Se ami la scienza, emancipala dall’ateismo/materialismo

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L’Universo è immateriale – mentale e spirituale. Vivetelo e godetevelo.

Richard Conn Henry, fisico, Johns Hopkins University, NATURE, Vol 436, 7 July 2005

http://henry.pha.jhu.edu/The.mental.universe.pdf

Credo che soddisfino i requisiti standard di validità di un’affermazione ordinaria, ma sono insufficientemente convincenti per un’affermazione straordinaria.

Richard Wiseman, il mastino degli “scettici”, ammette che i fenomeni parapsicologici sono reali ma, arbitrariamente, non li considera scientificamente dimostrati

http://en.wikipedia.org/wiki/Talk%3ARemote_viewing

La Terra non può che essere al centro dell’universo = la mente non può essere altro che il cervello

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Io sono panenteista (non panteista), come Pitagora, Plotino, Whitehead, ecc. (e credo anche Gesù e Origene, uno dei padri della Chiesa ripudiati)

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/08/26/il-mondo-non-starebbe-meglio-senza-gli-umani/

http://www.mb-soft.com/believe/txc/panenthe.htm

http://www.estropico.org/index.php?option=com_content&view=article&id=204:alla-f

Prima di tutto vorrei togliere di mezzo un grosso equivoco. Che io sappia, Richard Dawkins non ha mai detto che alla religione non dovrebbe essere accordato alcun rispetto o che la tolleranza della religione è parte del problema. È un laico e quindi, giustamente, riafferma il diritto di ciascuno di credere in ciò che vuole senza che lo Stato o chi per lui stabilisca se uno ha il dovere di essere ateo/noncredente o credente in qualcosa di specifico.

I credenti dovrebbero essere grati a tutti quelli che si battono per una società laica – incluso Dawkins –, perché una società laica è una società in cui si è liberi di scoprire se stessi e la realtà che ci circonda.

Non tutti gli atei/noncredenti militanti sono così illuminati e tolleranti. Alcuni, quasi sempre maschi, sembrano davvero infuriati, in cerca di capri espiatori e si comportano come i fondamentalisti che combattono, ad esempio descrivendo/concependo la società in senso dicotomico, come se esistessero solo due fazioni: i credenti e i non credenti, con questi ultimi che sono dalla parte del vero e del giusto e i primi che nascondono intenti tirannici.

Sono però in minoranza – o almeno questa è la mia impressione – e comunque nel pieno diritto di prendersela con chi vogliono, finché non violano la libertà altrui di professarsi credente, o semplicemente agnostico.

Non penso che potrebbero avere mai la meglio, se non altro perché l’influenza benefica della religiosità personale su salute mentale, benessere fisico, convalescenza, longevità, riuscita sociale (vita di coppia, relazioni interpersonali, ecc.) è abbondantemente documentata (Kenneth I Pargament [a cura di] APA Handbook of Psychology, Religion, and Spirituality, Washington, D.C. : American Psychological Association, 2013).

Inoltre la concezione degli esseri umani come entità meccaniche prive di libero arbitrio, il cui senso di sé è un’illusione e la cui coscienza è solo un epifenomeno, un effetto collaterale privo di senso, è una visione troppo tragica e fatalistica (se non nichilista) del destino umano. Per miliardi di persone, credo a buon diritto, continuerà a essere intollerabile: creare significati in un universo del tutto privo di un senso alto, è compito ingrato (i non-credenti si sentono eroici e in un certo senso hanno ragione, anche se a me pare sia un eroismo abbastanza futile) e non privo di pericoli.

La storia è davvero fin troppo piena di intellettuali che hanno giustificato ogni mostruosità e fanatismo sulla scorta del diritto alla sopravvivenza e affermazione di sé e del proprio gruppo di riferimento, o specie: si può fare tutto, purché la specie prosperi, anche, per esempio, terraformare/colonizzare altri pianeti [è del tutto plausibile che qualcuno che si considera la massima autorità nell’universo possa agire come se fosse fosse padrone dell’universo]?

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/06/22/la-verita-sulla-nostra-conquista-di-caprica/

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Il mondo di questi primi anni del 21° secolo sta lottando fieramente per liberarsi dal giogo del fondamentalismo, dell’interpretazione letterale delle scritture, e finora ha solo trovato un’alternativa, l’ateismo, che però risulta insoddisfacente e teoreticamente deludente, associato com’è a paradigmi scientifici antiquati (Newton, Maxwell, Darwin)

http://www.thegreatdebate.org.uk/DarwinDarwinitis.html

Retaggi di un’epoca in cui fisica e biologia sembravano molto più facilmente comprensibili e in una certa misura prevedibili. Questo prima dell’avvento di fisica quantistica, epigenetica, bioastronomia e studi della coscienza.

Ateismo e scientismo sembrano d’altronde combattere l’integralismo su un terreno antiquato, quello di un dio dell’età del bronzo (o medievale) che interessa davvero a pochi. Forse per questo le loro dispute sono in genere noiose e poco edificanti.

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Affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie” è un aforisma coniato (pare) da Marcello Truzzi, sociologo alla Eastern Michigan University, fondatore dello CSICOP, il CICAP americano. La cosa interessante è che in seguito Truzzi fu scacciato dallo CSICOP per aver chiesto che al suo interno fossero accolti anche studiosi seri del paranormale, in modo da poter confrontare le posizioni in maniera sistematica ed affinare le tesi.

Da quel momento si definì uno “zetetico” (volto alla ricerca della verità), perché considerava gli “scettici” come degli “pseudo-scettici” privi di velleità scientifiche, che si rifiutavano a priori di verificare le sperimentazioni nell’ambito del paranormale e che erano i principali responsabili dell’involuzione semplicistica del dibattito.

Un esempio tra i più noti è quello del confronto tra Stephan Schwartz, che sostiene di essere un “remote viewer” (una persona capace di vedere a grandi distanze, anche qualcosa che succede all’altro capo del mondo) e l’ateo militante Daniel Dennett che, sfidato a dimostrare che gli articoli sul remote viewing erano effettivamente fraudolenti e anti-scientifici scegliendone uno e discutendolo con lui, ha risposto: “non penserà che io legga roba del genere, vero?”

Queste sono le cose che facevano imbestialire Truzzi. È come se lo pseudo-scettico si auto-mutilasse il cervello pur di non “cadere in tentazione”, un atteggiamento inquisitoriale, non certo agnostico.

Come sostiene un mio caro amico: “l’ateismo è una posizione insostenibile perché parte da un assunto di fede esattamente analogo a quello del credente, per quanto specularmente opposto. L’agnosticismo è l’unica scelta razionale e di buonsenso”.

Truzzi la pensava come lui e morì disilluso nel 2003.

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In altre parole, la scienza è un metodo di indagine e un insieme di modelli di realtà in costante evoluzione. Come tale, è neutrale in relazione al piano metafisico. Non dovrebbe mai essere concepita come legata ad una specifica visione filosofica del mondo (es. materialismo).

Tra l’altro se, nel corso della storia, l’umanità si fosse rifiutata di considerare prove aneddotiche, vivremmo ancora nelle caverne.

Per questo è ragionevole ipotizzare che la scelta del non-credente senza se e senza ma sia di natura psicologica, non scientifica.

Può essere una scelta di ribellione ad un contesto familiare o scolastico soffocante, o all’assenza di una figura paterna importante (cf. Paul Vitz, “The faith of the fatherless”).

Può essere una scelta modaiola: oggi dirsi atei fa fico, fa “uomo di mondo”, fa adulto che non crede più a certe sciocchezze infantili.

Può essere una reazione inconsapevole al timore di una possibile vita dopo la morte, di un giudizio, di una prospettiva reincarnativa incontrollabile.

Può essere una necessità in un ambiente in cui non si è accettati o non si fa carriera se non la si pensa in un certo modo.

Sospetto che molti “atei” siano più intimoriti che rassicurati dall’evidenza empirica. Credono che le loro convinzioni si basino sull’evidenza empirica, ma in realtà si basano unicamente sul caparbio e perciò emotivo/irrazionale rifiuto di vagliarla.

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Sono tempi molto interessanti.

Dawkins è una di quelle figure che un giorno non sarà più ne venerata né odiata o disprezzata, ma apprezzata per i suoi sinceri sforzi di abbattere dogmi obsoleti, agendo, in parte, spinto da un autentico desiderio di rendere il mondo un posto migliore. Il suo contributo sarà riconosciuto in particolare da chi, come me, si augura che questo ariete possa spianare la strada a una teologia scientifica e a un rinascimento spirituale (cosa che lui certamente non auspica: si chiama “eterogenesi dei fini”).

Questa teologia scientifica ha preso forma già da alcuni decenni. Chi cerca sinceramente Dio lo può trovare anche nella scienza. Gli esempi sono innumerevoli: Max Planck, Werner Heisenberg, Erwin Schrödinger, Wolfgang Pauli, Arthur Eddington, Casey Blood, David Bohm, Amit Goswami, Shimon Malin, Eugene Wigner, Fritjof Capra, Richard Henry, Henry Stapp, Hans-Peter Durr, ecc.

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2013/10/03/fisica-paolina/

In assenza di un impulso teleologico, non pare davvero esserci alcuna ragione per cui, in un universo che tende all’entropia, cioè l’antitesi dell’ordine e della complessità, dalla materia debba emergere la coscienza, una forma superiore di ordine, enormemente complessa.

Se si scoprissero tracce di vita intelligente nel cosmo la cosa diventerebbe ancora più singolare.

Se le restrizioni autoimposte alla scienza in Occidente non cambieranno, la fiaccola della scienza del 21° secolo passerà nelle mani dei BRICS e succederanno molte cose eccitanti.

Certe persone hanno avuto l’opportunità di esperire un fenomeno per il momento inusuale: i normali confini della mente si allontanano e la persona ha una improvvisa, travolgente e ineffabile esperienza panenteistica della vera natura della realtà: tutte le cose sono collegate, l’universo è olografico, benevolo e propositivo, e dietro a tutto questo c’è una grande mente di cui siamo tutti frammenti.

La realtà è verosimilmente molto meno scettica degli “scettici” riguardo a quel che è e quel che può fare. Se ne fa un baffo della nostra nozione di “normale” e “paranormale”.

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In conclusione, il materialismo e il fondamentalismo religioso sono impegnati in una lotta per la sopravvivenza e si sostengono a vicenda combattendosi, per poter restare sotto le luci della ribalta, per restare rilevanti. Purtroppo per loro milioni di persone si sono accorte che queste visioni del mondo hanno superato la data di scadenza e che, pur con tutte le ingenuità, distorsioni, furbizie, manipolazioni, ecc. della New Age, qualcosa di nuovo e importante sta emergendo e non ci è ancora dato di sapere cosa sia.

Materialisti e fondamentalisti se ne staranno lì, ai margini del dibattito, con le loro bandiere, a difendere la teologia dell’età del bronzo e la scienza del diciannovesimo secolo, mentre il mondo procede oltre e li consegna alle curiosità museali.

Dunque non c’è bisogno di combattere gli uni o gli altri, a meno che non intendano dominare la scena: le loro rispettive visioni del mondo cadranno a pezzi nel giro di una generazione. Il tappo sta già saltando, grazie alla fisica/astrofisica, alla biologia, alle scienze cognitive, che stanno inoltrandosi sempre di più in un terreno in cui si realizza una stimolante sintesi di scienza e spiritualità, loro malgrado.

Quello è il futuro, loro sono il passato.

Omaggio ad Ahmadinejad – le parole che nessun politico italiano pronuncerà mai

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https://twitter.com/stefanofait

Rohani è stato definito “moderato” e “ragionevole” dalla stampa italiana. Le sue prime dichiarazioni:
1. Sanzioni ingiuste e ingiustificate;
2. Iran non sospenderà l’arricchimento dell’uranio;
3. Negoziati con gli Usa a condizione che riconoscano i diritti legittimi dell’Iran;
4. Iran contrario a ingerenze straniere in Siria;

Non vedo, francamente – e me ne compiaccio -, alcuna differenza rispetto al “grande demone” Ahmadinejad: l’uomo che ha promosso la causa della sovranità e dignità palestinese, che ha difeso il welfare, che voleva sviluppare l’economia iraniana, modernizzare il paese, ottenere una condanna delle politiche di Israele da parte delle Nazioni Unite, promuovere le donne in politica ai più alti incarichi, riformare le Nazioni Unite, contenere i costi della politica, denunciare i complotti della NATO e di Israele in Medio Oriente:
https://versounmondonuovo.wordpress.com/2013/06/16/ex-ministro-degli-esteri-francese-uk-e-israele-non-usa-hanno-ordito-linsurrezione-siriana/
https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/05/31/loccidente-e-la-destabilizzazione-della-siria-1957-2011-articolo-del-guardian/

…già, CHE SCHIFO!

 Ahmadinejad è stato accusato di populismo. Negli ultimi 40 anni, chiunque desideri fare qualcosa per i cittadini (es. investire in infrastrutture e in programmi di welfare) e arginare il potere delle oligarchie è condannato come populista dalle “democrazie” occidentali e dai loro media. L’Occidente è diventato una parodia orwelliana: la guerra (umanitaria) è pace, la schiavitù (flessibilità/precariato) è libertà, l’ignoranza (propaganda dei media) è forza, la democrazia è populismo, l’oligarchismo è democrazia e va esportato con la forza.

Ahmadinejad non ha mai dichiarato che l’Iran avrebbe distrutto Israele: si è limitato ad osservare che, continuando così, il sionismo avrebbe causato la sua distruzione, il che dovrebbe essere evidente a tutti e sottoscritto da tutte le persone che non hanno perso la bussola morale [«… questo regime occupante Gerusalemme è destinato a scomparire dalla pagina del tempo… » – «…per quanto concerne le atrocità israeliane nei territori occupati, il regime criminale che sta sfruttando la ricchezza dell’oppressa nazione palestinese e sta uccidendo innocenti da 60 anni, ha raggiunto la sua fine e sparirà dalla scena politica…» – chi non è d’accordo è meglio che si domandi quale sia la misura del lavaggio del cervello che ha subito].
È un ingegnere forse di discendenza ebraica persiana che ha evitato di creare un culto della personalità intorno a lui (Obamamania), è stato sindaco di Tehran (Obama diviene presidente senza l’esperienza necessaria a guidare la superpotenza egemone), usa i proventi petroliferi per varare una serie di programmi per aiutare disoccupati e giovani coppie (Obama ha salvato le banche zombie). Ha condotto una vita sobria (ogni tour di Obama costa decine di milioni di dollari).
Il suo slogan elettorale è “è possibile e possiamo farlo” (yes we can), si è battuto per eliminare il potere di veto delle grandi potenze sulle decisioni che riguardano l’intera umanità, ha promosso il legittimo e legale programma atomico civile iraniano a dispetto di sanzioni internazionali (che erano e restano illegali e un giorno saranno considerate un crimine contro l’umanità, come l’infame embargo all’Iraq). Ha continuato a finanziare Hezbollah (ritenuto un’organizzazione terroristica da quelle nazioni che si rifiutano di condannare le azioni terroristiche di Israele). Ha cercato di indebolire il potere dei conservatori in Iran e, per questo, lui ed i suoi fedelissimi sono diventati il bersaglio di una campagna prima denigratoria e poi giudiziaria per stroncare ogni prospettiva che un “Ahmadinejadista” arrivi di nuovo al potere. Ha fatto eleggere ad alti incarichi il maggior numero di donne nella storia dell’Iran (o della storia italiana). Nei confronti delle proteste di piazza non si è comportato diversamente da Erdogan, che non pare aver perso il sostegno delle democrazia occidentali, e meglio del governo del Bahrein o dello Yemen, alleati di ferro dell’Occidente.

Per tutte queste ragioni, la demonizzazione di Ahmadinejad da parte di governi alleati delle teocrazie e monarchie assolutiste del Golfo Persico e di Israele è una delle grandi infamie del nostro tempo.

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L’Occidente non ha voluto ascoltare questo discorso, rivolto da Ahmadinejad all’assemblea delle Nazioni Unite. Se omettessi di dire che sono le sue parole, qualcuno potrebbe credere che siano uscite dalla bocca di papa Francesco, o di un segretario generale dell’ONU più coraggioso ed indipendente degli altri.
Ora che la vendetta degli ayatollah si sta per abbattere su chi ha osato sfidarli
http://www.adnkronos.com/IGN/News/Esteri/Iran-Ahmadinejad-a-novembre-in-tribunale-per-denuncia-presidente-parlamento_32305219693.html

mi pare il momento opportuno per riproporre questo splendido appello all’umanità, che rimane tale a prescindere da ciò che uno possa pensare dell’ex presidente iraniano (giudizi non certo immuni dalla pesante ed unilaterale cappa mediatica occidentale).

“Le culture originali e preziose che sono l’esito di secoli di sforzi e sono il punto d’incontro dell’amicizia degli uomini e dei popoli e sono motivo di varietà e di ricchezza culturale e sociale sono minacciate ed in via di estinzione.
Con l’umiliazione e la distruzione sistematica delle identità culturali si propina alla gente un tipo di vita senza identità personale e sociale.
Le masse popolari non hanno mai desiderato fare conquiste ed ottenere con la guerra ricchezze mitiche. I popoli non hanno divergenze, non hanno avuto nessuna colpa nei fatti amari della storia, sono stati solo ‘le vittime’.
Io non credo che le masse musulmane, cristiane, ebraiche, induiste, buddiste ed ecc… abbiano dei problemi fra di loro. Loro si amano facilmente, vivono in una atmosfera di amicizia, e vogliono tutti purezza giustizia ed affetto.
In generale le richieste dei popoli sono sempre state positive e l’aspetto comune tra di loro, è la loro propensione per istinto verso la bellezza e le virtù divine ed i valori umani.
È giusto dire quindi che la responsabilità dei fatti amari della storia e delle condizioni inconvenienti di oggi, è della gestione del mondo e dei potenti del mondo che hanno venduto l’anima a Satana.
L’ordine mondiale di oggi è un ordine che ha le sue radici nel pensiero anti-umano dello schiavismo, nel colonialismo vecchio e nuovo, ed è responsabile della povertà, della corruzione, dell’ignoranza, dell’ingiustizia e della discriminazione diffusa in tutte le parti del mondo.
La gestione attuale del mondo ha delle caratteristiche ed io ne voglio citare qualcuna.
Primo: è basata sul pensiero materiale e per questo non sente il dovere di rispettare i principi morali.
Secondo: è basato sull’egoismo, l’inganno e l’odio.
Terzo: effettua una classificazione degli uomini, umilia certi popoli, usurpa i diritti di altri ed è basata sul dominio.
Quarto: è alla ricerca della diffusione del dominio attraverso l’intensificazione delle divisioni e delle divergenze tra i popoli e le nazioni.
Quinto: cerca di concentrare nelle mani di pochi paesi il potere, la ricchezza, la scienza e la tecnologia umana.
Sesto: l’organizzazione politica dei centri principali del potere mondiale, è basata sul dominio e sulla forza che un paese ha e che è superiore a quella di altri paesi. Gli enti internazionali pertanto sono centri per acquisire potere, ma non per creare pace e servire tutti i popoli.
Settimo: il sistema che domina il mondo è discriminatorio e basato sull’ingiustizia.
Come deve essere il nuovo ordine mondiale?
Amici e colleghi cari!
Cosa bisogna fare? Qual’è la soluzione? Non c’è dubbio che il mondo ha bisogno di nuovo pensiero e nuovo ordine. Un ordine in cui:
1- L’uomo venga riconsiderato la più eccelsa creatura divina e ad esso venga riconosciuto il diritto di avere una vita caratterizzata da aspetti sia materiali che morali e venga riconosciuto il valore elevato della sua anima e venga riconosciuta legittima la sua propensione istintiva alla giustizia ed alla verità.
2- Invece dell’umiliazione e della classificazione degli uomini e delle nazioni, si pensi alla rinascita della dignità e del carattere sacro dell’uomo.
3- Si cerchi di creare, in tutto il mondo, pace, sicurezza stabile e benessere.
4- La nuova struttura venga costruita sulla base della fiducia e dell’amore tra gli uomini, si cerchi di avvicinare i cuori, le menti, le mani ed i governanti imparino ad amare la gente.
5- Venga applicato un unico standard nelle leggi e tutti i popoli vengano presi in considerazione alla pari.
6- Coloro che gestiscono il mondo si sentano al servizio della gente e non superiori alla gente.
7- La gestione venga considerato un incarico sacro affidato dalla gente alle persone e non una opportunità per arricchirsi.
Come si realizza il nuovo ordine?
Signor Segretario, Signore e Signori!
– Un ordine del genere può realizzarsi senza la cooperazione di tutti alla gestione del mondo?
– È chiaro che queste speranze avranno una probabilità per avverarsi solo quando tutte le nazioni inizieranno a pensare in dimensione internazionale e saranno seriamente decise a partecipare all’amministrazione del mondo.
– Con l’aumento del livello di consapevolezza, ci sarà sempre una maggiore richiesta per una nuova gestione del mondo.
– Questa è l’era dei popoli e la loro volontà sarà determinante per il domain del mondo.
Pertanto è degno un impegno collettivo in queste direzioni:
1) Fare affidamento al Signore ed opporsi con tutta la forza alle ambizioni ed a coloro che vogliono più di quanto spetta loro per isolarli ed indurli a rinunciare al vizio di voler decidere al posto dei popoli.
2) Credere nell’aiuto divino e cercare di compattare ed avvicinare le comunità umane. I popoli ed i governi eletti dai popoli devono credere fermamente nelle proprie capacità e devono avere la forza per lottare contro il sistema ingiusto vigente e difendere i diritti umani.
3) Insistere nell’applicazione della giustizia in tutte le relazioni e rafforzare l’unità e l’amicizia, ampliare le relazioni culturali, sociali, economiche e politiche nell’ambito delle ong e delle organizzazione specializzate, in modo da preparare il terreno fertile per l’amministrazione collettiva del mondo.
4) Riformare la struttura dell’Onu sulla base degli interessi di tutti ed il bene del mondo intero. Bisogna ricordare che l’Onu appartiene a tutti i popoli e per questo discriminare i membri è una grande offesa alle nazioni. L’esistenza di differenze, vantaggi, diritti e privilegi non può essere accettabile, in nessuna forma ed in nessuna misura.
5) Cercare di produrre leggi e strutture basate sempre più sulla letteratura dell’amore, della giustizia e della libertà. L’amministrazione collettiva del mondo è una garanzia per la pace stabile”.
http://italian.irib.ir/notizie/mondo/item/113960-onu-ahmadinejad-propone-nuovo-rinascimento,-%E2%80%98ricollocate-al-centro-dell%E2%80%99universo-l%E2%80%99uomo-e-la-sua-dignit%C3%A0%E2%80%99-discorso-completo

La Disputa – per il nostro futuro, per avere un futuro

 

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Nel 1550, l’anno in cui si svolse il confronto dialettico con Sepúlveda, Las Casas aveva 66 anni. Le opinioni erano divise e il re convocò alla corte di Valladolid una giunta di teologi e giuristi per dirimere la questione se sia lecito fare la guerra a popoli le cui “colpe” risalgono a quando erano infedeli. Furono convocati i due rivali, in un confronto destinato a trascendere l’oggetto del contendere per cristallizzare nelle due trattazioni i due possibili approcci politici al problema dell’altro, del diverso: quello delle piramidi oligarchiche e castali e quello democratico, universalista ed egalitario.

Las Casas aveva lasciato il Nuovo Mondo nel 1547 ed era determinato a dedicare gli anni che gli rimanevano da vivere all’attività di avvocato difensore dell’umanità americana. Sebbene per estrazione sociale fosse un popolano, Las Casas era tutt’altro che un sempliciotto. Gli studi e la passione per l’apprendimento l’avevano reso un erudito della letteratura teologica-scolastica e del diritto canonico (Parish, 1992). L’esperienza di vita e la pratica della dialettica avevano affinato la sua arte retorica. Fu moderno nel reperire nella matrice dell’economia di profitto e rapina le radici dell’ideologia coloniale e nell’insistere che il benessere materiale e la sopravvivenza degli indigeni dovevano venire prima di ogni altra cosa, persino della conversione. Solo una conversione per amore era valida, mentre il comportamento tirannico e distruttivo degli Spagnoli era “uno scandalo agli occhi di Dio”.

Analizzò la civiltà azteca, quella degli sconfitti, nell’Apologética Historia, composta tra il 1527 ed il 1550, che però rimase inedita per oltre tre secoli. Questa vera e propria ricerca etnografica si basava sulle sue esperienze personali, sulla sua estesa corrispondenza e su manoscritti altrui. Lo scopo era quello di dimostrare che gli indiani soddisfacevano tutti i requisiti aristotelici della buona vita. Erano semplicemente rimasti isolati dal resto del mondo e non avevano potuto fruire della circolazione della conoscenza e della verità. In breve avrebbero potuto recuperare il tempo perduto perché facevano parte di un’unica umanità, dotata delle medesime facoltà. Questo, naturalmente, a patto che nella loro educazione si impiegasse il metodo giusto, fatto di “amore, gentilezza e premura”.

La disputa fu equilibrata. Sepúlveda eccelleva nella cultura classica e nel latino, Las Casas possedeva una fervida eloquenza – invidiabile e da molti invidiata – ed un’esperienza sul campo estesissima, maggiore di chiunque altro, cosa che fece pesare nel dibattito, quando ad esempio insinuò che il suo rivale “aveva scritto il suo libretto velocemente e senza soppesare adeguatamente il materiale e le circostanze”. Nel corso della disputa Sepúlveda si limitò sostanzialmente a riassumere i punti principali della sua posizione “rigidamente ortodossa ed altamente sciovinista” (Pagden, 1989) che, comprensibilmente, non poteva essere elaborata ulteriormente in un contesto come quello della madrepatria, che in generale non vedeva di buon occhio proclami biodeterministici (la natura come destino) che ponevano limiti alla Divina Provvidenza. Las Casas invece approfittò dell’occasione per illustrare la condizione dei nativi e lesse estratti dalla sua apologia per diversi giorni. Entrambi si autoproclamarono vincitori, ma la commissione non espresse alcun giudizio.

Al centro del conflitto tra i due “colossi” c’era il principio di separazione contrapposto a quello di unità. Sepúlveda riusciva a vedere – o dava mostra di vedere – solo differenze, disparità, gerarchie, identificando in ogni diversità la cifra dell’inferiorità ed una conferma che gli Spagnoli avevano il diritto-dovere di imporre il bene. “Sepúlveda crede che non l’eguaglianza, ma la gerarchia sia lo stato naturale della società umana” (Todorov, 1992). Las Casas enfatizzava le analogie, le affinità e la condivisione paritaria, ossia quei principi nutritivi che hanno alimentato la quercia dei diritti civili e dei diritti umani. Secondo Sepúlveda i nativi amerindiani potevano usufruire del diritto alla libertà, ma non nei medesimi termini degli Europei cristiani. La libertà dei primi era fortemente attenuata dalla loro natura specifica ed inferiore, ciò che lo induceva a ritenere che non si sarebbe mai veramente raggiunta una condizione di uguaglianza e che quindi la sovranità spagnola non sarebbe mai stata seriamente messa in discussione nei secoli a venire.

In pratica, la posizione dell’umanista di Cordoba è l’adattamento più estremo delle speculazioni aristoteliche sulla diversità umana che si potesse accettare in un contesto giuridico e teologico generalmente ostile al concetto di inferiorità e schiavitù naturale, ma tollerante nei confronti dell’aggiogamento dei prigionieri di guerra a fini di conversione e civilizzazione. Un’impostazione radicalmente anti-cristiana ed anti-umana agli occhi del domenicano che, nella Brevissima relazione della distruzione dell’Africa, condannava queste pratiche senza mezzi termini: “Come se Dio fosse un violento ed iniquo tiranno e gradisse e approvasse, per la parte che gliene offrono, le tirannie”.

Sepúlveda diede l’avvio alle sue argomentazioni usando come caso emblematico l’impero azteco, ritenuto la civiltà più sviluppata del Nuovo Mondo. Il comportamento di Montezuma (Motekwmatzin, in lingua Nahuatl), che avrebbe potuto schiacciare i pochi invasori ma si limitò a dissuaderli dall’avvicinarsi alla capitale, per poi accoglierli senza offrire resistenza, è indicato come prova della codardia, inanità, mancanza di spirito degli Aztechi. Nessun aspetto della civiltà era davvero degno di nota: commercio, edifici, vita sociale erano solo necessità naturali che sorgono automaticamente e spontaneamente, senza merito alcuno da parte di chi ne fa uso. La loro esistenza dimostrava solo che “non sono orsi o scimmie e non sono completamente privi di ragione”. D’altra parte non avevano sapienza, né scrittura e archivi storici, ma solo immagini pittografiche. Non avevano leggi scritte ma solo usanze e costumi barbari; soprattutto non conoscevano la proprietà privata. Che avessero accettato questo stato di cose senza ribellarsi confermava lo spirito meschino e servile di questi barbari che andavano sottomessi per il loro bene. Le loro terre sarebbe state meglio gestite da chi se ne intendeva e non commetteva peccati così infamanti; il pontefice non avrebbe avuto nulla da ridire.

Las Casas rispondeva che il papa non aveva una giurisdizione punitiva universale e, se l’avesse avuta, questa si sarebbe dovuta estendere fino a includere la fornicazione, il furto e l’omicidio. Inoltre Israele non si era mai impadronito delle terre dei vicini perché erano non credenti o idolatri o perché commettevano peccati contro natura. Ciò detto, pur domandandosi con quale autorità questo papa assegnava terre che non gli appartenevano e mettendo in discussione la validità giuridica dell’espropriazione dei beni indigeni, non negava che le cose più imperfette dovessero cedere il passo a quelle più perfette quando le incontravano, “come la materia dinnanzi alla forma, il corpo dinnanzi all’anima ed il sentimento dinnanzi alla ragione”, ma non quando queste caratteristiche appartenevano a soggetti distinti. Perciò la gerarchizzazione nei rapporti tra coloni e soggetti era illegittima: “Nessun popolo libero può essere costretto a sottomettersi ad un popolo più educato, anche se questa sottomissione dovesse dimostrarsi di grande vantaggio per il primo”. Qui Las Casas si rifaceva al principio cardine dello jus gentium, il consenso volontario dei soggetti. Anche lui aveva studiato il suo Aristotele, ma lo usava solo per confermare le Scritture, non per reinterpretarne il senso. Dopo tutto, lo stesso Stagirita non aveva mai indicato chiaramente come distinguere uno schiavo da un uomo libero.

Tra i due esisteva un forte divario etico ed esistenziale: uno metteva al centro l’uomo ed i deboli, l’altro il ceto e la nazione (i ricchi e i potenti). Sepúlveda cedeva alla passione per l’economia politica, al limite dell’eresia, con argomentazioni che mal si conciliavano con il diritto canonico e la teologia e che celavano un sostrato pagano e naturalista. Le sue tesi erano in contrasto con la missione evangelizzatrice della Conquista ma non con quella sfruttatrice dei Conquistadores. Per questo non erano ben accolte a Corte, mentre erano molto ben viste in America. Per certi versi il pensiero di Sepúlveda fu l’espressione massima della coscienza sociale e politica dei conquistatori. Lo jus gentium, che regolava i rapporti tra i popoli, secondo lui altro non era che uno sviluppo del diritto di guerra. Poneva così la violenza e la sopraffazione all’origine del diritto, in diretto conflitto con il Nuovo Testamento. Inoltre, insistendo sull’autonomia della sfera sociale e politica da quella religiosa, si collocava ad una distanza piuttosto ridotta da Lutero, al quale, oltre venticinque anni prima, aveva rivolto una severa critica. Sepúlveda dichiarava che si era tenuti a sottomettere con le armi, se non fosse stato possibile farlo diversamente, quei popoli che per condizione naturale dovevano obbedire ad altri e rifiutavano il loro fato. Ogni disuguaglianza era naturale e, in quanto naturale, era tale per decreto divino.

Questo assunto non era però ricevibile dai giuristi spagnoli, che da tempo avevano accettato l’idea che lo stato di diritto non avrebbe lasciato spazio a rapporti di sfruttamento servile, prediligendo la forma di contratto sociale tra individui giuridicamente liberi. Per questa ragione il sistema di schiavitù di fatto che esisteva nelle colonie americane non fu mai sancito giuridicamente. Come al giorno d’oggi la tortura, il lavoro nero e lo sfruttamento della prostituzione, pur non dovendo esistere, la schiavitù esisteva, e nessuno poteva farci nulla. Così si ideò l’istituzione neo-feudale dell’encomienda, fingendo ipocritamente che ciò non fosse in contrasto con lo spirito delle leggi dell’impero.

Sepúlveda aveva un’idea ben definita del nuovo ordine che doveva essere costruito nelle Americhe: il diritto doveva rispecchiare il sistema di potere e le strutture gerarchiche imposte dai vincitori. Il discrimine tra civile e barbaro era la proprietà privata, fino ad allora sconosciuta nel Nuovo Mondo. La Conquista era un’opera di civilizzazione non tanto perché divulgava le parole di Cristo, ma perché esportava il modello capitalista-mercantilista e pedagogico europeo. Un’anticipazione della retorica del fardello dell’uomo bianco, ufficialmente tollerato in quanto atto caritatevole.

Un governo autonomo e rispettoso dei suoi cittadini spettava esclusivamente ai popoli avanzati, quelli inferiori – privi di sangue cristiano e dominati dalle passioni e dai vizi – necessitavano di governi autoritari che li avviassero su un cammino di rettitudine, anche se ciò comportava il disprezzo dell’uomo per l’uomo. I nuovi signori avrebbero agito come strumenti di redenzione e rigenerazione, vicari di Dio in terra.

Quattro furono le motivazioni addotte per dar conto di questa posizione: (a) la gravità dei delitti degli indiani, soprattutto la loro idolatria e i loro peccati contro natura; (b) la grossolanità della loro intelligenza, che ne faceva una nazione servile, barbara, destinata ad essere sottomessa all’obbedienza da parte di uomini più avanzati, quali gli spagnoli; (c) le esigenze della fede, poiché il loro assoggettamento avrebbe reso più facile e rapida la predicazione; (d) il male che si facevano tra loro, uccidendo degli uomini innocenti per offrirli in sacrificio.

La prima giustificazione dell’asservimento degli Indios era formulata come segue: “Così il motivo per porre fine a questi atti criminali e mostruosi e per liberare gli innocenti dalle azioni ingiuriose commesse contro di loro, potrebbe già da solo concedervi il diritto, peraltro già assegnatovi da Dio e dalla Natura, di sottomettere i barbari al vostro dominio…a ciò si aggiunga l’intento di garantire ai barbari molte cose utili e necessarie…una volta che questi beni siano stati offerti e che le mostruosità che spaventano per la loro empietà, siano state soppresse dallo sforzo, lavoro e valore della nostra gente, e che la religione cristiana e le sue ottime leggi sia stata introdotta, come potrebbero questi popoli ripagarci di tanta abbondanza, varietà ed immortalità di doni?”.

In questa prospettiva la missione civilizzatrice arrecava solo benefici ai colonizzati, che dovevano essere eternamente grati ai loro nuovi signori. L’autorità di usare la forza traeva origine dalla superiorità del sistema di valori e forma di governo dei colonizzatori. La civiltà non era il regalo della Spagna al mondo ma di Dio all’umanità; la Spagna era solo un veicolo della volontà di Dio. Sepúlveda esprimeva con cinica franchezza l’idea che l’inferiore è universalmente responsabile per la sua condizione. Gli indios obbedivano all’arbitrio e non si curavano della loro libertà: “Tale comportamento spontaneo e volontario, senza essere oppressi dalla forza delle armi, è un segno evidente dell’animo servile e vile di questi barbari […]. Tali erano insomma l’indole e i costumi di questi omuncoli, tanto barbari, incolti e disumani, prima dell’arrivo degli Spagnoli”. Il dovere dei padroni-educatori non era quello di coltivare la personalità dei singoli, come unità indipendenti, ma di adattarli minuziosamente alla loro umile funzione di ingranaggi nella megamacchina dell’Impero, in nome di un fine più elevato, il Bene Comune, l’Armonia Superiore, la realizzazione della Volontà di Dio in terra.

A dispetto delle giustificazioni addotte dai suoi sostenitori, la visione sociale di Sepúlveda era inumana e cerebrale, ostile agli Indios nella loro realtà concreta, perché si prefiggeva degli obiettivi irrealistici, rispetto ai quali non avrebbero mai potuto essere all’altezza. Si indicava la possibilità che la natura umana indigena, seppur distinta da quella euro-cristiana, potesse essere modellata ed adattata al sistema grazie ad una corretta pedagogia, ad un’organizzazione politico-sociale dirigista e a maglie strette e ad una pianificazione preveggente. La diffidenza totale nei confronti dell’Altro era alla base di quest’apologia del Nuovo Ordine.

Leggere le tesi dei sostenitori della Conquista riporta alla mente il tema dell’”accusa del sangue”, così ben delucidata da Furio Jesi. Gli Indios, come gli Ebrei, erano visti come “una popolazione che, pur mascherandosi ipocritamente sotto parvenze di civiltà, era di fatto, e per sua incancellabile natura, diversa come i selvaggi erano diversi dagli uomini civili. […]. Negli Ebrei, popolo “sacrificatore ed antropofago” si riconosceva dunque una singolare commistione di civiltà e di natura selvaggia, di cultura e di impulsi cannibalici”. Ipocritamente ed esteriormente civilizzati, dall’animo “crudo, feroce e sanguinario”, non sono “selvaggi allo stato puro, ma selvaggi mascherati, quelli che non astuzia e ipocrisia sono riusciti a fingere di essere civili” (Jesi, 2007).

La distopia del Nuovo Ordine Cristiano doveva essere protetta dal peccato, dal sincretismo, dall’idolatria mascherata, persino dai più reconditi pensieri dei sudditi, appannaggio del peccato, perché troppo iniqui, troppo fragili, troppo vulnerabili rispetto alle passioni. Mentre per Las Casas l’indio era un essere umano come lui, per Sepúlveda l’indio era una risorsa ed un ostacolo in un ordine dove tutto doveva essere in perfetta sintonia con la volontà degli encomenderos. L’umanità era svalutata perché incompiuta ed imbarazzante e persino l’elemento spagnolo doveava guardarsi dalla contaminazione che sempre segue il contatto con l’impuro. Non era il cristiano che si macchiava delle più atroci scelleratezze con perfida innocenza, era l’autoctono che gli aveva forzato la mano, con la sua indocilità e stoltezza. La coscienza di quest’ultimo andava colonizzata come si fa con le aree geografiche, denaturata come da indicazioni del Grande Fratello orwelliano: “Ti spremeremo fino a che tu non sia completamente svuotato e quindi ti riempiremo di noi stessi”.

L’indio doveva essere reso docile, duttile, doveva capire che la volontà dei suoi signori-tutori era espressione della forza della necessità, dell’indispensabilità, che si sbagliava se credeva di essere diretto surrettiziamente in una certa direzione: la sua era una scelta libera (sic!) che conseguiva alla sua maturazione civile, alla sua debarbarizzazione. Sepúlveda si era costruito una stravagante concezione dell’autonomia e dell’emancipazione. Gli indigeni sarebbero stati pronti all’autodeterminazione quando fossero stati in grado di agire nel senso voluto da chi li aveva educati, dai suoi demiurghi-pedagoghi. Questo sistema, in cui si era pienamente liberi se ci si inchinava, se si dimostrava la propria innocenza, in cui i signori si riservavano il privilegio di far sentire liberi e uguali i servitori a loro piena discrezione, era un simulacro di libertà, una burla estremamente dolorosa per chi se ne avvedeva.

È stupefacente osservare come le prescrizioni di “ingegneria comportamentale” di Sepúlveda coincidano talora con quelle della pedagogia di Gor’kij – “Solo nella sofferenza l’anima umana è bella” – e Makarenko – “La crudeltà è la più alta forma di umanesimo perché costringe l’individuo a cambiare anche controvoglia”. Ma è ancora più sorprendente constatare la somiglianza con il Grande Inquisitore sivigliano di Ivan Karamazov. Sepúlveda esortava gli Spagnoli a “sradicare le turpi nefandezze e il grave crimine di divorare carne umana, crimini che offendono la natura, così come continuare a rendere culto ai demoni piuttosto che a Dio […] e salvare da gravi ingiustizie molti innocenti che questi barbari immolavano tutti gli anni”. Dio era con loro e nessuno avrebbe potuto arrestare la loro opera redentrice, poiché “per molte cose e molto gravi, questi barbari sono obbligati a riconoscere il dominio degli spagnoli […] e se rifiutano il nostro dominio potrebbero essere obbligati con le armi ad accettarlo, e questa guerra, con l’autorità di grandi filosofi e teologi, sarà una guerra giusta per legge naturale”. L’uso della violenza e della guerra giusta era giustificato anche dalla parabola evangelica (Lc 15,15-24) di quel signore che, dopo aver invitato molti a nozze, alla fine obbliga i poveri a partecipare al banchetto. L’umanista si richiamava all’interpretazione di Sant’Agostino il quale, riferendosi ai primi, osservava che li si invita ad entrare, mentre i poveri sono obbligati. “Questi, barbari, quindi, che violano la natura, sono blasfemi ed idolatri, perciò sostengo che non solo li si può invitare, ma anche obbligare (compellere), costringere affinché, ricevendo l’imposizione del potere dei cristiani, ascoltino gli apostoli che annunciano loro il Vangelo”. Questo argomento conseguiva alla tesi centrale del Democrates Alter: si poteva ottenere più in un mese con una conquista che in un secolo di predicazione. Non servivano miracoli, perché i mezzi umani che godevano di sanzione divina ottenevano gli stessi risultati. La guerra era insomma necessaria e giusta e se si insegnava ai nativi senza terrorizzarli, questi sarebbero rimasti testardamente aggrappati alle loro tradizioni secolari. Nulla di strano che il domenicano Melchor Cano, subentrato a de Vitoria, trovasse in quest’opera passaggi che suonavano “offensivi per le orecchie pie”. Sepúlveda sembrava affascinato dai vincoli di servitù (vinculum serviendi) e dal patriarcalismo che compenetrano l’Antico Testamento. Non amava la libertà e forse non la capiva. La nozione di giustizia parimenti gli sfuggiva.

Secondo Carlo Maria Martini “la giustizia è l’attributo fondamentale di Dio. Nel giudizio universale Gesù formula come criterio di distinzione tra il bene e il male la giustizia, l’impegno a favore dei piccoli, degli affamati, degli ignudi, dei carcerati, degli infermi. Il giusto lotta contro le disuguaglianze sociali”. Se questo è vero, Dio non era con Sepúlveda quando, rifacendosi alle ingiunzioni divine contenute nel Deuteronomio, affermava che la Spagna era autorizzata a muovere guerra a qualunque nazione di religione diversa. Non gli era accanto nemmeno quando, sempre nel Democrates Alter, dichiarava che “il fatto che qualcuno di loro abbia un’intelligenza per certe cose meccaniche non significa che abbiano una maggiore saviezza, perché vediamo come certi animali come le api e i ragni facciano cose che nessuna mente umana potrebbe ideare”. È cristiano il mondo visto come un intero ordinato in cui l’ordine è strettamente gerarchico e opera meccanicamente, in cui il valore della natura e dell’umanità inferiore corrisponde al suo valore d’uso, in cui l’obiettivo dei dominatori è ottenere il libero consenso delle vittime al loro supplizio, in modo da potersi scagionare preventivamente?

Per fortuna l’antagonista di Sepúlveda sapeva il fatto suo. Nella sua difesa Las Casas si avvalse della sua Apología e della Apologetica História Sumária, la sua opera più antropologica, completata dopo il 1551. Intendeva guadagnarsi un pubblico più ampio, non solo gli esperti della commissione, e voleva altresì dimostrare al più vasto numero di persone possibili che gli indiani erano membri di pari dignità della comunità umana e che le loro società erano sostanzialmente mature e civili, a dispetto della diversità di tradizioni e costumi. Voleva corroborare la tesi che “dietro le evidenti differenze culturali tra i popoli umani esisteva un medesimo sostrato di imperativi sociali e morali” (Pagden, 1989). Guardate alle cose che abbiamo in comune, non a quello che ci divide! Ammirate le splendite città azteche e inca! Nel confronto con Greci e Romani gli Aztechi vincevano a livello tecnologico, architettonico, artigianale ed artistico; specialmente nell’uso decorativo delle piume, con le quali riuscivano a comporre ritratti e rappresentazioni che potevano competere con l’arte rinascimentale e per di più cangiavano i colori a seconda della prospettiva dell’osservatore. “Non abbiamo alcuna ragione di meravigliarci dei difetti, delle usanze non civili e sregolate che possiamo riscontrare presso le nazioni indiane, né abbiamo ragione di disprezzarle per questo. Infatti, tutte o la maggior parte delle nazioni del mondo furono molto più pervertite, irrazionali e depravate, e fecero mostra di molto minor prudenza e sagacia nel loro modo di governarsi e di esercitare le virtù morali. Noi stessi fummo molto peggiori al tempo dei nostri antenati e su tutta l’estensione del nostro territorio, sia per l’irrazionalità e la confusione dei costumi, sia per i vizi e le usanze bestiali” (Apologetica História). Per non parlare della loro modestia e mitezza. Quanto al sacrificio umano, sicuramente i sacrifici indigeni reclamavano meno vittime della Conquista: “Non è vero affermare che nella Nuova Spagna si sacrificavano ogni anno ventimila persone, né cento, né cinquanta, perché, se così fosse, non troveremmo tante infinite genti come ne troviamo. Tale affermazione altro non è che la voce dei tiranni, per scusare e giustificare le loro arbitrarie violenze e per opprimere, depredare e tiranneggiare gli indios… E questo pretendono coloro che dicono di essere dalla loro parte, come il dottore e i suoi seguaci…Il dottore ha contato malissimo, perché possiamo con maggiore verità e meglio dire che gli Spagnoli hanno sacrificato alla loro dea amatissima e adorata, la cupidigia, ogni anno della loro permanenza nelle Indie una volta entrati in ogni provincia, più anime di quante in cent’anni gli indios in tutte le Indie ne avessero sacrificato ai loro dei”.

Inoltre gli indigeni non avevano avuto sentore di alcuna alternativa prima dell’arrivo degli Spagnoli: “Tanto coloro che volontariamente permettono di essere sacrificati, come i semplici uomini del popolo in generale, quanto i ministri che li sacrificano agli dèi per ordine dei principi e dei sacerdoti, agiscono sotto gli effetti di una ignoranza invincibile, e il loro errore dev’essere perdonato anche se arrivassimo a supporre l’esistenza di un giudice competente che possa punire tali peccati” (Apología). Non erano dunque in cattiva fede e, finché i cristiani non fossero riusciti a dimostrare coi fatti che la loro religione era ispirata da Dio, “essi sono senza dubbio tenuti a difendere il culto dei loro dèi e la loro religione, e ad uscire con le loro forze armate contro chiunque cerchi di privarli di tale culto o religione, o di recare loro offesa o impedirne i sacrifici; contro di essi sono così tenuti a lottare, a ucciderli, catturarli ed esercitare tutti quei diritti che sono corollario di una giusta guerra, in accordo con il diritto delle genti” (ibid.). Mai si era udita una tesi così ardita, che ritorce i principi della scolastica contro chi li impiegava per giustificare l’imperialismo. Angél Losada, nell’introduzione all’Apología, ha così riassunto l’innovativa interpretazione lascasiana del tomismo: “se i cristiani fanno uso di mezzi violenti per imporre la loro volontà agli indios, è meglio che questi rimangano nella loro religione tradizionale; anzi, in tal caso sono gli indios pagani a trovarsi sulla buona strada, e da loro devono imparare i cristiani che si comportano così”.

Questo argomento si riaggancia alla strategia di confrontare civiltà americane e civiltà classiche. Quale società non ha praticato sacrifici nel suo passato? Non facevano sacrifici umani anche gli Spagnoli, i Greci e i Romani? In seguito però erano diventati popoli civili. Lo stesso Abramo aveva offerto in sacrificio suo figlio a Dio. Eppure non riteniamo questi popoli depravati ma devoti, sebbene non ancora illuminati dalla Grazia. Un tempo il sacrificio era importante per venerare Dio. Arrivavano persino a sacrificare se stessi per Dio: una devozione più appassionata di questa non la si può immaginare! Las Casas, esibendo un’impressionante ed anticipatrice capacità di distacco relativistico dall’oggetto della sua analisi comparativa, completava il ragionamento facendo rilevare che il sacrificio umano non era in contrasto con la ragione naturale, era piuttosto un errore intrinseco della ragione naturale. Gli indoamericani non erano umani difettosi. Originariamente, a suo giudizio, erano monoteisti, come dimostrano i miti del dio creatore e civilizzatore diffusi in tutte le Americhe. Fu soltanto in seguito che l’isolamento li aveva esposti all’azione subdola e corruttrice del demonio, spingendoli verso il politeismo. Ora li si dovevano aiutare a rinunciare ai sacrifici con la forza delle argomentazioni e mostrando esempi di alternative migliori, non con quella delle armi. “Se questi sacrifici offendono Dio spetta a Dio punirli, non certo a noi”. Non era stato forse San Paolo, nella Prima lettera ai Corinzi, a chiarire una volta per tutte questo punto? “Spetta forse a me giudicare quelli di fuori? Non sono quelli di dentro che voi giudicate? Quelli di fuori li giudicherà Dio”. La Chiesa doveva forse oltraggiare Dio ergendosi a giudice degli esseri umani quando lo stesso Gesù il Cristo, stando a Luca (12, 13), aveva obiettato: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”. Infatti, sempre rifacendosi al Nuovo Testamento, “Cristo non è venuto per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Giovanni 3, 17).

Gli Indios dovevano essere messi nelle condizioni di accettare sinceramente e liberamente la cristianità, non indotti a farlo slealmente o coercitivamente. La pedagogia azteca insegnava ai figli ad essere ordinati, sensibili, prudenti e razionali: non certo il segno di una società che non avrebbe saputo autogovernarsi. L’unico tratto barbaro era l’ignoranza delle Scritture, ma a questo si poteva presto porre rimedio. A questo punto la trattazione si fece allegorica. Le varie manifestazioni dell’umano che s’incontravano nel mondo erano eterogenee. Alcune assomigliavano a dei campi non coltivati. E proprio come un campo abbandonato produceva solo spine e cardi ma, se coltivato, dava frutti, così ogni essere umano, per quanto apparentemente barbaro e selvaggio, era dotato dell’uso della ragione e poteva apprendere e generare i frutti dell’eccellenza.

Al richiamo alle terribili punizioni divine descritte nel Vecchio Testamento, replicò che esse andavano contemplate con meraviglia, non imitate. Quanto alla rozzezza degli Indiani, egli poteva produrre innumerevoli prove a sostegno della tesi inversa. Alla questione della maggiore rapidità delle conversioni dopo una conquista, si poteva obiettare portando ad esempio l’opera dei missionari domenicani. La quarta tesi, quella del male minore – una guerra causa meno morti dei sacrifici di massa –, fu contrastata appellandosi al comandamento “non uccidere”, più efficace dell’imperativo di “difendere gli innocenti”, specialmente se ciò comportava una guerra indiscriminata che non poteva che far detestare la vera fede agli indigeni. “Quando io parlo della forza delle armi, parlo del peggiore di tutti i mali”.

Sui soldati della Conquista Las Casas era irremovibile: “Essendo stati educati all’insegnamento di Cristo, non possono ignorare che non si deve arrecare danno alle persone innocenti. Chi manca di questo discernimento è reo di un gravissimo crimine verso Dio ed è degno di una condanna eterna”. Las Casas accettava che ci potessero essere danni collaterali a cose e persone, ma ribadiva che l’uso della forza non doveva avere un obiettivo preventivo ed offensivo. Neppure la liberazione di innocenti poteva giustificare la messa a rischio dell’incolumità di un gran numero di altri innocenti. Per questo precisava che, “sebbene sia vero che uccidere un tiranno, che è una pestilenza per la repubblica, è un’azione buona e meritoria, lo stesso non si può dire nel caso in cui il suo assassinio dia origine ad una ribellione o grave tumulto che raddoppi i mali della suddetta repubblica”. L’intero ragionamento di Sepúlveda era contraddittorio e avrebbe arrecato infiniti danni alla causa dell’evangelizzazione: “Come potranno amarci queste persone, e fare amicizia con noi (condizione necessaria affinché possano ricevere la nostra fede) se i figli si vedono orfani delle proprie madri, le mogli perdono i mariti, i padri perdono i loro figli ed amici; se vedono i loro cari feriti, tenuti prigionieri, spogliati delle loro proprietà e l’innumerevole moltitudine di cui facevano parte ridotta ad uno sparuto gruppo?”.

Nel Nuovo Testamento non si potevano trovare appigli che permettessero di sostenere una simile bestialità: “Citi dunque Sepúlveda un solo passaggio in cui il Cristo o i Santi Padri ci abbiano insegnato che i pagani debbono essere soggiogati mediante la guerra prima che gli si predichi il vangelo!”. Non sarebbe stato possibile, infatti, “quando Cristo mandò i suoi discepoli a predicare, non li armò certo con spade e bombarde”. Se il sacrificio era l’unico modo conosciuto dai nativi per onorare Dio, non si poteva impiegarlo come pretesto per assoggettarli. D’altronde anche i Romani li compivano, ma quando fondarono l’impero non punirono i popoli dediti ai sacrifici, si limitarono a proibirli per decreto. Volgendo poi l’attenzione a Luca 14,15, dove il compelle intrare, interpretato da Agostino come un’esortazione a costringere ad entrare nell’ovile della Chiesa, sembrava portare acqua al mulino di chi gradiva l’uso delle maniere forti, Las Casas ribatteva che la costrizione doveva essere di origine interiore, come confermato dall’analisi della medesima parabola effettuata da Tommaso d’Aquino, che parlava di “efficace persuasione”. Imporre il vangelo con le armi era solo un pretesto per depredare i nativi: “Che temano Dio, vendicatore della macchinazioni perverse, quelli che, con il pretesto di propagare la fede, con la forza delle armi invadono le proprietà altrui, le saccheggiano e se ne appropriano”. Il processo di conversione poteva solo funzionare se si fosse usato Cristo ed il suo messaggio come modello. L’uso della violenza coattiva nel nome della verità assoluta poteva solo smascherare la natura perversa di chi proclamava di rappresentarlo. Citava sant’Ambrogio: “Quando gli apostoli vollero chiedere il fuoco dal cielo, perché bruciasse i samaritani che non avevano voluto ricevere Gesù nella loro città, egli, voltatosi, inveì dicendo loro: non conoscete lo spirito al quale appartenete, il figlio dell’uomo non viene per mandare in rovina le anime, ma per salvarle”.

Inoltre, una volta che il vaso di Pandora della violenza fosse stato scoperchiato, quest’ultima avrebbe finito per ritorcersi contro i suoi perpetratori, in forza della giusta punizione divina. Ancora più incisivamente, cercando la stoccata decisiva: “Il dottore fonda questi diritti [del re di Spagna sul Nuovo Mondo] sulla superiorità delle armi e sulla maggiore forza fisica. Questo serve solo a porre i nostri sovrani nella posizione di tiranni. Il loro diritto si basa sull’estensione del Verbo nel Nuovo Mondo e sulla loro buona amministrazione delle Indie. Negare questa dottrina significa adulare ed ingannare i nostri monarchi e mettere in pericolo la loro stessa salvezza. Il dottore perverte il naturale ordine delle cose, trasformando i mezzi in fini e ciò che è secondario in fondamentale. È secondario il vantaggio temporale, è fondamentale la predicazione della vera fede. Chi ignora questo ha una conoscenza ben limitata e chi lo nega non è più cristiano di Maometto”.

In verità, purtroppo, Las Casas era abbastanza isolato in questa sua presa di posizione in Spagna. Lo stesso Soto, che ricapitolava brillantemente le argomentazioni dei duellanti ebbe a dire: “sembra che il signor vescovo – se non mi sbaglio io – sia caduto in un errore, perché una cosa è che li possiamo costringere a lasciarci predicare, il che è opinione di molti dottori, altra cosa che li possiamo obbligare ad assistere alle nostre prediche, il che non è altrettanto chiaro”. In altre parole la forza non poteva essere usata per costringere alla conversione ma era legittima se venivano posti ostacoli all’evangelizzazione, in virtù dello jus defendi nos, che ci riporta alla bizzarra nozione che gli Spagnoli, se in buona fede, erano automaticamente dalla parte giusta, di chi difendeva se stesso e il Cristo dalle ingiurie e gli assalti dei non-credenti.

L’umanista di Cordoba vide che il domenicano si era scoperto ed assestò un fendente: “per l’opinione secondo cui gli infedeli non possono essere giustamente forzati ad ascoltare la predicazione, si tratta di una dottrina nuova e falsa, e contraria a tutti coloro che nutrirono una diversa opinione. Il Papa infatti ha il potere – anzi il comando – di predicare egli stesso e per mezzo di altri il Vangelo in tutto il mondo, e questo non si può fare se i predicatori non vengono ascoltati; perciò egli ha il potere, per mandato di Cristo, di costringere ad ascoltarli”. Gustavo Gutiérrez (Gutiérrez 1995) parla molto a proposito di “teologia elaborata nella prospettiva del potere”.

Las Casas era assolutamente persuaso che si dovesse scongiurare il “pericolo del cancro velenoso” che il contraddittore voleva diffondere. “Che uomo di sano intelletto – si chiedeva, esagerando retoricamente le virtù dei suoi protetti – approverebbe una guerra contro uomini che sono innocui, ignoranti, gentili, temperati, disarmati e privi di ogni difesa?”. Insisteva, poi, riportando il discorso nei binari del buon senso: “Sarebbe impossibile trovare nel mondo un’intera razza, nazione o regione che è così tonta, imbecille, scellerata o comunque priva in gran parte di un livello sufficiente di conoscenza e capacità naturale da non sapersi governare autonomamente”.

Sepúlveda, lo abbiamo visto, non era dello stesso avviso: “In buon senso, talento, virtù ed umanità sono tanto inferiori agli Spagnoli quanto i bambini lo sono nei confronti degli adulti…come le scimmie lo sono a confronto degli uomini” [Bien puedes comprender ¡Oh Leopoldo! se es que conoces las costumbres y naturaleza de una y otra gente, que con perfecto derecho los españoles imperan sobre estos bárbaros del Nuevo Mundo e islas adyacentes, los cuales en prudencia, ingenio, virtud y humanidad son tan inferiores a los españoles como los niños a los adultos y las mujeres a los varones, habiendo entre ellos tanta diferencia como la que va de gentes fieras y crueles a gentes clementísimas, de los prodigiosamente intemperantes a los continentes y templados, y estoy por decir que de monos a hombres, “Demócrates segundo”, 305].

Las Casas metteva in dubbio la competenza del rivale: “Non è andato a rileggersi le scritture con diligenza, o sicuramente non ha compreso a sufficienza come applicarle perché, in quest’epoca di grazia e carità, cerca di applicare i rigidi precetti della Vecchia Legge che erano stati dati in circostanze speciali e quindi apre la porta a tiranni e saccheggiatori, a crudeli invasioni, oppressioni, violazioni e il crudo asservimento di nazioni inoffensive”. In pratica, non aveva senso credere che fosse giusto fare agli Indios quel che Dio aveva comandato agli Ebrei di fare agli egiziani e cananiti.

Sepúlveda era d’accordo sul fatto che la missione principale era convertire gli indiani ma, in linea con lo spirito del Requerimiento, ribadiva che la conquista militare avrebbe facilitato questo compito. Gli indiani si meritavano tutto quello che gli era franato addosso perché erano culturalmente e moralmente barbari, la civiltà europea era superiore e ad essa dovevano sottomettersi per il loro bene. Si rifaceva non solo alla nozione aristotelica di schiavitù naturale ma anche alla definizione agostiniana di schiavitù come punizione per i propri peccati. L’idolatria, i sacrifici umani ed il cannibalismo erano colpe evidenti e prove della giustezza della sua posizione. Esisteva un diritto (legitimus titulus) di intervento bellico in difesa degli innocentes, cioè delle vittime di sacrifici, antropofagia, tirannia dei sovrani indigeni e delle loro leggi, aberranti norme religiose dei popoli indigeni, ecc. Le stesse ragioni che legittimano le “guerre umanitarie” contemporanee.

Sepúlveda era schiettamente ma elegantemente razzista, ed in perfetta buona fede, poiché la sua mente era dogmatica, ideologica. La ricezione negativa della sua opera in Spagna era in parte dovuta anche al fatto che aveva scelto la forma espositiva del dialogo, in luogo della trattazione classica. Il dialogo aveva enfatizzato le differenze tra conquistatori e indigeni fino a renderle caricaturali, indebolendo così la cogenza delle argomentazioni. Per lui i nativi sarebbero anche potuti diventare amici dei nuovi dominatori, ma non prima di essere stati soggiogati. Mentre i loro talenti avrebbero potuto gradualmente sorpassare quelli delle scimmie e degli orsi, i loro limiti mentali fisiologici avrebbero impedito loro per lungo tempo di trascendere “le capacità delle api e dei ragni”. A suo avviso la maggior parte degli indiani non era pienamente umana, mostrava solo una parvenza di umanità. Lo dimostrava la discrepanza tra il coraggio, la magnanimità e le virtù civili degli Spagnoli e la natura selvaggia dei nativi americani, che rifiutavano le norme e usanze della vita civile. Si valutino i temperamenti dei rispettivi leader, esclamava ancora una volta: Hernan Cortés era nobile e coraggioso, Montezuma era un codardo. Per questo gli Spagnoli erano moralmente e politicamente giustificati nelle loro pretese di dominio assoluto.

Vitoria aveva sostenuto che il livello di maturità civile e morale di alcune delle culture native era pari a quello dei contadini europei e che era la cultura che aveva causato la divergenza nei percorsi di sviluppo, non una naturale condizione di schiavi. Sepúlveda sottoscriveva questa prospettiva, ma naturalizzava la cultura. Non poteva esserci un vero margine di sviluppo umano attraverso un processo civilizzatore che non comportasse l’estirpamento delle culture locali. Chi non voleva capirlo si faceva partecipe di una farsa ipocrita.

Al che Las Casas non poteva esimersi dal chiedersi quando gli indigeni cristianizzati a milioni sarebbero stati giudicati degni di vivere da uomini e donne libere? Non arrivò al punto di affermare che dovevano essere lasciati completamente in pace, perché era pur sempre un evangelizzatore, ma ribadì che la tolleranza era una precondizione della conversione, mentre per Sepúlveda le necessità del realismo politico e della dottrina cristiana non lasciavano spazio alla tolleranza che, al massimo, poteva seguire la conversione completa. Pur ammettendo che c’erano state violenze ed atrocità, egli riteneva che il fine giustificasse i mezzi quando invece, come abbiamo visto, Las Casas ammoniva che tradurre i mezzi in fini ed i fini in mezzi era una disastrosa fallacia logica e morale.

La commissione che valutò la disputa, composta da giuristi e studiosi della scuola di Salamanca e del Consiglio di Castiglia e delle Indie non possedeva alcun potere formale o legale oltre quello di offrire consulenza al monarca. I due non si incontrarono mai nella stessa stanza. Questo consiglio non lasciò alcun documento pubblico in cui fossero registrate le loro preferenze. Alcuni non erano stati convinti da Sepúlveda ma nessuno si pronunciò a favore di Las Casas. In effetti la giunta non si pronunciò a favore di nessuno dei due contendenti, ma la monarchia decise che il trattato di Sepúlveda De justis belli causis era troppo pericoloso e lo bandì dal Nuovo Mondo.

L’autore, piccato, accusò il suo avversario di oscurare la verità e la giustizia con un’eloquenza, una circospezione ed una perizia che “a confronto l’Ulisse di Omero era inerte e balbettante”. Gli addebitò la responsabilità di aver provocato “un grande scandalo ed infamia contro i nostri sovrani”. Nella sua apologia Las Casas rispose che il suo rivale aveva “diffamato questi popoli di fronte al mondo intero”.

Il grande cardinale tedesco Josef Höffner, coltissimo, anti-nazista e “Giusto tra le Nazioni”, un giorno scrisse che “tra gli Spagnoli, fu il nobile Las Casas che comprese più profondamente lo spirito del Vangelo di Cristo”.

http://fanuessays.blogspot.it/2011/10/bartolome-de-las-casas-introduzione.html

I sanculotti grillini hanno preso la Bastiglia – istruzioni per l’uso del M5S

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La serpe in seno dell’Ancien Régime ;oD

La metaforica Bastiglia italiana è caduta tra il 24 ed il 25 febbraio del 2013:

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Il M5S è il primo partito italiano alla Camera.

Com’è potuto accadere?

Minipreambolo – della serie: “pensano che la ggente sia davvero stupida” – Monti è stato brutalmente sconfitto – “Fino a ieri i sondaggi, prima che il premier annunciasse la sua disponibilità a candidarsi, davano una generica lista Monti al 15% con un bacino potenziale del 25%. Ebbene, dicono che il professore punti al 30% per sciogliere positivamente la riserva” (Il Messaggero, 24 dicembre 2012). Bersani ha perso perché ha continuato a ventilare ipotesi di collaborazione con Monti, ma i media ci assicurano che l’ultramontiano Renzi avrebbe vinto. Il principio di realtà è un ricordo del passato.

Ecco un commento efficacissimo apparso su MicroMega. Lo sottoscrivo in pieno, salvo l’attacco all’euro (che comunque è formalmente corretto, perchè la gestione dell’euro è stata realmente criminosa ed anti-europeista, distruggendo il lavoro di decenni). Il lettore scrive a tratti in romanesco, ma sa di cosa sta parlando – lo stesso giorno il Nobel Paul Krugman (complottista?),  sul NYT, descriveva Mario Monti come un proconsole della Merkel messo a Roma con la connivenza dei partiti tradizionali per imporre misure di austerità depressive (!!!) – e il messaggio diventa ancora più potente. La dirigenza del PD non ha ancora afferrato pienamente quel che è successo (a me è successo verso le 5:30 del giorno dopo: mi sono svegliato con le idee improvvisamente chiare).
C’è un prima e un dopo: loro sono ancora nel prima, ma arriveranno nel dopo a rimorchio, volenti o nolenti, com’è successo a me.

“Buonasera.

La domanda è questa: perché l’elettorato si affida a Grillo e non all’originale?

La risposta era molto chiara, stasera, se si aveva la pazienza e lo stomaco di girovagare per le varie trasmissioni.

Perché il Pd ha perso, hanno chiesto ad autorevoli opinionisti e membri del partito? Risposte fantastiche. Per la legge elettorale. Perché il Pd non ha messo in lista persone nuove. Perché non ha diminuito lo stipendio ai politici. Perché (Scalfari, sublime) gli ha tolto voti Ingroia. Perché non ha saputo proporre niente di nuovo agli elettori. Perché non c’era Renzi. Perché pioveva. Perché Grillo strilla per le piazze. Perché a socera de Bersani porta sfiga, eccetera…

Incredibilmente, da Vespa non mi ricordo chi, un genio, ha fatto presente che il Pd ha collaborato alle politiche economiche e sociali del governo Monti (identiche alle politiche che da 20 anni pusher neoliberisti vanno spacciando in Europa come uno sballo senza pari, e che il Pd ormai cià scolpite nell’anima, infatti le vorrebbe continuare…), politiche ormai universalmente riconosciute come nefaste. Politiche di destra (si veda il pezzo di Bifo Berardi). Politiche che in tanti di sinistra (io, per la precisione comunista) hanno vissuto come un vero e proprio tradimento. L’ennesimo. La goccia che ha fatto traboccare il vaso. Mo’ basta.

Non se l’aspettavano la batosta, porelli. E, certo, a guardarli, ben pasciuti, ben piazzati, annidati nel loro fantastico mondo di Amelie fatto di principi che non corrispondono ad alcuna sostanza, si capisce che non se lo aspettavano. Domandiamoci: come credono che campino gl’italiani, ’sti marziani? La Fornero ha esplicitato il loro unanime pensiero: gl’italiani nun cianno voja de lavorà e passano il tempo a magnà la pasta seduti ar sole. E perchè? Perchè so’ zozzi e bestiali (il governo Monti ha esplicitato il pensiero generale della nostra raffinatissima calsse dirigente), e vanno civilizzati

E se il Pd non ha vinto (il partito dei più fichi, dei migliori a priori, la santa chiesa della sinistra che denuncia, scomunica e santifica e nun sbaja mai), è colpa dell’itajani, che nun capischeno na cippa. Italiani buzzurri. Italiani che nun ve va de fa niente. Italiani che odiate la santa Europa. Italiani, razza inferiore! Mica come noi, i strafichi, che abbiamo studiato all’estero, parlamo l’inglese, portiamo abiti di buon taglio, e nun pagamo na lira de tasse.

Belli, sti fenomeni, proprio belli. Fassino era spiritato, Gotor nevrastenico, Letta un santino di sè stesso. Cacchio, avranno pensato, ma l’itajani ce stanno davero, nun so solo proiezioni e statistiche…ma come se permettono…e pensare che avevamo garantito, e dato il paese in pegno ai mercati, alla Merkel, a Wall Street…

Ah l’Europa, mo che penserà, avranno pensato? Ce famo na figuraccia. Oddio, tutta sta fisima dell’Europa non ce l’avrei. Girano pazzi scatenati per l’Europa, paranoici deliranti come Olli Rehn, quello che manda le lettera all’Fmi, dopo il paper di Blanchard, per dire che nun era vero che l’austerità faceva danni…ma lasciamo perdere. Europa, Europa uber alles! Sì, vabbè, l”euro ci ha fatto a pezzi, i mercati nostri se li sono fregati Franchi e Ostrogoti, ma voi mette che se devi andare a Parigi a fare shopping non devi cambià. E annamo…

Erano proprio stupiti, Pucciarelli, tanto. Strepitavano. Gotor ogni tre respiri parlava di grande responsabilità di fronte a un paese che il Pd ( e il Pdl, se capisce) hanno raso al suolo trattandoci da schiavi e pezze da piedi e maiali. Fifa la Cermania! E adesso i macellai, quelli che hanno massacrato il 90% degli italiani (ma ben pagati, loro, oh quanto ben pagati), ce vonno mette na pezza…

Pucciarè, saremo incivili, zozzi e nun parleremo l’inglese. Anzi, come vedi, manco l’itajano. Ma nun semo scemi. Sta caciara ha da finì. Hanno già rotto quasi tutti i servizi de piatti e bicchieri, e storto le posate. Mo basta.Se vonno fa casino andassero fori.

Nella Crande Cermania, per esempio. Lì, li aspettano a braccia aperte. Ce da andà a raccontà un po’ de cazzate ai polacchi e a tutti quelli che dentro l’euro ancora nun ce stanno…e chi mejo dei pulcinella nostri, quelli che stasera strillavano, ansimavano, nun se capacitavano?

Quelli che l’Itaja è un ber posto ar parlamento, del resto chissenefrega, mica ce sto io a la pioggia e ar vento…

Saluti.

Saluti.

Saluti.

Bruno Di Prisco”

http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/02/25/matteo-pucciarelli-non-e-un-disastro-e-molto-peggio/

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tsunami-tour

 

Un’attivista del M5S ha proposto ai cittadini (non si faranno chiamare “onorevoli”, bensì “cittadini” – come i citoyen della rivoluzione francese) grillini eletti in Parlamento di vestirsi di bianco per la loro “prima volta” dopo la “presa della Bastiglia“, in modo da distinguersi fin da subito dagli altri parlamentari.

È inevitabile pensare ai sanculotti: “Il diverso abbigliamento adottato dai “patrioti” – soprattutto piccoli commercianti, impiegati, artigiani e operai – costituiva la precisa volontà di distinguersi dalle classi agiate, sottolineando i differenti obiettivi politici che li distanziavano tanto dai contro-rivoluzionari quanto dai più moderati sostenitori della Rivoluzione” (wikipedia).

I sanculotti, popolani indignati, senza un preciso disegno politico in mente ma con tanta buona volontà e voglia di giustizia e libertà, furono contesi tra i girondini da un lato (moderati) e i giacobini dall’altro (radicali).

Vinsero i giacobini, purtroppo, e fu il Terrore:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/14/se-incontrerete-questo-tipo-di-rivoluzionari-isolateli-sono-mortiferi/#axzz2M1f0TkXR

Imposero un nuovo ordine ferocemente intransigente e puritano, un proto-totalitarismo con diversi elementi in comune con visioni futuristiche più recenti:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/11/01/totalitarismo-cosmico-grillo-gaia-casaleggio/

Una vittoria dei girondini (repubblicani moderati, federalisti, intenti ad unire la società, non a dividerla in buoni e cattivi, virtuosi ed empi) avrebbe cambiato il corso della storia. L’umanità si sarebbe emancipata molto prima.

Gli errori del passato siano di lezione per il presente. Non sappiamo veramente da dove venga il MoVimento, ma possiamo aiutarlo a prendere la direzione giusta, quella della libertà, dell’uguaglianza, della fratellanza (e quindi della tolleranza e dell’interesse generale).
Dunque non lasciamo che timori, pregiudizi, scetticismi, ostilità e sospetti (probabilmente in certi casi più che giustificati) ci impediscano di riconoscere il ruolo storico di questo movimento, il potenziale di cambiamento positivo e nonviolento che porta con sé. Aiutiamoli a focalizzare la loro attenzione su problematiche di più ampia rilevanza, integriamoli in una spinta al cambiamento che riguardi tutta la nazione – rendendoli meno settari e meno paranoidi -, cerchiamo ASSIEME a loro di definire una visione ed un progetto di riforma del paese, senza guidarli e senza farci guidare o assistere da spettatori passivi. Non regaliamo il M5S a qualche forma di neo-giacobinismo di quei piccoli despoti psicopatici che emergono in tempi di crisi sistemica per sedurre gli animi angosciati, confusi e bisognosi di guida.
Insomma, NON seguite il mio pessimo esempio di qualche giorno fa (che pure rilevava problemi non ignorabili):
https://versounmondonuovo.wordpress.com/2013/02/23/per-un-voto-martin-perse-la-cappa/

La democrazia nella Via Lattea (dirittidoveri di un Mondo Nuovo)


Ora l’inverno del nostro scontento

è reso estate gloriosa da questo sole di York,

e tutte le nuvole che incombevano minacciose sulla nostra casa

sono sepolte nel petto profondo dell’oceano.

Ora le nostre fonti sono cinte di ghirlande di vittoria,

le nostre armi malconce appese come trofei,

le nostre aspre sortite mutati in lieti incontri,

le nostre marce tremende in misure deliziose di danza.
Riccardo III

 

Arriverà anche quel momento e bisognerà pensare a cosa costruire sulle macerie.

Questi dirittidoveri non abbisognano di spiegazioni e giustificazioni, sono intuizioni morali spontanee il cui significato e cogenza possono sfuggire solo a persone prive di empatia o introspezione. In un ipotetico consesso di civiltà della Via Lattea esemplificherebbero l’ethos umano, sarebbero il nostro biglietto da visita, qualcosa di cui essere orgogliosi.

Il dirittodovere alla giustizia sociale ed all’equità

Nella filosofia greca classica giustizia e senso della misura erano inestricabilmente connessi. Archita elogiava la giusta misura, che neutralizza “l’avido desiderio di avere sempre di più” (pleonexia). Eraclito, Anassimandro, Esiodo, Solone convenivano sul fatto che il fondamento della moralità umana sia la misura e la repressione dell’eccesso e che mutualità e giustizia sono le virtù che producono l’uguaglianza.

La giustizia non è semplice imparzialità o equità, presuppone uguaglianza nel rispetto, trascende le norme di legge: sei un mio pari, ti tratterò di conseguenza. La giustizia è qui intesa non come ideale ma come una prospettiva sul mondo. Sono in una posizione di privilegio rispetto alla tua, ma è un accidente, un caso del destino e quindi un mio eventuale senso di superiorità sarebbe del tutto ingiustificato.

Non c’è giustizia se manca il riconoscimento della comune umanità e il desiderio di riparare ad un’ingiustizia occorsa ad un altro come se l’avessimo subita in prima persona.

Per questo la civiltà contemporanea sta affondando e dalle sue ceneri non dovrà nascere una fenice, ossia un clone del presente, ma un mondo nuovo e diverso.

Tanto per cominciare si dovrebbero adottare misure di seria e rigorosa regolamentazione dei mercati, di tassazione delle transazioni finanziarie e di contrasto al fenomeno dei paradisi fiscali.

Secondo un rapporto realizzato da un ex capo economista di McKinsey, James Henry, sulla base dei dati della Banca dei Regolamenti Internazionali e del Fondo Monetario Internazionale, ed intitolato “Il prezzo dell’offshore rivisto”, fino al 2010 i patrimoni dei super-ricchi di tutto il mondo nascosti nei paradisi fiscali ammontano ad una cifra che potrebbe raggiungere i 32mila miliardi di dollari, pari ad una volta e mezza la somma del PIL americano e giapponese. Le 10 maggiori banche hanno messo da parte un quinto del totale, nel 2010, quasi triplicando il gruzzolo di 5 anni prima. Miracoli delle crisi globali. Le mancate entrate derivanti da questa elusione fiscale sono enormi. La ricchezza sottratta ai paesi in via di sviluppo (in primis alla Russia post-comunista) negli ultimi 40 anni sarebbe più che sufficiente a coprire il loro indebitamento con il resto del mondo, con effetti decisivi sui flussi migratori. Il rapporto precisa che “il problema è che i beni di queste nazioni sono controllati da un ristretto numero di persone mentre i governi ridistribuiscono i debiti sui cittadini ordinari”. La somma calcolata è così colossale da lasciar capire che la misura dell’ingiustizia sociale dei nostri tempi è “drammaticamente sottostimata”. Quasi la metà di queste ricchezze è posseduta da 92mila persone, ossia circa lo 0,001% della popolazione mondiale. Finora i politici si sono ben guardati dal prendere l’iniziativa contro questa vero e proprio crimine contro l’umanità. Del resto ben 68 parlamentari britannici controllano o sono partner finanziari di imprese uffici, conti correnti e sedi in vari paradisi fiscali (inchiesta del Guardian, 2012).

Anche la Tobin Tax, la cosiddetta “tassa Robin Hood”, continuamente evocata, non è mai stata approvata. Colpirebbe le compravendite borsistiche che, a differenza di quelle ordinarie (merci, beni e servizi sono sottoposti all’IVA o ad altre imposte), sono gratuite. Innumerevoli miliardi di dollari ed euro di fatturato non tassato. Negli Stati Uniti erano tassate fino alla seconda metà degli anni Sessanta, poi questa misura fu abolita dal successore di JFK, Lyndon Johnson. Curiosamente, è proprio dagli anni Settanta che il divario tra i redditi dell’1% e quelli del 99% della popolazione americana prima e occidentale poi ha cominciato a crescere in modo molto sostenuto. Una tassa di un semplice 1% risolverebbe la colossale crisi del debito sovrano americana.

Il dirittodovere alla libertà ed all’autonomia

La libertà è lo svincolamento da forze e circostanze che oggettificano l’umano, che impongono ad una persona la passività e prevedibilità della materia grezza. Gli oggetti hanno cause, i soggetti hanno motivazioni e ragioni complesse ed anche contraddittorie.

La libertà è la dimensione di apertura illimitata che consente all’essere umano di trascendere la finitezza. È una condizione d’esistenza indispensabile allo sviluppo della psiche e della coscienza. Essere libero, libero di essere onesto con me stesso, di pensare senza dovermi chiedere ogni volta cosa gli altri penseranno di me, di vivere pienamente ed abbondantemente.

Non c’è umanità senza libertà di scegliere, non esiste morale e maturazione spirituale se una persona non può essere libera di compiere il male. Quella persona sarebbe un’arancia meccanica, un congegno, non un essere vivente. Per questo nei campi di sterminio il suicidio e lo sciopero della fame erano proibiti e severamente puniti, anche se acceleravano la morte dei detenuti. Ogni atto di autodeterminazione era bandito.

In una democrazia che rispetto libertà ed autonomia, io conto, le mie decisioni possono fare la differenza, perché sono mie; non sono trascurabile, la mia volontà ha un peso. Mi si devono delle spiegazioni, posso esprimere il mio parere, posso contestare quello altrui, ho diritto di poter ascoltare il parere altrui, di prendere parte alla vita della comunità. In questo risiede la mia dignità, nel fatto che sono imprevedibile perfino a me stesso; sono solo parzialmente determinato dal mio corredo genetico e dal mio ambiente socio-culturale; c’è qualcosa in me che è unico e che è in larga misura inespresso.

Sono un progetto, un lavoro in corso, posso e debbo riflettere su chi sono, da dove vengo e dove voglio andare. Posso scegliere, mi creo e ricreo ogni giorno e non sono un prodotto, un manufatto, una merce, un burattino, un automa. Posso trovare il coraggio di essere me stesso, di vivere consapevolmente e sento che questo enorme beneficio vale per tutti gli altri, che vivrei meglio in una comunità in cui tutti potessero farlo, senza violare l’altrui diritto di poterlo fare. Una comunità di persone libere e responsabili che si sforzano di consentire agli altri di essere nelle condizioni di poter esprimere e migliorare se stesse, di non nascondersi a se stesse ed agli altri, di cambiare, di desistere e ricominciare da capo.

Non sono la proprietà di nessun altro, neppure della mia comunità, di una casta, della società, di una multinazionale, o dello Stato. Nessuno mi può trattare come un bambino o un animale domestico se sono un adulto e mi comporto come tale. Ci sono dei confini che non devono essere violati, ho dei diritti inalienabili che mi permettono di procedere nell’elaborazione del progetto di me stesso, assieme agli altri, coralmente. Mi pongo al servizio del prossimo ma non sono a disposizione degli altri per qualunque cosa, eccezion fatta per le persone che amo ed anche lì con dei distinguo.

Devo poter vivere a modo mio anche se le mie scelte sono impopolari e magari persino considerate aberranti, purché non leda il diritto altrui di fare lo stesso e non danneggi il mio prossimo (ma non certo la sua sensibilità, che è un arbitrio e come tale non merita rispetto a prescindere dalle circostanze e dalla persona).

Il dirittodovere alla tolleranza

È più facile essere tolleranti quando si è consapevoli della nostra finitezza, dei nostri difetti e della nostra ignoranza. La disposizione d’animo di chi ritiene di poter apprendere dal prossimo è il fondamento della tolleranza.

Il bisogno di convertire il prossimo al nostro punto di vista è invece alla radice dell’intolleranza. La persona tollerante è pronta ad includere nel principio di libertà l’altrui espressione anche di idee che personalmente ripudia.

Ciò non significa però che la tolleranza debba essere illimitata. Esistono dei principi fondamentali incastonati nelle nostre costituzioni che fanno sì che non si varchi mai quella soglia oltre la quale una democrazia non è più in grado di gestire un eccesso di pluralismo e sprofonda nell’anarchia, nell’anomia, nel caos.

Il dirittodovere alla democrazia ed all’uguaglianza

Democrazia è bello perché le decisioni sono più ragionate e precise, perché ci sono meno possibilità di lasciarci la pelle, perché c’è maggiore prosperità, perché una società democratica è tenuta a difendere i suoi assunti fondanti: l’essenziale dignità dell’essere umano; l’importanza di proteggere e coltivare la personalità dei cittadini in un clima di collaborazione e non di divisione (pluralità unitaria); l’eliminazione di privilegi basati su interpretazioni arbitrarie ed esagerate delle differenze tra esseri umani; l’idea che l’umanità possa migliorare; la convinzione che i profitti debbano essere ridistribuiti il più possibile tra tutti ed in tempi ragionevoli; il pari diritto dei cittadini di far sentire la propria voce su questioni delicate (coesistenza del maggior numero possibile di opinioni, o pluralismo) e di decidere autonomamente chi li debba rappresentare; la premessa che i cambiamenti sono normali, possono essere molto vantaggiosi e vanno realizzati tramite processi decisionali consensuali (spirito del compromesso, suffragio universale) e non con la prevaricazione e la forza bruta.

La democrazia è un ambiente in cui, idealmente, ciascuno, anche la persona più mediocre, ha qualcosa da esprimere che merita la nostra attenzione, ha valore di per sé e non in relazione ad un gruppo di appartenenza o riferimento, ed in cui nessuno ha la verità in tasca. Di qui l’obbligo di concedere spazi di sperimentazione per le coscienze. La società democratica è una grande scuola dove tutti sono alunni e maestri, dove tutti imparano insegnando ed insegnano imparando, dove è indispensabile essere curiosi, attenti e ricettivi e nel contempo difendere la propria indipendenza di giudizio; dove ciascuno deve fare la sua parte nel processo di democratizzazione delle relazioni umane, di rafforzamento del senso di uguaglianza tra le persone, di espansione della capacità di sospendere il nostro giudizio prima di aver ben compreso. Ascoltare, dibattere, partecipare, deliberare, acconsentire, mettere in discussione: solo così ogni singolo cittadino acquista valore, “peso”, diventa consapevole del suo ruolo nella società e nel mondo e dell’importanza del parere altrui.

Il dirittodovere alla fratellanza (convivialità)

Il più grave errore commesso dai rivoluzionari francesi è stato quello di trascurare la fraternité, sacrificata in nome della lotta alla controrivoluzione, all’edificazione di un’utopia in terra sfociata nel Terrore giacobino, alla volontà di schiacciare il movimento indipendentista ed anti-schiavista degli Haitiani, all’idea di una repubblica campanilista e uniforme nella sua volontà che stava tanto a cuore a Jean Jacques Rousseau ed ai suoi discepoli, Robespierre e Saint-Just.

Rousseau ci offre un esempio particolarmente efficace di come si possa ripudiare l’anelito alla fratellanza continuando però a credere di battersi per il bene dell’intera umanità.

Orfano di madre dalla nascita e di padre dall’età di 15 anni, senza fissa dimora, Rousseau conduce l’esistenza di un nomade, legandosi a chi lo ospita, specialmente a figure materne. È straniero in ogni luogo e patisce questa condizione di precarietà ed estrema vulnerabilità. È ossessionato dall’altrui generosità, eternamente sospettoso di ogni dono, delle motivazioni degli altri, fino al punto da rifiutarli, per paura del fardello dell’obbligo di reciprocità. L’ospitalità lo fa sentire alienato, un eterno straniero nel mondo. C’è in lui una forte ambivalenza: ne ha bisogno ma odia il senso di dipendenza. È ingrato verso le sue protettrici, senza l’assistenza e l’ospitalità delle quali sarebbe restato nell’anonimato e magari persino deceduto prematuramente. Finisce i suoi giorni come un eremita, prediligendo la compagnia del suo cane a quella degli altri esseri umani e quella dei libri alla compagnia di un amico. Preferisce il visitare all’essere visitato, si sente ostaggio, non ospite; rifiuta i doni per non doverli ricambiare.

Immanuel Kant è l’opposto di Rousseau. Per lui mangiare da solo è malsano, nocivo (ungesund), equivale alla morte del filosofo, che perde vivacità ed acutezza, non potendo avvalersi del contributo stimolante di un punto di vista alternativo, quello dell’ospite al suo desco. Il filosofo che consuma il suo pasto da solo diventa autarchico, auto-referenziato, si auto-consuma (il proprio cibo, come le proprie idee, a ciclo continuo), disperdendosi (sich selbst zehrt) in ragionamenti circolari, idee fisse, vicoli ciechi. Perde il suo vigore, la vivacità dell’intelletto (Munterkeit). L’ospitalità è invece apertura al resto del mondo, all’altro, è una messa in discussione di se stessi, una breccia nel proprio egoismo. Per questo Kant sente il bisogno di avere sempre degli invitati al pasto, a costo di domandare alla servitù di invitare un passante a sedersi al tavolo con lui. La compagnia conviviale deve essere eterogenea ed includere dei giovani, per variare la conversazione e renderla più giocosa. Il piacere deriva dalla presenza di commensali con interessi diversi dai nostri: “non mi attrae chi ha già ciò che possiedo, ma chi mi può dare ciò che mi manca”, spiega il filosofo di Königsberg.

Al contrario, Rousseau non sa gestire la diversità, ne è allergico, vorrebbe controllarla. Non ama mangiare con gli altri: mangia un boccone alternandolo con una pagina di libro. L’ospitante, nei suoi racconti, è incline al dispotismo, all’assimilazione cannibalistica dell’ospitato. Per questo muore da eremita, in preda alle allucinazioni, vittima del peso del matricidio, l’uccisione della madre, l’ospitante per eccellenza.

Il sentimento di fratellanza è quello dimostrato dal buon samaritano. Non viveva per compiere buone azioni – aveva sicuramente altre occupazioni, nella vita –, ma le faceva quando si presentava l’occasione. Non era l’amore a guidarlo, ma la compassione. La regola d’oro, infatti, si applica in egual misura alle persone che si amano o con le quali esiste un rapporto amicale o di intimità e familiarità ed agli sconosciuti, agli stranieri, agli immigrati. Lo straniero bisognoso d’aiuto non lo incomoda, non è più straniero, non è etnicamente/razzialmente differente, non è meno reale e meno degno di lui. Straniero, vicino, amico: non conta. Lo Stato salvaguarda i dirittidoveri, ma è il samaritanismo dei cittadini che deve supplire alla sua inevitabile e anche necessaria ed opportuna (in quanto lo stato è comunque coercitivo) assenza.

Nel 2009 Walt Staton, un programmatore elettronico dell’Arizona, è stato condannato ad un anno di libertà vigilata per aver lasciato brocche d’acqua con scritto “buena suerte” (buona fortuna) sul percorso attraversato dai chicanos che entrano clandestinamente negli Stati Uniti attraverso la frontiera con il Messico. Dava da bere agli assetati in un’area in cui negli ultimi vent’anni, sono morti come minimo 5mila immigrati illegali, in gran parte per disidratazione.

L’accusa: aver inquinato il parco naturale Buenos Aires National Wildlife Refuge.

Libertà, uguaglianza e fratellanza: o trionfano unite, o restano solo sulla carta.

Il dirittodovere all’ospitalità (cittadinanza mondiale e beni comuni)

Umberto Curi, storico e filosofo all’Università di Padova e Maria Chiara Pievatolo, filosofa politica all’Università di Pisa, ci aiutano a comprendere la dimensione politica e giuridica del principio di ospitalità (Curi, 2010; Pievatolo, 2011) che ha come suo insigne pioniere nientemeno che Immanuel Kant.

Kant concepisce un diritto cosmopolitico fondato su un principio cardine, quello, appunto, dell’ospitalità universale: “il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come nemico a causa del suo arrivo nella terra di un altro”. Questo perché “originariamente, nessuno ha più diritto di un altro ad abitare una località della terra”. Anche per il filosofo di Königsberg siamo solo di passaggio su questo pianeta, la cui superficie sferica e finita fa sì che non possiamo evitare di incontrarci. Le nostre nascite sono del tutto accidentali, per quanto ne sappiamo. Siamo nati in un certo luogo piuttosto che in un altro e ciò non ci dà alcun diritto di reclamare un’area come nostra. Per lo stesso principio nessuno può rivendicare alcun titolo preferenziale a risiedere in un dato luogo piuttosto che in un altro. Se è vero, come è vero, che nessuno ha più diritto di un altro di essere titolare di una porzione di questo pianeta, poiché siamo tutti viaggiatori, allora la condizione originale dell’uomo è quella di una relazione aperta, di condivisione, che respinge ogni pretesa di esclusività. Il risiedere in un luogo, la delimitazione del proprio rifugio, santuario, riparo, non assegna alcun diritto di possesso. La superficie della terra e le sue risorse appartengono a tutti e a nessuno e non è pertanto  inquadrabile nella logica del diritto d’uso esclusivo e meno che meno della proprietà privata. Non esiste una terra promessa ed un popolo eletto destinato a dimorarvi. Lo straniero per Kant è ospite e lo si allontana solo se crea problemi, ma non se ciò comporta la sua rovina.

Kant parla di diritto alla visita, alla mobilità, in nome della socievolezza e del destino comune (siamo su una stessa barca e non è grande): “diritto di possesso comune della superficie della terra”. Esclude il possesso esclusivo: “l’inospitalità è contraria al diritto naturale”. Per questo il diritto cosmopolitico non è una “rappresentazione di menti esaltate”. L’evidenza del fatto che la superficie terrestre è un possesso comunitario di tutti gli esseri umani – con tutti i diritti fondamentali che ne conseguono – è rimasta un’ovvietà per la quasi interezza della storia umana, ma non lo era per gli europei che massacrarono i nativi americani proprio in virtù di un diritto proprietario e di sfruttamento delle risorse antitetico a quello indigeno. Gustavo Zagrebelsky ribadisce che dovrebbe ritornare ad essere un’ovvietà (Mauro/Zagrebelsky, 2011, pp. 101-102):

L’idea dell’essere umano come animale stanziale, un animale che, come altri, ha il suo territorio e lo difende dalle intromissioni, deve essere un’idea del profondo…La terra, questa “aiuola che ci fa tanto feroci” (Par., XXII, 151) l’abbiamo divisa in tante parti e ce ne siamo impossessati, popolo per popolo, come cosa nostra, e ci pare normale, naturale, l’idea di straniero, di colui che passa o tenta di passare da un’aiuola all’altra turbando le sicurezze che riponiamo “in casa nostra”. Quante volte abbiamo sentito ripetere anche da noi, come se fosse ovvia e innocente, questa espressione!

Kant simpatizza per una posizione analoga a quella dei nativi americani ed invoca il diritto di visita e di asilo, non certo il diritto di imporre con la forza la propria volontà alle altre nazioni, come facevano le potenze coloniali. L’ospitalità universale diventa uno dei pilastri imprescindibili per il conseguimento della pace perpetua, la “comunanza tra i popoli della Terra”, in un’epoca, la sua, in cui il pianeta si andava già globalizzando, tanto che: “si è arrivati a tal punto che la violazione di un diritto commessa in una parte del mondo viene sentita in tutte le altre parti”.

L’ospitalità dovrebbe precedere, fondare ed orientare il diritto.

La vera ospitalità deve superare la violenza intrinseca all’ospitalità, che risiede nella dipendenza dall’altro, interiorizzata, e che nasce con il concetto di proprietà. C’è un legame occulto, ma vibrante, tra il tuo e il mio, me e te: siamo ospiti di questo pianeta. Siamo provvisori, nomadi, votati alla scomparsa. Questo legame non ha nulla a che vedere con la pietà, ma piuttosto con il rispetto e la devozione per l’ospite, nel quale riconosco l’estraneità che alberga in me stesso: anch’io, come lui, nato e cresciuto per caso qui ed ora. Anche e soprattutto così si realizza la promessa della fratellanza, il terzo termine della triade rivoluzionaria francese.

Il dirittodovere alla dignità

L’idea di dignità umana – “ci sono cose che non si fanno agli esseri umani” – esisteva in nuce già tra i Cro-Magnon che, a differenza dei Neanderthal, mostravano una spiccata sensibilità nel trattamento dei cadaveri e pare si astenessero, in genere, dal cannibalismo.

È con Socrate – o, forse, prima di lui, con Pitagora – che si diffonde nell’Occidente il precetto che tutti gli esseri umani hanno un medesimo valore, pari dignità intrinseca, ossia il principio su cui si fondano lo stato di diritto, le carte costituzionali di tutti i paesi democratici, le convenzioni internazionali per la tutela dei diritti umani, insomma tutto ciò che ci separa dalla barbarie. Socrate è convinto che sopravvivere non sia sufficiente; occorre esserne degni e devono essere presenti quelle precondizioni essenziali senza le quali la vita non è tollerabile e perde il suo valore specifico, riducendosi ad un concetto astratto. Sopravvivere senza una coscienza integra è peggio che morire. La vita del corpo non è il valore precipuo. C’è un confine che molti esseri umani, come Socrate, non osano oltrepassare, ci sono azioni che queste persone non commetterebbero mai, indipendentemente dagli ordini che vengono loro impartiti o da quanto disperata sia la loro situazione. Questo perché sentono, istintivamente, che varcata quella linea, non potrebbero più tornare indietro, non ci sarebbe più un punto ulteriore dove marcare il confine del nec plus ultra (non oltre). Una tale azione, se compiuta, causerebbe un danno irreparabile dentro di loro, distruggerebbe qualcosa che vale più della loro stessa vita. Eseguito un certo comando, diventerebbe più difficile rifiutarsi di eseguirne altri, ancora più discutibili e riprovevoli.

La soddisfazione con cui persone dalla coscienza assopita si prestano ad ogni tipo di servizio corrisponde al patimento di chi quella coscienza ce l’ha ben desta e non si rassegna all’idea di eseguire certi ordini. Per questo Socrate affronta a testa alta un processo ingiusto, per insegnare a tutti che il valore etico fondativo delle nostre società è la dignità, non la forza, il giudizio di chi vince le elezioni, la presunta sovranità popolare incarnata nel capo.

Nuocere o tentare di rimuovere la dignità di qualcuno significa trattarlo come se fosse non completamente umano, uno strumento o una creatura subumana (Kateb 2011). L’essere umano è l’unico animale indeterminato, in quanto parzialmente non-naturale, cioè frutto dell’interazione di genoma, ambiente naturale ed ambiente culturale. Proprio nella sua indeterminazione, ossia nell’assenza di confini precisi, risiede la sua dignità intrinseca, che è il fondamento dei diritti umani (nonché il suo libero arbitrio e quindi il senso morale e di responsabilità). La sua fondamentale indefinitezza consente ad ogni singolo essere umano di essere migliorabile: ha un potenziale indeterminabile, inestimabile, appunto. È creativo, innovatore. Come aveva intuito Sartre, gli esseri umani sono sempre più di quel che credono di essere in ogni singolo istante della vita e se scelgono di negarlo, è per mala fede o falsa coscienza. Tale è la nostra condizione che ogni persona è unica ed individuata, non interscambiabile, anche quando non è interessata ad esserlo, senza però per questo essere esistenzialmente e moralmente superiore a chiunque altro.

 La specie umana è solo parzialmente naturale, rappresenta uno scarto rispetto alla natura. Questo la rende la più speciale tra le specie, ciascuna a suo modo speciale. L’umanità è la parte più interessante della natura, nel bene e nel male, l’unica che può aiutare la natura a riflettere su stessa. Per questa ragione, il prossimo passo dovrebbe essere quello di comprendere e rispettare la dignità dell’ambiente naturale e di chi vi dimora.

Una volta che questi principi saranno condivisi da una massa critica di europei e di ospiti di questo pianeta, l’Europa dei dirittidoveri, confederale, unione euro-mediterranea, costruita dal basso e non calata dall’alto, diventerà un modello per il mondo (Caracciolo, 2010).

Montesquieu mon amour

Il grande filosofo Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu (1689-1755) – nella foto, in uno dei suoi momenti più ispirati ;o) – fu un celebre intellettuale illuminista. Non fu certamente privo di difetti e non tutti suoi giudizi sarebbero condivisibili, ai nostri occhi, ma qui io voglio celebrare unicamente la sua grandezza, nella speranza che funga da modello anche per molti altri.

Pochi sanno che cominciò la sua brillante carriera, in qualità di consigliere e poi presidente del parlamento di Bordeaux, agli inizi del diciottesimo secolo, difendendo la dignità di una casta di reietti, i cagots. Fu in quell’occasione che formulò le sue idee egalitarie, seguendo questo ragionamento (pseudo-sillogismo): le tirannie si fondano sulla paura > i cagots sono temuti > l’uguaglianza e la democrazia dovranno servire ad abolire la paura.

I cagots (variamente denominati Cagots, Gézitain, Chrestians, Gahets, Capots, Agots) della regione pirenaica Francese e Spagnola rappresentano il primo e uno dei più formidabili ed atroci esempi di biologizzazione di una categoria umana. Questi sfortunati esseri umani furono trasformati in una sub-specie, una casta di intoccabili segregati ed ostracizzati dal resto della popolazione.

Questo episodio della storia del razzismo è importante perché mostra che il razzismo era presente anche nei paesi mediterranei di tradizione greco-romana ed è possibile che in qualche modo questo fenomeno fosse collegato al tentativo di biologizzare le differenze culturali di Mori ed Ebrei nella Spagna dell’Inquisizione. Sappiamo infatti che l’Inquisizione impiegò medici spagnoli per determinare il grado di purezza razziale degli imputati (Alcalà, 1984) e lo stesso avvenne nella Germania nazista, quando ai medici genetisti (Erbarzt) venne richiesto di stabilire la proporzione di “ebraicità” dei certi cittadini tedeschi.

È tuttavia importante tenere a mente che la segregazione non fu codificata dalle autorità spagnole e francesi, eredi della giurisprudenza romana che rifiutava recisamente di adottare un  parametro biologico per la definizione della persona giuridica. Anche gli statuti di limpieza de sangre spagnoli furono avversati persino da numerosi inquisitori e di conseguenza essi vennero raramente adottati, ed ancor più raramente osservati (Kamen 1998, Baud 2001).

Tornando ai nostri cagots, è possible che questo termine possa essere emerso nel Medioevo a partire da un termine della parlata béarnais che stava ad indicare i lebbrosi. Dunque, più che ad una tara ereditaria, esso si riferiva al rischio di contagio ad essi associato. Tuttavia, sembra abbastanza certo che non di lebbrosi si trattasse, ma di reietti, gozzuti, ed asociali. La ragione principale di questa discriminazione è ancora incerta, e la credenza popolare la faceva risalire ad una remota discendenza gotica, celtica o saracena, ossia ad una distinzione etno-razziale che aveva reso possibile l’arbitraria creazione di una race maudite, a dispetto dei dubbi e delle obiezioni sollevati da un certo numero di medici, molti dei quali confessavano di non poter distinguere i cagots dai “normali”.

Questo tipo di apartheid pre-moderno durò per diversi secoli. I cagots non potevano frequentare i “normali” e potevano solo lavorare come carpentieri e pastori, essendo però costretti a lasciare i centri abitati al calar del sole. Non potevano portare armi e possedere terre, delle sezioni delle chiese erano loro riservate in modo da non porli in contatto con gli altri fedeli, dovevano portare sulle vesti dei contrassegni che li identificassero e non potevano essere seppelliti nei cimiteri ufficiali. Poi, a partire dalla fine del diciassettesimo secolo, i magistrati ed amministratori locali più illuminati, come Montesquieu, appunto (Bériac 1990; Kingston 1996), cominciarono a lottare per l’abolizione di queste aberrazioni sociali, anche in virtù delle dichiarazioni sempre più egalitarie ed anti-razziste di medici e chirurghi.

Fu quest’esperienza ad indirizzare il pensiero di Montesquieu verso l’attivismo universalista e democratico. Furono gli insegnamenti che ne trasse a guidarlo nella composizione delle “Lettere Persiane” (1721), in cui esaltava la diversità di ogni singolo essere umano e denunciava il desiderio di irreggimentare questa varietà, di armonizzarla in un’uniformità di caratteri, estinguendone la rigogliosità. Uno dei temi centrali dell’opera è che la persona può realizzarsi solo assieme alle altre persone, non a loro spese. Il che implica che per godere del prossimo, debbo rispettare la sua autenticità (e lui o lei deve rispettare la mia). Come recita l’adagio: “il mondo è bello perché è vario”. Il che causa la dissoluzione dell’istinto di possesso reciproco ma anche della rigidità identitaria: nessuna personalità è intrinsecamente più inestimabile delle altre, dunque nessuna identità è essenziale per garantire il successo nella vita. Posso recitare una molteplicità di ruoli nel corso della mia esistenza; anzi, è nel mio interesse farlo, se è questa la mia vocazione, ciò che mi rende autentico.

Fu così che cominciò ad affermarsi la democrazia moderna, che non si fonda sull’idea che l’uomo comune o medio, non particolarmente competente, andrebbe riformato in linea con le aspettative dei grandi pianificatori, bensì sulla premessa che uomini e donne, per quanto inevitabilmente imperfetti, siano capaci di compiere le loro scelte, di coltivare una propria autonomia di giudizio, di saper gestire i conflitti che immancabilmente ne derivano.

Montesquieu recupera e proietta verso il futuro l’umanesimo universalista di Pico della Mirandola, Erasmo da Rotterdam e Bartolomé de las Casas.

Per la stessa ragione, nel capitolo intitolato “Sull’Impero della Cina” (“Lo spirito delle leggi”, 1748), il Nostro approva il giudizio dell’ammiraglio Anson sulla società cinese, schierandosi contro i padri gesuiti che, ammaliati dall’autoritarismo imperiale cinese e dai loro obiettivi, idealizzano quella nazione:

Ci parlano i nostri missionari del vasto impero della Cina, come d’un governo ammirabile, che mescola insieme nel suo principio il timore, l’onore e la virtù. Adunque ho io piantata una vana distinzione, allorché ho stabiliti i principi dei tre governi. Ignoro che cosa sia questo onore, di cui si parla presso a popoli ai quali nulla si fa fare se non a forza di bastone. Inoltre se ne fanno poco i nostri commercianti di questa idea di virtù di cui parlano i missionari; si possono interrogare a proposito delle estorsioni per mano dei mandarini…Non potrebbe essere che i missionari fossero stati ingannati da un’apparenza d’ordine; che avesse lor fatto colpo quel continuo esercizio del volere d’un solo da cui sono governati essi stessi, e che tanto amano di trovare nelle corti dei re indiani? Poiché essi vi si recano con nessun’altra mira che quella di effettuarvi dei grandi cambiamenti, è loro più agevole convincere i principi che possono tutto, che persuadere i popoli che tutto possono soffrire”.

I contemporanei apprezzano Montesquieu per la sua passione per il pluralismo, che lo porta a formulare la “teoria dei corpi intermedi”, ossia a perorare la tesi che tra sovrano e cittadini siano necessario l’inserimento di gradi intermedi di distribuzione del potere che tutelino questi ultimi dalle forme dispotiche del suo esercizio. Per Montesquieu, come per James Madison, uno dei padri del costituzionalismo americano, una società democratica moderna non può fare a meno di un meccanismo di bilanciamento delle forze antagonistiche, degli interessi contrastanti, per diluire gli impulsi coercitivi ed autoritari.

M. afferma che nessuna società può rendere felici gli esseri umani se non garantisce il diritto fondamentale di ogni uomo e donna a poter essere se stesso/a, ad esprimere e coltivare la propria personalità, nel rispetto delle leggi. Questa concezione dell’individualità democratica prende le mosse dal presupposto che se tutte le persone sono messe nella posizione di poter realizzare le proprie finalità personali (in forme legittime, ossia che tutelino il diritto altrui di fare lo stesso) il fine e la volontà di qualcuno in particolare non potrà contare più di quello degli altri (come invece avviene nelle oligarchie e nelle monarchie).

Per M. l’effetto benefico della città è quello di smantellare la fissità dei ruoli imposti dalle società tradizionali, una rigidità mortificante.

Se la società cerca di reprimere la varietà prodotta in natura la conseguenza non potrà che essere una legittima rivolta.

Una posizione, questa, fortemente avversata da Rousseau, paladino della “volontà generale” che tanto piace ai fautori della democrazia diretta: se il popolo è sovrano, la sua volontà è legge ed ogni interesse divergente non ha ragione di esistere. Oggigiorno questa si chiamerebbe “tirannia della maggioranza”. Pur con tutti i nostri difetti, abbiamo fatto molti, importanti passi in avanti sulla strada dell’affermazione della dignità umana. La strada, però, è ancora lunga e passa per il rafforzamento e consolidamento della dignità degli immigrati e di tutti gli esseri viventi.

Montesquieu era convinto che il commercio fosse una scuola di tolleranza. Infatti la compravendita di beni insegnava alle persone che era possibile accordarsi su un certo numero di regole di base, pur conservando opinioni anche radicalmente antitetiche sulle cose della vita. Mettendo a contatto genti di estrazione sociale e provenienza diversa, il commercio non poteva fare a meno di distruggere il particolarismo e promuovere la tolleranza per le diversità.

Per questo soleva dire: “Sono necessariamente uomo…e francese solo per caso”.

Montesquieu era anche convinto che la certezza della pena avesse un potere di deterrenza molto maggiore della sua severità. Il che è indubbiamente vero (pena di morte docet).

La soluzione finale alla questione dei disabili secondo il governo inglese: cazzi loro!

di Stefano Fait

Jude Law, “Gattaca”, 1997

L’atteggiamento del governo inglese nei confronti dei suoi cittadini disabili e poveri dovrebbe far suonare un campanello d’allarme. Che diavolo sta succedendo? Chi sono queste persone che esercitano il potere? È giusto continuare a fidarsi di loro?

I conservatori inglesi, dopo aver ostacolato l’adozione della Tobin Tax (la tassa sulle transazioni finanziarie che poteva sanare i debiti pubblici di molte nazioni, Regno Unito incluso), smantellato lo stato sociale, e deciso che i dipendenti pubblici delle aree più povere saranno pagati di meno (nonostante gli economisti avvertano che ciò causerà un aggravamento della recessione e del già ragguardevole divario nord-povero/sud-ricco):

http://www.guardian.co.uk/society/2012/mar/16/public-servants-poorer-regions-lower-pay#start-of-comments

ora riducono le tasse ai ricchi:

http://www.guardian.co.uk/politics/2012/mar/15/george-osborne-top-tax-rate#start-of-comments

Curioso, visto che loro stessi hanno affermato che non ci sono soldi in cassa per i sussidi destinati all’inserimento sociale dei portatori di handicap.

“Come testimonia minuziosamente un articolo del Guardian online, l’altroieri le strade di Londra non erano affollate di gente in festa come per il matrimonio di William e Kate, ma di migliaia di disabili che manifestavano agguerriti. Il motivo della protesta sono stati i tagli effettuati dal Primo Ministro David Cameron ai servizi dedicati ai disabili”:

http://d.repubblica.it/argomenti/2011/05/13/news/manifestazione_disabili_londra-330416/

“Nuovi guai per David Cameron, che stavolta hanno il volto di una ragazzina dai capelli rossi gravemente disabile. La madre della piccola Holly Vincent, che aveva incontrato in campagna elettorale il futuro premier conservatore in campagna elettorale, gli ha oggi dato del traditore: “Mi aveva promesso personalmente che la mia Holly sarebbe stata al sicuro se fosse stato eletto, ma ha chiaramente tradito la promessa”, ha detto Riven Vincent, che in aprile aveva ricevuto il futuro primo ministro a caccia di voti nella sua casa di Bristol”:

http://www.blitzquotidiano.it/cronaca-europa/gb-madre-cameron-traditore-disabili-719510/

Quel che i mezzi d’informazione italiani non hanno saputo convogliare al pubblico italiano è la ferocia dei tagli dei conservatori inglesi.

La drammaticità della condizione dei cittadini britannici affetti da disabilità merita una particolare attenzione perché rivela il carattere socialdarwinistico dell’attuale governo: 23 su 29 dei suoi membri sono milionari (in sterline); il premier è David Cameron, un aristocratico discendente diretto di re Guglielmo IV e figlio di un operatore di borsa. Non sorprende il loro atteggiamento da prescelti.

Per trent’anni il Regno Unito si era impegnato a fare in modo che i disabili fossero messi nelle condizioni di diventare sempre più autonomi ed attivi, protagonisti della vita della loro comunità. Ora, come denunciano associazioni, docenti, parlamentari, giornalisti e privati cittadini, l’austerità è diventata un pretesto per annullare quel percorso trentennale, tra l’altro in violazione della “Convenzione delle Nazioni Uniti sui diritti delle persone con disabilità”, che era stata ratificata dal Regno Unito nel 2009:

http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2012/mar/01/disabled-people-have-come-far?INTCMP=SRCH

http://www.dailymail.co.uk/debate/article-2094805/Why-does-David-Cameron-insist-disability-cuts-sickened-party.html#ixzz1pH0SImeO

Gli inglesi sono in balia di un governo che disprezza la debolezza e riduce o abolisce progressivamente ogni tipo di sussidio a disoccupati, famiglie povere, anziani e, naturalmente, disabili, superando perfino gli eccessi dei tempi di Reagan e Thatcher. L’assurdità di queste politiche è che i disabili non saranno più in grado di mantenere il loro posto di lavoro e quindi finiranno interamente a carico delle famiglie o degli istituti, con costi maggiorati per l’erario. Inoltre, il personale che in precedenza si prendeva cura di loro in quelle operazioni in cui non possono essere indipendenti, diventerà licenziabile, andando ad ingrossare ancora di più le file dei disoccupati.

Dunque neppure il criterio esclusivamente utilitaristico, per quanto discutibile, può giustificarle. I conservatori non sembrano curarsene, così come gli eurocrati non sembrano curarsi del fatto che l’austerità causa decrescita ed allontana il traguardo della riduzione del debito. Parlano ed agiscono come dei fanatici: è verosimile che lo siano. Che, per di più, sia proprio Cameron, che poco tempo fa piangeva la morte del figlio disabile, ad infierire sui disabili e le loro famiglie è un’indecenza che lascia sconcertati. Il profluvio di denari sprecati in Afghanistan, contro la volontà della stragran parte dei cittadini britannici (ed afghani), sarebbe sufficiente a mantenere intatto lo stato sociale, e la Tobin tax servirebbe a restituire alla società – con ragguardevoli interessi – quello che l’avidità dei banchieri le ha tolto attraverso la socializzazione delle perdite (cf. salvataggi pubblici di chi celebra il libero mercato e condanna lo Stato: si può essere più patetici e perdenti?) e la privatizzazione dei profitti (cf. sgravi fiscali, paradisi fiscali: si può essere più parassitari e ipocriti?).

Invece il messaggio che implicitamente si dà è che i disabili sono un fardello per la collettività e sarebbe opportuno che si togliessero di mezzo il più velocemente possibile. Com’è stato detto, un paese che “non può permettersi” di assistere i suoi disabili è certamente fallito, moralmente fallito. Il Regno Unito è diventata una presenza imbarazzante per l’Europa e si è avviato lungo una pessima china. Quel che il suo governo non pare aver capito è che le persone disperate che non hanno nulla da perdere compiono gesti disperati. Le manifestazioni di migliaia di disabili nelle strade inglesi in difesa dei propri diritti sono solo il primo passo. La gente non è felice di tirare la cinghia mentre i veri responsabili della crisi sono a piede libero e più ricchi di prima. La gente non è felice di vedere che la propria nazione ha perso l’anima.

Ciò che sta accadendo in Gran Bretagna potrebbe succedere anche in Italia?

Forse sì:

http://www.articolotre.com/2011/12/%C2%ABmonti-da-che-parte-sta%C2%BB-i-disabili-protestano-a-montecitorio/51831

Perciò è meglio dedicare del tempo ad alcune riflessioni in materia di disabilità.

Oggi in molte società, specialmente in quelle dove la popolazione sta invecchiando più rapidamente, i disabili costituiscono la minoranza più consistente. A seconda dei criteri utilizzati per definire cosa sia una disabilità e chi sia disabile, oggi ci sono fino a 50 milioni di statunitensi e 40 milioni di Europei occidentali che convivono con una qualche forma di disabilità. Nella metà dei casi si tratta di una menomazione grave. La disabilità è quindi un fenomeno piuttosto ordinario ed il confine tra abilità e disabilità è permeabile. È ragionevole presumere che, ad un certo punto della vita, ciascuno di noi si troverà ad affrontare personalmente una disabilità o dovrà prendersi cura di un disabile ed è quindi nell’interesse di tutti far sì che la società moderna si sforzi di venire incontro ai bisogni dei disabili invece di considerarli “beni deteriorati”, come sembra fare il governo conservatore. Questo diventa specialmente importante oggi che le biotecnologie sono in procinto di rendere ancora più poroso il confine tra abile e disabile e che la categoria “disabilità” si estenderà molto probabilmente a persone affette da alcolismo, obesità, predisposizione a malattie congenite, ecc.

Nella vita di ogni giorno resta la tendenza a valutare gli esseri umani non per quel che sono ma per quel che fanno.

La dipendenza delle persone disabili dal supporto di altre persone ed istituzioni è stato un costante promemoria delle imperfezioni e fragilità umane e dell’impotenza delle scienze mediche. Inoltre, nei periodio di austerità più o meno indotta, i disabili sono quasi sempre stati visti come un costo insostenibile. Negli anni Venti, quando l’economia tedesca era in pessime condizioni, ma comunque prima dell’ascesa di Hitler, un sondaggio di una clinica rivelò che la maggioranza dei genitori di bambini sofferenti di un ritardo mentale avrebbero acconsentito alla loro “eutanasia” se le autorità mediche li avessero consigliati in tal senso (Burleigh, 2002).

Purtroppo, un’eccessiva insistenza sul valore dell’autosufficienza (tipico degli egotisti e degli psicopatici) a discapito di quello dell’interdipendenza, assieme a considerazioni di ordine utilitaristico su come le persone possono meglio contribuire all’economia, tende a sminuire il valore di chi non può cavarsela da solo. Se le anormalità non possono essere curate, la diagnosi prenatale e l’aborto selettivo possono anche essere viste da alcuni come una soluzione rapida ed efficace ad un problema intrattabile come quello delle discriminazioni contro i disabili: “se non ci fossero i disabili non ci sarebbero discriminazioni”. Il messaggio che passa è che i disabili sono degli errori ai quali il progresso tecnologico prima o poi saprà rimediare: ma vanno comunque tollerati (!!!).

I due obiettivi paralleli di eliminare le disabilità e indirizzare la società verso un atteggiamento più indulgente e rispettoso nei confronti dei portatori di handicap sono inconciliabili.

Dobbiamo anche capire che i test genetici prenatali e, in futuro, la terapia fetale, cioè il trattamento medico dei bambini in grembo non garantiranno la nascita di un bambino “normale”. Anche lo screening sistematico dei feti non può evitare che alcuni bambini “difettosi” vengano al mondo. Ciò solleva il problema di come verranno trattati questi bambini inattesi in una società che tende a valorizzare competenza ed intelligenza sopra ogni altra cosa, cioè una società in cui sarebbe stato meglio che non fossero mai nati. Stiamo già assistendo alla collisione tra il diritto costituzionale all’uguaglianza e una realtà di disuguaglianza fisica, e questa è una situazione in cui i diritti delle donne si scontrano con quelli dei disabili e dei feti, mentre i diritti, valori ed interessi individuali configgono con quelli sociali.

È opportuno meditare sulla serie di effetti a breve o lungo termine dell’applicazione di nuove tecnologie nel campo della medicina genetica, anche se non possono essere previsti con certezza. A seguito dell’adozione della diagnostica genetica (quando esistono indicazioni che qualcuno potrebbe essere affetto da una qualche malattia genetica) e dei test genetici nello screening dei portatori sani (che non offrono indicazioni di sorta), potrebbe emergere una nuova classe di cittadini che includerebbe tutte le persone che sono state diagnosticate come malati asintomatici, cioè a maggior rischio di contrarre certe infermità. Promulgare una legislazione specifica a protezione di questi cittadini contro ogni tipo di discriminazione potrebbe paradossalmente farli sembrare più diversi dalla “norma” di quel che realmente sono. Così è stato detto che discriminazioni nel settore assicurativo, dell’impiego, e della sanità potrebbero essere la logica ed inevitabile conseguenza di un vicolo cieco in cui si verrà trattati in modo diverso sia che uno consenta a farsi testare geneticamente e a permettere che lo stesso venga fatto ai propri figli e l’esito sia positivo, sia che uno si rifiuti di farlo, perché in quel caso si sospetterà la presenza di una malattia ereditaria che si vuole nascondere. In ultima analisi il rischio è quello di assistere ad una deriva epistemologica che condurrebbe ad una società in cui una vita umana non conforme a standard qualitativi sempre più elevati sarà vista come una seria negligenza:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/09/lavvento-di-gattaca-quando-i-complotti-sono-alla-luce-del-sole/#axzz1pT9hf38H

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