Congiurati per la verità alla Bookique

A cura di Stefano Fait

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Credere alle bugie e agire sulla base di una percezione falsata della realtà può, letteralmente, distruggerci.

Quando chiesero a Thomas Herndon, studente di economia presso l’Università del Massachusetts, di scegliere un’analisi economica ed esercitarsi provando a replicare i risultati lui, ambiziosamente, scelse un articolo di Carmen Reinhart (Harvard) e dell’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Ken Rogoff, che aveva avuto un ruolo decisivo nel giustificare le misure di austerità nell’eurozona. Dopo mesi di tentativi i conti non tornavano. Assieme ai suoi docenti, Herndon scoprì che i due esperti avevano commesso una serie di errori, tra i quali uno particolarmente grossolano.

Daniel Hamermesh, economista all’Università di Londra, ha saputo comunicare concisamente il significato più profondo dell’evento: “Quell’articolo ha contribuito a plasmare il modo in cui le persone, e specialmente i politici, vedono il mondo ed è proprio questo che, alla fine, determina come funziona il mondo” (BBC 19 aprile 2013).

La mancanza di obiettività e trasparenza è perciò la causa di gran parte dei nostri mali e della nostra violenza. L’accesso a una pluralità di prospettive sul mondo ci può consentire di percepire la realtà meno soggettivamente e quindi ci rende persone e società migliori (cf. articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani). Una cittadinanza abituata a interrogarsi e informarsi non sprofonda nell’apatia e in un sordo e potenzialmente pericoloso risentimento generalizzato.

Per questo il giornalismo ben fatto è il sale della democrazia: una cittadinanza adeguatamente informata sa cosa chiedere, sa cosa aspettarsi, sa per chi votare nell’interesse generale. Una scelta malinformata o disinformata non è una vera scelta.

Il premio Pulitzer Seymour Hersh, celebre per gli scoop di My Lai (Vietnam, 1968) e Abu Ghraib (Iraq, 2004), per le sue inchieste sull’opzione nucleare “Sansone” israeliana, sulla Guerra al Terrore, sulle circostanze della morte di Osama Bin Laden, sulla sorveglianza illegale negli Stati Uniti, è stato definito “la cosa più vicina a un terrorista nel panorama giornalistico americano” dall’ultraconservatore statunitense Richard Perle.

Oggi, in un mondo dell’informazione dominato da pochi giganti oligopolistici – Time Warner, Walt Disney, Viacom, News Corporation (Rupert Murdoch), Bertelsmann, Axel Springer AG, SonyHersh rileva che c’è molta meno libertà di informazione e molto più conformismo di quando era giovane e il suo capo al New York Times gli domandava, affettuosamente: “Come sta il mio piccolo comunista?”, perché era contrario alla guerra in Vietnam.

I media americani sono patetici, sono più che ossequiosi, hanno paura di prendersela con Obama. Citano le fonti ufficiali invece di verificarne la validità. È come se temessero di essere outsider, di far arrabbiare qualcuno. Eppure è il momento di farlo, perché la nostra repubblica se la passa male: mentiamo su tutto, mentire è diventato la norma, non l’eccezione (intervista del Guardian, settembre 2013).

Federico Mayor Zaragoza, direttore generale dell’UNESCO dal 1987 al 1999, lo chiama il “Gran Dominio”: “se si guarda a chi detiene il potere mediatico nel mondo, sono sei o sette persone. E non è solo una questione di informazioni parziali o menzognere, a sua volta un’altra cosa contro cui occorrerebbe protestare. Non credo che sia questo il mondo che vogliamo lasciare ai nostri figli” (intervista di un’emittente spagnola, 2011).

Anche Gustavo Zagrebelsky, in “Simboli al potere” (2012, pp. 89-90), descrive a tinte molto fosche la nostra situazione: “Alla cementificazione del pensiero, all’espulsione delle alternative dal campo delle possibilità, all’omologazione delle aspirazioni, alla diffusione di modelli pervasivi di comportamento, di stili di vita e di status e sex symbol nelle società del nostro tempo, lavorano centri di ricerca, scuole di formazione, università degli affari, accademie, think-tanks, uffici di marketing politico e commerciale, in cui vivono e operano intellettuali e opinionisti che sono in realtà consulenti e propagandisti, consapevoli o inconsapevoli, ai quali la visibilità e il successo sono assicurati in misura proporzionale alla consonanza ideologica. La loro influenza sul pubblico è poi garantita dall’accesso a strumenti di diffusione capillari e altamente omologanti. Non è forse lì che, prima di tutto, si stabiliscono i confini simbolici del legittimo e dell’illegittimo, del pensabile e dell’impensabile, del desiderabile e del detestabile, del ragionevole e dell’irragionevole, del dicibile e dell’indicibile, del vivibile e dell’invivibile? Da qui provengono le forze simboliche potenti che, fino a ora, cercano di tenere insieme le nostre società….come in una religione, per di più monoteista”.

Arrestare e invertire questa tendenza all’invenzione mediatica della realtà è possibile solo se la cosiddetta società civile è vivace, scettica, vigile e discernente, ossia patriottica nell’accezione migliore del termine. Altrimenti, se resta silente e passiva, le collusioni proliferano, i poteri arbitrari si consolidano e la popolazione non si accorge che la sua libertà di pensiero si è rarefatta. Oppure, dandosene conto, esagera nel senso opposto, attribuendo ogni singola catastrofe naturale a tecniche di geoingegneria o sollevando sospetti sulla morte di ogni figura scomoda.

Alla fine le ipotesi più strampalate finiscono per fare ombra alle tesi più plausibili e circostanziate, per quanto “controverse”. Così i veri e propri crimini di stato e di lobby contro la democrazia, l’umanità e il pianeta finiscono per partorire aberrazioni dell’intelletto, paranoie irrazionaliste, nichilismo e attese messianiche. Diventa arduo distinguere tra un’idea folle e un’idea realistica, tra un autentico complotto e una fantasia. Tutto finisce nel calderone delle sottoculture del complottismo, un termine che oggi viene usato per screditare indiscriminatamente chiunque contesti l’establishment e denunci gli abusi di potere.

Abbiamo bisogno di una “congiura per la verità” che si concentri sui sospetti, sui moventi e sull’evidenza concreta, e che lo faccia con rigore. Questa congiura per la verità si chiama Giornalismo con la maiuscola e necessita di professionisti che sappiano andare fino in fondo e dell’assistenza di persone dotate dei tre sensi chiave del buon cittadino: senso civico, senso critico, buon senso.

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Con questo spirito è nato Web Caffè Bookique, un caffè dibattito che unisce la quotidiana discussione in rete e l’incontro con “congiurati per la verità” presso la Bookique (parco della Predara), il terzo mercoledì di ogni mese, in via Torre D’Augusto 29 (quartiere San Martino).

Questo mese sono intervenuti Mario Giuliano, avvocato e membro del comitato 26 gennaio, Andrea Tomasi e Jacopo Valenti, autori di “La farfalla avvelenata. Il Trentino che non ti aspetti” (Città del Sole edizioni, 2012).

I due fuochi, l’uovo di serpente, la lotta per un Mondo Nuovo

Le autonomie europee alla sfida dell’immigrazione. Quali diritti-doveri per i nuovi cittadini glocali?

21 settembre 2012, 18.00

Incontro pubblico

La crisi europea offre una grande opportunità per le autonomie locali come Trentino e Alto Adige, ma anche Catalogna, Baviera, Scozia, Paesi Baschi, Corsica. Queste regioni sono protagoniste di un processo di costruzione di una identità propria sempre più fortemente proiettata sullo scenario internazionale. Tale processo crea tuttavia una fortissima tensione attorno al concetto di cittadinanza: aperta all’inclusione degli immigrati come nuovi cittadini delle autonomie europee, o chiusa su una concezione attenta alla difesa della propria identità storica e delle radici etniche e territoriali?
Ne parliamo con Lorenzo Piccoli, Stefano Fait e Piergiorgio Cattani. Introduce Michele Nardelli.

Organizza: Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani

Luogo: Sala Aurora, c/o Sede Consiglio Provinciale – Trento

http://www.tcic.eu/web/guest/eventi/-/asset_publisher/8ZdO/content/storie-di-immigrazione-appunti-di-cittadinanza?redirect=%2Fweb%2Fguest%2Feventi

LINEE GUIDA DEL MIO INTERVENTO

La crisi dell’eurozona e la crisi globale aprono scenari nuovi per il futuro.

Un cambiamento positivo è quello che consente di diventare più liberi, più consapevoli, più responsabili e più miti (ossia meno prevaricatori).

Un cambiamento negativo è quello in cui la piramide sociale diventa più ripida, la dignità delle persone è mortificata, la libertà è compressa, l’iniquità è diffusa, la fratellanza umana è vilipesa.

Al momento attuale il Trentino-Alto Adige, come il resto del mondo, si trova preso tra due fuochi: quello della destra neoliberista, esportato dal mondo anglo-americano (Wall Street e la City di Londra) – il suo verbo è incapsulato in quel “a me non interessano i poveri” di Mitt Romney – , e quello della destra etnopopulista/etnofederalista, particolarmente forte nell’area che si estende tra i confini settentrionali della Baviera ed il Po e che, localmente, preme per la soppressione della regione Trentino-Alto Adige e vuole che il Trentino sia escluso dalla candidatura alle Olimpiadi Invernali del 2022.

Il rischio che corriamo è quello di un ritorno al passato, addirittura ad un sistema neo-feudale su base etnica-sciovinista che si proponga come rimedio (falso) alle catastrofi prodotte dal neoliberismo (vere); cioè a dire, ad una ridotta alpina (Alpenfestung) in un’Europa unita di stampo “imperiale” (“Fortezza Europa” la chiamano i critici), tenuta insieme solo dalla bramosia di potere e risorse e dalla paura di ciò che sta fuori e di ciò che è sgusciato dentro (milioni di immigrati, molti di loro musulmani).  

Alcune citazioni aiuteranno a delineare meglio i contorni e la natura del problema.

Vergérus, “L’uovo del serpente”, di Ingmar Bergman:

Il mio esperimento è come un abbozzo di ciò che avverrà nei prossimi anni. Tuttavia nitido e preciso: proprio come l’interno dell’uovo di un serpente. Attraverso la sottile membrana esterna, si riesce a discernere il rettile già perfettamente formato.

Lucio Caracciolo (prefazione a “I confini dell’odio”, 1999):

In discussione non è la dimensione geopolitica, economica o demografica della mia, della vostra, o forse della nostra patria di domani. In gioco è il carattere delle sue istituzioni e della sua società civile. Prima di decidere pro o contro l’Europa – l’Europa delle nazioni, l’Europa delle Regioni, lo Stato europeo o l’Europa ineffabile ed esoterica degli europeisti – dobbiamo decidere per o contro la democrazia liberale. Il resto viene dopo.

La decisione, come abbiamo oramai capito, non è purtroppo così scontata.

Ho parlato di due fuochi.

Gustavo Zagrebelsky (“Simboli al potere”, 2012, pp. 89-90) descrive il primo fuoco:

Noi non sappiamo se la crisi attuale sia una di quelle cicliche che investono il mondo capitalistico, oppure se sia qualcosa di completamente nuovo, come nuove saranno le uscite. In ogni caso, ne constatiamo già gli effetti, più o meno evidenti, nella vita delle nazioni, i cui governi, da rappresentanti delle istanze popolari, decadono a strumenti amministrativi dell’ordine dell’economia finanziaria mondiale. Alla cementificazione del pensiero, all’espulsione delle alternative dal campo delle possibilità, all’omologazione delle aspirazioni, alla diffusione di modelli pervasivi di comportamento, di stili di vita e di status e sex symbol nelle società del nostro tempo, lavorano centri di ricerca, scuole di formazione, università degli affari, accademie, think-tanks, uffici di marketing politico e commerciale, in cui vivono e operano intellettuali e opinionisti che sono in realtà consulenti e propagandisti, consapevoli o inconsapevoli, ai quali la visibilità e il successo sono assicurati in misura proporzionale alla consonanza ideologica. La loro influenza sul pubblico è poi garantita dall’accesso a strumenti di diffusione capillari e altamente omologanti. Non è forse lì che, prima di tutto, si stabiliscono i confini simbolici del legittimo e dell’illegittimo, del pensabile e dell’impensabile, del desiderabile e del detestabile, del ragionevole e dell’irragionevole, del dicibile e dell’indicibile, del vivibile e dell’invivibile? Da qui provengono le forze simboliche potenti che, fino a ora, cercano di tenere insieme le nostre società….come in una religione, per di più monoteista.

Bruno Luverà (“Il razzismo del rispetto”, Una Città, 1999) descrive il secondo fuoco:

Nel nuovo regionalismo europeo ci sono due correnti: il regionalismo autonomista della Svp in Alto Adige o di Pujol in Catalogna, che hanno come idea-guida quella dell’autonomia dinamica, con l’acquisizione di sempre maggiori competenze per arrivare a forme forti di autogoverno, senza però che si arrivi a mettere in discussione la lealtà rispetto allo Stato nazionale, se non in una prospettiva lontana (per esempio, il diritto di autodeterminazione viene posto come valore, ma non se ne chiede l’esercizio immediato). L’altra corrente è quella, invece, micronazionalista, secondo la quale la regione diventa sinonimo di nazione, di piccola nazione, di piccola patria, e il richiamo alla regione serve per creare dei meccanismi di esclusione, serve per innalzare dei muri attorno a un luogo molto facile da controllare, potenzialmente più sicuro, in cui il criterio fondante la cittadinanza è quello dell’omogeneità etnica… La Baviera ha giocato fino in fondo la carta dell’Europa a due velocità perché questa poteva aprire scenari geopolitici interessanti. I quali, guarda caso, sarebbero andati nella direzione dell’Europa delle Regioni; l’Europa delle due velocità era uno scenario che poteva rimettere in discussione i confini.

Lucio Caracciolo, in un dibattito con Enrico Letta (Caracciolo/Letta, 2010, p. 22), illustra il punto di contatto tra i due fuochi: la distruzione del progetto europeo pluralista, democratico e liberal-socialista e degli stessi stati-nazione che lo compongono, attraverso la creazione di un’Europa a due velocità:

L’attuale crisi economica, che è sempre più una crisi sociale, rischia poi di mettere in questione il senso concreto degli Stati nazionali, a cominciare dal nostro. Quando i tedeschi riscoprono l’Euronucleo come insieme riservato ai Paesi connessi all’economia e alla cultura monetaria germanica, constatiamo che ne risulta rafforzata la tesi «padana» per cui il Nord Italia pertiene a questo spazio, il Sud niente affatto. […]. Se davvero si costituisse un Euronucleo paracarolingio, forse ne saremmo esclusi. In tal caso metteremmo a rischio l’unità nazionale. Perché se il criterio di quel nucleo è l’appartenenza alla sfera economica tedesca, fino a Verona ci siamo, più a sud molto meno. Bossi avrebbe buon gioco a rispolverare i suoi argomenti secessionisti. Per la Lega l’Euronucleo tornerebbe a rivelarsi la leva per dividere l’Italia, non per unire l’Europa.

Zbigniew Brzezinski, architetto della politica estera statunitense in Eurasia dagli anni Settanta, mentore del giovane Obama e co-fondatore con David Rockefeller della Commissione Trilaterale, ha espresso la sua approvazione per questo genere di sviluppo, che si integra perfettamente nelle strategie della NATO (Christian Science Monitor, 24 gennaio 2012):

Io credo che, alla fine, la risoluzione della crisi odierna in Europa non funzionerà poi tanto male…Inevitabilmente, una vera unione politica prenderà gradualmente forma, all’inizio probabilmente attraverso un trattato di fatto, che sarà raggiunto con un accordo intergovernativo nel prossimo futuro. Sarà un’Europa a due velocità. Non c’è niente di male in un’Europa che è in parte e contemporaneamente un’unione politica e monetaria nel suo nucleo centrale e che accetta di essere diretta da Bruxelles, circondata da un’Europa più ampia che non fa parte dell’eurozona ma condivide tutti gli altri vantaggi dell’Unione, per esempio la libera circolazione delle persone e delle merci. È un progetto in linea con la visione post-Guerra Fredda di un’Europa in espansione, unita e libera.

Questo è un progetto che piace molto alle fondazioni e think tank neoliberisti e che potenzierebbe a dismisura le spinte secessioniste nei paesi relegati in “serie B”. Catalogna, Paesi Baschi, Scozia, Alto Adige e “Padania” difficilmente tollererebbero l’esclusione.

In un’intervista per il Corriere della Sera (“Ispiratevi alle città del Rinascimento”, 14 luglio 2012), Marcia Christoff Kurapovna, sfegatata paladina del neoliberismo residente a Vienna, ha perciò esortato la Grecia e l’Italia a seguire l’esempio jugoslavo, smembrandosi in piccoli staterelli sul modello dell’Alto Adige/Sudtirolo. Ha sorvolato però sul dettaglio che tali micro-entità sarebbero istantaneamente e completamente alla mercé dei mercati, delle oligarchie finanziarie, delle multinazionali.

Esaminiamo dunque questo progetto di uno Stato Libero del Sudtirolo.

Il politologo Günther Pallaver, intervistato nel febbraio del 2009 da Gabriele Di Luca, in vista di un dibattito pubblico sul tema “Stato libero: una visione” ha dichiarato, in modo piuttosto perentorio:

Chi rivendica il diritto all’autodeterminazione sottolinea in continuazione che gli italiani – in uno Stato autonomo o nell’ambito dello Stato austriaco – sarebbero tutelati come lo sono i tedeschi in Italia. Ciò significa che la tutela attuale non può essere poi così male. Ma se penso a come l’Austria tutela le sue minoranze, allora il mio scetticismo si acuisce. Basta dare uno sguardo alla Carinzia, dove vive la minoranza slovena. Confesso che in uno Stato sovrano avrei paura del nazionalismo tedesco, dei suoi impulsi vendicativi. Solo fino a pochi anni fa gli Schützen dichiaravano che gli italiani sono solo ospiti in questa terra, un’assurdità che contrasta con i diritti fondamentali dell’uomo, poiché ogni cittadino dell’Unione Europea ha il diritto di residenza in tutti i suoi Stati membri. Preferisco dunque le certezze di oggi: garanzie costituzionali e internazionali e una cultura politica europea di democrazia e tolleranza. Alle promesse di un radioso futuro preferisco le sicurezze del presente.

I Freiheitlichen hanno commissionato la stesura della bozza di una possibile costituzione per lo Stato Libero del Sudtirolo. Tale bozza corrobora i timori di Pallaver, stabilendo che lo strumento referendario consentirebbe di emendare la costituzione: il che introduce la prospettiva di una tirannia della maggioranza che stravolga quegli articoli che tutelano i diritti civili di chiunque risieda in Alto Adige – in primis gli immigrati, che non sono particolarmente ben visti –, lasciando intatti quelli più problematici, come quello che consente ai ladini veneti di chiedere l’annessione al nuovo stato, generando ulteriori tensioni con l’Italia e quello che sancisce il diritto per ogni gruppo etnolinguistico di difendere la propria identità, aprendo la strada ad ogni possibile interpretazione. Infatti, molti si ricorderanno della famosa vicenda della rana verde che stringe un boccale di birra ed un uovo tra le zampe, autoritratto dell’artista Martin Kippenberger, torturato dall’alcolismo, la sua croce. Fu esposta al Museion di Bolzano e scatenò la furia di una parte della popolazione locale. Il presidente del Consiglio Regionale, Franz Pahl, arrivò a dire che “la Rana è un oltraggio alla nostra cultura. Se continueremo di questo passo arriveremo alla totale anarchia”. Ora, al di là del fatto che la stessa destra che mandava gli Schützen a presidiare l’accesso al Museion ora bolla come primitivi i musulmani che si sentono ingiuriati da una pellicola trash che ritrae Maometto come un pedofilo-stupratore-pappone-sterminatore, questa è una dichiarazione che esplicita la bizzarra credenza che non insegnare ai bambini la (presunta) verità di una particolare religione equivalga ad educarli al nichilismo. Bizzarra perché c’è da augurarsi che molti concordino nel dire che la fonte più affidabile per una condotta autenticamente morale è imparare a metterci nei panni degli altri – pur tenendo conto dei loro gusti. Chiunque dovrebbe essere in grado di farlo, ma sono proprio le militanze ed identificazioni forti (incluso l’ateismo) ad essere di grave ostacolo. Pichler-Rolle, il presidente del partito di governo in Alto Adige, l’SVP, chiese la rimozione dell’opera perché “troppi sudtirolesi si sono sentiti feriti nei loro sentimenti religiosi”.

Gustavo Zagrebelsky (“Simboli al potere”, 2012,  p. 45) ci ragguaglia rispetto al potere dei simboli ed alla necessità di democratizzarli:

“Il simbolo che non è di tutti, ma è solo di qualcuno, cessa di essere simbolo e diventa diabolo. Viene meno ai suoi compiti d’unificazione, di diffusione di sicurezza e di promozione di speranza…Se qualcuno se ne impadronisce, governandone i contenuti, inculcandoli come propaganda o come pubblicità nella testa degli altri, facendone così strumento di governo e di dominio delle coscienze, il simbolo cambia natura…Il simbolo-diabolo può diventare il diapason del potere totalitario.

Chi controlla certi simboli controlla le coscienze attratte da tali simboli; può così dominare intere nazioni (pensiamo ad Hitler, alla swastika, all’Ariano) e magari perfino interi pianeti.

Quel che vogliono i Freiheitlichen è, molto semplicemente, una piccola fortezza, una ridotta alpina, all’interno della Fortezza Europa.

Proprio sul tema delle fortezze in Alto Adige e della loro vacuità, la celebre scrittrice indiana Arundhati Roy ha qualcosa da dire (da “The Briefing”, Manifesta 7, 2008):

Cosa custodivano qui, care compagne e compagni? Cosa difendevano? Armi. Oro. La civiltà stessa. Questo è ciò che dice la guida…Quando le ossa di pietra di questo leone di pietra saranno interrate nella terra inquinata, quando la Fortezza-che-non-è-mai-stata-attaccata sarà ridotta in macerie e la polvere delle macerie avrà formato dei cumuli, chissà che non nevichi di nuovo.

Per concludere, un intervento (Alto Adige, 25 luglio 2012) di Luigi Gallo, assessore alla Partecipazione, al Personale e ai Lavori Pubblici del comune di Bolzano, che va dritto al cuore del problema. Rispondendo a due lettori impregnati di luoghi comuni xenofobici, mostra il nesso tra i due fuochi, l’immigrazione e l’unica, concreta, attuabile soluzione ai nostri problemi, un autentico viatico verso un Mondo Nuovo:

I due lettori hanno sacrosanta ragione a lamentare una drammatica crisi economica che colpisce giovani, pensionati, lavoratori; ma dovrebbero rivolgere i propri strali verso altri bersagli; mentre loro guardano male il carrello della spesa del vicino immigrato o notano con invidia la marca della sua auto di “seconda mano”, qualche decina di speculatori a livello mondiale – con un clic sulla tastiera di un computer – guadagna miliardi di euro con operazioni di Borsa che mandano sul lastrico interi paesi, Italia compresa; le conseguenze sono poi che i governi di quei paesi devono tagliare gli ospedali, le scuole e le pensioni per risparmiare e pagare interessi astronomici sui titoli di stato. Forse i due lettori potrebbero prendersela con queste politiche economiche che tagliano pensioni e diritti del lavoro mentre gli evasori fiscali rimangono salvi. Certo, è più facile guardare il vicino di casa che viene dal Marocco o dal Pakistan e pensare che sia colpa sua, ma non è così. Piaccia o meno, semplicemente non è così. Avete tante ragioni cari signori ma la guerra fra poveri serve solo a distruggere la solidarietà fra le persone e a far ridere “quelli in alto, ma molto in alto” che decidono la nostra vita. Sta a voi decidere da che parte stare

Simboli e maschere del potere, simboli di resistenza ed emancipazione

 

 

 

Attraversando il segno simbolico, si dischiude una dimensione supra-sensibile e supra-razionale dove gli esseri umani incontrano un mondo che è per loro realtà, come il divino e il diabolico, l’infinitamente grande o l’infinitamente piccolo, l’infinitamente alto o l’infinitamente profondo, la giustizia e l’ingiustizia, l’ordine e il caos, il potere e l’arbitrio, l’amore e l’odio, l’unione e la divisione, il puro e l’impuro, la riscossa e la rassegnazione, la pace e la guerra: realtà anch’essere, per chi le percepisce, le desidera o le teme, pur se appartenenti ad un altro “ordine di realtà” rispetto a quelle empiriche e razionali

Gustavo Zagrebelsky, “Simboli al potere”

Nelle democrazie ci sono molti che vorrebbero vedere il sopravvento di un mito chiuso. Alcuni sono isterici, come i membri della John Birch Society che vorrebbero imporre a tutti il loro mito della “way of life” americana, o come il querulo teutonismo che una generazione fa accolse con entusiasmo la formulazione della mitologia chiusa nazista del “Mito del ventesimo secolo” di Alfred Rosenberg….Poi ci sono gli intellettuali nostalgici, generalmente con forti tendenze religiose, che sono abbagliati dall’unità delle cultura medievale e vorrebbero assistere a una sorta di “ritorno” ad essa. Poi vengono le persone che sarebbero ben felici di far parte di quella sorta di élite che un mito chiuso produrrebbe. E ancora, ci sono gli individui che credono sinceramente nella democrazia e sono dell’opinione che la democrazia sia svantaggiata dal fatto di non avere un programma chiaro e indiscusso delle proprie credenze. Ma la democrazia difficilmente funziona come un mito chiuso…Una mitologia aperta non può avere un canone.

Northrop Frye, “Cultura e miti del nostro tempo”

Il grande antropologo statunitense Eric R. Wolf (1923 – 1999) esortava i colleghi ad “esplorare il nesso tra idee e potere”, ad esaminare il modo in cui “le idee divengono monopolio dei gruppi di potere” e come “le vecchie idee sono riformulate alla luce della diversità di contesto, mentre le nuove idee sono presentate come verità ancestrali”. Per capire la storia ed il presente di una società, bisogna prima di tutto comprendere le conseguenze dell’esercizio del potere ed analizzare l’intersezione di cultura e potere nella storia del presente.

C’è un’antropologia superficiale, postmodernista e patinata, à la Clifford Geertz, che studia la società balinese e si “dimentica” di menzionare la dittatura di Suharto. Poi c’è un’antropologia più profonda che non si riduce a contemplare estaticamente, astrattamente ed imperturbabilmente il caleidoscopio culturale, ma cerca spiegazioni concrete. Ogni simbolismo può nascondere, e spesso nasconde, una relazione di potere, ossia una sperequazione nella distribuzione del potere. La cultura ufficiale è anche una strategia per la preservazione dell’ordine costituito, ossia di una struttura di potere. Insomma, ogni cultura è un’ideologia ed un insieme di relazioni dialettiche di potere in un dato momento ed in un determinato luogo e la società non è quasi mai lo specchio di una cultura, ma solo l’espressione di una dimensione di quella cultura che fa comodo a chi detiene il potere. Si inventa o si ingigantisce una specificità antropologica che puntella lo status quo e la si trasforma nella chiave di lettura di un certo popolo. Il mascheramento del potere dietro una cortina fumogena di tradizioni inventate è una delle piaghe della società umana da quando esistono le organizzazioni complesse (Wolf, 1974; Wolf, 1999; Wolf/Silverman 1999).

La verità è, invece, che nessuna persona può entrare due volte nello stesso fiume. Nazioni e culture sono in costante flusso, non esistono e non sono mai esistiti sistemi isolati, puri, autentici, ecc. Il futuro è aperto, il passato è una costruzione, il presente è una convenzione. L’unica costante nella storia delle società umane è il rapporto di potere: al mondo ci saranno sempre persone che hanno più potere di altre. Questi rapporti di potere acquistano una forma simbolica, perché gli Homo Sapiens sono l’unico ominide pienamente simbolico, anzi impregnato di simbolismi, incapace di esistere senza il pensiero simbolico e, allo stesso tempo, rivelano un decisivo quanto misterioso legame tra capacità simbolica e quello che è il fondamento della condotta morale, ossia l’empatia (Tattersall, 2012). Ogni essere vivente è unico e prezioso ma, come osservava il celebre genetista e biologo evolutivo Theodosius Dobzhansky, con un riuscito gioco di parole, “ogni specie vivente è unica, ma la specie umana è la più unica”. E ciò che ci rende più unici degli altri è la nostra capacità di rimodellare il mondo nella nostra mente. Possiamo immaginare mondi nuovi, inesistenti, dissolvere la realtà in vocaboli e simboli e ricombinarla in nuove fogge. Non sappiamo come e perché abbiamo acquisito questa capacità, ma il risultato è che non v’è alcuna natura umana al di fuori della cultura. Nel suo percorso evolutivo la nostra specie ha completato una transizione essenziale, dal corpo alla mente: le prodezze della nostra mente trascendono largamente il nostro DNA e, in parte, la nostra corporeità. Esistono certamente numerosi istinti innati, ma la nostra specie, unica fra tutte, non deve per forza sottostarvi.La fisicità ci è di ostacolo, viviamo in un corpo e questo corpo plasma e limita la nostra comprensione della realtà, ma possiamo impiegare metafore ed archetipi che ricapitolano universi di significato troppo estesi per essere metabolizzati dalle nostre menti.

Come le api sono nate per fare il miele ed i castori per costruire dighe, gli esseri umani sono nati per trasmutare simbolicamente tutto ciò che li circonda, dalla carità spontanea del Buon Samaritano ai raduni di massa dei totalitarismi. Sono fatti per attingere al sublime, ma anche per cadere nella trappola dei miti politicizzati (Fait/Fattor 2010). È quello che sta accadendo a tutti noi, negli attuali frangenti, ed è bene che ci rendiamo tutti conto di quale sia la posta in gioco e che occorre rimboccarsi le maniche per costruire al più presto un’alternativa sostenibile ed umana. Gustavo Zagrebelsky (“Simboli al potere”, 2012, pp. 89-90) riesce, in poche righe, a definire con estrema precisione la questione centrale del nostro tempo, delle nostre esistenze, ma anche la direzione che dovremmo prendere (ma si veda anche la missione emancipatrice di Parnassus e la sua interpretazione simbolico-esoterica):

“Noi non sappiamo se la crisi attuale sia una di quelle cicliche che investono il mondo capitalistico, oppure se sia qualcosa di completamente nuovo, come nuove saranno le uscite. In ogni caso, ne constatiamo già gli effetti, più o meno evidenti, nella vita delle nazioni, i cui governi, da rappresentanti delle istanze popolari, decadono a strumenti amministrativi dell’ordine dell’economia finanziaria mondiale. Alla cementificazione del pensiero, all’espulsione delle alternative dal campo delle possibilità, all’omologazione delle aspirazioni, alla diffusione di modelli pervasivi di comportamento, di stili di vita e di status e sex symbol nelle società del nostro tempo, lavorano centri di ricerca, scuole di formazione, università degli affari, accademie, think-tanks, uffici di marketing politico e commerciale, in cui vivono e operano intellettuali e opinionisti che sono in realtà consulenti e propagandisti, consapevoli o inconsapevoli, ai quali la visibilità e il successo sono assicurati in misura proporzionale alla consonanza ideologica. La loro influenza sul pubblico è poi garantita dall’accesso a strumenti di diffusione capillari e altamente omologanti. Non è forse lì che, prima di tutto, si stabiliscono i confini simbolici del legittimo e dell’illegittimo, del pensabile e dell’impensabile, del desiderabile e del detestabile, del ragionevole e dell’irragionevole, del dicibile e dell’indicibile? Del vivibile e dell’invivibile? Da qui provengono le forze simboliche potenti che, fino a ora, cercano di tenere insieme le nostre società….come in una religione, per di più monoteista. Ma a quale prezzo? A un prezzo molto elevato: il sacrificio della politica. La politica non può essere il luogo di decisioni solo esecutive. Se così fosse, non sarebbe politica, bensì tecnica. La politica è, per definizione, il luogo delle possibilità e delle scelte tra le possibilità, aperto al futuro. Se le possibilità, al plurale, scomparissero per lasciare il posto a un’unica grande possibilità, cioè alla necessità, avente come alternativa soltanto la catastrofe, allora avremmo fatto un passo decisivo all’indietro, perdendo la nostra libertà politica. Perché dovrebbero esistere allora partiti politici, movimenti social, ideali, visioni del mondo? Tutto ciò che si distacca dall’unico pensiero conforme al mondo che si è dato sarebbe solo devianza. Ma proprio qui, nella crisi di questo mondo, un mondo che sembra comprendere se stesso solo come “eterno presente” e che, quando cade, cerca di rimettersi in piedi tale e quale e a tutti i costi, semplicemente ricomponendosi, ricominciando da capo, come se null’altro fosse concepibile e possibile, si apre all’intelligenza politica il campo per l’assunzione delle sue responsabilità di fronte al dovere della libertà…incominciando – come è avvenuto e avverrà sempre in tutte le grandi trasformazioni – a lavorare dal basso sulle coscienze, con la potenza del simbolo, nella sua versione liberatrice, per interpretare bisogni ed aspirazioni, attrarre forze, produrre concretamente fiducia in vista di un futuro che non sia semplice ripetizione del presente“.

 

 

La pace per gli Irochesi e per i Fanes (Dolomiti)

Non riconoscendo l’altro come altro, per respingerlo nell’insignificanza o per dominarlo o assimilarlo, l’uomo ha inibito la propria crescita, ha sacralizzato la propria parzialità

Ernesto Balducci, “La terra del tramonto”

A questa brama d’integrità, che ci prende nel momento in cui ci imbattiamo in ciò che ci manca e ci mette di fronte alla nostra imperfezione, diamo il nome di eros, amore…due parti, due parzialità o incompletezze, che si cercano per combaciare e congiungersi in totalità e completezza.

Gustavo Zagrebelsky, “Simboli al potere”

L’idea della congiunzione degli opposti – la coincidentia oppositorum che accomuna tanto il pensiero di Jung quanto quello di Eliade alla tradizione orientale e al pensiero mistico – non solo anima una più vasta concezione dell’essere umano in quanto unità psico-soma e unità microcosmo-macrocosmo ma diventa anche uno dei motivi che ritornano con forza all’interno della cultura del Novecento, sia come forza di un archetipo che si impone autonomamente, sia come fascinazione di un’idea che permette di riscoprire e attivare l’archetipo operante in ogni individuo.

Aldo Carotenuto, “Jung e la cultura del XX secolo”

Tutte le culture mitologiche testimoniano un particolare interesse per il fenomeno dei gemelli, qualunque sia la forma sotto la quale vengono descritti: perfettamente simmetrici oppure uno scuro e l’altro luminoso, l’uno teso verso il cielo e l’altro verso la terra, l’uno bianco e l’altro nero. Nella mitologia celtica sono il giorno e la notte, il sole e la luna e rappresentano le tensioni interne dell’uomo, l’ambivalenza dell’universo mitico e le tensioni per adeguarvisi.  […] la paura per i gemelli è la paura…dell’immagine esteriore della propria ambivalenza, la paura della oggettivazione, delle analogie e delle differenze, della individuazione e della indifferenziazione collettiva. Dolasilla e Lujanta, le due gemelle dei Fanes, sono il sole e la luna. Il loro contrasto viene risolto con l’allontanamento di Lujanta, la gemella lunare, rapida dalle marmotte. Dolasilla, la gemella solare, assurgerà invece alla regalità e alla guida del popolo. […]. Tutto il poema è un connubio tra sacralità e violenza, come presupposto della rotazione universale. […]. Il tempo ciclico viene rappresentato, nel racconto, dalla ritualità: l’anno vecchio e l’anno nuovo, l’estate e l’inverno, la pioggia e la siccità, i re e le regine, il bene e il male, si scontrano in battaglie che simboleggiano il loro avvicendarsi.

Brunamaria Dal Lago, “Il regno dei Fanes: racconto epico delle Dolomiti”

Sappiamo che le armi, in un mondo civile, non possono servire ad altro che a difendersi e che la forza è legittima solo se viene impiegata in conformità con il diritto e come ultimo ricorso. Lo sappiamo e ce lo continuiamo a ripetere ma, ogni due, tre anni spunta fuori una nuova guerra aggressiva ma “giusta” in qualche angolo del mondo a cui partecipare. Sono pochissimi quelli che ritengono che la schiavitù sia meglio della libertà e la guerra meglio della pace, ma la guerra e l’asservimento continuano ad esistere. Il nostro mondo ha già visto e subito abbastanza spargimenti di sangue, violenza e morte, eppure continuiamo a razionalizzarli come necessari. Siamo afflitti da una naturale predilezione per il conflitto e, più in genere, da gravi problemi relazionali. La nostra società è un incessante conflitto di ego singoli e collettivi (patrie, nazioni, razze, fedi, classi, generi, ecc.). La guerra è solo la condizione più estrema di questa nevrosi sociale che ci rende più agevole minacciare qualcuno, piuttosto che articolare delle parole gentili. Molti tra quelli che hanno provato ad indicarci la via sono stati uccisi: Rabin, Arafat, Martin Luther King, John Fitzgerald Kennedy, Robert Kennedy, Aldo Moro, Benazir Bhutto, Dag Hammarskjöld, Olof Palme. I quattro evangelisti canonici e Platone riferiscono che anche Gesù e Socrate sono stati messi a morte.

 Gli operatori di pace devono fronteggiare ostacoli a dir poco monumentali, che non possono essere ridotti alla semplice constatazione che l’umanità è egoista, aggressiva, competitiva e violenta.

Penso sia vano cercare di pacificare il mondo. Solo una tirannia globale ci riuscirebbe, sopprimendo chimicamente le emozioni umane, ossia ciò che ci rende speciali e degni di esistere e che rende la vita stessa degna di essere vissuta. Sono invece convinto che sia decisamente molto più realistico provvedere a fare in modo che le guerre si diradino, eleggendo i politici migliori, facendo buona informazione e sorvegliando l’operato delle oligarchie. Possiamo anche realisticamente mantenere una pace stabile in un’area più limitata, come la nostra regione alpina. Sono convinto che l’autogoverno locale rende più agevole la transizione verso un mondo in cui sia possibile, per citare JFK, “ritrarsi dall’ombra della guerra e cercare la via della pace”. Una ricerca infinita.

La problematica del potere, prima ancora che quella della natura umana, deve essere collocata al centro dell’analisi della guerra. Che si tratti di democrazie o di società autoritarie, è il potere centrale che decide delle sorti di una nazione e solo una cittadinanza consapevole, informata ed attiva – ossia che eserciti la sua sovranità costituzionalmente sancita, limitando l’autorità dei governanti – è in grado di indirizzare il paese verso la pace, in luogo della guerra. Nelle piccole comunità nessuno accumula così tanto potere da essere nella posizione di decidere autonomamente ed arbitrariamente se scatenare una guerra. Serve un vasto consenso che viene immediatamente sondato tramite un’assemblea straordinaria. Un leader guerrafondaio può essere rimosso (o addirittura soppresso). Nelle nazioni più grandi, invece, un governo può entrare in guerra senza chiedere il parere del parlamento ed ignorando le manifestazioni di protesta di milioni di cittadini (es. guerra in Iraq). Diceva, saggiamente, Hermann Göring (un mostro, ma con un cervello fuori del comune):

 “È ovvio che la gente non vuole la guerra. Perché mai un povero contadino dovrebbe voler rischiare la pelle in guerra, quando il vantaggio maggiore che può trarne è quello di tornare a casa tutto intero? Ma sono i capi che decidono la politica dei vari stati ed è sempre facile trascinarsi dietro il popolo. Basta dirgli che sta per essere attaccato e accusare i pacifisti di essere privi di spirito patriottico e di voler esporre il proprio paese al pericolo. Funziona sempre, in qualsiasi paese”.

Quel che ci manca è la conoscenza. Purtroppo siamo anche ignoranti e le persone ignoranti istituiscono sistemi sociali ignoranti perché è così che credono di dover operare. Le persone ignoranti eleggono politici inadatti al compito, si fidano ingenuamente delle autorità e non distinguono la propaganda dall’informazione legittima, convinte come sono che solo l’altra fazione mente e che loro stanno dalla parte del bene e della verità.

Il Grande Pacificatore era un disseminatore di conoscenza.

Un’epopea irochese narra di un Grande Pacificatore (Hiawatha) che arreca gaiwoh (equanimità, virtuosità), skenon (salute) e gashasdenshaa (forza, sovranità). Gaiwoh è la giustizia realizzata tra uomini e nazioni ma è anche l’aspirazione a vedere che la giustizia prevalga. È un desiderio più forte del piacere e del bisogno di avere ragione: è un tipo di amore. Skenon è chiarezza di intendimento e integrità fisica, due precondizioni per l’ottenimento della vera pace. Gashasdenshaa è l’autorità sostenuta dalla forza necessaria, una forza che dev’essere in armonia con le leggi universali. La società ideale è quella della casa comune in cui ciascuno ha il suo focolare, ma si convive sotto lo stesso tetto. Là il pensare rimpiazza l’uccidere.

Il Grande Pacificatore deve affrontare Atotarho, un capo malvagio ed antropofago, per convertirlo. Atotarho è come un ciclope – mangia gli ospiti che non sono stati invitati – ed assomiglia anche a Medusa: i suoi capelli sono un groviglio di serpenti e nessun uomo è in grado di guardarlo in faccia. Il suono della sua voce terrorizza l’intera regione. Ma senza di lui non si potrà assicurare la pace. Il Grande Pacificatore ce la fa con un trucco. Fa in modo che il suo volto si rifletta nell’acqua di un pentolone in cui il cattivo sta per preparare il suo pasto umano, cosicché Atotarho scambi il suo volto – saggio, forte e virtuoso – per il proprio e si renda conto della dissonanza tra un tale aspetto e la pratica del cannibalismo, ossia il culmine dell’egocentrismo, l’assimilazione integrale dell’altro da sé. Scioccato, Atotarho cade in depressione, ma il Grande Pacificatore lo aiuta: lo invita a seguirlo in ogni luogo in cui abbia commesso del male per predicare il nuovo verbo della pace come potere (Kayanerenhkowa). La chiave della conversione è la volontà di non imporre la verità o la spiritualità su chi non è pronto a riceverla. Atotarho diventa a sua volta un grande operatore di pace proprio in virtù della grandezza della sua forza interiore, che prima lo rendeva così malvagio e terrificante. Viene “sconfitto” e si converte quando in lui si risveglia la consapevolezza del potere dell’amore e della sapienza che è in lui. All’intensità della sua resistenza – non vuole sentire ragioni, non sono gli argomenti a persuaderlo – corrisponde l’intensità della sua bontà. In questa tradizione irochese il male degli uomini è bontà malindirizzata e malconcepita, malintesa, è amore che opera spinto da una paura sbagliata, uno sforzo equivocato nei mezzi e nelle finalità, uno spirito aggiogato ad un padrone disperato, energia umana sprecata, guastata e deviata dal suo corso migliore.

I popoli che gli Europei hanno considerato incivili intendevano la pace in modo molto diverso dal nostro, che corrisponde da vicino alla quiete che segue la vittoria di una fazione sull’altra. La loro pace era dinamica ed includeva tutte le forze della vita, nella natura e nell’uomo, compreso quello che chiamiamo “male”. Era una concezione inclusiva, non esclusiva: lotta, sofferenza, dolore, errori e stoltezze, passione, tenerezza, rabbia e sconfitta. Persino la guerra era inclusa nell’idea di pace, una guerra condotta in un certo modo e con certe motivazioni. L’assolutismo pacifista era completamente estraneo alla loro mentalità ed è un’invenzione della modernità occidentale. Vivere in pace significava accogliere la vita in tutti i suoi aspetti, le quattro direzioni cardinali, tutte le creature. Il contrario di questo significato della pace e della giustizia è quello che divide e separa le parti della realtà e le mantiene distinte, un moralismo che sminuisce l’interconnessione, l’interdipendenza della vita. Ci sono cose che vanno distrutte e persone che vanno uccise (es. Hitler/Stalin), ma non certo per plasmare il cosmo a nostro piacimento, bensì unicamente perché il cosmo si ricostituisca, per conto suo.

Gli antropologi hanno spesso notato che le comunità dei popoli “tradizionali” erano spesse bipartite in una metà bassa ed una alta, Terra e Cielo, estate e inverno, pace e guerra, femminile e maschile, legate da rapporti al tempo stesso di rivalità e di cooperazione ed accompagnate da una gestione duale dei poteri da parte di un capo civile e di uno religioso. Nell’ambito mitologico la bipartizione trova riscontro nel mito delle origini, che assegna a due eroi culturali, talora gemelli o comunque fratelli, il merito di aver fondato la comunità, mentre, nella concezione dell’universo, alla bipartizione del gruppo sociale corrisponde quella del resto dell’universo degli esseri e delle cose dell’universo, distinti ed aggregati per accoppiamento di opposti: Rosso e Bianco, Chiaro e Scuro, Giorno e Notte, Nord e Sud, Est ed Ovest, Cielo e Terra. Questo stesso aspetto è evidente anche in Cina, dove la polarizzazione yin-yang, che si manifesta già nelle realizzazioni artistiche di epoca shang, mostra la tensione verso una coincidentia oppositorum, una congiunzione che risulta evidente nell’iconografia che mostra gufi con occhi solari ed emblemi della luce adornati con simboli della notte e dell’oscurità, in modo da rappresentare la ciclicità del processo di alternanza tra le due manifestazioni cosmiche complementari.

In Grecia abbiamo Dioniso e Apollo, che varie raffigurazioni ritraggono come androgini. Lo spirito apollineo è razionale, formale, luminoso ed armonico, all’insegna misura e proporzione. Lo spirito dionisiaco è estatico, creativo, oscuro, all’insegna della passione sensuale. Eros e Thanatos, l’impulso creativo e l’impulso entropico/distruttivo (anche autodistruttivo). Empedocle insegnava che l’universo è in costante metamorfosi, si genera e decade, grazie a Amore e Discordia/Odio, che operano in tutto ciò che è animato e in tutto ciò che è inanimato. Eros unisce tutte le forme di vita e Thanatos le separa e le disperde. Composizione e decomposizione sono forze di eguale intensità, eterne e mescolate in ugual misura in tutte le cose, in un’interazione necessaria.

Gesù il Cristo è un maestro delle contraddizioni, delle antinomie. Esaminiamo alcune delle sue parabole. Buon Samaritano: il “degenerato” è un giusto, il “giusto” è un degenerato. Vignaioli: i primi saranno gli ultimi, gli ultimi saranno i primi. Figliol Prodigo: il ribelle è festeggiato, l’obbediente si ribella. L’esattore delle tasse e i farisei: il peccatore è salvato, il salvato è peccatore. Il seminatore: l’abbondanza di semi non garantisce una buona mietitura, pochi semi possono dare buoni frutti. Giudizio Finale: chi sembra celebrare il Cristo è invece servo dell’Anti-Cristo e chi è perseguitato è invece il vero credente. La pecora perduta: quella persa vale più delle 99 salvate.

Analogamente, il vangelo greco degli Egiziani, che è databile tra la fine del I secolo e la metà del secondo secolo a.C., descrive il modo in cui sarà possibile avere accesso al Regno di Dio: “quando quei due (maschio e femmina) saranno uno solo, nell’esterno come nell’interno, e il maschio con la femmina non sarà né maschio né femmina”. La Seconda lettera di Clemente recita: “interrogato da qualcuno su quando verrà il Regno, il Signore stesso rispose: “quando i due saranno uno, il fuori come il dentro e il maschio con la femmina né maschio né femmina”.

Anche nei vangeli canonici la riconciliazione degli opposti è implicita nella risposta di Gesù agli apostoli che gli chiedono cosa si debba fare per assicurarsi un posto nel Regno dei Cieli: “Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli”. (Matteo 18, 2-4). Come pure negli effetti della gloria: “E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; io in loro, e tu in me; acciocché siano perfetti nell’unità” (Giovanni, 17:22-23). Paolo di Tarso esprime una posizione assolutamente conforme: “Non c’è qui né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina; poiché voi tutti siete uno in Cristo Gesù” (Galati 3, 28). Che riafferma in una diversa epistola (Colossesi, 3, 8-11): “Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca. Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti”.

La contrapposizione tra creazione/entropia, ordine/caos, spirito/materia, coscienza/sonno, forza centrifuga/forza centripeta, libertà/controllo è necessaria e bilanciata. Ibn al-Arabi insegna che l’imperfezione deve esistere perché, se non ci fosse, la perfezione dell’esistenza sarebbe imperfetta; se non ci fosse mancanza, non ci sarebbe creazione. Non c’è luce senza oscurità, non c’è verità senza errore, non c’è bianco senza nero. Un’interdipendenza immortalata dalla mitologia mondiale che parla di due gemelli, uno buono ed uno malvagio– lo si trova tra i cristiani ebioniti, in Lattanzio (il “Cicerone cristiano”), nella Cabala, in Jacob Boehme, tra i nativi americani, nei simboli zodiacali dei pesci e dei gemelli: Baldur e Loki, Osiride e Set, Enki ed Enlil, Apollo e Dioniso e così via.

L’epica dei Fanes, riesumata dalla memoria storica ladina e pubblicata da Brunamaria Dal Lago Veneri, offre ulteriori spunti relativi al motivo della riconciliazione degli opposti. Il giornalista e scrittore Enrico Groppali, nella sua introduzione, sottolinea (p. 6) che “il poema si fonda sul principio-cardine della specularità, se non addirittura della gemellarità…Così la regina partorisce due gemelle: Lujanta, luminosa come la luna, che sprofonderà nel regno sotterraneo delle Marmotte, e Dolasilla, incarnazione araldica del sole, che sarà destinata alla lotta, alla sopraffazione, alla conquista…le forze del bene sono parafrasate in un guerriero che si chiama “Ey de Net” (occhio della notte) perché è in grado di scorgere, attraverso le tenebre, la luce della coscienza”.

La strega Tcicuta, una specie di Circe, avverte l’eroe Duranno (Dal Lago Veneri, 1989, p. 62): “La tua Dolasilla ha avuto già più volte i suoi ammonimenti, ma non pare farci caso. Lei, figlia delle marmotte, si è fatta aquila. Camminerà e inciamperà sulla via del potere, invece di scegliere la via dell’amore. E tu, da principe, ti farai servo. Anche questo era stato detto”. Il campo di papaveri intona allora un mesto canto: “Che guerriero sei tu mai? Diventerai quello che desideri. Solo un portatore di scudo e servirai la tua dea fino alla sua morte”. Duranno è un eroe che sa mettersi al servizio del prossimo, un vero altruista, qualcuno che si sente indebitato, non creditore nei confronti del mondo, qualcuno che sa che il miglior servizio per se stessi è quello di servire gli altri e che se tutti facessero così la violenza si sopirebbe e la pace regnerebbe. Si fa “donna” (umile portascudo), mentre la sua donna si fa “uomo”, glorioso eroe guerriero. Dolasilla sa bene che la sua parabola sarebbe coincisa con quella del Regno dei Fanes: alla sua maggior gloria sarebbe succeduta la rovina e la morte. Se ne duole (p. 78): “sono fra le donne la più sfortunata. Vivo da uomo, questo è il mio destino, vado in guerra da guerriera e porto morte invece di aiuto”. Il re traditore, intossicato dalla brama di possesso insoddisfatta, dalla sua hybris, si sfoga con guerre di conquista, ma scopre che il momento del suo trionfo coincide con quello della sua rovina. Lo aveva previsto la strega Tcicuta. Il Regno dei Fanes era spacciato, il suo imperialismo lo aveva condannato all’oblio. Il suo futuro non era più aperto, era già scritto: i possibili scenari alternativi si erano ridotti ad uno solo, la distruzione.

Tcicuta spiega a Duranno/Ey de Net: “non lasciarti ingannare nobile Duranno, il regno dei Fanes è condannato e tu niente potrai fare per salvarlo. Le parole sono state pronunciate. Il re desidera solo il potere e per lui è troppo tardi”. Infatti, dopo la vittoria, i suoi alleati, nemici dei Fanes, lo irridono: “Re senza trono, falso re, non possiedi più né terre, né corona. Tua figlia splendida eroina, hai mandato a morte con l’inganno”. La sua sorte è quella di essere impietrito, nell’angoscia, ma anche fisicamente: il suo corpo si tramuta in pietra: “Il falso rege, il re straniero, è condannato alla pietrificazione. Pietrificare significa punire per uno sguardo illecito. È la punizione dell’umana incontinenza e dei desideri di potere sul mondo della conoscenza. Il re è punito non solo per aver abbandonato i Fanes, ma soprattutto per aver desiderato l’Aurona”, spiega Dal Lago Veneri (pp. 94-95).

U’ulteriore manifestazione della tensione tra gli opposti è esemplificata dai nomi dei tre figli del re di Contrin, chiamati rispettivamente il Bello, il Grande e il Forte, anche se sono pigri, vigliacchi e libertini. Incapaci di difendere il regno, gli assalitori Trusani non ne lasciano pietra su pietra.

Un figlio adottivo del re di Contrin, Lidsanel, l’eletto che dovrà restaurare la grandezza dei Fanes, finisce per sgozzare l’altro figlio adottivo, petulante ed invidioso, e viene esiliato. Da principe si riduce alla condizione massimamente infima di brigante (p. 119): “La grandezza degli Arimanni s’è perduta: dal coraggio si è passati alla sfrontatezza. E gli Arimanni antichi sono occhi chiamati Latrones. Sulle vette oscure, nel buio le lingue di fiamma danzano ancora la danza della morte. Questi sono i gloriosi campi bagnati dal sangue della nostra gente. Tutto, tutto è ormai perduto”. L’ex principe viene ribattezzato Cafusc, Capo Fosco e si crede una sorta di Robin Hood: “Cafusc, Cafusc, così nero eppure bianco come l’onore appena nato. Cafusc disperde i nemici come il falco gli armenti, Cafusc uccide il re e dà da mangiare alle genti”. Ma diventa un incrocio tra Don Chisciotte, l’Orlando Furioso e un volgare vandalo. Preso da un insano furore, improvvisa duelli e tenzoni con gli alberi e gli animali del bosco: “Chi vi ha concesso, stolti, di sfidarmi nel mio stesso territorio”, grida furiosamente agli alberi. Poi insegue i cervi urlando: “voi barbari, nudi, rivestiti solo del vostro pelo, non sapete che sono un re difeso da mille guerrieri?”. Gli animali fuggono e Cafusc gli grida dietro: “che razza di principi siete se non conoscete che la fuga. Ognuno di voi mi dia un pegno – tu la mano, tu il piede”. Con queste terribili parole cavalca nei boschi, mutila animali e piante, istiga un suo immaginario seguito alla battaglia e alla vendetta: “Dietro di me, miei prodi, avanti nella battaglia, uccidiamo tutti”. Da salvatore designato dei Fanes a mostro psicopatico e dissennato.

Proprio la sua follia, però, lo riscatta. Salva un guerriero, Tarlui, dai suoi assalitori, convinti che sia davvero alla testa di un manipolo di seguaci. Il guerriero lo riconosce, si ricorda del suo destino e dice ai suoi pastori: “Abbiate fiducia in questo uomo. Anche se è stato bandito diverrà pastore, perché così è scritto” (p. 124). L’antica runa recitava: “Lidsanel Lidsanel da re ti sei fatto bandito e poi pastore di pecore cosa ancora riserverà il tuo destino?”.

Dal Lago Veneri descrive il guerriero Tarlui om Tyr: “signore delle battaglie, è nume tutelare della giusta vittoria. Non è il signore dello scontro sanguinario, della violenza esasperata, dell’efferatezza bellica, ma il protettore della guerra intesa come soluzione estrema della contesa fra due parti. Dio della guerra, dunque, ma anche dio del diritto” (p. 150). Tarlui, “amante più della falce che della spada”, è un guerriero di professione, ma diventa il fondatore di una comunità di pace e di giustizia. L’ennesima dimostrazione del fatto che “tutto il poema è un connubio tra sacralità e violenza, come presupposto della rotazione universale. […]. Il tempo ciclico viene rappresentato, nel racconto, dalla ritualità: l’anno vecchio e l’anno nuovo, l’estate e l’inverno, la pioggia e la siccità, i re e le regine, il bene e il male, si scontrano in battaglie che simboleggiano il loro avvicendarsi” (p. 154).

Esiste una diffusione planetaria e trans-temporale di riti e miti riguardanti la ricomposizione unitaria della coppia binaria, indice del riconoscimento universale dell’importanza del principio della coincidenza degli opposti. Apprendiamo che le parti sono in equilibrio, si incontrano e fondono agli estremi, due metà di un cerchio. Nel punto di congiunzione dei semicerchi si crea un perfetto equilibrio. Senza una metà non c’è l’altra, senza oscurità non c’è luce, in un grande ciclo naturale, che è pure pedagogico. Apprendiamo che l’equilibrio è naturale. Una parte della creazione procede verso lo squilibrio (che considera equilibrio) e l’altra verso l’equilibrio: assieme generano un equilibrio dinamico. Le forze opposte nella natura si incontrano ed il risultato può essere una polarizzazione in un senso o nell’altro, oppure si può raggiungere un equilibrio simmetrico, o un equilibrio parziale su un versante o sull’altro. Ogni potenziale si realizza nei punti di intersezione. Tutto è parte dell’equilibrio che compone ciò che chiamiamo Universo, o Creazione.

Non è che il bene e il male non esistono. Il Male è dolore e timore insensati, brutali, crudeli, futili perché irredimibili, lo spreco di vita, l’ingiustizia titanica, la rabbia sorda e violenta. Il punto è che sono interdipendenti. Ciò che è oggettivamente buono è la realtà nella sua interezza e ciò che è oggettivamente cattivo è la sua frammentazione. Ciò che alla mente ordinaria appare come opposizione, contrasto e contraddizione è un’unità trascendente, la riconciliazione dei contrari interconnessi, chiamata coincidentia oppositorum. Pace e giustizia discendono da tale comprensione. La vita è una relazione misteriosa ed intima tra forze opposte e la legge dovrebbe essere ciò che preserva questa relazione e, nel farlo, il dinamismo della vita. La Caduta è l’illusione che i contrari si escludono a vicenda.

Gli integralismi, i fanatismi diffondono l’idea che ci sia una parte della natura umana che deve essere distrutta, senza che sia possibile ricostituire l’unità fondamentale dell’essere. Questo male nasce proprio dalla scelta umana di escludere le forze del “male” dalla nostra vita e dalla nostra mente consapevole. Quando questo male viene isolato, cresce fino a distruggere un bene che, innaturalmente separato, è indifeso. Da qui scaturiscono il razzismo, il segregazionismo, la guerra sterminatrice, la pulizia etnica, il genocidio e tutto l’orrore di cui siamo capaci.

La pace non è dunque un qualcosa di passivo, non è assenza di conflitto, ma una forza che armonizza le azioni e gli impulsi della vita umana in tutte le loro molteplicità e contrasti. La forza che chiamiamo pace è, nell’universo e nell’individuo, una qualità della mente, un’energia cosciente. La pace fa da ponte tra due forze contrapposte. Il male è la forza che ostacola fatalmente l’azione della forza riconciliativa, la discesa della colomba, lo Spirito Santo, nella vita umana (Needleman, 2003). Satana deriva dall’ebraico satan che significa l’avversario. Il diavolo viene dal greco diabolos, “colui che divide” e significa l’accusatore, il diffamatore, il mentitore. Nella sua prima forma il demonio è uno strumento divino e serve delle sacre finalità. Per questo Gesù chiama Pietro “Satana” ma gli ordine di mettersi dietro di lui come discepolo – “va dietro a me, Satana”, in luogo di quella che è stata per lungo tempo l’errata traduzione “Lungi da me, satana!” (Matteo 16:23) –, quando Pietro dimostra di non aver capito il senso del suo messaggio. Che la Chiesa abbia scelto proprio “Satana” come suo fondatore è estremamente significativo.

Il gotha della letteratura, della filosofia e della religione mondiale – Blake, Jung, Goethe, Jacob Boehme, Meister Eckhart, Gesù, Paolo di Tarso, Socrate, Pitagora, Friedrich Schlegel, Shakespeare, Empedocle, taoismo, buddhismo, cabala, Honoré de Balzac, Ursula Le Guin, Victor Hugo, Heine, Emerson e molti altri – abbracciò questa cosmologia in cui il male è un tono discordante, una nota dissonante che arricchisce la sinfonia universale, in quanto il Grande Compositore sa come risolvere ogni dissonanza in una consonanza, ogni malevolenza e malefatta in armonia, per ispessire e conferire pregio alla trama dell’esistente. Nell’ambito terreno, personale, il senso di tutto questo è una filosofia dell’esistenza e della politica che non vuole costringere le persone a comportarsi in un dato modo, ma persuaderle gentilmente a migliorarsi con l’apprendimento, con la coltivazione delle facoltà intellettuali e spirituali per una partecipazione consapevole e critica alla vita propria e della comunità, smascherando menzogne e facendo evaporare illusioni. È la filosofia della libertà, non del rigore, e sta alla base della maieutica socratica, della predicazione di Gesù ma anche dell’idea di America (la maggior parte dei fondatori erano iniziati alla massoneria o, come è il caso di Jefferson, in stretti rapporti con massoni) e delle democrazie europee uscite dalla terribile esperienza del nazi-fascismo.

Gesù, il Grande Inquisitore e l’economia esoterica

Spread. Default. Fiscal compact. Spending review.

L’importante è che la gente non capisca nulla e continui a restare al suo posto.

Come proclamava il Grande Inquisitore di Dostoevskij (“I Fratelli Karamazov”): “Abbiamo corretto l’opera Tua [di Gesù] e l’abbiamo fondata sul miracolo, sul mistero e sull’autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere nuovamente condotti come un gregge e di vedersi infine tolto dal cuore un dono cosí terribile [la libertà], che aveva loro procurato tanti tormenti”.

Il Grande Inquisitore è il dominatore del nostro tempo, in ogni sfera della vita umana, e ci vuole sempre più simili a lui.

Gustavo Zagrebelsky, “Simboli al potere” (2012, pp. 29-30):

“Nei primi tempi, i tempi della clandestinità, non esisteva un simbolo dei cristiani, per così dire, ufficiale. Il più diffuso era il pesce, ma ci si riconosceva anche in altri segni, come l’ancora, la palma, la corona, l’albero (della vita), il vitigno, la nave, l’aratro, il pane, la fonte d’acqua viva, l’araba fenice. La croce era assente o, forse, dissimulata con ritegno. Come simbolo cosmogonico di religioni pagane e come strumento di tortura e di esecuzione capitale riservato agli schiavi ribelli e fuggitivi, proveniva da mondi non solo distanti, ma ostili alla nuova religione e testimoniava dell’inimicizia romana nei confronti del fondatore e dei suoi seguaci. Solo con l’avvicinamento e poi l’alleanza tra la nuova religione e l’impero nel IV secolo (il sogno di Costantino e la croce sulle armi dei suoi soldati; l’abolizione di quel tipo di patibolo da parte di Teodosio), il simbolo cristiano per eccellenza fa la sua comparsa nell’iconografia e, da simbolo di persecuzioni e umiliazioni subite, diventa simbolo di vittoria sul mondo. La croce, all’inizio, è nuda; il Cristo crocefisso non compare. Quando inizia a essere rappresentato, a partire dal V secolo, è raffigurato come il vivente per eccellenza, nella veste di Christus triumphans, con gli occhi aperti, lo sguardo diritto sul mondo e il volto glorioso nell’adempimento delle profezie. Era il simbolo di vittoria sulla sua morte e sui suoi persecutori e quindi, anche, di potenza mondana. A partire dal XII secolo, in concomitanza con l’assunzione di politiche aggressive di potenza da parte del mondo cristiano nei confronti degli “infedeli”, gli ebrei “deicidi” e i “mori” che dominavano in Terrasanta, l’aspetto del Cristo in croce cambia radicalmente e diventa il Christus patiens, col corpo ripiegato, il corpo contratto dalle sofferenze o irrigidito nella morte, un corpo che è in se stesso un’accusa e che sembra chiedere giustizia, cioè, in breve, vendetta. È questo il volto del Cristo sotto il quale saranno arruolati i crociati…Ancora questo era il Cristo in nome del quale i re cristiano conducevano guerre tra di loro e convertivano o sterminavano le popolazioni indigene al seguito dei colonizzatori europei. Espressione di aggressività popolana era il crocifisso che il prete fanatico portava in processione alla testa delle spedizioni punitive – i pogrom contro gli ebrei – negli shtetls dell’Europa centrale, come sono rappresentati nella Crocifissione bianca di Marc Chagall, dove all’ombra della croce bruciano villaggi. […]. Da simbolo di trionfo a simbolo di vendetta…a simbolo passivo, perché chiunque può fargli dire quello che vuole, come se fosse una marionetta…Dopo essere stato così secolarizzato, laicizzato, sociologicizzato, per poterlo comunque appendere nelle aule delle scuole e dei tribunali, lo si è addirittura zittito: simbolo muto che non simbolizza nulla, e quindi “inoffensivo” perché morto. Così ha stabilito la più alta giurisdizione europea dei diritti, precisando che non può perciò “indottrinare” nessuno. È stupefacente che il mondo cattolico, nelle sue istanze gerarchiche superiori, abbia gioito di questa sentenza, invece di considerarla oltraggiosa nei confronti del proprio segno più caro, nel quale è concentrata l’essenza della propria fede e del proprio messaggio…Il Cristo in croce resta dov’è, testimone esanime d’una controversia che ormai non lo riguarda, o meglio lo riguarda strumentalmente, come blasfema posta in gioco in una contesa apparentemente di simbologia religiosa, in realtà di puro potere”.

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