“Fa sembrare piccoli tutti i maggiori scandali finanziari nella storia”

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Il tribunale di Milano ha condannato 4 banche accusate di una truffa sui derivati ai danni del Comune di Milano. Il giudice Oscar Magi ha condannato a una pena pecuniaria di un milione di euro ciascuno Deutsche Bank, Ubs, Jp Morgan e Depfa Bank. La sentenza ha anche disposto la confisca di 88 milioni di euro ai quattro istituti di credito. I fatti contestati risalgono al 2005. Magi ha condannato 9 imputati tra manager o ex a pene comprese tra i sei mesi e gli otto mesi e 15 giorni, e ne ha assolti quattro, come richiesto dall’accusa.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/12/19/milano-giudice-condanna-4-banche-truffa-sui-derivati-ai-danni-del-comune/450825/

Libor ed Euribor: “scandalo” o sistema?

di G. Colonna 17 Dicembre 2012 – da Clarissa.it

“Per ordine di grandezza fa sembrare piccoli tutti i maggiori scandali finanziari nella storia”, ha detto Andrew Lo, docente di finanza al Massachusetts Institute of Technology, parlando dello scandalo del Libor e dell’Euribor, sul quale giungono in questi giorni le notizie, assai poco pubblicizzate, dei primi arresti e insieme dei primi accordi extra-giudiziali che i maggiori istituti bancari del mondo stanno concordando con le autorità di controllo per evitare più gravi condanne.
Le dimensioni della vicenda sono effettivamente gigantesche: basti dire che si stima che sul Libor siano basati il 90 per cento dei Finanziamenti commerciali e dei mutui negli Stati Uniti, per cifre stimate intorno ai 10 miliardi di dollari, per quanto riguarda il credito al consumatore (carte di credito, finanziamenti per acquisto di auto, crediti di studio e mutui a tasso variabile), e tra i 350.000 e gli 800.000 miliardi di dollari, vale a dire da circa sei a oltre dodici volte l’intero prodotto lordo mondiale, per quanto riguarda i ben noti derivati.
Come sa chiunque abbia contratto un mutuo per acquistare la casa, il Libor, così come l’Euribor, sul quale sono del pari in corso inchieste a livello europeo, sono i tassi di riferimento per i prestiti interbancari, vale a dire i tassi sulla base dei quali le banche di maggiore importanza sono disponibili a prestare denaro ad altri istituti: in quanto tali, sono la base per il calcolo del costo del denaro che viene prestato ai clienti finali, come nel caso, appunto, di una famiglia che accende un mutuo per comperare la propria casa.

Chi calcola e rende noto il Libor?

Assai meno noto è come funziona il meccanismo con cui viene fissato il Libor, un sistema gestito tutto dall’interno della City londinese. Ogni anno, infatti, il Foreign Exchange and Money Markets Committee, un comitato della privatissima British Bankers’ Association (BAA) seleziona le panel banks, vale a dire le banche autorizzate a definire il Libor. Tali istituti sono prescelti sulla base del volume di attività, del valore del credito erogato e della esperienza nella gestione del mercato delle divise internazionali. A questo ristretto gruppo di operatori finanziari mondiali, viene richiesto di indicare a quale tasso di interesse presterebbero denaro, in base al tipo di valuta adottata e in base al periodo di tempo stabilito.
Tra le 5 e le 5:10 antimeridiane di ogni giorno, queste banche, chiamate anche contributor banks (banche contributrici), comunicano il tasso di interesse da loro individuato al cosiddetto calculating agent, la società Thomas Reuters, che le ha precedentemente fornite di un apposito software a questo scopo. Thomas Reuters confronta quindi i diversi tassi indicati dalle banche prescelte, ne elimina il 25% più alto e il 25% più basso, e calcola la media del restante 50%, che viene a determinare il Libor (più precisamente bbalibor). Per esempio, se vengono scelte 18 banche, vengono eliminati gli interessi delle quattro banche che si sono tenute più alte e le quattro banche più basse e il Libor corrisponderà alla media dei ratei indicati dalle dieci banche restanti.
A dimostrazione della singolare integrazione a livello globale fra alta finanza internazionale e informazione mondiale, è appena il caso di ricordare che Thomson Reuters non è propriamente una sconosciuta: risultante della fusione, avvenuta nel 2008, fra la storica agenzia di stampa anglosassone Reuters e la multinazionale informatica Thomson, la società oggi opera in 90 Paesi, con oltre 50.000 dipendenti ed un reddito annuo (2011) di 13,3 milioni di dollari Usa. È oggi la maggiore agenzia di stampa a livello mondiale, con uno staff editoriale di 2.500 giornalisti e fotografi, che operano in 197 sedi nel mondo: si tratta in sostanza della maggiore “fabbrica di notizie” al mondo. Ad essa è stata quindi affidata dalla BAA anche l’elaborazione di un’informazione finanziaria così essenziale come il Libor.
Intorno alle 12 di ogni giorno, ora di Londra, finalmente, il tasso Libor risultante dall’elaborazione di Thomson Reuters può essere reso noto alle società che sono a questo autorizzate, tramite licenza da parte della stessa British Bankers’ Association.
A seconda della valuta cui si riferisce il Libor (dollaro americano, australiano, canadese e neozelandese, sterlina, la corona danese e svedese, euro, yen e franco svizzero), le contributor banks variano da un minimo di 6 ad un massimo di 18, come nel caso del dollaro americano, in cui ovviamente compare il top del sistema bancario mondiale: Bank of America; Bank of Tokyo-Mitsubishi; Barclays Bank; BNP Paribas; Citibank; Credit Agricole; Credit Suisse; Deutsche Bank; HSBC; JP Morgan Chase; Lloyds Banking Group; Rabobank; Royal Bank of Canada; Société Générale; Sumitomo Mitsui Banking Corporation; Norinchukin Bank; Royal Bank of Scotland.

Lo “scandalo” Libor

Lo scandalo finanziario, che, solo negli Usa, sarebbe costato a privati ed enti pubblici oltre 10 miliardi di di dollari, parte in realtà da molto lontano in quanto fin dai primi mesi dello scoppio della crisi finanziaria (allora chiamata “crisi dei mutui”) erano emerse informazioni attendibili sull’uso spericolato che le contributor banks avevano fatto e continuavano a fare del Libor.
Nel maggio del 2008 infatti uno studio pubblicato dal Wall Street Journal aveva avanzato dubbi sulla correttezza delle operazioni di fissazione del Libor, immediatamente smentito dalle maggiori autorità di controllo mondiali (le stesse, per inciso, che ora stanno concordando gli accordi con le banche): nell’ottobre 2008, era sceso addirittura in campo lo stesso Fondo Monetario Internazionale (IMF), affermando che “benché la correttezza del processo di definizione del Libor sul dollaro Usa sia stata messa in discussione da organismi finanziari e dalla stampa, risulta che il Libor sul dollaro Usa rimane una misura accurata del costo marginale del prestito a termine non garantito in dollari Usa da parte di una tipica banca di credito”.
Una volta di più, la condizione di controllo dei mercati da parte di un ristretto numero di giganti finanziari vanifica l’idea stessa del “libero mercato” meccanicamente ribadita da politici, economisti e giornalisti: la possibilità di fissare e concordare in anticipo Libor ed Euribor ha permesso alle banche, tramite i propri operatori sul campo, di realizzare guadagni illeciti potendo aumentare a piacimento i tassi al cliente finale, nel caso del credito al consumo e degli strumenti di contro-assicurazioni sul debito pubblico; oppure di far risultare posizioni debitorie meno pesanti di quelle effettivamente in essere, manipolando riduzioni momentanee degli stessi tassi, sempre tramite Libor ed Euribor.
In entrambe i casi, le grandi banche hanno recato incalcolabili danni a consumatori, famiglie ed enti locali, come sta emergendo dalle azioni legali collettive intraprese soprattutto negli Stati Uniti, dove, ad esempio, be centomila querelanti, che avrebbero perso ognuno migliaia di dollari in interessi illecitamente percepiti, hanno avviato lo scorso ottobre un’azione legale contro 12 delle maggiori banche nordamericane ed europee. Sono numeri che non devono sorprendere, basti pensare, che solo negli Usa, ben 900.000 mutui sulle abitazioni sono legati al Libor, con 275 miliardi di dollari di rate non pagate in totale ad ottobre 2012, secondo i dati ufficiali delle autorità bancarie Usa.

Scandalo o questione strutturale?

Il fatto che grandi banche vengano multate, come avvenuto lo scorso luglio per Barclays, che ha dovuto pagare 362 milioni di euro; oppure che si accordino anticipatamente con le autorità di controllo americane e britanniche, come nel caso del gruppo bancario elvetico UBS, che verserà 1 miliardo di dollari – non significa molto dal punto di vista sostanziale.
Soluzioni transattive come queste, oltre a evitare la pubblicità di processi molto imbarazzanti, permettono di continuare a presentare fenomeni speculativi sempre più vasti come “scandali finanziari”: quando vengono coinvolte almeno 20 delle maggiori banche mondiali, quando si aprono inchieste in 7 diversi paesi, quando è documentata la piena consapevolezza da anni delle stesse autorità preposte al controllo (basti per tutte il caso della Federal Reserve di NY, il cui governatore, Tim Geithner è divenuto poi Segretario al Tesoro americano con il presidente Obama), non si può ridurre tutto al semplice comportamento spregiudicato di trader o di funzionari, sia pure di altissimo livello, come nel caso di Marcus Agius, presidente di Barclays, o di Bob Diamond, amministratore delegato, dimissionati lo scorso luglio dalla loro banca.
Questi fenomeni sono elementi strutturali del sistema finanziario mondializzato e sono riconducibili al fatto che le banche mondiali dispongono di un controllo assoluto sulle monete, un controllo grazie al quale condizionano, attraverso la creazione e la gestione del debito di famiglie, imprese, enti locali e Stati, l’economia mondiale, arrivando a poter influire, come nel caso della Grecia ma anche dell’Italia, sugli stessi assetti politico-sociali di interi Paesi.
È quindi piuttosto ironica, posto che venga poi effettivamente attuata, la soluzione di porre sotto il controllo della BCE europea l’Euribor, per la cui gestione sono in corso indagini altrettanto esplosive di quelle sul Libor: la BCE, infatti, nonostante il continuo sforzo di presentarla come una “terza parte” fra banche e governi, è, esattamente come la Fed americana, nient’altro che una banca posseduta da banche, le quali sono di norma, è vero, le banche centrali dei singoli Stati componenti. Ma queste ultime, è ben ricordare, sono a loro volta possedute da banche private, molte delle quali rientrano nell’elenco delle diciotto contributor banks che hanno operato in condizioni di cartello, vale a dire di monopolio, nella fissazione di Libor ed Euribor, potendo così manipolare questi tassi a proprio piacimento.
Ancora una volta torniamo quindi al punto nodale di questa componente della crisi economica mondiale – quella di chi stampa e controlla la moneta, che dovrebbe rappresentare semplicemente il valore del prodotto del lavoro dei popoli e non essere un’arma per condizionarne l’esistenza. Una questione che non è veramente più eludibile.

http://www.clarissa.it/editoriale_n1871/Libor-ed-Euribor-scandalo-o-sistema

Complottismo for dummies (le trame finanziarie spiegate al bruco del mio basilico)

I poteri del capitalismo finanziario avevano un obiettivo più ampio, niente meno che la creazione di un sistema globale di controllo finanziario in mani private in grado di dominare il sistema politico di ciascuna nazione e l’economia mondiale nel suo complesso. Questo sistema andava controllato in stile feudale dalle banche centrali di tutto il mondo, agendo di concerto, per mezzo di accordi segreti raggiunti in frequenti incontri privati e conferenze. Al culmine della piramide ci doveva essere l’elvetica Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) di Basilea, una banca privata posseduta e controllata dalle banche centrali mondiali che a loro volta erano imprese private…non bisogna immaginare che questi dirigenti della principali banche centrali del mondo fossero loro stessi dei ragguardevoli potenti nel mondo della finanza. Non lo erano. Erano piuttosto dei tecnici e gli agenti dei massimi banchieri commerciali delle loro rispettive nazioni, che li avevano allevati ed erano perfettamente capaci di liberarsene…e che rimanevano in gran parte dietro le quinte…Questi costituivano un sistema di cooperazione internazionale e di egemonia nazionale più privato, più potente e più segreto di quello dei loro agenti nelle banche centrali. Il dominio dei banchieri commerciali era fondato sul controllo dei flussi di credito e dei fondi di investimento nelle loro nazioni e nel mondo….potevano dominare i governi attraverso il controllo dei debiti nazionali e dei cambi. Quasi tutto questo potere era esercitato dall’influenza personale e dal prestigio di uomini che in passato avevano dimostrato la capacità di portare a compimento con successo dei golpe finanziari, di mantenere la parola data, di mantenere la mente fredda nelle crisi e di condividere le loro opportunità più vantaggiose con i loro associati.

Carroll Quigley, docente di storia, scienze politiche e geopolitica a Princeton, Harvard e Georgetown e mentore del giovane Bill Clinton, da “Tragedy and Hope: A History of the World in Our Time” (New York: Macmillan, 1966).

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«In effetti, meno dell’1 per cento delle società risulta in grado di controllare il 40 per cento dell’intero intreccio», sostiene Glattfelder. La maggior parte è costituita da istituti finanziari. La Top 20 comprende: Barclays Bank, JPMorgan Chase & Co, nonché il Goldman Sachs Group. Le prime 50 fra le 147 società superconnesse: 1. Barclays plc 2. Capital Group Companies Inc 3. FMR Corporation 4. AXA 5. State Street Corporation 6. JP Morgan Chase & Co 7. Legal & General Group plc 8. Vanguard Group Inc 9. UBS AG 10. Merrill Lynch & Co Inc 11. Wellington Management Co LLP 12. Deutsche Bank AG 13. Franklin Resources Inc 14. Credit Suisse Group 15. Walton Enterprises LLC 16. Bank of New York Mellon Corp 17. Natixis 18. Goldman Sachs Group Inc 19. T Rowe Price Group Inc 20. Legg Mason Inc 21. Morgan Stanley 22. Mitsubishi UFJ Financial Group Inc 23. Northern Trust Corporation 24. Société Générale 25. Bank of America Corporation 26. Lloyds TSB Group plc 27. Invesco plc 28. Allianz SE 29. TIAA 30. Old Mutual Public Limited Company 31. Aviva plc 32. Schroders plc 33. Dodge & Cox 34. Lehman Brothers Holdings Inc* 35. Sun Life Financial Inc 36. Standard Life plc 37. CNCE 38. Nomura Holdings Inc 39. The Depository Trust Company 40. Massachusetts Mutual Life Insurance 41. ING Groep NV 42. Brandes Investment Partners LP 43. Unicredito Italiano SPA 44. Deposit Insurance Corporation of Japan 45. Vereniging Aegon 46. BNP Paribas 47. Affiliated Managers Group Inc 48. Resona Holdings Inc 49. Capital Group International Inc 50. China Petrochemical Group Company”

http://fanuessays.blogspot.it/2011/11/i-147-padroni-del-pianeta-terra.html

L’incredibile omissione è quella della vera SPECTRE della finanza mondiale, la BlackRock, che molto probabilmente ha in mano i vostri fondi pensione: “Oggi la società di gestione patrimoniale statunitense è divenuta, ad esempio, la principale azionista della borsa tedesca (che di recente si è fusa proprio con quella di New York) e controlla quote azionarie delle principali aziende della Germania: Adidas, Allianza, Basf, Deutsche Bank, le industrie farmaceutiche Merck, il produttore di materiali edili HeidelbergCement, solo per fare qualche nome. Lo stesso è avvenuto anche altrove, come in Italia, a seguito di una delle più importanti operazioni sviluppate da BlackRock, la fusione con Barclays Global Investor, rilevata da BlackRock nell’estate 2009 per 13,5 miliardi di dollari. Questa operazione, alla quale hanno partecipato con 2,8 miliardi di dollari anche i fondi sovrani, si noti, di Cina (Cic) e Kuwait (Kia), il super gestore Usa ha ora in portafoglio fra l’altro il 2,7% di Eni, il 3,8% di Unicredit (dal 2,2% della sola Barclays), il 3% di Enel, Intesa Sanpaolo, Mediobanca e Ubi (rispetto a quote Barclays pari al 2%), il 2,9% di Generali (dal 2%) e di Fonsai, il 2,8% di Telecom e di Bulgari, il 5,8% di Mediaset (prima era sotto il 5% e diventa così il secondo socio dopo Fininvest), il 2,7% di Fiat, il 2,2% di Atlantia e di Finmeccanica, il 3,5% di Banco Popolare (dal 2%), il 2% di Terna (2).

Al 31 marzo 2011, BlackRock dichiara nei suoi documenti ufficiali pubblici di gestire 3.648 miliardi di dollari di patrimoni amministrati: una cifra incredibile, pari all’intero Prodotto Interno Lordo della Germania [verificate voi stessi], superiore anche a quello italiano che oltrepassa i 2.000 miliardi di dollari. Si tratta probabilmente della più grande azienda finanziaria della storia che, in virtù dei collegamenti con i maggiori investitori privati e istituzionali del mondo, dispone ovviamente di un potere senza equivalenti.

In una recente occasione (3), abbiamo già visto infatti che BlackRock detiene quote azionarie anche delle maggiori agenzie di rating, come Moody’s e Standard&Poor’s, agenzie che hanno acquisito il potere, da una parte, di valutare l’affidabilità di banche e Stati, ma, dall’altra, anche degli stessi prodotti che BlackRock controlla e offre ai suoi clienti, senza che questo abbia dato finora luogo a nessun tipo di reazione politica”.

www.clarissa.it/editoriale301/Padroni-dell-universo-e-sovranita-dei-popoli-il-caso-BlackRock

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La giornalista Emma Alberici (ABC) intervista alcuni funzionari bancari ed operatori finanziari pentiti (diversamente da quel che molti credono, è una vita abbastanza spiacevole, per chi ha una coscienza)

JONATHAN SUGARMAN: Ci sono reparti ospedalieri e scuole che chiudono, servizi pubblici tagliati perché non ci sono soldi. I soldi sono andati alle banche. I vostri soldi, i miei soldi – i soldi di tutti sono finiti nelle banche. Ciò di cui abbiamo bisogno è che le normative esistenti siano fatte rispettare.

ALBERICI: Finora Jonathan Sugarman non ha mai parlato pubblicamente delle sue esperienze. Nel 2007 è diventato un dirigente di alto livello di UniCredit, la più grande banca d’Italia – una delle prime cinque banche in Europa. È stato il responsabile della gestione del rischio in Irlanda.

JONATHAN SUGARMAN: In banca abbiamo una licenza per operare come una banca che è molto simile ad una patente di guida. Spiega che questa è la velocità a cui si può andare, questo è quello che si può fare e che si deve operare all’interno di questi limiti e il mio compito era fare in modo che ciò avvenisse ogni giorno.

ALBERICI: Jonathan Sugarman sorvegliava i responsabili del controllo delle operazioni e gli operatori finanziari. Ben presto si rese conto che i conti non tornavano. Sospettava che la sua banca violasse le rigide regole sulla quantità di denaro e beni che è obbligatorio mantenere come riserva.

JONATHAN SUGARMAN: Ed ho insistito che si informasse immediatamente il responsabile dell’osservanza di queste regole, che è esattamente ciò che è prescritto dai termini della nostra licenza e dalle norme del diritto irlandese.

ALBERICI: Quanto è sicuro che UniCredit abbia infranto la legge mentre lei lavorava lì?

JONATHAN SUGARMAN: Sicuro al 100% ed è per questo che ho chiamato questa società informatica londinese che aveva una buona reputazione a Dublino e il risultato è stato abbastanza orribile, perché, mentre la violazione che avevo segnalato al regolatore costituisce una violazione del venti per cento, mentre la deviazione ammissibile era dell’uno per cento, mi telefonarono una sera poco dopo che si erano collegati ai nostri sistemi per dirmi che in realtà la violazione era del quaranta per cento.

ALBERICI: Quando ha avvertito il suo direttore generale, la risposta è stata sprezzante. Era un errore di sistema. Gli è stato chiesto di continuare ad approvare i contratti. Jonathan Sugarman era nel bel mezzo di una cultura bancaria spericolata che era in rotta di collisione con un disastro.

JONATHAN SUGARMAN: Beh, nei giorni in cui il sistema ha vomitato queste cifre che mi dicevano fossero errate dovevamo firmare e dire: “Oh, questo è un errore di sistema e siamo sicuri che è tutto a posto” e andare avanti come se niente fosse. Non abbiamo mai notificato nessuno. Tenete presente che, quando Nick Leeson ha fatto crollare la Barings Bank, si trattava di una questione di ottocento milioni di sterline, io stavo sottoscrivendo più di cinque miliardi al giorno che non possedevamo.

NICK LEESON: Stando alla definizione del vocabolario ed al fatto che ho trascorso quattro anni e mezzo in carcere io sono un criminale. Ho sempre saputo che quel che stava facendo era sbagliato e credevo di essere un criminale fin dall’inizio? Assolutamente no.

ALBERICI: Sono passati sedici anni da quando Nick Leeson, da solo, ha fatto fallire la più vecchia banca della Gran Bretagna, Barings. È un caso spettacolare, audace e scandaloso di imbrogli finanziari e Hollywood ne ha ricavato un film.

NICK LEESON: Il successo è stata la cosa che ho sempre voluto e viceversa la mia più grande paura era quella di sentirmi un fallito; la paura del fallimento è stata probabilmente quel che mi ha impedito di ammettere che avevo commesso un errore e questo errore aveva portato ad altri errori peggiorando il problema: era l’unica cosa che non mi sentivo di fare.

ALBERICI: La banca esisteva da 233 anni. Era sopravvissuta a guerre ed alla Grande Depressione, ma è bastato un operatore di future di 25 anni per mandarla gambe all’aria.

NICK LEESON: In primo luogo non sapevo che la banca stesse per crollare. Non sapevo quale fosse la base di capitale della banca e non ero realmente interessato alla cosa fino a quando i soldi continuavano ad arrivare; capivo che l’effetto delle mie azioni sarebbe stato drammatico, ma non mi ero reso conto di quanto sarebbe stato catastrofico.

ALBERICI:  Prima che Leeson diventasse un operatore di Barings a Singapore, era un contabile a Londra. Sapeva come funziona il sistema, come nascondere le perdite in un fondo segreto. Era così bravo a coprire le sue tracce che Barings pensava che rendesse milioni e gli mandava sempre più soldi con cui giocare. Ci sono voluti tre anni perché la banca si accorgesse di cosa stava succedendo, ma a quel punto era troppo tardi.

NICK LEESON: Non me la stavo godendo. C’era sempre il timore che quello che stava accadendo sarebbe diventato di dominio pubblico, e quella è sempre stata la mia più grande paura, perché avrebbe rivelato a tutti la mia incompetenza, negligenza ed incapacità e quella era l’unica cosa che non volevo che accadesse.

ALBERICI: Ti sei mai fermato a pensare che stavi perdendo i soldi di qualcuno?

NICK LEESON: mmmh, no, non penso che uno stia a pensare a quello.

ALBERICI: Nick Leeson è stato condannato per frode e ha trascorso quattro anni in un carcere di Singapore. È stato rilasciato nel 1999 ed è tornato in Irlanda per rifarsi una vita.

[Sette anni di carcere a Kweku Adoboli, l’ex trader di Ubs colpevole della maxi truffa costata 1,8 miliardi di euro]

OLIVER METZNER: Non penso che ci siano operatori disonesti in banche oneste. Le truffe avvengono perché le banche le autorizzano.

ALBERICI: Nonostante i progressi tecnologici dai tempi di Nick Leeson a Singapore, sofisticati sistemi di monitoraggio degli operatori e dichiarazioni delle banche che stanno in guardia, si sostiene che Kweku Adoboli abbia agito a loro insaputa. Le sue attività criminali sono iniziate nel 2008, al culmine della crisi finanziaria globale, e nello stesso periodo il contribuente svizzero è stato costretto a sborsare sei miliardi di dollari per salvare UBS dal baratro del fallimento.

OLIVER METZNER: La crisi del 2007-2008 ha portato a conferenze e dibattiti in cui abbiamo detto che avremmo fatto questo e quello, e nulla è stato fatto … nulla è stato fatto.

ALBERICI: Oliver Metzner è uno dei più ricercati avvocati penalisti del mondo in questo genere di casi. Il suo cliente, Jerome Kerviel, ha impugnato la sentenza di condanna per una frode alla banca francese Société Générale. Ha detto di aver perso sei miliardi e mezzo di dollari – la perdita più grande nella storia dei mercati finanziari. Proprio come nello scandalo UBS, Kerviel ha inventato acquirenti, venditori ed offerte fantasma per nascondere le sue perdite.

OLIVER METZNER: è normale che i padroni delle banche responsabili di aver portato alla rovina le proprie banche non vengano puniti per questo? Ci sono problemi reali ed in effetti è difficile per l’uomo della strada capire perché ci si concentri su un Jerome Kerviel o un Nick Leeson e non sulle banche stesse.

JEROME KERVIEL: Mi assumo la mia parte di responsabilità, ma vorrei che lo facessero anche gli altri. Tutti hanno approfittato di questo sistema e non voglio essere io a restare col cerino in mano. Tutto è stato monitorato dal sistema informatico della Société Générale.

[…].

JOHN COATES: Penso che il più grande bonus di cui abbia sentito parlare nel mondo bancario sia stato di circa 200 milioni [di dollari].

ALBERICI: Per un anno di lavoro?

JOHN COATES: sì.

ALBERICI: C’è davvero poca scienza rigorosa nelle azioni degli operatori del mercato finanziario, ma la scienza può aiutare a spiegare come si comportano.

JOHN COATES: “Durante la bolla di internet ho notato che il comportamento degli operatori aveva subito un cambiamento notevole. Di solito sono prudenti, yuppies con famiglia a carico, ma durante la bolla del dot com molti di loro divennero euforici, deliranti…I loro pensieri si rincorrevano, sentivano meno il bisogno di dormire. Stavano prendendo molti più rischi rispetto al passato. Il rischio era davvero eccessivo rispetto ai vantaggi possibili e sembravano anche più arrapati del solito data la quantità di pornografia sullo schermo dei loro computer. È stato solo più tardi che ho scoperto che si trattava dei sintomi clinici delle manie.

ALBERICI: John Coates ha trascorso dodici anni a Wall Street, lavorando per Goldman Sachs e Deutsche Bank. Ha mollato tutto per prendere un dottorato di ricerca a Cambridge. La sua specialità? Neuro-economia

JOHN COATES: L’altra cosa che avevo notato era che le donne erano relativamente immuni al comportamento che vedevo nei trader. Ho pensato che ci fosse una causa chimica ed è così che ho iniziato a fare ricerche su testosterone

[…].

SIR JOHN VICKERS: Se c’è una situazione in cui la gente crede che una banca non fallirà mai perché il governo la salverà con i soldi dei contribuenti, questa è una cosa che incoraggia … è quasi una licenza a rischiare indisciplinatamente…Se vogliono tentare cose sofisticate, complicate, internazionali, va bene, affari loro, ma abbiamo bisogno di una struttura che garantisca che il contribuente non sia chiamato a tappare i buchi quando le cose vanno male.

ALBERICI: gole profonde come Jonathan Sugarman non hanno molta fiducia nelle autorità di regolamentazione e nelle loro regole. Cosa hanno fatto finora?

JONATHAN SUGARMAN: In effetti niente, niente di niente. È come entrare in una centrale di polizia con un coltello insanguinato e dire “ho appena ucciso qualcuno” ed aspettarsi che la polizia chieda “dove sta il corpo, che cosa hai fatto?”. E invece ti dicono: “bene, basta che non lo fai di nuovo”. Il che mi ha lasciato interdetto….Mi ci è voluto un po’ per rialzarmi e poi quando ho iniziato a cercare altre posizioni come risk manager, ho trovato un sacco di porte chiuse e ho constatato che dire la verità non paga.

http://www.abc.net.au/foreign/content/2011/s3367080.htm

La morte delle cicale che si spacciavano per formiche (Deutsche Bank agonizzante?)

di Vladimiro Giacché

 Mentre le istituzioni europee e i governi nazionali sembrano ipnotizzati dal problema del debito pubblico, è probabile che la prossima crisi in Europa sarà una crisi bancaria. La cosa, visti i soldi già spesi dai governi per salvare le banche in Europa (all’incirca 4mila miliardi di euro), può sembrare parecchio strana. Ma la cosa più strana è un’altra: probabilmente questa crisi avrà il suo epicentro non nei cosiddetti “paesi periferici” ma nel centro dell’Europa. Ossia in Francia e – soprattutto – in Germania.

In Francia, a dire il vero, una crisi bancaria è già in corso: una banca specializzata (guarda un po’) in mutui immobiliari, il Crédit Immobilier de France, è prossima al fallimento. Quasi certamente non riuscirà a ripagare un’obbligazione da 1,75 miliardi di euro in scadenza questo mese, e dovrà provvedere lo Stato francese. Ma si stima che complessivamente le garanzie pubbliche che dovranno essere messe in campo a sostegno di questa banca saranno dell’ordine di 20 miliardi di euro. Come dire, due terzi della manovra di Hollande. Non c’è male.

Ma il fronte più caldo, almeno potenzialmente, è un altro, e riguarda la banche più grandi del paese: il valore delle attività di trading di BNP, Société Générale, Crédit Agricole e Natixis ammonta attualmente a qualcosa come 2.050 miliardi di euro, una cifra non molto inferiore all’intero prodotto interno lordo della Francia. Le attività di trading in azioni, obbligazioni e derivati sono cresciute del 21% in un anno e per quanto riguarda BNP e Société Générale superano ormai il 30% del totale delle attività di queste banche. Ma se prendiamo il trading in derivati la crescita è ancora maggiore: +48% per BNP, +38% per Société Générale.

Queste cifre significano due cose: che i rischi di mercato assunti da queste banche crescono, e – viste le cifre in gioco – che si può parlare di rischio sistemico. Ma in confronto a quello che accade in Germania i problemi delle maggiori banche francesi impallidiscono. La Germania ha tuttora uno dei sistemi bancari meno concentrati e meno efficienti dell’intera Europa (circa 1200 banche).

Basti pensare alle numerose Sparkassen (tradizionalmente vicine alla CDU), alle Landesbanken (fu una di esse la prima banca a fallire nel 2007, e molte sono tuttora in cattive acque) e alle Volksbanken. Ma il governo tedesco, che mesi fa poneva come condizione per ulteriori interventi europei a sostegno delle banche spagnole la realizzazione di un’unione bancaria europea, non appena questa unione bancaria ha assunto la forma di una concreta proposta di accentrare la sorveglianza bancaria in Europa presso la Bce, ha cominciato a frenare: con il ministro delle finanze tedesco Schäuble che è subito intervenuto chiedendo che questa sorveglianza valesse soltanto per pochissime grandi banche.

È stato fin troppo facile rispondergli che non sono soltanto le grandi banche a esprimere rischi sistemici: basti pensare a quello che è successo dopo il fallimento (con salvataggio governativo in extremis) di Northern Rock nel Regno Unito. E del resto è la stessa situazione spagnola a mostrarci che effetti possono avere i fallimenti di tante banche piccole e medie.

È corretto però affermare che oggi i maggiori rischi del sistema bancario tedesco non vengono dalle banche piccole e medie, ma da quella più grande: la Deutsche Bank. Con un bilancio pari all’80% circa dell’intero prodotto interno lordo della Germania, Deutsche Bank è una delle maggiori banche mondiali. Ma è anche una delle più sottocapitalizzate. Secondo i dati forniti da Bloomberg, il 30 giugno scorso di quest’anno era al quintultimo posto tra le 24 maggiori banche europee quanto a patrimonio (il cosiddetto “Tier 1 capital ratio”).

In apparenza sembrerebbe non passarsela troppo male, con un Tier 1 al 10,1% (le banche italiane, ad esempio, stanno peggio). Il problema però è che questo dato è ottenuto utilizzando “risk-weighted assets”, ossia una ponderazione di rischio diversa a seconda delle attività. Questo tipo di misurazione è apparentemente corretta, perché i rischi di perdita sono effettivamente diversi a seconda delle attività della banca. Ma è anche alquanto arbitraria: basti pensare che sino a non molto tempo fa i titoli di Stato e dell’Eurozona erano considerati tutti indistintamente a rischio zero.

Il modo più corretto per valutare l’adeguatezza del capitale di una banca è quindi un altro: misurare la “leva” (leverage ratio), cioè mettere a confronto il bilancio complessivo della banca con la sua dotazione di capitale. Bene, recentemente Simon Johnson, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale e oggi al Peterson Institute, ha fatto questo esercizio. E il risultato è questo: le attività di Deutsche Bank ammontano a 2.241 miliardi di euro, a fronte di un capitale di 55,75 miliardi di euro. In altre parole, il capitale di Deutsche Bank ammonta a poco meno del 2,5% rispetto agli assets della banca. Che è come dire che perdite del 3% sul totale del portafoglio della banca sarebbero più che sufficienti ad azzerare il capitale della banca. Ossia a farla fallire. Né più né meno di quanto è successo a Lehman Brothers, la banca d’affari americana fallita nel 2008, la quale del resto aveva una leva di appena 24 volte il capitale, a fronte del 40 medio delle banche tedesche.

Ma nonostante questo i nuovi coamministratori delegati della Deutsche Bank, Anshu Jain e Jürgen Fitschen, così come il loro predecessore Josef Ackermann, continuano a ritenere che la priorità non sia il rafforzamento del capitale, ma il suo rendimento: e hanno fissato un obiettivo di rendimento annuo del 12,5% dopo le tasse. Questo significa necessariamente continuare ad assumere rischi molto rilevanti.

Al momento il tutto è reso più semplice, tanto per Deutsche Bank, quanto per le altre banche tedesche, dal fatto che il basso rendimento dei titoli di Stato tedeschi (di fatto negativo, ossia inferiore al tasso di inflazione) si riflette positivamente anche sul costo di raccolta delle banche: in concreto, oggi una banca tedesca ha un costo del capitale inferiore del 2-3% a quello di una banca italiana.

Ma è una situazione che non può durare all’infinito. Un peggioramento della situazione economica europea è tutt’altro che una remota possibilità. È ormai molto probabile che l’approfondirsi della recessione in Europa coinvolga anche la Germania (già ora le previsioni di crescita per il 2013 sono prossime allo zero). Ma più in generale l’economia mondiale è in vistoso rallentamento, e alla luce di quanto sta accadendo in Medio Oriente anche uno shock sul prezzo delle materie prime energetiche non può affatto essere escluso.

Per evitare che tutto questo si traduca in una crisi bancaria, bisognerebbe fare anche in Germania (e in Francia) quello che è stato fatto in Svizzera: dove UBS e Crédit Suisse sono state costrette a fare ingenti aumenti di capitale.

Anche per questo sarebbe importante arrivare quanto prima a una sorveglianza bancaria europea. Ma le mosse più recenti proprio del governo tedesco, dalle schermaglie sulle banche di minori dimensioni per le quali dovrebbero restare competenti organi di vigilanza nazionali, alla richiesta – di pochi giorni fa – di estendere anche ai paesi europei che non fanno parte dell’euro la possibilità di decidere sulla configurazione della sorveglianza bancaria europea, sembrano avere un unico obiettivo: ritardare questo processo per proteggere ancora una volta le proprie grandi banche.

http://pubblicogiornale.it/economia-2/le-banche-tedesche-una-bomba-a-orologeria/

Le cause della Rivoluzione in Europa – L’hanno fatto una volta, lo rifaranno ancora

All’improvviso è lì, l’ospite di un altro mondo. Potrebbe venire tra mille anni, o anche domani. Che cosa faremo allora? Come ci proteggeremo da noi stessi, se assumerà ancora una volta la forma di un essere umano – uno che ovviamente non rassomiglierà per nulla ad Hitler, ma che potrebbe ad esempio essere calvo, con una lunga barba ed una voce paterna? Oppure giovane e in forma, dall’aspetto sveglio ed irresistibile? […]. Sedurrà la gente dalla testa ai piedi, come fece Hitler, e non solo la testa come fa il marxismo, o la pancia come fa il capitalismo. Gli crederanno, come credono in un dio, e saranno disposti a morire per lui, al fianco delle sue vittime, sentendosi finalmente vivi.

Harry Mulisch, “Criminal Case 40/61, the Trial of Adolf Eichmann An Eyewitness Account”, 2005, pp. 149-150.

L’hanno fatto in passato e probabilmente lo rifaranno anche in futuro.

Robert Servatius, avvocato difensore di Adolf Eichmann.

Quali furono le cause del contagio rivoluzionario che attraversò l’Europa nel corso del 2012?

Erano già state individuate in un oscuro e prezioso libricino, pubblicato proprio all’inizio dell’anno da Vladimiro Giacché, economista e giornalista del Fatto Quotidiano.

S’intitolava “Titanic-Europa: la crisi che non ci hanno raccontato” e fu, naturalmente, ignorato dai media ufficiali. Fu il passaparola degli internauti a decretarne il meritato successo.

Ecco una sintesi dei punti-chiave.

CAUSE DELLA CRISI

Il settore edilizio statunitense era in affanno già dal 2005 per un eccesso di offerta che non era compensato dalle facilitazioni creditizie. Risultato: cittadini indebitati, crollo del valore degli immobili, crisi dei mutui subprime. Questi sono poi cartolarizzati, ossia trasformati in titoli obbligazionari per essere rivenduti a banche e fondi di investimento per coprire fittiziamente le insolvenze, come nelle scatole cinesi. La montagna di liquidità si rivela essere un’illusione, consistendo in realtà in una montagna di debiti.

A questo proposito, Giacché segnala che i debiti della banche sono superiori a quelli delle famiglie, negli USA ed in molti altri paesi.

Per questo le banche hanno stretto i cordoni della borsa, causando un congelamento degli investimenti.

PERCHÉ IL RUOLO DELLA FINANZA È DIVENTATO COSÌ PROMINENTE?

L’ipertrofia finanziaria è l’inevitabile conseguenza della diminuzione della crescita dell’economia mondiale.

Tra 1973 e 2008 il tasso di crescita è di poco superiore alla metà di quello registrato tra 1950 e 1973. Senza includere la Cina equivarrebbe ad un terzo.

I profitti si dimezzano in Germania, Francia e Italia, tra gli anni Sessanta e i primi anni del terzo millennio.

Nel 2009 Marchionne rivela che il mercato assorbe solo 2/3 delle auto prodotte. Ossia, ogni anno, si fabbricano 30 milioni di auto invendibili. Nel 2002 erano 22 milioni (fonte: Wall Street Journal). Le case automobilistiche sopravvivono solo grazie agli aiuti di stato. Lo stesso Marchionne infatti aggiunge che “le autovetture finanziate in Europa sono 3 su 4”. Alla faccia del liberismo!

La finanza è la via di fuga dal rallentamento dell’economia, ma comporta un’impressionante crescita del debito e la moltiplicazione delle crisi: tra 1945 e 1971 non si verifica nessuna crisi finanziaria. Tra 1975 e 2010, ce ne sono 160 (e 54 crisi bancarie).

Negli anni Novanta scoppia la bolla finanziaria giapponese e comincia la sua stagnazione che, salvo brevi intervalli dovuti alla crescita cinese, dura ancora oggi.

Nel marzo del 2001 scoppia la bolla della New Economy e la recessione colpisce gli Stati Uniti. I profitti delle prime 500 imprese dell’indice di Standard & Poor’s nel secondo trimestre del 2001 erano calati mediamente del 60%. Il 10 settembre la Banca dei Regolamenti Internazionali certifica che la recessione riguarda l’economia globale.

Apro una parentesi sulla BRI: “I poteri del capitalismo finanziario avevano un obiettivo più ampio, niente meno che la creazione di un sistema globale di controllo finanziario in mani private in grado di dominare il sistema politico di ciascuna nazione e l’economia mondiale nel suo complesso. Questo sistema andava controllato in stile feudale dalle banche centrali di tutto il mondo, agendo di concerto, per mezzo di accordi segreti raggiunti in frequenti incontri privati e conferenze. Al culmine della piramide ci doveva essere l’elvetica Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) di Basilea, una banca privata posseduta e controllata dalle banche centrali mondiali che a loro volta erano imprese private…non bisogna immaginare che questi dirigenti della principali banche centrali del mondo fossero loro stessi dei ragguardevoli potenti nel mondo della finanza. Non lo erano. Erano piuttosto dei tecnici e gli agenti dei massimi banchieri commerciali delle loro rispettive nazioni, che li avevano allevati ed erano perfettamente capaci di liberarsene…e che rimanevano in gran parte dietro le quinte…Questi costituivano un sistema di cooperazione internazionale e di egemonia nazionale più privato, più potente e più segreto di quello dei loro agenti nelle banche centrali. Il dominio dei banchieri commerciali era fondato sul controllo dei flussi di credito e dei fondi di investimento nelle loro nazioni e nel mondo….potevano dominare i governi attraverso il controllo dei debiti nazionali e dei cambi. Quasi tutto questo potere era esercitato dall’influenza personale e dal prestigio di uomini che in passato avevano dimostrato la capacità di portare a compimento con successo dei golpe finanziari, di mantenere la parola data, di mantenere la mente fredda nelle crisi e di condividere le loro opportunità più vantaggiose con i loro associati”. Lo scrive Carroll Quigley – docente di storia, scienze politiche e geopolitica a Princeton, Harvard e Georgetown, una delle massime autorità mondiali del suo tempo nel suo campo e mentore del giovane Bill Clinton, quando era uno studente universitario – in “Tragedy and Hope: A History of the World in Our Time” (New York: Macmillan, 1966).

http://www.scribd.com/doc/71732657/Carroll-Quigley-Tragedy-and-Hope-2011-Ed

Chiusa parentesi.

Il mondo si salva dalla crisi che scoppierà nel 2008 solo grazie all’11 settembre. Nel novembre del 2001 la recessione ha termine.

Le imprese cercano di sfuggire alla contrazione dei profitti attraverso le attività finanziarie (la quota dei profitti generati in questo modo arriva al 40% del totale nel 2007), pretendendo (ed ottenendo) una marcata riduzione del carico fiscale, ma anche congelando o riducendo i salari.

Per questo, nel 2007 i lavoratori si ritrovano con un tenore di vita pari a quello del 1970. Se non se ne sono accorti è stato perché le banche hanno concesso prestiti agevolati e mutui ad alto rischio. Se vivono meglio è perché si indebitano di più. Si realizza il sogno del capitalista: i lavoratori guadagnano di meno ma consumano di più!

Nel 2007 il tasso di indebitamento in rapporto al reddito disponibile è del 176% in Irlanda, 145% nel Regno Unito, 138% negli Stati Uniti, 123% in Canada, 115% in Spagna

La cosa ha funzionato finché il valore degli immobili continuava a crescere e restava salda la percezione che la tendenza sarebbe continuata. Da 5 anni questo credenza si è infranta.

Successivamente, la retorica del libero mercato ha lasciato il posto agli aiuti di stato per “il salvataggio dei mercati” (Ben Bernanke).

Così, tra autunno 2008 e primavera 2009, almeno la metà delle 20 maggiori banche mondiali riceve un sostegno governativo diretto. Fino al giugno del 2009 il sistema bancario riceve, nel complesso, 14mila miliardi di dollari (equivalenti al colossale debito degli Stati Uniti!!!). Ora le autorità monetarie e i governanti europei ci spiegano che sono stati i cittadini comuni a vivere al di sopra delle proprie possibilità. D’improvviso, le nazionalizzazioni di Northern Rock, Royal Bank of Scotland e Dexia sono diventate un aspetto marginalissimo della questione.

I dati indicano, invece, che si è verificato “un gigantesco trasferimento del debito privato nel debito pubblico, ossia a una semplice socializzazione delle perdite” (Giacché, p. 43). Senza che peraltro si sia provveduto ad introdurre regole per evitare che questi eventi si ripetano. Non è per caso che il mercato dei derivati abbia toccato livelli record.

Contemporaneamente, le banche usano i soldi ricevuti non per risanarsi e concedere prestiti ai cittadini (rilanciando l’economia), ma per investire nei titoli di stato, i cui rendimenti sono superiori al tasso d’interesse a cui hanno ricevuto i prestiti dalle banche centrali.

 

IL PROBLEMA DEL DEBITO

Il debito complessivo, nel 2011, è pari al 310% del PIL mondiale.

Il governo italiano interviene con 30 miliardi annui di incentivi pubblici.

Chi paga? Per circa il 70% del totale i lavoratori dipendenti, in Germania come in Italia.

Così, dal 2007 al 2010 l’indebitamento della Germania cresce del 30%.

Quali sono le nazioni più indebitate?

In termini assoluti, gli Stati Uniti (oltre 14mila miliardi di dollari di debito e un deficit annuale di 1.300 miliardi di dollari).

In rapporto al PIL, il Giappone (229% contro il 120% italiano). Per ripagare il suo debito il Giappone dovrebbe devolvere tutte le sue entrate annue per vent’anni!

Se invece sommiamo debito pubblico e debito privato, vince la Gran Bretagna: già nel 2008 aveva raggiunto il 469% del PIL. Al secondo posto il Giappone (459%), Spagna (342%), Francia (308%), Italia (298%). Il Regno Unito manterrà o allargherà verosimilmente questo margine di vantaggio, dato che il suo deficit statale era del 10,4% nel 2010 e dell’11,7% nel 2011. Quello statunitense ha raggiunto la soglia del 10% del PIL. Gli USA sono una nazione allo stremo:

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/30/la-zombificazione-degli-stati-uniti-e-pensano-di-potersi-permettere-unaltra-guerra/#axzz1od3sL7a5

che, nel 2010, ha dedicato il 20% delle sue spese alle forze armate. Con Obama si è raggiunto il 5% del PIL, superiore a quello dell’amministrazione Bush. Gli Stati Uniti non hanno mai speso così tanto per la voce armamenti dal tempo della fine della Seconda Guerra Mondiale. Intanto l’aspettativa di vita dei suoi cittadini li colloca ad un miserevole 37º posto nel mondo e le tasse sulle imprese sono pari a ¼ di quelle pagate dai cittadini (durante la Grande Depressione il rapporto era 1:1 e durante la Seconda Guerra Mondiale le imprese pagavano il 50% in più). Nel 2010 la General Electric non ha pagato un dollaro di tasse negli Stati Uniti. Il calo dei redditi è stato del 3,2% tra 2007 e 2009 e del 6,7% tra 2009 e 2011.

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/13/the-big-squeeze-us-and-uk-income-drop-2002-2013/

Ho già descritto altrove la crisi del debito eurozona:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/02/16/basta-prendersela-coi-tedeschi-siamo-tutti-sulla-stessa-barca/

I lavoratori tedeschi hanno già subito molto, avendo perso il 4,5% del salario in termini reali (al netto dell’inflazione) dopo l’introduzione dell’euro. In nessun altro paese dell’eurozona si è registrata una diminuzione paragonabile a questa.

MENZOGNE SUI PIIGS E L’EURO:

Lavorano troppo poco: prima della crisi i Greci lavoravano in media 44,3 ore in settimana, contro una media europea di 41,7 e quella tedesca di 41 ore;

Sono sempre in ferie: avevano 23 giorni di vacanze contro i 30 dei Tedeschi;

Hanno stipendi eccessivi: ricevevano il 73% del salario medio dell’eurozona e gli insegnanti erano pagati il 40% in meno che in Germania;

Pensioni d’oro e pensioni baby: andavano in pensione dopo i Tedeschi e ricevevano il 55% della media del’eurozona;

Il grande problema di Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e, in misura minore ma sostanziale, Italia e Francia, è che all’ingresso nell’eurozona è corrisposta la deindustrializzazione. Nessuno di questi paesi poteva competere con la Germania senza svalutare (la dracma era stata svalutata del 45% rispetto al marco nel decennio precedente all’introduzione dell’euro). Così le esportazioni tedesche verso la Grecia sono aumentate a dismisura, tra il 47% ed il 94% a seconda dei settori.

Ciò nonostante, la Grecia non se la stava cavano male, fino al 2008. Poi si è trovata a dover salvare le due maggiori banche private del Paese. Questo ha fatto esplodere il deficit, che è passato da un ATTIVO del 2,9% nel 2006 ad un passivo del 32% nel 2010.

Dal 2010 le misure di austerità dei governi greci hanno ridotto il reddito dei Greci del 20%. Il conseguente crollo dei consumi e degli investimenti ha fatto esplodere il rapporto debito/PIL, che potrebbe arrivare al 180% nel 2012. Il deficit ha superato il 10% nel 2010.

Se, nel 2010, le autorità europee avessero speso 167 miliardi di euro per riportare il debito greco sotto controllo, all’80% del PIL, pari a quello tedesco, si sarebbe evitato questo buco nero. Quella stessa cifra è stata però spesa nel 2008-2009 per salvare Bank of America, Royal Bank of Scotland, Ing e Goldman Sachs.

Non contenti di aver fallito con la Grecia, gli eurocrati hanno applicato le stesse “terapie” alle altre nazioni, ad esempio in Irlanda per salvare le banche tedesche e britanniche (esposte rispettivamente per 184 e 188 miliardi di euro). L’Italia, che aveva un debito pubblico sotto controllo ed il più grande avanzo primario cumulato dell’intero Occidente, è stata (è) un’altra vittima: “il buco è stato colmato con l’IVA…un’imposta regressiva: le tasse indirette infatti colpiscono i poveri più dei ricchi, e questo perché la proporzione del reddito speso in beni di consumo è maggiore per gli stupendi bassi che per quelli alti” (p. 103-104).

Anche la Francia è a rischio. Il debito è cresciuto di quasi il 28% tra 2007 e 2010 e la bilancia commerciale ha un disavanzo annuo di oltre 100 miliardi di euro.

IN PRINCIPIO ERA HITLER (NELLA MIGLIORE DELLE IPOTESI, LA DIRIGENZA EUROPEA È COMPOSTA DA FANATICI)

Nouriel Roubini dixit: “come negli anni trenta, stagnazione prolungata, depressione, guerre valutarie e commerciali, controlli sui capitali, crisi finanziaria, insolvenze dei debiti sovrani e grande instabilità sociale e politica”.

Dylan Grice, analista di Société Génerale, osserva che sono state le politiche deflazionistiche del cancelliere Brüning a far balzare la disoccupazione al 30%, regalando milioni di voti ai nazisti.

Giacché cita lo storico dell’economia Derek Aldcroft: “Per tutta la seconda metà del 1930 e del 1931 la situazione economica si deteriorò costantemente ovunque. Con la caduta dei redditi il bilancio statale e i conti con l’estero divennero squilibrati e la prima reazione dei governi fu quella di varare provvedimenti deflazionistici, che non fecero che peggiorare le cose”.

Si associa ed aggiunge: “Quello che allora ne seguì è noto: ascesa al potere di Hitler, guerre valutarie, protezionismo e guerre commerciali, e infine la seconda guerra mondiale. Fu quest’ultima a risolvere la crisi, uccidendo oltre 50 milioni di persone e distruggendo capitali e forze produttive in misura senza precedenti per la storia dell’umanità” (pp. 130-131).

Cosa succederà? “Il processo di rientro dai deficit pubblici sta aggravando la crisi della domanda interna…siccome il settore privato sta già diminuendo i propri investimenti a causa della crisi, la forte diminuzione anche degli investimenti pubblici non farà che peggiorare la situazione. Non solo. Siccome questi risparmi sono attuati contemporaneamente in tutti i Paesi europei, e siccome il mercato europeo è fortemente integrato e interconnesso…la crisi della domanda interna diventa immediatamente crisi dell’export reciproco” (p. 133).

Repetita iuvant: “La razionalità dei mercati, lo Stato che deve dimagrire, la necessità delle privatizzazioni, le liberalizzazioni come toccasana per la crescita, la deregolamentazione del mercato del lavoro come ingrediente essenziale contro la disoccupazione: praticamente nessuno di quei luoghi comuni, che proprio la crisi scoppiata nel 2007 si è incaricata di smentire clamorosamente, ci viene risparmiato…si tratta di un fenomeno evidentissimo a chiunque provi a ragionare con la propria testa su quanto sta accadendo, senza farsi intrappolare dai cliché e dalla frasi vuote sull’argomento” (pp. 138-139).

I governanti europei sono colpevoli di crimini contro l’umanità: “bisogna avere il coraggio di dire che il raddoppio in tre anni del livello di suicidi in Grecia non è un effetto collaterale “naturale” della crisi, ma un vero e proprio crimine che ha mandanti ed esecutori” (p. 140).

I governanti europei sono nemici della democrazia: “Chi avrebbe detto che proprio quell’Europa che pretende di insegnare la democrazia a tutto il mondo, e talvolta di esportarla con i bombardieri, avrebbe impedito a un governo di organizzare un referendum popolare sulle misure di austerity da assumere come è avvenuto in Grecia? Chi avrebbe mai considerato normale che l’esito delle elezioni in Portogallo fosse ritenuto irrilevante, perché comunque il programma da seguire era già stato scritto a Bruxelles e a Francoforte? E che dire dell’Italia, dove si è ritenuto un atto di alta responsabilità nazionale impedire che si andasse alle elezioni anticipate dopo il catastrofico fallimento di un governo, oltretutto ormai privo di maggioranza parlamentare? In questi anni in Europa è successo letteralmente di tutto. La guida di fatto dell’unione Europea assegnata a Francia e Germania senza che questo sia previsto da nessun Trattato. Una Banca Centrale Europea che non può fare il prestatore di ultima istanza perché i Trattati le legano le mani, ma che in compenso manda lettera minatorie a governi di Paesi sovrani, dettando il proprio programma di governo (per giunta sbagliato). Parlamenti ricattati e costretti a votare l’inserimento in Costituzione di norme assurde e controproducenti come il vincolo del pareggio di bilancio. Tutto ciò mentre l’Europa degli accordi intergovernativi si adopera per modificare (in peggio) i Trattati esistenti facendo accuratamente in modo che nessun popolo europeo possa esprimersi con il voto su di essi” (p. 157).

La spada di Damocle sospesa sull’Italia: “La regola delirante della dimunizione del debito in ragione di 1/20 all’anno della quota che eccede il 60% del PIL resta appesa come una spada di Damocle sulle nostre teste: se applicata alla lettera essa comporterà per il nostro Paese manovre correttive annue da 50 miliardi di euro per 20 anni. Nietne paura, comunque: con i tassi d’interesse attuali, andremo in default molto prima” (p. 160).

La spada di Damocle sospesa su UK, USA e Giappone: “il contagio della crisi del debito sovrano difficilmente lascerà indenni tre grandi debitori pubblici quali il Regno Unito, gli Stati Uniti e il Giappone. In particolare la situazione del Regno Unito sarà aggravata dall’entità abnorme del debito delle banche che va aggiungendo a quello pubblico” (p. 160).

Rivoluzione o distruzione: “Ma davvero non c’è via d’uscita? È davvero un destino ineluttabile che una classe dirigente inadeguata riesca a provocare tutto questo? Forse no. Se il timoniere non vuole cambiare idee e rotta, resta pur sempre un’altra possibilità: cambiare il timoniere” (p. 161).

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