La perniciosa influenza planetaria delle fondazioni e think tank degli Stati Uniti

 

Le fondazioni…esercitano un’influenza corrosiva sulla società democratica; rappresentano concentrazioni di potere e ricchezza relativamente incontrollate e che non devono rispondere delle proprie azioni, che comprano i talenti, promuovono cause e, di fatto, determinano che cosa meriti l’attenzione della società…un sistema che…ha operato a svantaggio degli interessi delle minoranze, dei lavoratori e dei popoli del Terzo Mondo

Robert F. Arnove, “Philanthropy and Cultural Imperialism. The Foundations at Home and Abroad”.

Un enorme potere, senza paragoni è concentrato nelle mani di un gruppo di persone, perfettamente coordinato e con la tendenza a perpetuare se stesso. Diversamente dal potere nelle aziende, non è controllato dagli azionisti; diversamente dal potere del governo, non è sottoposto al controllo popolare; diversamente dal potere nelle chiese, non è controllato da alcun canone consolidato di valori.

Conclusioni di un’indagine conoscitiva sulle fondazioni statunitensi effettuata da un comitato del Congresso americano nel 1952

Non ci si dovrebbe aspettare che ingenti patrimoni privati siano donati in maniera tale da innescare nella società redistribuzioni delle ricchezze e trasformazioni politiche.

Ruth Crocker, in“Charity, Philanthropy, and Civility in American History”

Il miglior programma in assoluto di educazione alla democrazia si chiama “Esercito degli Stati Uniti”

Michael Ledeen, American Enterprise Institute for Public Policy Research (AEI), collaboratore di Matteo Renzi

 

I think tank, pensatoi che dovrebbero partorire soluzioni per i grandi problemi di una comunità, sono armi a doppio taglio, perché danno alla luce idee e simboli, che sono il cibo della mente umana, ma anche la sua droga ed il suo veleno. Come le api sono nate per fare il miele ed i castori per costruire dighe, gli esseri umani sono nati per trasmutare simbolicamente tutto ciò che li circonda. Sono fatti per attingere al sublime, ma anche per cadere nella trappola dei miti politicizzati (Fait/Fattor 2010).

La ragion d’essere delle principali fondazioni e think tank (pensatoi, gruppi di riflessione ed approfondimento, reti di esperti) è quella di migliorare il mondo in accordo con le preferenze di chi le crea e le finanzia, ossia, in genere, dei magnati o dei politici, cioè a dire di persone che esercitano già una considerevole influenza sulla società, ma intendono esercitarne ancora di più. Queste organizzazioni, in termini pratici, servono a giustificare la permanenza di rapporti di poteri vantaggiosi per chi è già economicamente e politicamente egemone, pensando al posto nostro. Dato il loro profilo così prominente nella contemporaneità, sono stati oggetto di innumerevoli studi sociologici. Usando un gioco di parole, possiamo dire che il think tank è un carro armato (tank, in inglese) nella guerra delle idee che mira al controllo delle menti di 7 miliardi di persone.
Stephen Boucher e Martine Royo (2006) definiscono i “think tank” degli organismi permanenti non pubblici che hanno l’incarico di formulare soluzioni su scala nazionale o internazionale che possano essere tradotte in politiche pubbliche. Quasi tutte le fondazioni si sono dotate di uno o più think tank, perciò è pressoché inutile cercare di separarli. La loro missione li rende inscindibili. La fondazione si occupa della parte strategica, il think tank di quella tattica. Alcune fondazioni esistono da oltre un secolo, come ad esempio il trittico Ford, Rockefeller e Carnegie, dai nomi dei magnati che hanno fatto la storia dell’economia e dell’industria americana moderna. Un altro gigante si è aggiunto di recente, la Gates Foundation di Bill Gates, il fondatore di Microsoft, e di sua moglie. In Germania, la Friedrich Ebert Stiftung è vicina ai socialdemocratici, la Konrad Adenauer Stiftung è nella sfera democristiana.

Anche se ufficialmente i loro think tank dovrebbero produrre ricerca seria e rigorosa, non conosco nessuno studio accademico (ossia non promosso da un qualche think tank e quindi apologetico) che non li consideri delle vere e proprie macchine ideologiche al servizio di un qualche specifico interesse e/o ideologia. Boucher e Royo parlano di “pensiero mercenario”, un eufemismo per quello che altri chiamerebbero, meno sottilmente, “prostituzione intellettuale”.

Con questo non si vuol dire che tutti i think tank e tutte le fondazioni siano da mettere sullo stesso piano e demonizzare. Ma è indubbio che all’intensificarsi dei legami con la politica ed il capitale l’indipendenza di giudizio e l’integrità morale dei componenti di un think tank subiscono un inevitabile processo involutivo e la loro attività finisce per rassomigliare sempre più al marketing ed al lobbismo, con un impatto mediatico rapido e massiccio nel mercato delle idee (Boucher/Royo, ibidem). Gli intellettuali e gli stessi scienziati sono degli esseri umani come gli altri, né peggiori né migliori degli altri, anche se loro, non-ufficialmente, sono inclini a ritenersi migliori ed esenti da certe influenze corruttrici. Non citerò la cospicua produzione di studi sociologici che smentiscono le loro più intime convinzioni. Per questo sarebbe meglio che le politiche pubbliche fossero formulate da commissioni pubbliche temporanee, allo stesso modo in cui si sottopongono periodicamente al voto i rappresentanti parlamentari che poi le vaglieranno. A meno che non si creda, con Mandeville, che i vizi privati sono alla base delle virtù pubbliche, uno slogan screditato da millenni di storia umana ma che piace molto ai neoliberisti.

L’influenza dei think tank è poderosa in una molteplicità di settori: dall’ecologismo alla bioetica ed alle biotecnologie, dagli studi sulla pace alla geopolitica, dalle risorse energetiche alle politiche socio-economiche, carcerarie e monetarie, dalla Guerra al Terrore alla globalizzazione, all’arte ed alla cultura, al razzismo, al federalismo ed alla tutela delle minoranze etno-linguistiche.

Gli esempi della loro egemonia culturale non si contano, ma due sono forse i più eclatanti. Il primo è quello delle politiche di sterilizzazione involontaria di decine di migliaia di donne nel mondo occidentale e di milioni di donne nel Terzo Mondo a fini eugenetici prima e di controllo della popolazione non-bianca (ad esempio i quechua ed aymara del Perù) poi (Connelly, 2008). L’altro è il “Progetto per un nuovo secolo americano”, una strategia neoconservatrice imperialista statunitense che risale alla fine degli anni Novanta e che ha condotto all’invasione dell’Iraq nel 2003. È notorio perché al centro delle teorie del complotto riguardo all’11 settembre 2001, in quanto un suo rapporto del settembre del 2000, intitolato “Rebuilding America’s Defenses: Strategies, Forces, and Resources for a New Century” (“Ricostruire le difese dell’America: strategie, forze e risorse per un nuovo secolo”), auspicava il verificarsi di un evento del tipo Pearl Harbor che autorizzasse gli Stati Uniti a prendere il controllo dell’Asia Centrale, considerata la chiave per mantenere in una posizione subalterna Russia, India e Cina e quindi per conservare lo status di unica superpotenza egemone. Altri casi degni di menzione sono l’amministrazione Reagan, che selezionò lo staff presidenziale (150 specialisti!) nel vivaio della Hoover Institution, della Heritage Foundation e dell’American Enterprise Institute, tutte fondazioni ultraconservatrici, con relativi think tank.

Tra gli studiosi che hanno approfondito il ruolo delle fondazioni e dei think tank nella formazione della percezione della realtà da parte dei cittadini delle democrazie occidentali figura anche il celebre Pierre Bourdieu, che anche dopo la morte, avvenuta nel 2002, resta il più influente sociologo francese. Nel 1998, assieme al collega francese (docente a Berkeley) Loïc Wacquant, riconosciuto specialista nel campo del razzismo e dei sistemi carcerari, pubblicò un saggio dagli effetti dirompenti, intitolato “Sulle astuzie della ragione imperialista” (“Sur les ruses de la raison impérialiste”), in cui si argomentava la tesi che le grandi fondazioni americane che si occupano di razzismo, in particolare la Rockefeller e la Ford, cerchino deliberatamente di incoraggiare i leader delle minoranze etno-razziali al di fuori degli Stati Uniti ad adottare le stesse tecniche di autoaffermazione identitaria, oggettivamente fallimentari, impiegate negli Stati Uniti. Tecniche, per intendersi, che sono state ripudiate dallo stesso Martin Luther King, un uomo dall’enorme perspicacia ed onestà, e che non sono mai state prese in seria considerazione da Aung San Suu Kyi o da qualunque attivista che rivendichi i diritti umani e civili per tutti e non solo per una fazione.

Bourdieu e Wacquant sono finiti al centro di una vigorosa polemica non tanto per aver denunciato il carattere fallimentare dell’identitarismo particolaristico e settario, ma per aver affermato che la contrapposizione tra neri e bianchi, che volutamente cancella l’esistenza dei meticci/mulatti, fa parte di una strategia globale neocolonialista all’insegna del divide et impera che, insistendo sulla componente somatica (il colore della pelle), conduce ad una guerra tra poveri che avvantaggia chi teme che le classi subordinate possano creare una piattaforma di rivendicazioni comuni che metta in difficoltà lo status quo. Le loro conclusioni sono in linea con quanto si apprende dalle ricerche di Anthony W. Marx (nessuna relazione con il più celebre Karl) su Stati Uniti, Sudafrica e Brasile, Livio Sansone sul Brasile (2002, 2003), Mark Clapson sul Regno Unito (2006), Donald E. Abelson (1996), Yves Dezalay & Brian G. Garth (2002), Noliwe Rooks (2006), Inderjeet Parmar (2012) e Thomas Medvetz (2012) sugli Stati Uniti e le loro relazioni interrazziali ed internazionali, Rafael Loayza Bueno ed Ajoy Datta sulla Bolivia (2011).

A dire il vero, Bourdieu e Wacquant non sono stati dei pionieri. Già negli anni Quaranta il giornalista e storico statunitense Joel A. Rogers lamentava il fatto che gli attivisti neri per i diritti civili fossero usati dai filantropi delle maggiori fondazioni per diffondere un’immagine omogenea, omologata, monolitica e caricaturale dei neri che sarebbe servita a “tenerli al loro posto” e a “mettere in cattiva luce quei pochi neri in grado di ragionare con la propria testa” (cit. in Plummer, 1996, p. 228). Uno dei più ammirati sociologi americani, C. Wright Mills, aveva gettato le basi per un’analisi scientifica di questo fenomeno già a cavallo degli Cinquanta e Sessanta, ma scomparve prematuramente prima di riuscire a portare al termine il suo ambiziosissimo progetto sociologico di studio delle élite e delle loro strategie. Solo negli anni Ottanta, grazie ad Edward Berman ed al suo magnifico e scrupoloso saggio (“The Ideology of Philanthropy”) e, più recentemente, Sally Covington (1998), Frances Stonor Saunders (1999, ed. it. 2004) e Joan Roelofs (2003) sono riusciti a mettere in luce i legami tra le fondazioni filantropiche, le militanze identitarie, gli architetti della politica estera americana e la CIA. Centinaia di milioni di dollari investiti in una guerra di idee e per il controllo dei media, di interi dipartimenti universitari e della lealtà di membri del Congresso (Saunders, op. cit., p. 122):

L’uso delle fondazioni filantropiche si rivelò il modo più efficace per far pervenire consistenti somme di denaro ai progetti della CIA, senza mettere in allarme i destinatari sulla loro origine…Nel 1976, una commissione d’inchiesta nominata per indagare le attività dell’intelligence statunitense riportò i seguenti dati relativi alla penetrazione della CIA nella fondazioni: durante il periodo 1963-1966, delle 700 donazioni superiori ai 10.000 dollari erogate da 164 fondazioni, almeno 108 furono totalmente o parzialmente fondi della CIA. Ancor più rilevante è che finanziamenti della CIA fossero presenti in quasi metà delle elargizioni, fatte da queste 164 fondazioni durante lo stesso periodo nel campo delle attività internazionali durante lo stesso periodo.

Sempre negli anni Ottanta, Robert Arnove, oggi professore emerito all’Università dell’Indiana, allora un insider con accesso ad informazioni riservate, curò la pubblicazione di un volume collettaneo (“Philantropy and cultural imperialism: the foundations at home and abroad”, 1980) in cui puntava il dito contro le fondazioni Ford, Rockefeller e Carnegie e la loro “corrosiva influenza sulla società democratica”, resa possibile da una concentrazione di potere e capitali non adeguatamente regolamentata, in grado letteralmente di comprare la lealtà degli esperti e di promuovere certe cause secondo certe modalità in modo tale da indirizzare l’attenzione dell’opinione pubblica in certe direzioni piuttosto che in altre. Lo stesso Arnove, in seguito, assieme alla collega sociologa Nadine Pinede (“Revisiting the Big Three Foundations”, 2003), ha potuto confermare la validità dei precedenti giudizi sulle politiche di deradicalizzazione (leggi: castrazione e frammentazione) del movimento per i diritti civili attuate dalle suddette fondazioni in nome dell’ideologia dell’identitarismo culturale che sottrasse al più vasto movimento le importanti energie di una larga porzione di attivisti afro-americani, non più disposti a condividere la lotta con esponenti di altre culture ed etnie (si veda anche Roelofs 2003).

Il povero Martin Luther King non poté sfuggire a questo gorgo e ne finì risucchiato, lui che contrastava ogni tentativo di spezzare il movimento dei diritti civili in fazioni concorrenti. Nel febbraio del 1967 prese la decisione di opporsi alla politica americana in Vietnam, pur sapendo che così facendo avrebbe causato l’interruzione del flusso di erogazioni da parte di varie fondazioni e in particolare della Ford Foundation. Aveva ben chiaro in mente che, com’era più che logico, le politiche di finanziamento delle maggiori fondazioni favorivano le valvole di sfogo, ossia quelle organizzazioni che davano voce alla protesta ma senza mai mettere in discussione l’establishment nel suo complesso (Walker, 1983).

Molte persone fanno fatica ad immaginare che delle fondazioni possano realmente cambiare il corso della storia di un’intera nazione. Ma si considerino le somme a loro disposizione. Nel 2011 il valore del patrimonio complessivo delle fondazioni americane ammontava a quasi 622 miliardi di dollari. Se fossero una nazione, sarebbero al ventesimo posto nella classifica del PIL, poco dietro la Svizzera. Nel 2010 decine di migliaia di fondazioni filantropiche hanno distribuito finanziamenti per un valore totale che eccede i 46 miliardi di dollari (valore raddoppiato rispetto al 1999). Ciò significa che, in questi anni, solo negli Stati Uniti, le fondazioni movimentano l’equivalente di una manovra finanziaria italiana importante o del PIL della Tunisia o dell’Uruguay. Nel 2000 il solo “Programma per la pace e la giustizia sociale” della Ford Foundation ha devoluto 26 milioni di dollari per i “diritti delle minoranze e la giustizia razziale”, su un totale di 80 milioni di dollari di finanziamenti a livello globale. La Bill e Melinda Gates Foundation distribuisce annualmente almeno 3 miliardi di dollari ad organizzazioni ed individui che ritiene meritevoli e dispone di un patrimonio del valore di oltre 33 miliardi di dollari (poco meno del PIL del Kenya, più di quello della Lettonia). Era a 37 miliardi nel 2010. Ford Foundation, Paul Getty Trust, Robert Wood Johnson Foundation dispongono tutte di circa 10 miliardi di dollari di beni: in termini di PIL, si collocherebbero davanti all’Armenia. In termini pratici, non devono rispondere del loro operato né ai mercati, né alla stampa, né tantomeno all’elettorato.

Con queste cifre e questo potere in ballo, non è sorprendente che i saggi dedicati a questo argomento così cruciale siano, globalmente, poche decine e tutti o quasi tutti ad opera di accademici non dipendenti da sovvenzioni private. Non sono molti i giovani ricercatori disposti a sputare nel piatto in cui sperano di mangiare e ancor meno quelli, più maturi, pronti a farlo in quello in cui stanno già mangiando. La falsa coscienza fa il resto: si razionalizza il proprio comportamento e quello di chi ci sovvenziona e ci si convince che l’utile giustifica i mezzi. D’altronde, stante il feroce antistatalismo americano, quasi tutte le organizzazioni per i diritti civili, la giustizia sociale e la difesa dell’ambiente, per poter restare in vita, sono costrette a rivolgersi alle fondazioni “filantropiche” ed alla loro per nulla disinteressata filantropia. Lo stato non è quindi in grado di assicurarsi che l’elaborazione e discussione delle questioni pubbliche non vengano monopolizzate da interessi privati. È un fenomeno che si sta verificando anche in Europa, specialmente ora che la crisi e l’austerità hanno prosciugato le casse degli stati europei.

Ora, limitatamente alle fondazioni maggiori, emanazioni del capitale finanziario-industriale, alla luce degli studi summenzionati, possiamo dire che quelle di destra sono anti-democratiche e non fanno molto per nasconderlo; quelle “progressiste” sembrano più orientate a provare a migliorare la situazione, ma solo per poter mantenere le cose come stanno. Queste ultime sono espressioni di centri di interesse che non disprezzano apertamente la democrazia, ma preferiscono gestirla in modo accentrato e tecnocratico, a causa della scarsa stima che nutrono nei confronti delle masse. Ciò che accomuna le fondazioni di destra (es. praticamente tutte quelle legate agli interessi delle multinazionali farmaceutiche e petrolifere, o il Pioneer Fund) e i think tank di destra da un lato (es. Freedom House, Council on Foreign Relations, Hudson Institute) e quelle di sinistra (es. Open Society di George Soros, Gates Foundation) con i rispettivi think tank (es. la New America Foundation vicina a Zbigniew Brzezinski, una delle figure più influenti nelle scelte di politica estera dell’amministrazione Obama) dall’altro è, a grandi linee, il rifiuto del principio della pari dignità e il trionfo dell’elitismo e dell’oligarchismo più o meno benevolo (o malevolo, a seconda dei punti di vista, naturalmente). Come documentano Robert Arnove e Nadine Pinede, tutte le grandi fondazioni “progressiste” sono ispirate ai principi del conservatorismo sofisticato ed appoggiano dei cambiamenti che assicurano una maggiore efficienza del sistema esistente ed una minore frizione con i privilegi già acquisiti. In questo modo, però, perpetuano le dinamiche che generano quelle disuguaglianze ed ingiustizie alle quali ufficialmente desiderano porre rimedio.

La democrazia diretta non ha mai ucciso nessuno…finora!

Non credete a chi vi dice che più democrazia diretta ci sarà, meno problemi avremo. Non è successo in Svizzera e non succederà altrove. La democrazia diretta è una buona cosa se usata con misura, sobrietà, buon senso, assennatezza e discernimento, altrimenti è un’arma micidiale. In ogni caso, i diritti fondamentali e la pari dignità di cittadini e residenti/soggiornanti NON DEVONO ESSERE MAI TOCCATI (se non per migliorarli ed ampliarli!)

Un estratto dal mio prossimo libro
:

“[…] Gli etnopopulisti elvetici dell’SVP, imprigionati dai vincoli costituzionali, adoperano la democrazia diretta, incluse le proposte di legge di iniziativa popolare e i referendum, per vincere delle battaglie che altrimenti non potrebbero neppure intraprendere. Questo, naturalmente, significa che la fede di carattere messianico dei campioni della democrazia diretta, che vedono nella democrazia diretta la soluzione alla gran parte del mali della società, è malriposta. Lungi dall’indebolire la partitocrazia, la democrazia diretta dal basso incentiva lo sviluppo di nuove forme di partitismo non meno manipolative e spregiudicate di quelle giustamente sotto accusa (Ladner/Brändle, 1999).

Uwe Serdült e Yanina Welp, due tra i massimi esperti elvetici di democrazia diretta, hanno studiato le iniziative popolari di democrazia diretta in tutto il mondo dalla prima (nel 1874) al 2009 (Serdült/Welp 2012) ed hanno scoperto che la diffusione della democrazia diretta non ha nulla a che vedere con la crisi della democrazia rappresentativa nelle democrazie consolidate. Infatti la spinta per una maggiore democrazia diretta ha riguardato soprattutto paesi non-europei. Sono solo quattro su 38 le nazioni dell’Europa occidentale che si sono dotate degli strumenti per attuare la democrazia diretta a partire dal basso. E di queste 38 nazioni solo 19 ne hanno fatto uso dalla fine degli anni Ottanta. La tanto bistrattata democrazia italiana risulta al secondo posto nel mondo, con 62 referendum a partire dal 1974, dopo la Svizzera (336 dal 1874) e davanti al Liechtenstein (56 dal 1925), San Marino (14 dal 1982) e Uruguay (11 dagli anni Cinquanta). Proprio in Uruguay dei referendum di riforma costituzionale sono stati promossi nel 1958, 1962 e 1966 per imprimere una svolta autoritaria al sistema di governo uruguagio. In Estonia, nel 1933, sotto la pressione della Depressione, il regime fascista fu instaurato proprio attraverso un’iniziativa popolare di democrazia diretta.

Più recentemente, numerosi studiosi hanno messo in guardia dal sottovalutare la capacità dei gruppi di pressione e dei poteri forti di influenzare l’andamento delle campagne referendarie e l’esito del voto: il cosiddetto “paradosso populista” (Gerber, 1999). David S. Broder (2000) ha evidenziato con abbondanza di riferimenti come, soprattutto in California, ma non solo, è tragicamente ingenua la fiducia che si ripone del potere taumaturgico dell’iniziativa popolare: laddove c’è un netto divario di risorse, demagoghi e lobbisti strumentalizzano la democrazia diretta senza che gli elettori se ne rendano conto e sussiste un rischio molto concreto che, prima o poi, il sistema democratico rappresentativo e, con esso, la cornice costituzionale, possa essere abbattuto dall’interno, a furor di plebiscito. In pratica, quella che doveva essere una cura contro il lobbismo si è trasformata in un’ulteriore opportunità di manipolazione degli orientamenti dei cittadini, perché la politica non ha ancora provveduto a regolamentare adeguatamente le attività di pressione e renderle trasparenti.

Barbara Gamble, che ha rianalizzato le esperienze di democrazia diretta negli Stati Uniti tra il 1959 ed il 1993, ha mostrato che le maggioranze hanno ripetutamente usato lo strumento referendario per tiranneggiare le minoranze, con iniziative contrarie ai loro diritti civili che hanno riscosso una serie straordinaria di successi (Gamble 1997, p. 261). Questo avviene ancora più di frequente nelle comunità più piccole, laddove manca quell’eterogeneità di interessi che rende più arduo formare delle maggioranze coese che possano spadroneggiare sulle minoranze (Donovan/Bowler 1998).

Il problema principale è che chi è in grado di investire molto denaro ha una concreta possibilità (statisticamente significativa) di far pendere la bilancia da una parte o dall’altra, in accordo con le sue preferenze (Hertig, 1982; Kriesi, 2005; Stratmann, 2006). Hanspeter Kriesi, direttore del dipartimento di politica comparata all’Università di Zurigo e specialista di democrazia diretta, ha rilevato che le iniziative di democrazia diretta in Svizzera sono molto spesso impregnate di emotivismi e di tenaci pregiudizi in favore delle indicazioni di voto del proprio partito di riferimento e moltissimi elettori decidono fin dall’inizio che cosa voteranno, cambiando idea molto di rado e facendo proprie le argomentazioni che raccolgono durante la campagna referendaria solo per razionalizzare scelte predeterminate e di carattere emotivo. In un intervento alla conferenza internazionale annuale dell’associazione di studi politici sul tema “in difesa della politica” (aprile 2012), Kriesi ha amaramente commentato che l’esercizio deliberativo nelle campagne di democrazia diretta non corrisponde ad uno scenario ideale in cui i votanti prendono delle decisioni sulla base delle argomentazioni più persuasive.

Mentre l’islamofobia e la xenofobia hanno pesantemente condizionato la pratica della democrazia diretta in Svizzera, ostacolando per esempio gli sforzi dei rappresentanti politici di naturalizzare gli immigrati e garantire i loro diritti civili (Hainmueller/ Hangartner 2012), l’omofobia ha più volte annullato virtualmente tutte le iniziative a livello rappresentativo negli Stati Uniti che volevano garantire pari diritti agli omosessuali. Negli Stati Uniti, tra il 1995 ed il 2004, gli stati che prevedevano la democrazia diretta hanno approvato molte più proposte di legge ostili alle minoranze di quelli che non la contemplano (Lewis, 2011). La Svizzera, avendo previsto questo tipo di risvolto, è meno affetta – ma tutt’altro che immune – da questa sindrome di populismo autoritario e discriminatorio perché ha cercato di mettere al sicuro i principi costituzionali ed i diritti civili già garantiti dalle aggressioni di un elettorato volubile (ma sulle naturalizzazioni ha potuto fare ben poco).

Dobbiamo, tristemente, prendere atto del fatto che James Madison, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, aveva ragione quando ammoniva che “quando una maggioranza è unita da un comune interesse, i diritti della minoranza sono incerti” (1787)”.

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