Il criptofascismo dei “liberalizzatori” e dei privatizzatori

 

Lo stato è oggi ipertrofico, elefantiaco, enorme e vulnerabilissimo, perché ha assunto una quantità di funzioni di indole economica che dovevano essere lasciate al libero gioco dell’economia privata. […] Noi crediamo, ad esempio che il tanto e giustamente vituperato disservizio postale cesserebbe d’incanto se il servizio postale, invece di essere avocato alla ditta stato, che lo esercisce nefandemente in regime di monopolio assoluto, fosse affidato a due o più imprese private. […] In altri termini, la volontà del fascismo è rafforzamento dello stato politico, graduale smobilitazione dello stato economico.

Benito Mussolini. Opera Omnia., XVI, p. 101

Una dittatura può essere un sistema necessario per un periodo transitorio. […] Personalmente preferisco un dittatore liberale ad un governo democratico non liberale. La mia impressione personale – e questo vale per il Sud America – è che in Cile, per esempio, si assisterà ad una transizione da un governo dittatoriale ad un governo liberale”.

Friedrich von Hayek, nume tutelare dei neoliberisti, intervistato daRenée Sallas per El Mercurio”, il 12 aprile 1981. Pinochet rimase al potere fino all’11 marzo 1990 e continuò a ricoprire l’incarico di comandante in capo delle Forze armate cilene fino al 1998.

Hayek fu nominato presidente onorario del “Centro de Estudios Públicos”, think tank liberista fortemente voluto da Augusto Pinochet, dittatore cileno giunto al potere grazie al sostegno della CIA.

La mano invisibile del mercato non funzionerà mai senza un pugno invisibile. McDonald’s non può prosperare senza McDonnell Douglas e i suoi F-15. E il pugno invisibile che mantiene il mondo sicuro permettendo alle tecnologie della Silicon Valley di prosperare si chiama US Army, Air Force, Navy e Marine Corps“.

Thomas L. Friedman, A Manifesto for the Fast World“. New York Times. March 28, 1999.

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Ha sempre immaginato se stesso un libertario, che a mio modo di vedere significa “Voglio la libertà di arricchirmi e tu puoi avere quella di morire di fame”. È facile credere che nessuno dovrebbe dipendere dalla società finché non ti accorgi di avere bisogno di tale aiuto.
Isaac Asimov, “I. Asimov”, p. 308

L’uomo è veramente libero quando può fare tutto ciò che gli piace. È una concezione naturalistica, nella misura in cui l’azione umana segue o ubbidisce ai propri occasionali istinti o appetiti; ma, per avere la possibilità di soddisfare i propri desideri e quindi di essere libero, l’uomo non deve trovare ostacoli e, se li trova, deve avere anche la forza (e il potere) di costringere e subordinare gli altri uomini. È una libertà che presuppone, dunque, la disuguaglianza. Dato che la libertà coincide con il potere, chi ha più potere è maggiormente libero: paradossalmente l’uomo veramente libero è il despota.

Nicola Matteucci sul credo liberista/neoliberista [da: Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e GianfrancoPasquino, Dizionario di politica, Roma: l’Espresso, 2006. p. 362]

Correttamente inteso, il libertarismo assomiglia ad una visione che il liberalismo nacque per contrastare, ossia la dottrina del potere politico privato che sta alla base feudalesimo. Come il feudalesimo, il libertarismo concepisce il potere politico legittimo come fondato su una rete di contratti privati. Esso respinge l’idea, essenziale al liberalismo, che il potere politico sia un potere pubblico che va esercitato imparzialmente per il bene comune…Dato il ruolo cruciale della libertà assoluta di stipulare accordi contrattuali che devono essere pubblicamente riconosciuti e resi effettivi, ne consegue che tutte le libertà possono essere alienate, come qualsiasi bene economico. Di conseguenza, non c’è posto in un regime libertario per l’inalienabilità, l’idea che alcuni diritti sono così essenziali per mantenere la dignità e l’indipendenza delle persone che uno non può rinunciarvi consensualmente.

Samuel Freeman, “Illiberal Libertarians: Why Libertarianism Is Not a Liberal View”, Philosophy and Public Affairs, Vol. 30, No. 2. (Spring, 2001), pp. 105-151)

 

Quel che Hayek non vede, o non vuole ammettere, è che un ritorno alla “libera” concorrenza significa, per la grande maggioranza delle persone, una tirannia probabilmente peggiore, perché più irresponsabile di quella dello Stato…Il professor Hayek nega che il libero capitalismo conduca necessariamente al monopolio, ma in pratica è lì che ha portato.

George Orwell, recensione a “The Road to Serfdom” di F.A. Hayek (1944).

 

La libertà dei lupi comporta la morte delle pecore.

Isaiah Berlin

Gli anarco-capitalisti sono contro lo Stato semplicemente perché sono prima di tutto capitalisti. La loro critica dello Stato è basata su un’interpretazione della libertà nel senso del diritto inviolabile alla proprietà privata. Non sono interessati alle conseguenze sociali del capitalismo per i deboli, i senza potere e gli ignoranti…L’anarco-capitalismo è solo un far west in cui solo i ricchi e gli scaltri trarrebbero beneficio. È fatto su misura per chi non si preoccupa del danno al prossimo o all’ambiente che lascia dietro di sé.

Peter Marshall, “Demanding the Impossible: A History of Anarchism”

[NOTA BENE: la cosa ridicola dei libertari è la loro superba ed egotistica pretesa di essere più scaltri, forti ed abili degli altri e quindi la convinzione che una società del genere li avvantaggerebbe, NdR]

La ricerca di una superiore giustificazione morale per l’egoismo.

James K. Galbraith sul liberismo

I poveri sono contrari all’idea di essere governati male, i ricchi sono contrari all’idea di essere governati.

G. K. Chesterton

L’alternativa allo stato (la coercizione privata e non regolamentata) dà risultati ben peggiori, come mostra piuttosto chiaramente la storia degli stati privatamente controllati (monarchie, dittature, dispotismi) e delle “leggi” private come la schiavitù, le mafie, i signori della guerra, ecc. Abbiamo costruito un governo che è di proprietà congiunta di tutti, perché la proprietà privata incentiva eccessivamente lo scopo di lucro per mezzo dell’altrui coercizione.

Mike Huben

I mercati funzionano comprando e vendendo, trattano le cose come merci e, se non glielo impediamo, anche le persone. Fino a quando non sono stati imposti dei controlli, l’esito delle operazioni di mercato è stato la schiavitù, la servitù della gleba o bambini che trascinavano i vagoncini delle miniere. È stato il “libero” mercato che ha cacciato i neri attraverso le foreste africane e li ha messi all’asta a Charleston.

George Walford, “Friedman or Free Men?”

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Come li possiamo chiamare se non fascio-libertari?

Vogliono avere la libertà totale per se stessi ma anche il potere di negare la libertà di scelta a coloro che non farebbero le loro stesse scelte (e che quindi, con il loro rifiuto, ostacolerebbero i loro piani). Il loro vero motto è “io sono libero di fare qualsiasi cosa che ritengo giusta e voi siete liberi di fare qualsiasi cosa che ritengo giusta“.

La società fascio-libertaria è psicopatica:

* L’organizzazione è tipicamente piramidale, per molti versi neo-feudale, secondo la tradizionale logica della Rangordnung, che stabilisce una differenza morale ed ontologica tra persone sulla base della forza e della mancanza di scrupoli; adatta ai conformisti ed arrivisti;

* si neutralizzano gli “intollerabili formalismi” e le “vergognose garanzie” della democrazia;

* il più forte deve poter stabilire le regole del gioco, il più debole può solo adeguarsi, allontanarsi o perire;

* la sua evoluzione finale sarebbe un sistema totalitario in cui si è schiavi verso l’alto e tiranni verso il basso, laddove la sovranità in una direzione deve compensare la mancanza di libertà nell’altra;

* la psicologia del fascio-libertario è quella di una persona aggressiva, predatoria, sempre al limite delle proprie capacità e magari oltre, che desidera possedere più di quanto gli spetta, che vede il potere come un’opportunità di trasgressione e prevaricazione, che rifiuta il limite e la proporzione (l’euthymia di Democrito) in virtù dell’ethos virilista che incornicia tutto questo. I fascio-libertari sono dominatori, amano il potere in quanto tale, bramano il controllo degli altri. Sono spietati, intimidiscono, sono vendicativi. Cinici verso chi aiuta il prossimo, preferiscono essere temuti piuttosto che amati. Sono dmonati dalla brama di prendere e possedere invece che dare e condividere, di sfruttare invece che di accordarsi;

* il sistema sociale a cui aspirano è fondato sullo sfruttamento, sul consumo smodato e sul controllo di chi sta sotto e chi sta sotto tende a sognare di prendere il potere al posto del padrone, non di mitigare, trasformare o abolire il sistema;

* il fascio-libertarismo è la concretizzazione della filosofia nietzscheana, incapsulata in questo aforisma (259), tratto da “Al di là del bene e del male”: “Lo ‘sfruttamento’ non compete a una società guasta oppure imperfetta e primitiva: esso concerne l’essenza del vivente, in quanto fondamentale funzione organica, è una conseguenza di quella caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita”;

* i fascio-libertari sono tendenzialmente immaturi, petulanti, mancano di autodisciplina, grondano di narcisismo;

* il loro attaccamento agli eroi riflette la tendenza a deificare i genitori per placare le ansie rispetto ad un mondo percepito come ostile e fuori controllo.

La tirannia umanitaria e i falsi profeti – cosa ci ha insegnato Kony 2012?

Antologia di testi a cura di Stefano Fait

Guardatevi dai falsi profeti, i quali vengono a voi sotto le spoglie di pecore, ma dentro sono lupi rapaci.

Li riconoscerete dai loro propri frutti

Matteo 7, 15-16.

GUSTAVO ZAGREBELSKY, “Sulla lingua del tempo presente”, 2010, pp. 27-28

Se le posizioni sociali sono squilibrate, al punto che da una parte sta la libertà illimitata di concedere o non concedere un beneficio e, dall’altra, la necessità riaccettarlo; se c’è libertà contro necessità; se l’uno può tutto, l’altro niente, si può parlare, in questi casi, di dono? Il dono che si fa con la mano del potere è davvero un dono? Sì, ma solo se rimane in superficie. In realtà si tratta dell’esercizio d’una supremazia che approfitta d’una condizione di bisogno per manifestarsi. Quel “dono”, al quale non si ha diritto ma che è frutto d’una concessione graziosa e, pertanto, può essere in ogni momento revocato, sta nell’essenza d’un rapporto servile. È violenza che si esercita tramite mezzi non maligni, ma benigni. Anche con i doni si può far del male. È sfruttamento di uno stato di necessità in cui altri versano; cioè è violenza di natura morale: una violenza da cui ci si aspetta un tornaconto la cui materia è il sentimento di obbligazione verso il donante. Non è vera gratitudine, perché la gratitudine dettata dalla necessità è finta, malata. Se poi il “dono” è reso pubblico, pubblicizzato, diventa violenza usata a fini pubblicitari.

FERNANDO SAVATER, Discorso di accettazione del Premio Van Praag 1997

L’umanesimo non è la stessa cosa dell’umanitarismo. Non nego l’importanza delle imprese umanitarie nel loro assistere gli affamati, feriti, malati ed emarginati del mondo orribile in cui viviamo. Ma penso che il destino migliore di questo pianeta non sia quello di convertirsi in un ospedale o in un ricovero: deve diventare la città degli uomini, la casa e l’impresa di tutti. A tal fine, è imprescindibile recuperare il respiro umanista, combattendo non solo per proteggere le vite, ma anche per istituire le libertà, educare ai valori universali, gestire gli affari umani in maniera non-tribale, ma sovranazionale.

ALBERT CAMUS, introduzione a “L’uomo in rivolta”

Siamo nel tempo della premeditazione e del delitto perfetto. I nostri criminali non sono più quei bimbi inermi che adducevano la scusa dell’amore. Sono adulti, al contrario, e il loro alibi è irrefutabile: è la filosofia, che può servire a tutto, fino a tramutare in giudici gli assassini…Ai tempi ingenui in cui il tiranno radeva al suolo qualche città a propria maggior gloria, in cui lo schiavo aggiogato al carro del vincitore sfilava per le città festanti, e il nemico veniva gettato alle belve davanti al popolo adunato, di fronte a delitti così candidi, la coscienza poteva essere salda, e chiaro il giudizio. Ma i campi di schiavi sotto il vessillo della libertà, i massacri giustificati dall’amore per l’uomo o dal sogno di una super-umanità, disarmano, in certo senso, il giudizio. Il giorno in cui il delitto si adorna delle spoglie dell’innocenza, quella cui viene intimato di fornire le proprie giustificazioni, per una strana inversione propria al nostro tempo, è l’innocenza stessa.

LUIGI ALFIERI, “La stanchezza di Marte. Variazioni sul tema della guerra”, 2008, pp. 185-190

L’Italia non è mai stata, in tutta la sua storia, talmente impegnata in operazioni militari all’estero come in questi ultimi decenni; con pochi uomini e mezzi, di solito, ma tenendo conto del gran numero di operazioni a cui si è voluta o dovuta decidere una partecipazione almeno simbolica, il livello complessivo di proiezione militare oltre i confini è paragonabile se non superiore a quello delle guerre coloniali: un precedente che dovrebbe far riflettere. La presentazione di queste attività come iniziative umanitarie è in molti casi del tutto risibile, e in almeno tre casi – la prima guerra del Golfo sicuramente, e malgrado grossolane ipocrisie anche l’infelicissima spedizione in Somalia e il coinvolgimento nei bombardamenti della Serbia durante la crisi del Kosovo – si è trattato di guerra esplicita e aperta, anche con aspetti specie nel caso somalo – di vergognosa brutalità. […]. È difficilissimo, ormai, ricordarle tutte: non dovrebbe farci paura questo dato così elementare? […]. Anche le legioni romane eseguivano una politica di pace, a modo loro. E dove finisce la politica di pace e comincia una politica di potenza?

MICHELANGELO BOVERO, “L’ideologia capovolta. Dalla pace attraverso i diritti ai diritti attraverso la guerra”, 2006, p. 134

La barbarie ritornata che ci troviamo a fronteggiare è duplice: quella di chi viola i diritti fondamentali e quella di chi li viola due volte con la pretesa di difenderli, o addirittura di instaurare manu militari il regno universale del diritto e dei diritti.

TEJU COLE, “The White Savior Industrial Complex”

Il salvatore bianco appoggia politiche brutali al mattino, fa beneficenza al pomeriggio e riceve onorificenze la sera.

La banalità del male si trasmuta nella banalità del sentimentalismo. Il mondo non è altro che un problema da risolvere con entusiasmo.

Questo mondo esiste semplicemente per soddisfare le esigenze – specialmente i bisogni sentimentali – dei bianchi.

L’Industria del Salvatore Bianco non ha nulla a che vedere con la giustizia. Si tratta di avere una grande esperienza emotiva che giustifica il privilegio.

Una febbrile preoccupazione per un terribile signore della guerra africano [cf. Kony], mentre fino a 1 milione e mezzo di iracheni sono morti per una guerra americana che poteva essere evitata. Sarebbe bene preoccuparsi di questo.

È giusto rispettare il sentimentalismo americano, proprio come si rispetta un ippopotamo ferito. È necessario tenerlo d’occhio, perché sai che è mortale.
è lecito parlare di peccati, ma è politicamente scorretto fare i nomi dei peccatori. Perciò c’è il razzismo ma è sconveniente dare del razzista a qualcuno, c’è la misoginia, ma non ci sono misogini, nessuno è omofobo ma gli omosessuali sono vittime di omofobia. Se uno osa puntare il dito su qualcosa di così manifesto come il privilegio bianco, è bollato come provocatorio. Così gli emarginati hanno sempre meno possibilità di parlare di ciò che li fa soffrire, a causa di questo “decoro coatto”.

Non è che tutti gli operatori umanitari sono razzisti. Alcuni lo sono inconsapevolmente, altri no. In genere sono persone di buon cuore, ma è proprio il sentimentalismo che semplifica ingiustificatamente la loro visione del mondo. Così vedono solo bocche affamate che devono essere sfamate al più presto. Tutto quel che vedono è bisogno, ma non le cause ultime di questo bisogno.

Fare un buon lavoro umanitario comporta qualcosa di più di “fare la differenza”. Prima di tutto viene il dovere di non nuocere e di conseguenza il diritto di chi viene aiutato di essere consultato in merito alle questioni che lo riguardano.

L’Africa è un luogo in cui le regole sono diverse: un signor nessuno americano o europeo può andare in Africa e diventare un salvatore semidivino o, quantomeno, soddisfare i suoi bisogni emotivi.

I problemi africani sono strutturali, sono intricati, sono locali e non si risolvono con gli slogan. Per dare un aiuto concreto, occorre una certa umiltà verso le persone che vivono in quelle aree, il rispetto per la loro capacità di essere protagoniste delle loro vite e di risolvere i loro problemi. Gli Ugandesi hanno fatto e continuano a fare moltissimo per migliorare il proprio paese e commenti ignoranti come “dobbiamo salvarli noi perché non possono salvarsi da soli”, non può alterare questo fatto. I Nigeriani hanno recentemente protestato, molto civilmente, contro il governo, la corruzione e l’inflazione. Uomini e donne, di tutte le classi ed età, si sono mobilitati per quello che sentivano era giusto, hanno marciato pacificamente, si sono scambiati cibo e bevande e protetti l’un l’altro; i cristiani montavano la guardia mentre i musulmani pregavano e vice versa, parlavano senza timore ai loro leader circa il tipo di paese in cui volevano vivere. Tutto questo è avvenuto senza l’intervento di un qualche giovane supereroe americano.

Joseph Kony non è più in Uganda e non è più la minaccia che è stato, ma è un cattivo molto utile per chi ne ha bisogno. Non sono queste denunce che servono all’Africa, ma una società civile più equa, una democrazia più robusta, un sistema giudiziario più giusto. È su queste fondamenta che si possono costruire infrastrutture, sicurezza, sanità ed educazione.

Se gli Americani vogliono davvero prendersi cura dell’Africa, dovrebbero valutare la politica estera americana, per votare con cognizione di causa, prima di imporre il loro volere agli Africani. I manifestanti nigeriani sono stati virtualmente ignorati dall’amministrazione americana, il sostentamento dei coltivatori di mais in Messico è stato distrutto dal NAFTA, i coltivatori di riso haitiani hanno subito perdite spaventose a causa del riso sovvenzionato americano. Poi si può citare il colpo di stato in Honduras, appoggiato dagli Americani, che ha causato la morte di centinaia di attivisti e giornalisti, la giunta militare filoamericana che opprime l’Egitto post-Mubarak e riceve annualmente 1 miliardo e 300 milioni di sussidi dagli Stati Uniti.

Quel che gli innocenti eroi dell’umanitarismo devono capire è che fanno spesso il gioco di chi è guidato da motivazioni molto più ciniche.

La sindrome del Salvatore Bianco è una valvola di sfogo in un sistema fondato sulla rapina e sul saccheggio. Per anni gli Americani hanno partecipato alla distruzione economica di Haiti, ma dopo il terremoto si sono sentiti in obbligo di donare 10 dollari per la ricostruzione. Quando si interferisce nelle vite degli altri bisogna sapere che cosa questo comporta. Il sostegno alla campagna Kony 2012 implica una crescente militarizzazione del governo antidemocratico di Yoweri Museveni, al potere dal 1986, uno dei principali responsabili della guerra in Congo ed una pedina americana nei conflitti in Sudan e in Somalia.

Tutto questo ci porta molto lontano dall’idealismo dei giovani americani che vogliono impiegare la forza di YouTube e Facebook per cambiare il mondo.

Se vogliamo davvero fare la differenza dobbiamo andare oltre il sentimentalismo e sfidare le strutture ed i sistemi che perpetuano la disuguaglianza in tutto il pianeta. La disobbedienza civile serve, appunto, a salvare noi stessi e consentire ad altri di fare lo stesso.

http://www.theatlantic.com/international/archive/2012/03/the-white-savior-industrial-complex/254843/

RONY BRAUMAN, «Humanitaire, diplomatie et droits de l’homme», 2009

Il Terzo Mondo è visto come un territorio desolato, popolato da eterne vittime bisognose di incessante soccorso.

Occorre evitare che al potere vadano persone affetta da cinismo amorale (Machiavelli) e da idealismo intransigente (Robespierre): non c’è nulla di più sanguinario di queste due patologie della coscienza, che hanno una radice comune nel narcisismo, nell’esaltazione del proprio ego e della propria prospettiva sul mondo.

L’umanitarismo obbedisce alla legge dei gas perfetti: un’espansione infinita se non ci sono forze che lo limitano.

La violenza è sempre quella altrui, perché noi siamo democratici, civili ed umanitari. La nostra violenza è meno violenta di quella degli altri. È un male minore che in fondo è un bene e quindi si giustifica da sé. Ma il diritto non coincide sempre con la giustizia.

L’umanitarismo è la degradazione dell’umanitario, allo stesso modo in cui il moralismo è una perversione della morale.

L’umanitarismo elimina i dubbi e gli scrupoli, scredita le critiche e divide il mondo gerarchicamente tra vittime e soccorritori – non è più una moda, ma un modo di leggere il mondo.

È lecito parlare di cannibalismo umanitario – l’orco filantropico, l’ha chiamato Octavio Paz (Premio Nobel per la Letteratura nel 1990): fornire il nostro aiuto, rimediare ai misfatti, diventa una dipendenza. Abbiamo bisogno di un contingente di vittime per continuare a sentirci dei salvatori. L’ingerenza umanitaria diventa un dovere (dobbiamo farlo), un diritto (possiamo farlo) ed un vizio (non possiamo non farlo).

L’umanitarismo è un’industria, con le sue logiche ed i suoi metodi interni, è inquadrata, normativizzata, tecnicizzata, tecnocratizzata, arida e gelida: c’è un ingente budget disponibile, serve una crisi che lo giustifichi.

In Cambogia, in Etiopia, in Ruanda e nel Congo-Zaire l’umanitarismo è rimasto implicato in politiche criminali.

ALBERT CAMUS, La Caduta (La Chute) (1956)

http://fanuessays.blogspot.it/2011/11/il-narcisista-umanitario-parte-prima_14.html

MARCO DERIU, “Dietro aiuti e cooperazione sta una visione del mondo”, Solidarietà Internazionale, nov./dic. 2005

Negli ultimi decenni, secondo i dati dell’UNDP si è registrato un aumento degli indici di povertà in 37 dei 67 paesi di cui si disponeva di dati. A questo punto una domanda è d’obbligo: come spiegare la diffusione della miseria e di condizioni di esistenza sempre più drammatiche proprio nei decenni in cui si sono registrate i maggiori tassi di produzione, di consumo, di crescita? Il mondo non è mai stato così ricco, eppure sono milioni le persone che continuano a morire di stenti. Non ci deve venire forse il dubbio che le tradizionali categorie interpretative – legate all’idea di sviluppo, di crescita, di lotta alla povertà, di emergenza umanitaria – non riescono a spiegare quello che è successo, non permettono di dar conto di ciò che ci troviamo di fronte?
Le condizioni di miseria in cui vive una gran parte della popolazione mondiale non sono il risultato di una condizione di sottosviluppo, ma il risultato stesso delle strategie di sviluppo.

Le politiche di sviluppo concretamente hanno determinato in molti paesi del sud del mondo la distruzione sistematica delle forme di povertà conviviale praticate dalle comunità locali svalutando e soppiantando le forme di produzione per la sussistenza e delle forme di scambio locale per imporre l’imperativo della crescita. Hanno quindi gettato le basi di un’economia di mercato orientata alla crescita, che significa un’economicizzazione della società, una moltiplicazione dei bisogni, una maggiore dipendenza individuale e sociale dalla produzione, dal reddito monetario e dal consumo in una competizione di tutti contro tutti che alza le chance di arricchimento per alcuni, mentre condanna alla miseria tutti gli altri.

Man mano che si afferma l’economicizzazione della società non è più l’economia a dover corrispondere ai bisogni delle persone, ma piuttosto questi ultimi a dover corrispondere ai bisogni dell’economia. La produzione, l’induzione e la moltiplicazione dei bisogni è addirittura indispensabile al buon funzionamento dell’economia di mercato.

Le Ong e le agenzie internazionali hanno impiantato il verbo della crescita e dello sviluppo quasi in ogni angolo del pianeta. Assieme agli aiuti materiali ed economici hanno riversato sulle altre società soprattutto una visione del mondo. I cooperanti sono stati solerti spacciatori di illusioni: lo sviluppo, la crescita, la globalizzazione, la ricchezza.

Il giudizio di arretratezza che abbiamo imposto alle nostre alterità e la mentalità che ci porta a guardare noi stessi come rappresentanti di una civiltà più evoluta ci spingono a credere che gli altri popoli debbano in fondo imitarci per diventare come noi e accedere al nostro mondo di benessere. L’idea dell’aiuto, del dono, dunque non è altro che lo strumento attraverso cui il cooperante occidentale pensa si possa colmare questo gap “temporale” tra “noi” e “gli altri”. In altre parole, attraverso il dono si cerca di rendere gli altri simili a noi. Gli aiuti non sono semplicemente oggetti o beni, ma sono segni, simboli, strumenti performativi, agenti attivi di colonizzazione culturale.

L’unico imperativo morale che abbiamo non è quello di salvare il mondo per renderlo uguale a noi, ma quello di costruire relazioni rispettose e generose con le nostre alterità.

http://www.solidarietainternazionale.it/anno-xvi/n-06-novdic-2005/848-la-faccia-piu-subdola-della-colonizzazione.html

MARCO DERIU et al. (a cura di), “L’illusione umanitaria. La trappola degli aiuti e le prospettive della solidarietà internazionale”, 2001.

L’aiuto umanitario si rivolge non alla persona nella sua umanità complessiva, ma al solo “essere sofferente”. Mentre cerca di lenire o estirpare il dolore, contribuisce in realtà alla trasformazione ed alla riduzione simbolica dell’essere vivente a puro essere bisognoso. L’ascolto, l’aiuto, non riguarda più le persone ma solamente coloro che sono riconosciuti come vittime sofferenti. In altre parole si riconosce l’altro solo nella forma estrema della vittima. Si assiste dunque alla creazione di un ordine vittimale. […]. L’aiuto umanitario contribuisce alla riduzione dell’essere umano a nuda vita, cancellando ogni forma di alterità. La relazione che viene messa in gioco nell’assistenza umanitaria è in realtà un rapporto di tipo funzionale e non una relazione umana vera e propria. I soggetti cui dovrebbe essere rivolta l’azione umanitaria non hanno voce in capitolo. Non è previsto l’ascolto, il confronto, il conflitto, lo scambio, ovvero tutto ciò che può rendere accettabile e dignitoso per una persona il ricevere aiuto da un’altra persona. […]. Questa ignoranza è sintomo di un’implicita presunzione degli occidentali nei rapporti con le alterità (p. 25).

I paesi autosufficienti o esportatori di cibo divengono dipendenti dalle importazioni di prodotti occidentali (Somalia, Haiti, Bangladesh).

Nel 1995 Care, una delle più grandi agenzie di aiuto statunitensi affermava nel suo rapporto annuale: “i paesi che sono stati beneficiari di aiuto umanitario oggi acquistano il 31% delle esportazioni agricole degli Stati Uniti”.

È molto difficile convincere le persone che mentre credono di stare aiutando qualcuno in realtà gli stanno facendo del male. Che mentre pensano di migliorare la loro condizione in realtà la peggiorano. Spesso la gente non vuole saperne nulla. È incatenata a quello che sta facendo. È prigioniera delle sue buone azioni. Preferisce non interrogarsi sulle conseguenze delle proprie azioni (p. 90).

Il fatto di donare ci fa credere automaticamente di dover avere una qualche forma di potere sul nostro beneficiario (p. 92).

Se davvero – come abbiamo cercato di mostrare – l’umanitario serve a coprire, allora sarebbe meglio far esplodere i conflitti. È fondamentale infatti mettere la gente di fronte a quei problemi, a quelle contraddizioni e a quelle ingiustizie che l’umanitario cerca in tutti i modi di nascondere: la violenza del mercato e del totalitarismo economico, l’ingiustizia e il carattere egemonico delle attuali relazioni nord-sud, la riduzione della politica a un gioco di potere, l’utilizzo della retorica dei diritti umani e dei buoni sentimenti per coprire una strategia di dominio e gli interessi economici dei paesi ricchi (p. 176).

L’imperativo “dare!”, deve essere sostituito da “conoscere” e “ascoltare”. La conoscenza e l’incontro sono l’unica garanzia possibile per una reale amicizia e per un sostegno reciproco rispettoso, quando si rende necessario. […]. Inoltre instaurare un’ottica di reciprocità significa riconoscere che la cultura e le società occidentali hanno molto da apprendere dalle culture e dalle società del sud del mondo, e che parte di questo sapere può essere fondamentale per affrontare in maniera più saggia i problemi che tormentano le nostre società (pp. 186-187).

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