quali siano le tracce giudaiche in una ideologia ebraica contemporanea. Per esempio, mi domando in che modo il Deuteronomio influenzi l’ideologia ebraica. Oppure chiedermi quale sia il significato del Libro di Esther. Tuttavia, del resto, affermo non essere il «sionismo» a far soffrire il popolo palestinese, ma lo Stato ebraico. E lo Stato ebraico lo fa in nome del popolo ebraico. Se Israele si autodefinisce come Stato ebraico, se i suoi carri armati sono decorati dai simboli ebraici, dobbiamo essere autorizzati a chiederci chi siano gli ebrei, o no? O ancora cosa sia il giudaismo e l’essere giudei. Nel mio lavoro io faccio un distinguo tra il sionismo e il discorso israeliano. Affermo che Israele non è guidato dal sionismo e che il sionismo è un discorso della diaspora ebraica che sta perdendo ogni rapporto con l’oppressione che subisce il popolo palestinese.

[…]

Silvia Cattori: La sua motivazione profonda non è, dunque, solo quella di allertare i Goyim (i non ebrei) e invitarli a smetterla di essere guidati dal senso di colpa, a cessare di sottomettersi, cessare di lasciarsi umiliare. Ma anche di far comprendere che, fin tanto che non ci sarà libertà di parola, Israele può continuare a guadagnare tempo per rendere la sua morsa sulla Palestina irreversibile?

Gilad Atzmon: Ai miei occhi non esiste differenza tra ebrei e non ebrei. Il mio desiderio più grande è di poter dire quello che voglio dire. Penso che il mio messaggio sia veramente cruciale per tutti quelli che cercano la pace, siano essi ebrei o Goyim. Per me, è evidente che Israele e le lobby pro-Israele spingono incessantemente e sempre più verso il conflitto. Israele e i gruppi di pressione rappresentano ormai la più grande minaccia per la pace mondiale. È chiaro, anche, ai miei occhi, che le comunità ebraiche non frenano né Israele né le lobby. E il messaggio, per noi, è molto chiaro: è nostra l’incombenza di salvare il pianeta. Questo pianeta, dove viviamo. Siamo seduti su una bomba a orologeria. Dobbiamo svegliarci, dobbiamo esprimerci, prima che sia troppo tardi.

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