Se i sindaci governassero il mondo – 15 obiezioni alla distopia globalista di Benjamin R. Barber

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Ciò che noi, educatori delle nuove leve del Führer, vogliamo, è una moderna statualità articolata secondo il modello delle città-stato elleniche. Bisogna pensare a queste democrazie strutturate aristocraticamente, con la loro larga base economica di iloti, come ai maggiori risultati culturali dell’antichità. Il cinque-dieci per cento della popolazione, i migliori accuratamente selezionati, devono comandare, il resto deve lavorare e obbedire. Soltanto così sarà possibile raggiungere quelle alte mete che proponiamo a noi stessi e al popolo tedesco (Kaminski, 1998, p. 138).

Lo storico tedesco Eugen Kogon, sopravvissuto ai campi di concentramento per diventare uno dei padri della Repubblica Federale Tedesca, riferisce di un colloquio che ebbe nel 1937 con un ufficiale delle SS, che gli descrisse il futuro che avevano in mente i nazisti.

Il futuro è per i più piccoli: la posizione geopolitica non avrà più un grande peso, proprio grazie alle nuove tecnologie di comunicazione. Del resto l’Italia è nota in tutto il mondo per aver avuto delle città molto “potenti” come Genova o Venezia. Credo che i “piccoli” potranno farsi avanti se avranno volontà di farlo, delle strategie adatte, un gruppo dirigente che sappia creare entusiasmo su degli obiettivi precisi

Jacques Attali, già consigliere di François Mitterrand e uno degli intellettuali europei più ascoltati e citati

http://www.ladige.it/articoli/2010/04/23/attali-mondo-vince-chi-sa-cambiare

Venezia era Venezia, Genova era Genova, Firenze era Firenze: le repubbliche marinare e i comuni avevano una loro personalità. Ogni parte dell’ Italia era unica. Con il risultato che le città-Stato erano in competizione tra loro e questo era il motore della crescita, dell’ innovazione, del potere… Uso l’esempio del Sud Tirolo (l’Alto Adige, ndr). Quando ogni regione si auto-organizza, le cose riprendono a funzionare, come lì. Quando si dà uno stop alle interferenze e alle imposizioni di Roma, intesa come centro dello Stato, l’innovazione e la crescita lievitano, scompare la paura dello Stato. E la competitività ne guadagna enormemente. Questo, credo, è quello che l’Italia dovrebbe imparare dalla sua storia… Il primo passo necessario, probabilmente, sarebbe la separazione tra il Nord e il Sud. Per togliere paura ad ambedue le entità. Poi si dovrebbe andare verso regioni autonome, che si governano da sole. Dopo un po’ si potrebbe introdurre qualcosa che dia un feeling simbolico di identità italiana, ma niente di più. Come in alcuni Paesi è la monarchia… Io penso che, come entità politica, l’Europa sia finita. Credo nell’Europa culturale, nel senso dei valori dell’Occidente. Ma per il resto penso si debbano avere indipendenza, specializzazione, capacità di affrontare i propri problemi. E ognuno con la propria moneta.

Marcia Christoff Kurapovna, teorica neoliberista, collaboratrice del Wall Street Journal

http://archiviostorico.corriere.it/2012/luglio/14/Ispiratevi_alle_citta_del_Rinascimento_co_8_120714018.shtml

L’esimio sociologo neocon Benjamin Barber immagina un mondo senza stati-nazione, sostituiti da città-stato che amministrano le loro aree di pertinenza.

Secondo lui le città sono pragmatiche e non ideologiche e i sindaci sono più amati dei presidenti, le città sono meno sottoposte alla pressione lobbistica e le amministrazioni riescono a mantenere più promesse. Già si relazionano tra loro con unioni internazionali, come la Nuova Lega Anseatica o la Fondazione delle Megacittà.

Barber sostiene che la governance globale non ha bisogno di un grande edificio con governanti unitari. Può essere volontaria, informale, bottom-up. Raccomanda la costituzione di un parlamento mondiale delle città, perché gli Stati nazionali non possono governare a livello globale, mentre le città lo possono fare. Un pianeta governato dalle città rappresenterebbe un nuovo paradigma di governance globale, di glocalismo democratico e non imposizione dall’alto, di orizzontalismo invece di gerarchia, di interdipendenza pragmatica in luogo delle ideologie superate di indipendenza nazionale.

E’ un progetto che ha un futuro: la stampa angloamericana mainstream sta dando ampio spazio a chi suggerisce che città come Tokyo, New York, Londra, Chicago, Montreal, ecc. [es. cercate “London city-state” e “Montreal city-state”], seguano l’esempio di Singapore e, in parte, Honk Kong, dandosi uno statuto di città-stato.
Barber, nei prossimi anni, diventerà una star a livelli dell’Al Gore di inizio secolo, se l’agenda anarcocapitalista (fase finale del neoliberismo) procederà spedita:
http://it.wikipedia.org/wiki/Anarco-capitalismo

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Si possono muovere numerose obiezioni a questo “nuovo ordine mondiale”:

1. Innanzitutto i sindaci di norma vengono eletti perché assecondano le esigenze (e i capricci) locali e si ripromettono di risolvere i problemi locali, prima di tutto e quasi esclusivamente. Difficile che un sindaco venga eletto perché promette di risolvere i problemi del mondo assieme ad altri sindaci.

2. A un sindaco, anche il sindaco di una megalopoli, manca una prospettiva non solo globale, ma anche semplicemente nazionale, e non ha senso che siano autorizzati a parlare a nome di milioni di persone che non abitano nella città o nei paraggi (e se i paraggi fossero davvero estesi, che differenza ci sarebbe rispetto agli stati-nazione e capi di stato attuali?).

3. Capita che i sindaci/giunte emanino disposizioni che entrano in conflitto con le legislazioni nazionali, se non addirittura con le costituzioni. Chi tutelerebbe il rispetto dei principi fondamentali? Con quale forza impositiva?

4. Circa il 50% della popolazione mondiale non vive in un contesto urbano. Di che tutele potrebbe godere?

5. E se questa popolazione non urbanizzata, che produce il 95% del cibo e delle risorse di cui necessitano le città, decidesse di scioperare per difendere la propria autonomia, che succederebbe?

6. L’esempio cinese (o di Singapore) non promette bene: i sindaci onnipotenti delle megalopoli non sembrano interessati a coordinarsi per il bene della Cina. Sembrano più intenzionati a trasformare le loro città in feudi personali e gli amministratori locali in cortigiani. Un caso non troppo dissimile è quello di Tokyo, che molti giapponesi considerano un’entità ipertrofica con un’eccessiva influenza sulla gestione del paese. Per non parlare della bancarottata Detroit.

7. Le città-stato del passato non erano certo il paragone della virtù e della concordia, né in Grecia, né in Italia o in Germania. La ‘culla della democrazia’ era in realtà un nido di serpi infido di città in perenne conflitto tra loro per centinaia di anni fino a che furono conquistate da un impero. L’Italia è un esempio classico di come un mosaico di piccoli staterelli è rimasto per secoli alla mercé delle grandi potenze e delle grandi banche. Se le città erano murate una ragione c’era.

8. Senza entità nazionali e federali chi amministra i parchi nazionali, la viabilità transcontinentale, i soccorsi ed aiuti di emergenza, la difesa, la lotta alla criminalità transnazionale? Chi salverà le istituzioni finanziarie troppo grandi per essere lasciate fallire? La tua città o la mia?

9. Oggi, nella maggior parte dei paesi democratici, il governo raccoglie le tasse dai cittadini e le distribuisce ai governi locali. Ci si sforza di contrastare le disparità dovute alle rendite di posizione che nascono dalla concentrazione di ricchezze e di competenze in certi luoghi strategici. Tuttavia, se i governi dovessero scomparire, i divari tra aree urbane e rurali crescerebbero stabilmente e le periferie finirebbero alle dirette dipendenze delle grandi città in grado di far valere la loro volontà con la forza e il ricatto.

10. Inoltre l’attenzione concentrata sulle questioni locale non farebbe che sviluppare il campanilismo e la competizione più sfrenata che ora i governi centrali riescono a gestire a beneficio di un’intera nazione.

11. Per quel che riguarda l’idea che i sindaci siano in grado di cooperare meglio dei leader nazionali, non è difficile capire perché ciò avvenga. Lo possono fare perché tutte le questioni più scottanti, controverse e potenzialmente esplosive vengono gestite a livello nazionale, e così i sindaci possono occuparsi di tutto quel che resta, come i bambini possono giocare assieme mentre i genitori si prendono cura dei problemi reali. Riusciamo ad immaginare una conferenza di sindaci che cercano di decidere riguardo a questioni complesse come il diritto delle donne all’aborto, la guerra alla criminalità organizzata, il welfare, ecc.?

12. La creazione di migliaia di città-stato sarebbe un regalo a quella porzione avida e priva di scrupoli delle élites. Essa prenderebbe il controllo di tutto le esistenti strutture di potere sfruttandole per i propri fini egoistici. La storia italiana, quella tedesca e quella giapponese ce lo insegnano.

13. I candidati a sindaco/governatore sarebbero molto probabilmente ricchi e non capirebbero le condizioni di vita dei distretti più poveri.

14. Infine, mi rifiuto di vivere in un mondo governato da politici post-ideologici, se questo significa che giustizia sociale, uguaglianza e fratellanza saranno incasellate nelle categorie “ideologia”, “populismo”, “radicalismo”. Abbiamo bisogno di più democrazia, non della fantasia di un mondo fiabesco, in cui tutti i sindaci non sono corrotti o vittime della sindrome del salvatore che ha sempre ragione perché è dalla parte del vero, del bene e del giusto.

Post-ideologico, al giorno d’oggi, è diventato sinonimo di neo-liberismo, la dottrina che promuove l’abolizione di quelle norme che tutelano i deboli dall’arbitrio dei forti in nome della “meritocrazia”: come se un bambino allevato “parsimoniosamente” non subisse contraccolpi a livello cognitivo e psicologico,  veri e propri handicap di cui non ha alcuna colpa e come se un bambino allevato in una famiglia benestante non avesse le migliori opportunità di sfruttare una posizione di rendita e di privilegio pregressa.

15. Il progetto di Barber ricorda troppo da vicino lo scenario denominato “renew-abad” nell’analisi futurologica intitolata “Megacities on the Move” di Forum for the Future e che prevede la riemersione delle “città-stato”, un massiccio uso delle energie rinnovabili; uso delle risorse strettamente regolamentato; “benevole” autocrazie sul modello cinese; il divario tra ricchi e poveri diminuito a livello sociale, ma aumentato a livello globale; iniziativa privata fortemente regolamentata dal potere centrale: “I governi impongono regole più severe e utilizzano tecnologie sempre più sofisticate per monitorare i cittadini e far rispettare la legge. Spesso decretano il distretto in cui uno dovrà risiedere, le modalità di spostamento, il livello di consumi energetici consentito. Il tasso di criminalità è calato drasticamente, il traffico è più fluido, ma le rappresentanze della società civile denunciano la morte della democrazia. Le città-stato controllano vasti territori come al tempo dell’Europa medievale”.

I centri urbani funzionerebbero come città-stato neo-feudali che sfruttano e tengono a bada le masse sottomesse e divise in clan neotribali in perenne conflitto – la filantropia al posto dei diritti sociali, la “sicurezza” al posto dei diritti civili, il populismo al posto della democrazia, il vassallaggio al posto del contratto sociale, il precariato al posto dei diritti dei lavoratori. No, grazie!

Chi potrebbe volere una cosa del genere?
Avete presente i semi terminator e zombie della Monsanto? Avete presente le sperimentazioni statunitensi per creare soldati-macchina privi di empatia che saranno poi usati contro la popolazione civile?
http://fanuessays.blogspot.it/2011/11/i-cyloni-sono-gia-tra-noi.html
http://www.independent.co.uk/news/science/super-soldiers-the-quest-for-the-ultimate-human-killing-machine-6263279.html
Avete presente le revisioni dei conti greci della Goldman Sachs? Avete presente il riciclaggio dei soldi del narcotraffico e della vendita di armi della HSBC? Avete presente le conseguenze letali delle politiche europee in Grecia?
https://versounmondonuovo.wordpress.com/2013/10/09/islanda-grecia-egitto-italia-cavie-sovrane/
Avete presente le liste della morte di Obama? Avete presente Deepwater Horizon e Tepco? Avete presente l’Halliburton? Avete presente la guerra delle case farmaceutiche contro i paesi del Terzo Mondo? Avete presente il lobbismo delle multinazionali contro gli interessi e la salute della popolazione? Avete presente la Black Rock, la più grande società di investimento nel mondo, che gestisce un giro d’affari superiore al PIL della Germania? Avete presente il Washington Consensus? Avete presente l’11 settembre? Avete presente la misantropia di certi leader dell’ecologismo?
https://versounmondonuovo.wordpress.com/2013/08/09/quando-lumanita-odia-se-stessa-la-misantropia-serrista/
Pensate seriamente che questo esercizio psicopatico di un potere spropositato sia capace di e disposto a disciplinare la sua avidità ed egoismo?

1-reports-per-year2-700x4602145 avvistamenti ufficializzati nel 2012 – 2250 all’inizio di ottobre 2013

http://www.amsmeteors.org/fireball_event/2013/


L’umanità può essere indotta ad accettare tutto questo?

Ecco la risposta di Jacques Attali (parti in rosso): meteoriti/impatti cosmici
https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/06/26/jacques-attali-domani-chi-governera-il-mondo-2012-estratti/
https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/09/23/spedizioni-cosmiche-consegna-rapida-e-sicura-in-tutto-il-mondo/

photo7http://sciencefictionruminations.wordpress.com/2011/12/05/adventures-in-science-fiction-cover-art-the-domed-cities-of-the-future/

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Il celebre scrittore di fantascienza William Gibson, incuriosito dalla possibilità che Singapore incarnasse l’avanguardia di quel mondo futuro che lui descriveva nei suoi romanzi, dopo aver visitato la città-stato, l’ha definita “Disneyland con la pena di morte” e ha ipotizzato che, se la IBM avesse potuto crearsi un suo staterello, le corrispondenze con la tecnocrazia capitalista di Singapore sarebbero state ragguardevoli. Un microcosmo fatto di conformismo, automatizzazione, sorveglianza capillare, carenza di creatività e di senso dell’umorismo, efficientismo, soppressione di tutto ciò che è considerato vecchio, censura, divieto di vendita di certi libri (inclusi, a quel tempo, i suoi!), programmi TV che insegnano ai vari gruppi etnici come essere stereotipicamente “se stessi”, locali gay clandestini, omologazione della moda e delle vetrine, ecc. Gibson conclude mestamente che, se gli architetti della società di Singapore dimostreranno di avere ragione – cioè che è così che una società dovrebbe essere amministrata – sarà una sconfitta per l’umanità, perché sarà la prova che essa può prosperare a dispetto della repressione della libera espressione delle personalità e dell’eterogeneità della natura umana.

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post-3990-1246826145Astana

Più inquietante ancora è l’allucinante “città-utopia” di Astana, capitale dell’odierno Khazakhstan, soprannominata la “base spaziale della steppa” e fortemente voluta dal dittatore Nursultan Nazarbaev, strenuo alleato della NATO, che ne magnifica l’architettura futuristica e sincretistica, gli appelli umanitaria al dialogo tra le fedi e le nazioni, alla pace, alla prosperità ed al progresso, ecc. Ma non c’è unità nella diversità ad Astana, non ci sono concordia, dignità, libertà, uguaglianza e fratellanza. È solo il sogno auto-celebrativo – realizzato con l’aiuto dei proventi petroliferi di un tiranno che si crede illuminato. È anche l’incubo di qualunque persona assennata. Non sembra essere una residenza popolarissima: doveva raggiungere il milione di abitanti nel 2012, ma è rimasta bloccata sotto la soglia degli 800mila e, di questo passo, al milione ci arriverà, forse, dopo il 2030. Tuttavia, nel 2010, Astana è stata scelta come sede di una conferenza diplomatica sui diritti umani dell’Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa.

Quello di Nazarbaev e delle città-stato tecnocratiche è un dispotismo che ha un futuro, perché non è orwelliano, non è sguaiato. È piuttosto molto paternalistico e retoricamente benevolo, un po’ come quello preconizzato da Tocqueville ne “La Democrazia in America” (1840):

Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di esseri simili ed eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima… Al di sopra di questa folla, vedo innalzarsi un immenso potere tutelare, che si occupa da solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sulle loro sorti. È assoluto, minuzioso, metodico, previdente, e persino mite. Assomiglierebbe alla potestà paterna, se avesse per scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma, al contrario, non cerca che di tenerli in un’infanzia perpetua. Lavora volentieri alla felicità dei cittadini ma vuole esserne l’unico agente, l’unico arbitro. Provvede alla loro sicurezza, ai loro bisogni, facilita i loro piaceri, dirige gli affari, le industrie, regola le successioni, divide le eredità: non toglierebbe forse loro anche la forza di vivere e di pensare?

Lo spirito di questo possibile futuro è stato colto con una prodigiosa ed inquietante capacità precognitiva da Fëdor Dostoevskij nella Leggenda del Grande Inquisitore:

Il grande inquisitore si presenta come liberatore degli uomini dal peso della libertà. Sembra quasi una contraddizione: liberare dalla libertà. Ma è proprio questo ch’egli vuole fare: sollevare gli esseri umani da quella che sostiene essere la maledizione che il Cristo è venuto a portare agli uomini. Alla stragrande maggioranza di essi, dice il vegliardo al Cristo prigioniero che lo ascolta in silenzio, non si addice la vertigine della libertà, ma la servitù dello spirito… Il grande inquisitore e il Cristo sono fratelli e al tempo stesso nemici mortali. Cristo promuove la vita, l’inquisitore la soffoca…L’inquisitore sostiene le sue posizioni dal punto di vista della «ragion del volgo»: si presenta come amico e non come nemico del popolo. Egli, che ha detto di sì a tutte le tentazioni del demonio nel deserto, non vuole affatto costringere con la forza gli esseri umani ad obbedire; vuole piuttosto impadronirsi dell’animo. È l’anima umana che gli interessa. Il potere non compare come violenza, ma nella sua versione seduttiva, fino al punto di dispensare l’illusione di una vita oltre la morte. Noi, gli eletti – dice l’inquisitore – sappiamo bene che non è così, ma poiché sappiamo illudere gli uomini, essi moriranno felici (Gustavo Zagrebelsky, intervista, Il Sussidiario, 23 gennaio 2012)

E, non meno lucidamente, da Aldous Huxley in “Brave New World” e da David Mitchell in un romanzo trasposto sul grande schermo dai fratelli Wachowski (cf. “L’Atlante delle Nuvole”) che tratteggia una città-stato plutocratica, iperconsumista, castale ed ecologicamente compromessa chiamata Nea So Copros, retta da un’oligarchia, l’“Unanimità”, che si presenta unita ma in realtà è divisa da lobby, tribalismi e lotte di potere, ed è soprattutto condannata:

Nea So Copros si sta avvelenando da sola. Il terreno è inquinato, i fiumi sono privi di vita, l’aria è tossica, le scorte di cibo sono piene di geni canaglia. Gli strati inferiori non ce la fanno più a comprare le droghe indispensabili per affrontare queste privazioni. Le fasce di melanoma e malaria avanzano verso nord a una velocità di quaranta chilometri all’anno. Le Zone di Produzione dell’Africa e dell‘Indonesia che alimentano la domanda delle Zone di Consumo sono per il sessanta per cento inabitabili. La legittimità della plutocrazia, il benessere, sta scomparendo; le Leggi per l’Arricchimento promulgate dalla Juche sono semplici cerotti a fronte di emorragie e amputazioni. L’unica via d’uscita rimasta è la strategia tanto apprezzata da tutti gli ideologi della bancarotta: la negazione.

Al tempo della rivoluzione francese, Louis-Sebastien pubblicò una visione utopica, intitolata “L’anno 2440”, che doveva prefigurare l’esito finale dell’ingegneria sociale di un certo filone illuminista tecnocratico applicata alla rivoluzione. A distanza di qualche secolo Parigi sarebbe diventata una città puritana che avrebbe bandito caffè, the e tabacco. Sarebbe stata la capitale di una società imperialista che aveva occidentalizzato il mondo, che censurava la letteratura non allineata e inquisiva i dissidenti per convertirli. Una società patriarcale, fatta funzionare come un orologio, in cui non esistevano ozio e tempo libero, ma tutti dovevano rendersi utili in ogni momento. La separazione tra pubblico e privato era svanita e i doveri civici avevano eclissato le libertà civili. I critici hanno paragonato la Parigi di Mercier a una città di morti viventi, una necropoli. Dobbiamo contrastare ogni spinta in quella direzione con tutte le nostre forze.

L’Impostore

Il celebre intellettuale francese Bernard-Henri Lévy (BHL) è abituato ad avere un occhio di riguardo per l’agenda della NATO (preme per l’intervento militare in Siria come l’ha fatto per la Libia):

http://www.lettera43.it/attualita/33340/libia-armi-e-ragione.htm

e di Israele:

http://www.osservatorioiraq.it/gaza-e-i-media-un-giornalista-e-un-filosofo-a-confronto

Un uomo sempre dalla parte del potere economico e politico, con le mani in pasta in molti affari nelle ex colonie, le cui risorse ha provveduto a sfruttare a puntino (la sua impresa di famiglia è stata accusata di essere al centro del peggior progetto di deforestazione del continente nero e di trattare gli operai come dei servi), che dà lezioni di morale a tutti dopo aver frodato il fisco francese, che si propone come l’ultimo dei grandi filosofi francesi.

Il New York Times boccia senza la minima riserva un suo saggio sugli Stati Uniti infarcito di vacuità e luoghi comuni che, nelle sue intenzioni, doveva estinguere l’antiamericanismo dal pubblico francese con un’apologia dell’America che avrebbe dovuto proiettarlo nella storia come “il nuovo Tocqueville”: “Qualunque autore americano che volesse spiegare la Francia ai Francesi dovrebbe leggere prima di tutto questo libro per capire cosa bisogna NON fare

http://www.agoravox.fr/culture-loisirs/culture/article/bhl-une-imposture-francaise-7921

Un uomo di una vanità quasi senza pari, eternamente preoccupato di non essere sufficientemente al centro dell’attenzione e abbastanza celebre negli Stati Uniti:

http://lmsi.net/BHL-L-homme-qui-pretendait

Pierre Vidal-Naquet (1930-2006), uno dei grandi storici francesi, lo considerava un impostore, tra gli intellettuali: incline ad impiegare false citazioni, a commettere errori grossolani che si potrebbero perdonare solo ad uno studente liceale, ad indulgere in deliri retorici; insomma, un autore mai più che mediocre che però si concede fin troppo generosamente arie e pomposità di un erudito che si è assunto l’incarico di salvare il panorama intellettuale francese dal suo degrado (parole di BHL).

http://www.pierre-vidal-naquet.net/spip.php?article49

 

Solo ora, però, i suoi critici potranno finalmente rallegrarsi della sua caduta dal piedistallo.

“Nel suo ultimo ed acclamatissimo libro De la guerre en philosophie, [BHL] dedica ampio spazio al filosofo Jean-Baptiste Botul autore del fondamentale saggio “La vita sessuale di Immanuel Kant”. Ne parla con grande ammirazione e dovizia di particolari: «All’indomani della Seconda guerra mondiale, nella sua serie di conferenze ai neokantiani del Paraguay, dimostrò che il loro eroe era un falso astratto, un puro spirito di pura apparenza». E sin qui non ci sarebbe nulla di male. Peccato che Jean-Baptiste Botul non esista. È un personaggio inventato a scopo di satira, un finto intellettuale creato proprio per potergli ficcare in bocca qualsiasi scempiaggine. Nel 1999 Frederic Pages, professore di filosofia e collaboratore del giornale satirico Canard Enchainé (un vero must per i francesi che amano l’umorismo colto), lo inventò per far fare due risate ai suoi lettori, e trasformò poi le sue finte conferenze addirittura in un libro (uscito anche in Italia). Ma mai si sarebbe immaginato che questo strambo personaggio creato per far ridere ingannasse il «povero» Levy. Tanto più che la sua stessa biografia fittizia è strutturata in forma di barzelletta: avrebbe avuto delle liaisons con Marthe Richard, Marie Bonaparte, Simone de Beauvoir e Lou Andreas-Salomé e vanterebbe tra amici e improbabili conoscenze: Zapata, Pancho Villa, Henri Désiré Landru, Stefan Zweig, André Malraux, Jean Cocteau e Jean Giraudoux.

Insomma, Lévy ha fatto uno scivolone così colossale che ha lasciato basita e incredula anche la prima che se ne è accorta, la giornalista del Nouvel Observateur Aude Lancelin, che ha subito lanciato l’allarme dalle pagine della storica testata. Per usare le parole della Lancelin che ha titolato il suo articolo Bernard-Henri en flagrant délire: l’affaire Botul è come se «Michel Foucalt si fosse basato sui lavori di Fernand Raynaud (un attore comico) per una lezione inaugurale al Collége de France». Tanto più che basta una cliccatina su internet (anche senza andare oltre la tanto vituperata Wikipedia) per accorgersi che Botul è solo uninvenzione satirica. Così adesso sono tanti in Francia a chiedersi cosa sia passato nella testa del più stimato e osannato dei pensatori nazionali. Basti dire che l’editore Grasset ha presentato De la guerre en philosophie con queste parole: «Un manuale per epoche oscure, dove l’autore… dispone, cammin facendo, le pietre angolari di una metafisca futura». Pare proprio che i posteri dovranno trovarsi delle pietre angolari un po’ più solide, a meno che la metafisica sia tutta uno scherzo. Allora ben venga Botul, «autore» anche di un Landru precursore del femminismo. Anche se a questo punto bisogna dire che BHL, come lo chiamano i francesi, è diventato più buffo, con la sua aria seriosa e impegnata, di qualsiasi creazione immaginaria”.

http://www.ilgiornale.it/news/bernard-henry-l-vy-scivola-su-botul-filosofo-inesistente.html

L’archetipo di Atlantide e la Sindrome di Faust

Tutte le immagini sono tratte dalle cerimonie di apertura e chiusura dei giochi olimpici di Londra

La Sindrome di Faust è un tipo di mentalità che abbiamo sviluppato con l’agricoltura e che si è irrobustito con la diffusione del radicale dualismo gnostico-cartesiano tra ego e natura. Utili riflessioni su questo tema possono essere trovati nel pensiero di Hans Jonas e Carl G. Jung, in particolare nella loro disamina del modo in cui ci siamo estraniati dal mondo e dalla trascendenza, diventando integralmente alienati, suscettibili di depressione cronica, fuga dalla realtà e megalomania (inflazione di ego), a seconda dei casi.

Filemone e Bauci sono agli antipodi di Faust.

La leggenda di Filemone e Bauci è di origine greca ma appare per la prima volta in forma completa nelle Metamorfosi di Ovidio (43 a.C. – 17 d.C.), un autore pre-cristiano che però conferisce alla narrazione un carattere riconoscibilmente, profeticamente cristiano. Abbiamo la lavanda dei piedi, la mancata ospitalità punita con una distruzione da fine dei tempi, la moltiplicazione del vino e del cibo, l’identità divina e insieme umana degli ospiti. La ospitalità viene descritta come al tempo stesso un obbligo ed un’opportunità di maturazione e compimento, di completamento. Una vita inospitale è una vita insalubre. Il mondo non ci ha chiesto di nascere qui ed ora, però ci ospita. Filemone e Bauci si donano al prossimo, si pongono al servizio del prossimo, ossia dimostrano di essere capaci di amare il prossimo come amano se stessi. Chi si chiude narcisisticamente in se stesso si chiude alla vita e si condanna alla distruzione, come i vicini inospitali della coppia mitica. Gli unisono ospitali, pur essendo poveri, e i loro desideri vengono esauditi: diventano sacerdoti di Apollo e viene concesso loro il privilegio di un reciproco amore eterno. Gli altri, che hanno i mezzi per ospitare e non lo fanno, saranno spazzati via dalla faccia della terra.

Si comportano come i Proci dell’Odissea. Vogliono tutto per se, come il Faust di Goethe.

Nella seconda parte dell’opera, Faust è un imprenditore capitalista che porta avanti un titanico progetto ingegneristico ed urbanistico con l’assistenza di Mefistofele. Ma sulla sua strada incontra un ostacolo, una coppia di anziani di nome Filemone e Bauci che vivono poveramente in una piccola capanna. Sono molto ospitali e generosi, specialmente con i naufraghi (cf. richiamo al Diluvio ovidiano), ma sono anche tenacemente legati al loro angolo di mondo e non lo vogliono veder sparire sotto i colpi del “progresso”.

Faust non sa bene cosa fare, ma desidera con tutte le sue forze gratificare il suo ego e portare a termine il suo progetto. Mefistofele gli ricorda che il diritto sta sempre dalla parte dei forti: “E perché vuoi fare dei complimenti? Non devi forse colonizzare?”. Faust approva: “Allora andate e liberatemi di loro”. Acconsente così ad un doppio omicidio in stile mafioso (un incendio doloso). La volontà di dominio dei forti non tollera interferenze, vuole imporre il suo sigillo sulla storia e sul mondo, sacrificare il presente al Moloch di un futuro in cui i posteri non hanno alcuna voce in capitolo, dovendosi limitare ad accettare il fatto compiuto. Nel Faust non c’è un lieto fine come in Asterix, dove il piccolo villaggio gallico continua a resistere agli invasori romani. Faust costruisce il suo Mondo Nuovo sfruttando il servaggio, i sacrifici, la sofferenza altrui, la rapina, la pirateria, la corruzione, l’inganno, la violenza: come un conquistador, come un emissario coloniale sul libro paga della Compagnia delle Indie. Goethe ci insegna che il demonismo titanico è il demonismo di una certa imprenditoria capitalista priva di coscienza, di lungimiranza, di una pur minima attenzione al bene comune. Faust, prima di redimersi, assomiglia sempre di più alla sua mefistofelica guida ed assistente, che ama il vuoto, è il vuoto, in quanto odia la creazione, è necrofilo, detesta la vita e preferisce l’inerzia – la medesima descrizione che Dostoevskij dava dell’Anticristo. Faust è, junghianamente, l’ombra dell’uomo. I paralleli con il nostro tempo si sprecano. Per esempio, Mefistofele suggerisce al re di emettere obbligazioni e moneta assicurando, truffaldinamente, che il suo regno sta seduto su immense miniere d’oro (che in realtà non esistono). Una preveggenza stupefacente perché anticipa di due secoli certe pratiche finanziarie (derivati) che hanno distrutto l’economia reale nella prima Depressione ed in quella contemporanea.

L’archetipo atlantideo, che attraversa i secoli, è quello di una civiltà intossicata dalla propria bramosia di potere, che alla fine si autodistrugge. Il messaggio morale è che il progresso tecnologico dissociato da quello morale ed un progresso materiale inseguito ossessivamente per compensare la perdita dei poteri spirituali delle origini è satanico o comunque autolesionistico. Quanto più l’umanità si allontana dalla sua sorgente spirituale, tanto più si solidifica ed oggettifica, si fa meschina, stolida, nociva per tutto ciò che la circonda. Le più attente e rigorose disamine dell’immensa letteratura dedicata al simbolismo ed al mito atlantideo (Vidal-Naquet, 2006; Godwin, 2011; Ciardi, 2011) sembrano indicare che nel corso dei secoli decine di letterati, pensatori più o meno seri e più o meno pittoreschi, si sono trovati d’accordo almeno su un punto: la nemesi dell’ipotetica/simbolica civiltà di Atlantide giunse quando gli abitanti del misterioso impero abusarono delle loro conoscenze avanzate per dominare le forze naturali. Quel che più veneravano li distrusse. La loro tecnoscienza produsse la loro caduta, perché fu posta al servizio di finalità meschine, cieche, egoistiche, crudeli, vili, da superuomo nietzscheano:

“L’essenziale di una buona e sana aristocrazia è che essa…accolga con tranquilla coscienza il sacrificio di innumerevoli esseri umani che per amor suo devono essere spinti in basso e diminuiti fino a diventare uomini incompleti, schiavi, strumenti” (F. Nietzsche, “Al di là del bene e del male”).

Una mentalità che ritroviamo, pari pari, in un’intervista alla escort Terry de Nicolò del 16 settembre 2011:

“Qui vale la legge del più forte e se sei onesto non riesci a fare un grande business. Se vuoi i grandi numeri devi rischiare il culo. Più in alto devi andare e più devi passare sui cadaveri ed è giusto che sia così. Però qui non viene capito, perché c’è un’idea cattolica, c’è un’idea morale. Quello che mi fa incazzare è l’idea moralista della sinistra che tutti devono guadagnare duemila euro al mese, che tutti devono avere diritti. No, no. Qui è la legge di chi è più forte, di chi è il leone. Se tu sei pecora rimani a casa con duemila euro al mese. Se invece vuoi ventimila euro al mese devi entrare in campo e ti devi vendere la madre, mi dispiace ma è così”.

L’archetipo atlantideo in politica modella società in cui gli individui non possono crescere intellettualmente e psicologicamente e sono istruiti a credere che la realtà può essere rimodellata e negoziata a piacimento, che non esistono principi morali che non dipendano dalle circostanze e che quindi l’utile giustifica ogni cosa mentre solo chi è eccellente, superiore, sa istintivamente cosa è meglio e cosa è peggio per tutti.

“Atlantide” è una società in cui si accetta la volontà altrui e ci si adatta finché la controparte è più forte. È la forza a stabilire cosa sia giusto e sbagliato, cosa sia lecito e cosa precluso. L’istruzione è nozionistica e serve unicamente a fabbricare uomini-robotici ben disciplinati. Il rituale prevale sulla discussione ragionata. Il potere che discende dall’alto, non risiede nella sovranità popolare ed il governo è, sostanzialmente, una banda di criminali che si accorda sulle regole di condotta e criteri di spartizione del bottino, con l’obiettivo comune di espandere l’accessibilità a potere e risorse. Per il resto tra loro regna una rivalità spietata.  Un potere che non è apertamente violento, ma più simile a quello immaginato da Tocqueville e da Dostoevskij. Il marcio (torture, sparizioni, ricatti, corruzione, minacce, eugenetica, darwinismo-sociale, ecc.) resta dietro le quinte o viene mimetizzato dietro slogan, proclami ed eufemismi, mentre i cittadini sono indottrinati a credere di essere perennemente indebitati nei confronti delle autorità, ad essere mansueti, obbedienti in cambio dell’illusione della benevolenza. Ignorano la nozione che possa esistere una legittima resistenza al potere dato che presumono che il potere sia per sua natura nel giusto. Nel dominio del sacro, la critica è sacrilegio. Nessuno insegna alla gente a dire no ed a pensare che la società non è un capriccio della natura ma il prodotto dell’inventiva umana e quindi può essere modificata, riformata anche in maniera sostanziale.

Così il diritto non esiste per proteggere i cittadini ma per conservare i privilegi di chi comanda. I pochi diritti che non rimangono sulla carta sono concessi (non essendo concepiti come naturali ed inalienabili) dall’alto per servire meglio i fini del sistema, non certo per intralciarlo nelle sue funzioni. Quest’ideologia riduce la conoscenza e la consapevolezza, occulta le relazioni di potere, le reali motivazioni delle autorità e persino l’intrinseca ingiustizia ed innaturalità di una data situazione. Perciò chi funge da propagandista dell’establishment neppure si rende conto di farlo e trasmette una visione distorta della realtà in completa buona fede.

Atlantide è l’estremo distopico dal quale dobbiamo tenerci sempre alla larga. Quanto più ci avvicineremo a quel modello, tanto peggio vivranno le future generazioni.

La morte del premio Nobel Elinor Ostrom (Beni Comuni)

 

La morte del premio Nobel Elinor Ostrom non ha fatto notizia in Italia: il fatto non può sorprendere nel Paese più irrimediabilmente lontano dal liberalismo di tutto l’occidente. Ma la Ostrom ha condotto alle più coerenti conseguenze l’intuizione tocquevilliana dell’autogoverno della società civile, formulando una rigorosa teoria della gestione collettiva, ma non pubblica, del governo dei beni comuni.

di Giovanni Vetritto, da criticaliberale.it

Se ne è andata nella solita indifferenza della comunità scientifica e dei mezzi di comunicazione di massa.

Non è bastato essere stata la prima donna a vincere il premio Nobel per l’economia; aver dato un contributo fondamentale alla fondazione della scuola neoistituzionalista; aver smantellato l’ideologismo della “tragedy of the commons” con una delle opere metodologicamente e contenutisticamente più innovative delle scienze sociali del ‘900; aver dato una teoria empiricamente dedotta da decenni di ricognizioni a livello mondiale sulla gestione dei beni collettivi, indicando con ciò una alternativa praticabile alla ingenua dicotomia secca Stato/Mercato.

Per Elinor Ostrom l’attenzione è stata sempre inferiore ai meriti, soprattutto in Italia. E conseguentemente, la sua morte non ha fatto notizia, non è di fatto comparsa quasi per nulla sui media nazionali.

Il fatto non può sorprendere nel Paese più irrimediabilmente lontano dal liberalismo di tutto l’occidente.

Elinor Ostrom ha condotto alle più coerenti conseguenze l’intuizione tocquevilliana dell’autogoverno della società civile, formulando una rigorosa teoria della gestione collettiva, ma non pubblica, del governo dei beni comuni, iscrivendosi esplicitamente in un filone culturale di razionalismo critico ed empirico che ella stessa faceva risalire a Hume, Smith e allo stesso Tocqueville. Con ciò ponendosi come la più genuina epigona della tradizione della democrazia fondata sulla libera associazione degli individui, che il grande storico francese aveva individuato come lo specifico della “Democrazia in America” nella sua fondamentale opera del 1835.

Esaminando una ricca casistica di esperienze di gestione associata da parte dei fruitori di beni collettivi, per individuarne le ragioni di successo o vivisezionarne le ragioni di fallimento, nella sua principale opera “Governing the commons” del 1990 Ostrom ha messo in evidenza come non sia sempre necessario ricorrere al Leviatano burocratico per garantire socialità e vantaggio collettivo nella gestione di utilità comuni; allo stesso tempo, ha dimostrato come non sia solo e sempre la molla dell’egoismo individuale a consentire valore aggiunto per la collettività, come avrebbe voluto una rilettura unilaterale e semplicistica dello Smith della arcinota pagina del macellaio e del birraio de “La ricchezza delle nazioni”. Una rilettura, sia detto per inciso, che non rende giustizia alla complessità e alla ricchezza di quella che resta l’opera fondamentale di un liberalismo molto più aperto e perfino interventista di quanto si sia voluto contrabbandare nella recente età del “pensiero unico” del Washington consensus.

Ma d’altra parte, è questa la sorte di alcune grandi teorizzazioni della storia del liberalismo: essere banalizzate e distorte, da chi non ha nemmeno voglia di applicarsi a leggerle, per farne alcunché di diverso, e in alcuni casi perfino di opposto.

È accaduto, negli ultimi mesi, anche a Ostrom; la cui autorità, dopo il conferimento del Nobel, è stata da tante parti evocata per giustificare una nuova fortuna dell’espressione “beni comuni”, nella stragrande maggioranza dei casi evocata però proprio a difesa di quello statalismo acritico che è quanto di più lontano dal portato della sua opera maggiore.

È invece la potenzialità delle dinamiche cooperative al centro dell’analisi di Ostrom, non certo la vecchia e ormai consunta teorica della gestione burocratica. Una potenzialità indagata in una logica non ingenua di composizione e coordinamento degli interessi degli individui, non certo in quella di una illusoria irenica cancellazione degli stessi in vista di non si bene quale paradiso dell’altruismo. L’individualismo e l’interesse particolare sono contemplati, ed anzi posti a base della sua teoria delle istituzioni; solo, attraverso lo studio analitico di una moltitudine di casi di democrazia regolativa e gestionale, Ostrom ha saputo dimostrare come una regolazione convenzionale e deliberativa possa renderli compatibili, ed anzi funzionali, alla conservazione e valorizzazione di beni scarsi e non riproducibili: bacini idrici e di pesca, sistemi di irrigazione, patrimoni boschivi. E ciò a distanze immense di tempo e di spazi, dalle “regole ampezzane” trecentesche alle deliberazioni partecipate sulla gestione dei bacini idrici negli Stati Uniti degli anni ’50 del ‘900, dalle Filippine al Giappone al Messico e alle Alpi svizzere.

In anni nei quali il criterio della “sostenibilità” e quello dell’equilibrio ambientale divengono, a volerli “prendere sul serio” nel senso indicato da Roland Dworkin, indirizzi fondamentali per le politiche pubbliche, tanto nelle raccomandazioni delle maggiori organizzazioni sovranazionali quanto nelle regole fondanti della res publica europea, la casistica ostromiana offre tesori tutti da esplorare per un vero e ambizioso riformismo ambientalista nel fine e liberale nel metodo.

Allo stesso tempo, nel momento in cui valorizza le potenzialità delle deliberazioni collettive e la virtù della regolazione flessibile, condotta attraverso il metodo consensuale, quella stessa casistica assume una rilevanza ancora maggiore come esempio di una modalità efficace di costruzione di assetti di regolazione e gestione sussidiaria e socialmente condivisa: proprio ciò che si dovrebbe intendere come il senso generale delle moderne politiche di governance, in quanto contrapposte al determinismo dirigistico delle vecchie e ormai superate politiche di government statalistico.

Una duplice valenza, nel merito della sostenibilità e nel metodo del deliberativismo, che fa di Ostrom una delle personalità del liberalismo recente più interessanti e innovative. Non a caso, Ostrom è stata, nell’ultima fase delle sua riflessione, anche al centro delle concettualizzazioni riguardo al nuovo atteggiarsi della conoscenza come valore condiviso e “bene comune” nell’età di internet e dei creative commons. Dimostrazione ulteriore, ove ce ne fosse bisogno, della modernità di una riflessione iniziata studiando scartafacci del duecento,e finita immaginando il futuro. Come spesso accade al miglior liberalismo.

(20 giugno 2012)


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