La Disputa – per il nostro futuro, per avere un futuro

 

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Juntas Valladolid

Nel 1550, l’anno in cui si svolse il confronto dialettico con Sepúlveda, Las Casas aveva 66 anni. Le opinioni erano divise e il re convocò alla corte di Valladolid una giunta di teologi e giuristi per dirimere la questione se sia lecito fare la guerra a popoli le cui “colpe” risalgono a quando erano infedeli. Furono convocati i due rivali, in un confronto destinato a trascendere l’oggetto del contendere per cristallizzare nelle due trattazioni i due possibili approcci politici al problema dell’altro, del diverso: quello delle piramidi oligarchiche e castali e quello democratico, universalista ed egalitario.

Las Casas aveva lasciato il Nuovo Mondo nel 1547 ed era determinato a dedicare gli anni che gli rimanevano da vivere all’attività di avvocato difensore dell’umanità americana. Sebbene per estrazione sociale fosse un popolano, Las Casas era tutt’altro che un sempliciotto. Gli studi e la passione per l’apprendimento l’avevano reso un erudito della letteratura teologica-scolastica e del diritto canonico (Parish, 1992). L’esperienza di vita e la pratica della dialettica avevano affinato la sua arte retorica. Fu moderno nel reperire nella matrice dell’economia di profitto e rapina le radici dell’ideologia coloniale e nell’insistere che il benessere materiale e la sopravvivenza degli indigeni dovevano venire prima di ogni altra cosa, persino della conversione. Solo una conversione per amore era valida, mentre il comportamento tirannico e distruttivo degli Spagnoli era “uno scandalo agli occhi di Dio”.

Analizzò la civiltà azteca, quella degli sconfitti, nell’Apologética Historia, composta tra il 1527 ed il 1550, che però rimase inedita per oltre tre secoli. Questa vera e propria ricerca etnografica si basava sulle sue esperienze personali, sulla sua estesa corrispondenza e su manoscritti altrui. Lo scopo era quello di dimostrare che gli indiani soddisfacevano tutti i requisiti aristotelici della buona vita. Erano semplicemente rimasti isolati dal resto del mondo e non avevano potuto fruire della circolazione della conoscenza e della verità. In breve avrebbero potuto recuperare il tempo perduto perché facevano parte di un’unica umanità, dotata delle medesime facoltà. Questo, naturalmente, a patto che nella loro educazione si impiegasse il metodo giusto, fatto di “amore, gentilezza e premura”.

La disputa fu equilibrata. Sepúlveda eccelleva nella cultura classica e nel latino, Las Casas possedeva una fervida eloquenza – invidiabile e da molti invidiata – ed un’esperienza sul campo estesissima, maggiore di chiunque altro, cosa che fece pesare nel dibattito, quando ad esempio insinuò che il suo rivale “aveva scritto il suo libretto velocemente e senza soppesare adeguatamente il materiale e le circostanze”. Nel corso della disputa Sepúlveda si limitò sostanzialmente a riassumere i punti principali della sua posizione “rigidamente ortodossa ed altamente sciovinista” (Pagden, 1989) che, comprensibilmente, non poteva essere elaborata ulteriormente in un contesto come quello della madrepatria, che in generale non vedeva di buon occhio proclami biodeterministici (la natura come destino) che ponevano limiti alla Divina Provvidenza. Las Casas invece approfittò dell’occasione per illustrare la condizione dei nativi e lesse estratti dalla sua apologia per diversi giorni. Entrambi si autoproclamarono vincitori, ma la commissione non espresse alcun giudizio.

Al centro del conflitto tra i due “colossi” c’era il principio di separazione contrapposto a quello di unità. Sepúlveda riusciva a vedere – o dava mostra di vedere – solo differenze, disparità, gerarchie, identificando in ogni diversità la cifra dell’inferiorità ed una conferma che gli Spagnoli avevano il diritto-dovere di imporre il bene. “Sepúlveda crede che non l’eguaglianza, ma la gerarchia sia lo stato naturale della società umana” (Todorov, 1992). Las Casas enfatizzava le analogie, le affinità e la condivisione paritaria, ossia quei principi nutritivi che hanno alimentato la quercia dei diritti civili e dei diritti umani. Secondo Sepúlveda i nativi amerindiani potevano usufruire del diritto alla libertà, ma non nei medesimi termini degli Europei cristiani. La libertà dei primi era fortemente attenuata dalla loro natura specifica ed inferiore, ciò che lo induceva a ritenere che non si sarebbe mai veramente raggiunta una condizione di uguaglianza e che quindi la sovranità spagnola non sarebbe mai stata seriamente messa in discussione nei secoli a venire.

In pratica, la posizione dell’umanista di Cordoba è l’adattamento più estremo delle speculazioni aristoteliche sulla diversità umana che si potesse accettare in un contesto giuridico e teologico generalmente ostile al concetto di inferiorità e schiavitù naturale, ma tollerante nei confronti dell’aggiogamento dei prigionieri di guerra a fini di conversione e civilizzazione. Un’impostazione radicalmente anti-cristiana ed anti-umana agli occhi del domenicano che, nella Brevissima relazione della distruzione dell’Africa, condannava queste pratiche senza mezzi termini: “Come se Dio fosse un violento ed iniquo tiranno e gradisse e approvasse, per la parte che gliene offrono, le tirannie”.

Sepúlveda diede l’avvio alle sue argomentazioni usando come caso emblematico l’impero azteco, ritenuto la civiltà più sviluppata del Nuovo Mondo. Il comportamento di Montezuma (Motekwmatzin, in lingua Nahuatl), che avrebbe potuto schiacciare i pochi invasori ma si limitò a dissuaderli dall’avvicinarsi alla capitale, per poi accoglierli senza offrire resistenza, è indicato come prova della codardia, inanità, mancanza di spirito degli Aztechi. Nessun aspetto della civiltà era davvero degno di nota: commercio, edifici, vita sociale erano solo necessità naturali che sorgono automaticamente e spontaneamente, senza merito alcuno da parte di chi ne fa uso. La loro esistenza dimostrava solo che “non sono orsi o scimmie e non sono completamente privi di ragione”. D’altra parte non avevano sapienza, né scrittura e archivi storici, ma solo immagini pittografiche. Non avevano leggi scritte ma solo usanze e costumi barbari; soprattutto non conoscevano la proprietà privata. Che avessero accettato questo stato di cose senza ribellarsi confermava lo spirito meschino e servile di questi barbari che andavano sottomessi per il loro bene. Le loro terre sarebbe state meglio gestite da chi se ne intendeva e non commetteva peccati così infamanti; il pontefice non avrebbe avuto nulla da ridire.

Las Casas rispondeva che il papa non aveva una giurisdizione punitiva universale e, se l’avesse avuta, questa si sarebbe dovuta estendere fino a includere la fornicazione, il furto e l’omicidio. Inoltre Israele non si era mai impadronito delle terre dei vicini perché erano non credenti o idolatri o perché commettevano peccati contro natura. Ciò detto, pur domandandosi con quale autorità questo papa assegnava terre che non gli appartenevano e mettendo in discussione la validità giuridica dell’espropriazione dei beni indigeni, non negava che le cose più imperfette dovessero cedere il passo a quelle più perfette quando le incontravano, “come la materia dinnanzi alla forma, il corpo dinnanzi all’anima ed il sentimento dinnanzi alla ragione”, ma non quando queste caratteristiche appartenevano a soggetti distinti. Perciò la gerarchizzazione nei rapporti tra coloni e soggetti era illegittima: “Nessun popolo libero può essere costretto a sottomettersi ad un popolo più educato, anche se questa sottomissione dovesse dimostrarsi di grande vantaggio per il primo”. Qui Las Casas si rifaceva al principio cardine dello jus gentium, il consenso volontario dei soggetti. Anche lui aveva studiato il suo Aristotele, ma lo usava solo per confermare le Scritture, non per reinterpretarne il senso. Dopo tutto, lo stesso Stagirita non aveva mai indicato chiaramente come distinguere uno schiavo da un uomo libero.

Tra i due esisteva un forte divario etico ed esistenziale: uno metteva al centro l’uomo ed i deboli, l’altro il ceto e la nazione (i ricchi e i potenti). Sepúlveda cedeva alla passione per l’economia politica, al limite dell’eresia, con argomentazioni che mal si conciliavano con il diritto canonico e la teologia e che celavano un sostrato pagano e naturalista. Le sue tesi erano in contrasto con la missione evangelizzatrice della Conquista ma non con quella sfruttatrice dei Conquistadores. Per questo non erano ben accolte a Corte, mentre erano molto ben viste in America. Per certi versi il pensiero di Sepúlveda fu l’espressione massima della coscienza sociale e politica dei conquistatori. Lo jus gentium, che regolava i rapporti tra i popoli, secondo lui altro non era che uno sviluppo del diritto di guerra. Poneva così la violenza e la sopraffazione all’origine del diritto, in diretto conflitto con il Nuovo Testamento. Inoltre, insistendo sull’autonomia della sfera sociale e politica da quella religiosa, si collocava ad una distanza piuttosto ridotta da Lutero, al quale, oltre venticinque anni prima, aveva rivolto una severa critica. Sepúlveda dichiarava che si era tenuti a sottomettere con le armi, se non fosse stato possibile farlo diversamente, quei popoli che per condizione naturale dovevano obbedire ad altri e rifiutavano il loro fato. Ogni disuguaglianza era naturale e, in quanto naturale, era tale per decreto divino.

Questo assunto non era però ricevibile dai giuristi spagnoli, che da tempo avevano accettato l’idea che lo stato di diritto non avrebbe lasciato spazio a rapporti di sfruttamento servile, prediligendo la forma di contratto sociale tra individui giuridicamente liberi. Per questa ragione il sistema di schiavitù di fatto che esisteva nelle colonie americane non fu mai sancito giuridicamente. Come al giorno d’oggi la tortura, il lavoro nero e lo sfruttamento della prostituzione, pur non dovendo esistere, la schiavitù esisteva, e nessuno poteva farci nulla. Così si ideò l’istituzione neo-feudale dell’encomienda, fingendo ipocritamente che ciò non fosse in contrasto con lo spirito delle leggi dell’impero.

Sepúlveda aveva un’idea ben definita del nuovo ordine che doveva essere costruito nelle Americhe: il diritto doveva rispecchiare il sistema di potere e le strutture gerarchiche imposte dai vincitori. Il discrimine tra civile e barbaro era la proprietà privata, fino ad allora sconosciuta nel Nuovo Mondo. La Conquista era un’opera di civilizzazione non tanto perché divulgava le parole di Cristo, ma perché esportava il modello capitalista-mercantilista e pedagogico europeo. Un’anticipazione della retorica del fardello dell’uomo bianco, ufficialmente tollerato in quanto atto caritatevole.

Un governo autonomo e rispettoso dei suoi cittadini spettava esclusivamente ai popoli avanzati, quelli inferiori – privi di sangue cristiano e dominati dalle passioni e dai vizi – necessitavano di governi autoritari che li avviassero su un cammino di rettitudine, anche se ciò comportava il disprezzo dell’uomo per l’uomo. I nuovi signori avrebbero agito come strumenti di redenzione e rigenerazione, vicari di Dio in terra.

Quattro furono le motivazioni addotte per dar conto di questa posizione: (a) la gravità dei delitti degli indiani, soprattutto la loro idolatria e i loro peccati contro natura; (b) la grossolanità della loro intelligenza, che ne faceva una nazione servile, barbara, destinata ad essere sottomessa all’obbedienza da parte di uomini più avanzati, quali gli spagnoli; (c) le esigenze della fede, poiché il loro assoggettamento avrebbe reso più facile e rapida la predicazione; (d) il male che si facevano tra loro, uccidendo degli uomini innocenti per offrirli in sacrificio.

La prima giustificazione dell’asservimento degli Indios era formulata come segue: “Così il motivo per porre fine a questi atti criminali e mostruosi e per liberare gli innocenti dalle azioni ingiuriose commesse contro di loro, potrebbe già da solo concedervi il diritto, peraltro già assegnatovi da Dio e dalla Natura, di sottomettere i barbari al vostro dominio…a ciò si aggiunga l’intento di garantire ai barbari molte cose utili e necessarie…una volta che questi beni siano stati offerti e che le mostruosità che spaventano per la loro empietà, siano state soppresse dallo sforzo, lavoro e valore della nostra gente, e che la religione cristiana e le sue ottime leggi sia stata introdotta, come potrebbero questi popoli ripagarci di tanta abbondanza, varietà ed immortalità di doni?”.

In questa prospettiva la missione civilizzatrice arrecava solo benefici ai colonizzati, che dovevano essere eternamente grati ai loro nuovi signori. L’autorità di usare la forza traeva origine dalla superiorità del sistema di valori e forma di governo dei colonizzatori. La civiltà non era il regalo della Spagna al mondo ma di Dio all’umanità; la Spagna era solo un veicolo della volontà di Dio. Sepúlveda esprimeva con cinica franchezza l’idea che l’inferiore è universalmente responsabile per la sua condizione. Gli indios obbedivano all’arbitrio e non si curavano della loro libertà: “Tale comportamento spontaneo e volontario, senza essere oppressi dalla forza delle armi, è un segno evidente dell’animo servile e vile di questi barbari […]. Tali erano insomma l’indole e i costumi di questi omuncoli, tanto barbari, incolti e disumani, prima dell’arrivo degli Spagnoli”. Il dovere dei padroni-educatori non era quello di coltivare la personalità dei singoli, come unità indipendenti, ma di adattarli minuziosamente alla loro umile funzione di ingranaggi nella megamacchina dell’Impero, in nome di un fine più elevato, il Bene Comune, l’Armonia Superiore, la realizzazione della Volontà di Dio in terra.

A dispetto delle giustificazioni addotte dai suoi sostenitori, la visione sociale di Sepúlveda era inumana e cerebrale, ostile agli Indios nella loro realtà concreta, perché si prefiggeva degli obiettivi irrealistici, rispetto ai quali non avrebbero mai potuto essere all’altezza. Si indicava la possibilità che la natura umana indigena, seppur distinta da quella euro-cristiana, potesse essere modellata ed adattata al sistema grazie ad una corretta pedagogia, ad un’organizzazione politico-sociale dirigista e a maglie strette e ad una pianificazione preveggente. La diffidenza totale nei confronti dell’Altro era alla base di quest’apologia del Nuovo Ordine.

Leggere le tesi dei sostenitori della Conquista riporta alla mente il tema dell’”accusa del sangue”, così ben delucidata da Furio Jesi. Gli Indios, come gli Ebrei, erano visti come “una popolazione che, pur mascherandosi ipocritamente sotto parvenze di civiltà, era di fatto, e per sua incancellabile natura, diversa come i selvaggi erano diversi dagli uomini civili. […]. Negli Ebrei, popolo “sacrificatore ed antropofago” si riconosceva dunque una singolare commistione di civiltà e di natura selvaggia, di cultura e di impulsi cannibalici”. Ipocritamente ed esteriormente civilizzati, dall’animo “crudo, feroce e sanguinario”, non sono “selvaggi allo stato puro, ma selvaggi mascherati, quelli che non astuzia e ipocrisia sono riusciti a fingere di essere civili” (Jesi, 2007).

La distopia del Nuovo Ordine Cristiano doveva essere protetta dal peccato, dal sincretismo, dall’idolatria mascherata, persino dai più reconditi pensieri dei sudditi, appannaggio del peccato, perché troppo iniqui, troppo fragili, troppo vulnerabili rispetto alle passioni. Mentre per Las Casas l’indio era un essere umano come lui, per Sepúlveda l’indio era una risorsa ed un ostacolo in un ordine dove tutto doveva essere in perfetta sintonia con la volontà degli encomenderos. L’umanità era svalutata perché incompiuta ed imbarazzante e persino l’elemento spagnolo doveava guardarsi dalla contaminazione che sempre segue il contatto con l’impuro. Non era il cristiano che si macchiava delle più atroci scelleratezze con perfida innocenza, era l’autoctono che gli aveva forzato la mano, con la sua indocilità e stoltezza. La coscienza di quest’ultimo andava colonizzata come si fa con le aree geografiche, denaturata come da indicazioni del Grande Fratello orwelliano: “Ti spremeremo fino a che tu non sia completamente svuotato e quindi ti riempiremo di noi stessi”.

L’indio doveva essere reso docile, duttile, doveva capire che la volontà dei suoi signori-tutori era espressione della forza della necessità, dell’indispensabilità, che si sbagliava se credeva di essere diretto surrettiziamente in una certa direzione: la sua era una scelta libera (sic!) che conseguiva alla sua maturazione civile, alla sua debarbarizzazione. Sepúlveda si era costruito una stravagante concezione dell’autonomia e dell’emancipazione. Gli indigeni sarebbero stati pronti all’autodeterminazione quando fossero stati in grado di agire nel senso voluto da chi li aveva educati, dai suoi demiurghi-pedagoghi. Questo sistema, in cui si era pienamente liberi se ci si inchinava, se si dimostrava la propria innocenza, in cui i signori si riservavano il privilegio di far sentire liberi e uguali i servitori a loro piena discrezione, era un simulacro di libertà, una burla estremamente dolorosa per chi se ne avvedeva.

È stupefacente osservare come le prescrizioni di “ingegneria comportamentale” di Sepúlveda coincidano talora con quelle della pedagogia di Gor’kij – “Solo nella sofferenza l’anima umana è bella” – e Makarenko – “La crudeltà è la più alta forma di umanesimo perché costringe l’individuo a cambiare anche controvoglia”. Ma è ancora più sorprendente constatare la somiglianza con il Grande Inquisitore sivigliano di Ivan Karamazov. Sepúlveda esortava gli Spagnoli a “sradicare le turpi nefandezze e il grave crimine di divorare carne umana, crimini che offendono la natura, così come continuare a rendere culto ai demoni piuttosto che a Dio […] e salvare da gravi ingiustizie molti innocenti che questi barbari immolavano tutti gli anni”. Dio era con loro e nessuno avrebbe potuto arrestare la loro opera redentrice, poiché “per molte cose e molto gravi, questi barbari sono obbligati a riconoscere il dominio degli spagnoli […] e se rifiutano il nostro dominio potrebbero essere obbligati con le armi ad accettarlo, e questa guerra, con l’autorità di grandi filosofi e teologi, sarà una guerra giusta per legge naturale”. L’uso della violenza e della guerra giusta era giustificato anche dalla parabola evangelica (Lc 15,15-24) di quel signore che, dopo aver invitato molti a nozze, alla fine obbliga i poveri a partecipare al banchetto. L’umanista si richiamava all’interpretazione di Sant’Agostino il quale, riferendosi ai primi, osservava che li si invita ad entrare, mentre i poveri sono obbligati. “Questi, barbari, quindi, che violano la natura, sono blasfemi ed idolatri, perciò sostengo che non solo li si può invitare, ma anche obbligare (compellere), costringere affinché, ricevendo l’imposizione del potere dei cristiani, ascoltino gli apostoli che annunciano loro il Vangelo”. Questo argomento conseguiva alla tesi centrale del Democrates Alter: si poteva ottenere più in un mese con una conquista che in un secolo di predicazione. Non servivano miracoli, perché i mezzi umani che godevano di sanzione divina ottenevano gli stessi risultati. La guerra era insomma necessaria e giusta e se si insegnava ai nativi senza terrorizzarli, questi sarebbero rimasti testardamente aggrappati alle loro tradizioni secolari. Nulla di strano che il domenicano Melchor Cano, subentrato a de Vitoria, trovasse in quest’opera passaggi che suonavano “offensivi per le orecchie pie”. Sepúlveda sembrava affascinato dai vincoli di servitù (vinculum serviendi) e dal patriarcalismo che compenetrano l’Antico Testamento. Non amava la libertà e forse non la capiva. La nozione di giustizia parimenti gli sfuggiva.

Secondo Carlo Maria Martini “la giustizia è l’attributo fondamentale di Dio. Nel giudizio universale Gesù formula come criterio di distinzione tra il bene e il male la giustizia, l’impegno a favore dei piccoli, degli affamati, degli ignudi, dei carcerati, degli infermi. Il giusto lotta contro le disuguaglianze sociali”. Se questo è vero, Dio non era con Sepúlveda quando, rifacendosi alle ingiunzioni divine contenute nel Deuteronomio, affermava che la Spagna era autorizzata a muovere guerra a qualunque nazione di religione diversa. Non gli era accanto nemmeno quando, sempre nel Democrates Alter, dichiarava che “il fatto che qualcuno di loro abbia un’intelligenza per certe cose meccaniche non significa che abbiano una maggiore saviezza, perché vediamo come certi animali come le api e i ragni facciano cose che nessuna mente umana potrebbe ideare”. È cristiano il mondo visto come un intero ordinato in cui l’ordine è strettamente gerarchico e opera meccanicamente, in cui il valore della natura e dell’umanità inferiore corrisponde al suo valore d’uso, in cui l’obiettivo dei dominatori è ottenere il libero consenso delle vittime al loro supplizio, in modo da potersi scagionare preventivamente?

Per fortuna l’antagonista di Sepúlveda sapeva il fatto suo. Nella sua difesa Las Casas si avvalse della sua Apología e della Apologetica História Sumária, la sua opera più antropologica, completata dopo il 1551. Intendeva guadagnarsi un pubblico più ampio, non solo gli esperti della commissione, e voleva altresì dimostrare al più vasto numero di persone possibili che gli indiani erano membri di pari dignità della comunità umana e che le loro società erano sostanzialmente mature e civili, a dispetto della diversità di tradizioni e costumi. Voleva corroborare la tesi che “dietro le evidenti differenze culturali tra i popoli umani esisteva un medesimo sostrato di imperativi sociali e morali” (Pagden, 1989). Guardate alle cose che abbiamo in comune, non a quello che ci divide! Ammirate le splendite città azteche e inca! Nel confronto con Greci e Romani gli Aztechi vincevano a livello tecnologico, architettonico, artigianale ed artistico; specialmente nell’uso decorativo delle piume, con le quali riuscivano a comporre ritratti e rappresentazioni che potevano competere con l’arte rinascimentale e per di più cangiavano i colori a seconda della prospettiva dell’osservatore. “Non abbiamo alcuna ragione di meravigliarci dei difetti, delle usanze non civili e sregolate che possiamo riscontrare presso le nazioni indiane, né abbiamo ragione di disprezzarle per questo. Infatti, tutte o la maggior parte delle nazioni del mondo furono molto più pervertite, irrazionali e depravate, e fecero mostra di molto minor prudenza e sagacia nel loro modo di governarsi e di esercitare le virtù morali. Noi stessi fummo molto peggiori al tempo dei nostri antenati e su tutta l’estensione del nostro territorio, sia per l’irrazionalità e la confusione dei costumi, sia per i vizi e le usanze bestiali” (Apologetica História). Per non parlare della loro modestia e mitezza. Quanto al sacrificio umano, sicuramente i sacrifici indigeni reclamavano meno vittime della Conquista: “Non è vero affermare che nella Nuova Spagna si sacrificavano ogni anno ventimila persone, né cento, né cinquanta, perché, se così fosse, non troveremmo tante infinite genti come ne troviamo. Tale affermazione altro non è che la voce dei tiranni, per scusare e giustificare le loro arbitrarie violenze e per opprimere, depredare e tiranneggiare gli indios… E questo pretendono coloro che dicono di essere dalla loro parte, come il dottore e i suoi seguaci…Il dottore ha contato malissimo, perché possiamo con maggiore verità e meglio dire che gli Spagnoli hanno sacrificato alla loro dea amatissima e adorata, la cupidigia, ogni anno della loro permanenza nelle Indie una volta entrati in ogni provincia, più anime di quante in cent’anni gli indios in tutte le Indie ne avessero sacrificato ai loro dei”.

Inoltre gli indigeni non avevano avuto sentore di alcuna alternativa prima dell’arrivo degli Spagnoli: “Tanto coloro che volontariamente permettono di essere sacrificati, come i semplici uomini del popolo in generale, quanto i ministri che li sacrificano agli dèi per ordine dei principi e dei sacerdoti, agiscono sotto gli effetti di una ignoranza invincibile, e il loro errore dev’essere perdonato anche se arrivassimo a supporre l’esistenza di un giudice competente che possa punire tali peccati” (Apología). Non erano dunque in cattiva fede e, finché i cristiani non fossero riusciti a dimostrare coi fatti che la loro religione era ispirata da Dio, “essi sono senza dubbio tenuti a difendere il culto dei loro dèi e la loro religione, e ad uscire con le loro forze armate contro chiunque cerchi di privarli di tale culto o religione, o di recare loro offesa o impedirne i sacrifici; contro di essi sono così tenuti a lottare, a ucciderli, catturarli ed esercitare tutti quei diritti che sono corollario di una giusta guerra, in accordo con il diritto delle genti” (ibid.). Mai si era udita una tesi così ardita, che ritorce i principi della scolastica contro chi li impiegava per giustificare l’imperialismo. Angél Losada, nell’introduzione all’Apología, ha così riassunto l’innovativa interpretazione lascasiana del tomismo: “se i cristiani fanno uso di mezzi violenti per imporre la loro volontà agli indios, è meglio che questi rimangano nella loro religione tradizionale; anzi, in tal caso sono gli indios pagani a trovarsi sulla buona strada, e da loro devono imparare i cristiani che si comportano così”.

Questo argomento si riaggancia alla strategia di confrontare civiltà americane e civiltà classiche. Quale società non ha praticato sacrifici nel suo passato? Non facevano sacrifici umani anche gli Spagnoli, i Greci e i Romani? In seguito però erano diventati popoli civili. Lo stesso Abramo aveva offerto in sacrificio suo figlio a Dio. Eppure non riteniamo questi popoli depravati ma devoti, sebbene non ancora illuminati dalla Grazia. Un tempo il sacrificio era importante per venerare Dio. Arrivavano persino a sacrificare se stessi per Dio: una devozione più appassionata di questa non la si può immaginare! Las Casas, esibendo un’impressionante ed anticipatrice capacità di distacco relativistico dall’oggetto della sua analisi comparativa, completava il ragionamento facendo rilevare che il sacrificio umano non era in contrasto con la ragione naturale, era piuttosto un errore intrinseco della ragione naturale. Gli indoamericani non erano umani difettosi. Originariamente, a suo giudizio, erano monoteisti, come dimostrano i miti del dio creatore e civilizzatore diffusi in tutte le Americhe. Fu soltanto in seguito che l’isolamento li aveva esposti all’azione subdola e corruttrice del demonio, spingendoli verso il politeismo. Ora li si dovevano aiutare a rinunciare ai sacrifici con la forza delle argomentazioni e mostrando esempi di alternative migliori, non con quella delle armi. “Se questi sacrifici offendono Dio spetta a Dio punirli, non certo a noi”. Non era stato forse San Paolo, nella Prima lettera ai Corinzi, a chiarire una volta per tutte questo punto? “Spetta forse a me giudicare quelli di fuori? Non sono quelli di dentro che voi giudicate? Quelli di fuori li giudicherà Dio”. La Chiesa doveva forse oltraggiare Dio ergendosi a giudice degli esseri umani quando lo stesso Gesù il Cristo, stando a Luca (12, 13), aveva obiettato: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”. Infatti, sempre rifacendosi al Nuovo Testamento, “Cristo non è venuto per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Giovanni 3, 17).

Gli Indios dovevano essere messi nelle condizioni di accettare sinceramente e liberamente la cristianità, non indotti a farlo slealmente o coercitivamente. La pedagogia azteca insegnava ai figli ad essere ordinati, sensibili, prudenti e razionali: non certo il segno di una società che non avrebbe saputo autogovernarsi. L’unico tratto barbaro era l’ignoranza delle Scritture, ma a questo si poteva presto porre rimedio. A questo punto la trattazione si fece allegorica. Le varie manifestazioni dell’umano che s’incontravano nel mondo erano eterogenee. Alcune assomigliavano a dei campi non coltivati. E proprio come un campo abbandonato produceva solo spine e cardi ma, se coltivato, dava frutti, così ogni essere umano, per quanto apparentemente barbaro e selvaggio, era dotato dell’uso della ragione e poteva apprendere e generare i frutti dell’eccellenza.

Al richiamo alle terribili punizioni divine descritte nel Vecchio Testamento, replicò che esse andavano contemplate con meraviglia, non imitate. Quanto alla rozzezza degli Indiani, egli poteva produrre innumerevoli prove a sostegno della tesi inversa. Alla questione della maggiore rapidità delle conversioni dopo una conquista, si poteva obiettare portando ad esempio l’opera dei missionari domenicani. La quarta tesi, quella del male minore – una guerra causa meno morti dei sacrifici di massa –, fu contrastata appellandosi al comandamento “non uccidere”, più efficace dell’imperativo di “difendere gli innocenti”, specialmente se ciò comportava una guerra indiscriminata che non poteva che far detestare la vera fede agli indigeni. “Quando io parlo della forza delle armi, parlo del peggiore di tutti i mali”.

Sui soldati della Conquista Las Casas era irremovibile: “Essendo stati educati all’insegnamento di Cristo, non possono ignorare che non si deve arrecare danno alle persone innocenti. Chi manca di questo discernimento è reo di un gravissimo crimine verso Dio ed è degno di una condanna eterna”. Las Casas accettava che ci potessero essere danni collaterali a cose e persone, ma ribadiva che l’uso della forza non doveva avere un obiettivo preventivo ed offensivo. Neppure la liberazione di innocenti poteva giustificare la messa a rischio dell’incolumità di un gran numero di altri innocenti. Per questo precisava che, “sebbene sia vero che uccidere un tiranno, che è una pestilenza per la repubblica, è un’azione buona e meritoria, lo stesso non si può dire nel caso in cui il suo assassinio dia origine ad una ribellione o grave tumulto che raddoppi i mali della suddetta repubblica”. L’intero ragionamento di Sepúlveda era contraddittorio e avrebbe arrecato infiniti danni alla causa dell’evangelizzazione: “Come potranno amarci queste persone, e fare amicizia con noi (condizione necessaria affinché possano ricevere la nostra fede) se i figli si vedono orfani delle proprie madri, le mogli perdono i mariti, i padri perdono i loro figli ed amici; se vedono i loro cari feriti, tenuti prigionieri, spogliati delle loro proprietà e l’innumerevole moltitudine di cui facevano parte ridotta ad uno sparuto gruppo?”.

Nel Nuovo Testamento non si potevano trovare appigli che permettessero di sostenere una simile bestialità: “Citi dunque Sepúlveda un solo passaggio in cui il Cristo o i Santi Padri ci abbiano insegnato che i pagani debbono essere soggiogati mediante la guerra prima che gli si predichi il vangelo!”. Non sarebbe stato possibile, infatti, “quando Cristo mandò i suoi discepoli a predicare, non li armò certo con spade e bombarde”. Se il sacrificio era l’unico modo conosciuto dai nativi per onorare Dio, non si poteva impiegarlo come pretesto per assoggettarli. D’altronde anche i Romani li compivano, ma quando fondarono l’impero non punirono i popoli dediti ai sacrifici, si limitarono a proibirli per decreto. Volgendo poi l’attenzione a Luca 14,15, dove il compelle intrare, interpretato da Agostino come un’esortazione a costringere ad entrare nell’ovile della Chiesa, sembrava portare acqua al mulino di chi gradiva l’uso delle maniere forti, Las Casas ribatteva che la costrizione doveva essere di origine interiore, come confermato dall’analisi della medesima parabola effettuata da Tommaso d’Aquino, che parlava di “efficace persuasione”. Imporre il vangelo con le armi era solo un pretesto per depredare i nativi: “Che temano Dio, vendicatore della macchinazioni perverse, quelli che, con il pretesto di propagare la fede, con la forza delle armi invadono le proprietà altrui, le saccheggiano e se ne appropriano”. Il processo di conversione poteva solo funzionare se si fosse usato Cristo ed il suo messaggio come modello. L’uso della violenza coattiva nel nome della verità assoluta poteva solo smascherare la natura perversa di chi proclamava di rappresentarlo. Citava sant’Ambrogio: “Quando gli apostoli vollero chiedere il fuoco dal cielo, perché bruciasse i samaritani che non avevano voluto ricevere Gesù nella loro città, egli, voltatosi, inveì dicendo loro: non conoscete lo spirito al quale appartenete, il figlio dell’uomo non viene per mandare in rovina le anime, ma per salvarle”.

Inoltre, una volta che il vaso di Pandora della violenza fosse stato scoperchiato, quest’ultima avrebbe finito per ritorcersi contro i suoi perpetratori, in forza della giusta punizione divina. Ancora più incisivamente, cercando la stoccata decisiva: “Il dottore fonda questi diritti [del re di Spagna sul Nuovo Mondo] sulla superiorità delle armi e sulla maggiore forza fisica. Questo serve solo a porre i nostri sovrani nella posizione di tiranni. Il loro diritto si basa sull’estensione del Verbo nel Nuovo Mondo e sulla loro buona amministrazione delle Indie. Negare questa dottrina significa adulare ed ingannare i nostri monarchi e mettere in pericolo la loro stessa salvezza. Il dottore perverte il naturale ordine delle cose, trasformando i mezzi in fini e ciò che è secondario in fondamentale. È secondario il vantaggio temporale, è fondamentale la predicazione della vera fede. Chi ignora questo ha una conoscenza ben limitata e chi lo nega non è più cristiano di Maometto”.

In verità, purtroppo, Las Casas era abbastanza isolato in questa sua presa di posizione in Spagna. Lo stesso Soto, che ricapitolava brillantemente le argomentazioni dei duellanti ebbe a dire: “sembra che il signor vescovo – se non mi sbaglio io – sia caduto in un errore, perché una cosa è che li possiamo costringere a lasciarci predicare, il che è opinione di molti dottori, altra cosa che li possiamo obbligare ad assistere alle nostre prediche, il che non è altrettanto chiaro”. In altre parole la forza non poteva essere usata per costringere alla conversione ma era legittima se venivano posti ostacoli all’evangelizzazione, in virtù dello jus defendi nos, che ci riporta alla bizzarra nozione che gli Spagnoli, se in buona fede, erano automaticamente dalla parte giusta, di chi difendeva se stesso e il Cristo dalle ingiurie e gli assalti dei non-credenti.

L’umanista di Cordoba vide che il domenicano si era scoperto ed assestò un fendente: “per l’opinione secondo cui gli infedeli non possono essere giustamente forzati ad ascoltare la predicazione, si tratta di una dottrina nuova e falsa, e contraria a tutti coloro che nutrirono una diversa opinione. Il Papa infatti ha il potere – anzi il comando – di predicare egli stesso e per mezzo di altri il Vangelo in tutto il mondo, e questo non si può fare se i predicatori non vengono ascoltati; perciò egli ha il potere, per mandato di Cristo, di costringere ad ascoltarli”. Gustavo Gutiérrez (Gutiérrez 1995) parla molto a proposito di “teologia elaborata nella prospettiva del potere”.

Las Casas era assolutamente persuaso che si dovesse scongiurare il “pericolo del cancro velenoso” che il contraddittore voleva diffondere. “Che uomo di sano intelletto – si chiedeva, esagerando retoricamente le virtù dei suoi protetti – approverebbe una guerra contro uomini che sono innocui, ignoranti, gentili, temperati, disarmati e privi di ogni difesa?”. Insisteva, poi, riportando il discorso nei binari del buon senso: “Sarebbe impossibile trovare nel mondo un’intera razza, nazione o regione che è così tonta, imbecille, scellerata o comunque priva in gran parte di un livello sufficiente di conoscenza e capacità naturale da non sapersi governare autonomamente”.

Sepúlveda, lo abbiamo visto, non era dello stesso avviso: “In buon senso, talento, virtù ed umanità sono tanto inferiori agli Spagnoli quanto i bambini lo sono nei confronti degli adulti…come le scimmie lo sono a confronto degli uomini” [Bien puedes comprender ¡Oh Leopoldo! se es que conoces las costumbres y naturaleza de una y otra gente, que con perfecto derecho los españoles imperan sobre estos bárbaros del Nuevo Mundo e islas adyacentes, los cuales en prudencia, ingenio, virtud y humanidad son tan inferiores a los españoles como los niños a los adultos y las mujeres a los varones, habiendo entre ellos tanta diferencia como la que va de gentes fieras y crueles a gentes clementísimas, de los prodigiosamente intemperantes a los continentes y templados, y estoy por decir que de monos a hombres, “Demócrates segundo”, 305].

Las Casas metteva in dubbio la competenza del rivale: “Non è andato a rileggersi le scritture con diligenza, o sicuramente non ha compreso a sufficienza come applicarle perché, in quest’epoca di grazia e carità, cerca di applicare i rigidi precetti della Vecchia Legge che erano stati dati in circostanze speciali e quindi apre la porta a tiranni e saccheggiatori, a crudeli invasioni, oppressioni, violazioni e il crudo asservimento di nazioni inoffensive”. In pratica, non aveva senso credere che fosse giusto fare agli Indios quel che Dio aveva comandato agli Ebrei di fare agli egiziani e cananiti.

Sepúlveda era d’accordo sul fatto che la missione principale era convertire gli indiani ma, in linea con lo spirito del Requerimiento, ribadiva che la conquista militare avrebbe facilitato questo compito. Gli indiani si meritavano tutto quello che gli era franato addosso perché erano culturalmente e moralmente barbari, la civiltà europea era superiore e ad essa dovevano sottomettersi per il loro bene. Si rifaceva non solo alla nozione aristotelica di schiavitù naturale ma anche alla definizione agostiniana di schiavitù come punizione per i propri peccati. L’idolatria, i sacrifici umani ed il cannibalismo erano colpe evidenti e prove della giustezza della sua posizione. Esisteva un diritto (legitimus titulus) di intervento bellico in difesa degli innocentes, cioè delle vittime di sacrifici, antropofagia, tirannia dei sovrani indigeni e delle loro leggi, aberranti norme religiose dei popoli indigeni, ecc. Le stesse ragioni che legittimano le “guerre umanitarie” contemporanee.

Sepúlveda era schiettamente ma elegantemente razzista, ed in perfetta buona fede, poiché la sua mente era dogmatica, ideologica. La ricezione negativa della sua opera in Spagna era in parte dovuta anche al fatto che aveva scelto la forma espositiva del dialogo, in luogo della trattazione classica. Il dialogo aveva enfatizzato le differenze tra conquistatori e indigeni fino a renderle caricaturali, indebolendo così la cogenza delle argomentazioni. Per lui i nativi sarebbero anche potuti diventare amici dei nuovi dominatori, ma non prima di essere stati soggiogati. Mentre i loro talenti avrebbero potuto gradualmente sorpassare quelli delle scimmie e degli orsi, i loro limiti mentali fisiologici avrebbero impedito loro per lungo tempo di trascendere “le capacità delle api e dei ragni”. A suo avviso la maggior parte degli indiani non era pienamente umana, mostrava solo una parvenza di umanità. Lo dimostrava la discrepanza tra il coraggio, la magnanimità e le virtù civili degli Spagnoli e la natura selvaggia dei nativi americani, che rifiutavano le norme e usanze della vita civile. Si valutino i temperamenti dei rispettivi leader, esclamava ancora una volta: Hernan Cortés era nobile e coraggioso, Montezuma era un codardo. Per questo gli Spagnoli erano moralmente e politicamente giustificati nelle loro pretese di dominio assoluto.

Vitoria aveva sostenuto che il livello di maturità civile e morale di alcune delle culture native era pari a quello dei contadini europei e che era la cultura che aveva causato la divergenza nei percorsi di sviluppo, non una naturale condizione di schiavi. Sepúlveda sottoscriveva questa prospettiva, ma naturalizzava la cultura. Non poteva esserci un vero margine di sviluppo umano attraverso un processo civilizzatore che non comportasse l’estirpamento delle culture locali. Chi non voleva capirlo si faceva partecipe di una farsa ipocrita.

Al che Las Casas non poteva esimersi dal chiedersi quando gli indigeni cristianizzati a milioni sarebbero stati giudicati degni di vivere da uomini e donne libere? Non arrivò al punto di affermare che dovevano essere lasciati completamente in pace, perché era pur sempre un evangelizzatore, ma ribadì che la tolleranza era una precondizione della conversione, mentre per Sepúlveda le necessità del realismo politico e della dottrina cristiana non lasciavano spazio alla tolleranza che, al massimo, poteva seguire la conversione completa. Pur ammettendo che c’erano state violenze ed atrocità, egli riteneva che il fine giustificasse i mezzi quando invece, come abbiamo visto, Las Casas ammoniva che tradurre i mezzi in fini ed i fini in mezzi era una disastrosa fallacia logica e morale.

La commissione che valutò la disputa, composta da giuristi e studiosi della scuola di Salamanca e del Consiglio di Castiglia e delle Indie non possedeva alcun potere formale o legale oltre quello di offrire consulenza al monarca. I due non si incontrarono mai nella stessa stanza. Questo consiglio non lasciò alcun documento pubblico in cui fossero registrate le loro preferenze. Alcuni non erano stati convinti da Sepúlveda ma nessuno si pronunciò a favore di Las Casas. In effetti la giunta non si pronunciò a favore di nessuno dei due contendenti, ma la monarchia decise che il trattato di Sepúlveda De justis belli causis era troppo pericoloso e lo bandì dal Nuovo Mondo.

L’autore, piccato, accusò il suo avversario di oscurare la verità e la giustizia con un’eloquenza, una circospezione ed una perizia che “a confronto l’Ulisse di Omero era inerte e balbettante”. Gli addebitò la responsabilità di aver provocato “un grande scandalo ed infamia contro i nostri sovrani”. Nella sua apologia Las Casas rispose che il suo rivale aveva “diffamato questi popoli di fronte al mondo intero”.

Il grande cardinale tedesco Josef Höffner, coltissimo, anti-nazista e “Giusto tra le Nazioni”, un giorno scrisse che “tra gli Spagnoli, fu il nobile Las Casas che comprese più profondamente lo spirito del Vangelo di Cristo”.

http://fanuessays.blogspot.it/2011/10/bartolome-de-las-casas-introduzione.html

La tirannia umanitaria e i falsi profeti – cosa ci ha insegnato Kony 2012?

Antologia di testi a cura di Stefano Fait

Guardatevi dai falsi profeti, i quali vengono a voi sotto le spoglie di pecore, ma dentro sono lupi rapaci.

Li riconoscerete dai loro propri frutti

Matteo 7, 15-16.

GUSTAVO ZAGREBELSKY, “Sulla lingua del tempo presente”, 2010, pp. 27-28

Se le posizioni sociali sono squilibrate, al punto che da una parte sta la libertà illimitata di concedere o non concedere un beneficio e, dall’altra, la necessità riaccettarlo; se c’è libertà contro necessità; se l’uno può tutto, l’altro niente, si può parlare, in questi casi, di dono? Il dono che si fa con la mano del potere è davvero un dono? Sì, ma solo se rimane in superficie. In realtà si tratta dell’esercizio d’una supremazia che approfitta d’una condizione di bisogno per manifestarsi. Quel “dono”, al quale non si ha diritto ma che è frutto d’una concessione graziosa e, pertanto, può essere in ogni momento revocato, sta nell’essenza d’un rapporto servile. È violenza che si esercita tramite mezzi non maligni, ma benigni. Anche con i doni si può far del male. È sfruttamento di uno stato di necessità in cui altri versano; cioè è violenza di natura morale: una violenza da cui ci si aspetta un tornaconto la cui materia è il sentimento di obbligazione verso il donante. Non è vera gratitudine, perché la gratitudine dettata dalla necessità è finta, malata. Se poi il “dono” è reso pubblico, pubblicizzato, diventa violenza usata a fini pubblicitari.

FERNANDO SAVATER, Discorso di accettazione del Premio Van Praag 1997

L’umanesimo non è la stessa cosa dell’umanitarismo. Non nego l’importanza delle imprese umanitarie nel loro assistere gli affamati, feriti, malati ed emarginati del mondo orribile in cui viviamo. Ma penso che il destino migliore di questo pianeta non sia quello di convertirsi in un ospedale o in un ricovero: deve diventare la città degli uomini, la casa e l’impresa di tutti. A tal fine, è imprescindibile recuperare il respiro umanista, combattendo non solo per proteggere le vite, ma anche per istituire le libertà, educare ai valori universali, gestire gli affari umani in maniera non-tribale, ma sovranazionale.

ALBERT CAMUS, introduzione a “L’uomo in rivolta”

Siamo nel tempo della premeditazione e del delitto perfetto. I nostri criminali non sono più quei bimbi inermi che adducevano la scusa dell’amore. Sono adulti, al contrario, e il loro alibi è irrefutabile: è la filosofia, che può servire a tutto, fino a tramutare in giudici gli assassini…Ai tempi ingenui in cui il tiranno radeva al suolo qualche città a propria maggior gloria, in cui lo schiavo aggiogato al carro del vincitore sfilava per le città festanti, e il nemico veniva gettato alle belve davanti al popolo adunato, di fronte a delitti così candidi, la coscienza poteva essere salda, e chiaro il giudizio. Ma i campi di schiavi sotto il vessillo della libertà, i massacri giustificati dall’amore per l’uomo o dal sogno di una super-umanità, disarmano, in certo senso, il giudizio. Il giorno in cui il delitto si adorna delle spoglie dell’innocenza, quella cui viene intimato di fornire le proprie giustificazioni, per una strana inversione propria al nostro tempo, è l’innocenza stessa.

LUIGI ALFIERI, “La stanchezza di Marte. Variazioni sul tema della guerra”, 2008, pp. 185-190

L’Italia non è mai stata, in tutta la sua storia, talmente impegnata in operazioni militari all’estero come in questi ultimi decenni; con pochi uomini e mezzi, di solito, ma tenendo conto del gran numero di operazioni a cui si è voluta o dovuta decidere una partecipazione almeno simbolica, il livello complessivo di proiezione militare oltre i confini è paragonabile se non superiore a quello delle guerre coloniali: un precedente che dovrebbe far riflettere. La presentazione di queste attività come iniziative umanitarie è in molti casi del tutto risibile, e in almeno tre casi – la prima guerra del Golfo sicuramente, e malgrado grossolane ipocrisie anche l’infelicissima spedizione in Somalia e il coinvolgimento nei bombardamenti della Serbia durante la crisi del Kosovo – si è trattato di guerra esplicita e aperta, anche con aspetti specie nel caso somalo – di vergognosa brutalità. […]. È difficilissimo, ormai, ricordarle tutte: non dovrebbe farci paura questo dato così elementare? […]. Anche le legioni romane eseguivano una politica di pace, a modo loro. E dove finisce la politica di pace e comincia una politica di potenza?

MICHELANGELO BOVERO, “L’ideologia capovolta. Dalla pace attraverso i diritti ai diritti attraverso la guerra”, 2006, p. 134

La barbarie ritornata che ci troviamo a fronteggiare è duplice: quella di chi viola i diritti fondamentali e quella di chi li viola due volte con la pretesa di difenderli, o addirittura di instaurare manu militari il regno universale del diritto e dei diritti.

TEJU COLE, “The White Savior Industrial Complex”

Il salvatore bianco appoggia politiche brutali al mattino, fa beneficenza al pomeriggio e riceve onorificenze la sera.

La banalità del male si trasmuta nella banalità del sentimentalismo. Il mondo non è altro che un problema da risolvere con entusiasmo.

Questo mondo esiste semplicemente per soddisfare le esigenze – specialmente i bisogni sentimentali – dei bianchi.

L’Industria del Salvatore Bianco non ha nulla a che vedere con la giustizia. Si tratta di avere una grande esperienza emotiva che giustifica il privilegio.

Una febbrile preoccupazione per un terribile signore della guerra africano [cf. Kony], mentre fino a 1 milione e mezzo di iracheni sono morti per una guerra americana che poteva essere evitata. Sarebbe bene preoccuparsi di questo.

È giusto rispettare il sentimentalismo americano, proprio come si rispetta un ippopotamo ferito. È necessario tenerlo d’occhio, perché sai che è mortale.
è lecito parlare di peccati, ma è politicamente scorretto fare i nomi dei peccatori. Perciò c’è il razzismo ma è sconveniente dare del razzista a qualcuno, c’è la misoginia, ma non ci sono misogini, nessuno è omofobo ma gli omosessuali sono vittime di omofobia. Se uno osa puntare il dito su qualcosa di così manifesto come il privilegio bianco, è bollato come provocatorio. Così gli emarginati hanno sempre meno possibilità di parlare di ciò che li fa soffrire, a causa di questo “decoro coatto”.

Non è che tutti gli operatori umanitari sono razzisti. Alcuni lo sono inconsapevolmente, altri no. In genere sono persone di buon cuore, ma è proprio il sentimentalismo che semplifica ingiustificatamente la loro visione del mondo. Così vedono solo bocche affamate che devono essere sfamate al più presto. Tutto quel che vedono è bisogno, ma non le cause ultime di questo bisogno.

Fare un buon lavoro umanitario comporta qualcosa di più di “fare la differenza”. Prima di tutto viene il dovere di non nuocere e di conseguenza il diritto di chi viene aiutato di essere consultato in merito alle questioni che lo riguardano.

L’Africa è un luogo in cui le regole sono diverse: un signor nessuno americano o europeo può andare in Africa e diventare un salvatore semidivino o, quantomeno, soddisfare i suoi bisogni emotivi.

I problemi africani sono strutturali, sono intricati, sono locali e non si risolvono con gli slogan. Per dare un aiuto concreto, occorre una certa umiltà verso le persone che vivono in quelle aree, il rispetto per la loro capacità di essere protagoniste delle loro vite e di risolvere i loro problemi. Gli Ugandesi hanno fatto e continuano a fare moltissimo per migliorare il proprio paese e commenti ignoranti come “dobbiamo salvarli noi perché non possono salvarsi da soli”, non può alterare questo fatto. I Nigeriani hanno recentemente protestato, molto civilmente, contro il governo, la corruzione e l’inflazione. Uomini e donne, di tutte le classi ed età, si sono mobilitati per quello che sentivano era giusto, hanno marciato pacificamente, si sono scambiati cibo e bevande e protetti l’un l’altro; i cristiani montavano la guardia mentre i musulmani pregavano e vice versa, parlavano senza timore ai loro leader circa il tipo di paese in cui volevano vivere. Tutto questo è avvenuto senza l’intervento di un qualche giovane supereroe americano.

Joseph Kony non è più in Uganda e non è più la minaccia che è stato, ma è un cattivo molto utile per chi ne ha bisogno. Non sono queste denunce che servono all’Africa, ma una società civile più equa, una democrazia più robusta, un sistema giudiziario più giusto. È su queste fondamenta che si possono costruire infrastrutture, sicurezza, sanità ed educazione.

Se gli Americani vogliono davvero prendersi cura dell’Africa, dovrebbero valutare la politica estera americana, per votare con cognizione di causa, prima di imporre il loro volere agli Africani. I manifestanti nigeriani sono stati virtualmente ignorati dall’amministrazione americana, il sostentamento dei coltivatori di mais in Messico è stato distrutto dal NAFTA, i coltivatori di riso haitiani hanno subito perdite spaventose a causa del riso sovvenzionato americano. Poi si può citare il colpo di stato in Honduras, appoggiato dagli Americani, che ha causato la morte di centinaia di attivisti e giornalisti, la giunta militare filoamericana che opprime l’Egitto post-Mubarak e riceve annualmente 1 miliardo e 300 milioni di sussidi dagli Stati Uniti.

Quel che gli innocenti eroi dell’umanitarismo devono capire è che fanno spesso il gioco di chi è guidato da motivazioni molto più ciniche.

La sindrome del Salvatore Bianco è una valvola di sfogo in un sistema fondato sulla rapina e sul saccheggio. Per anni gli Americani hanno partecipato alla distruzione economica di Haiti, ma dopo il terremoto si sono sentiti in obbligo di donare 10 dollari per la ricostruzione. Quando si interferisce nelle vite degli altri bisogna sapere che cosa questo comporta. Il sostegno alla campagna Kony 2012 implica una crescente militarizzazione del governo antidemocratico di Yoweri Museveni, al potere dal 1986, uno dei principali responsabili della guerra in Congo ed una pedina americana nei conflitti in Sudan e in Somalia.

Tutto questo ci porta molto lontano dall’idealismo dei giovani americani che vogliono impiegare la forza di YouTube e Facebook per cambiare il mondo.

Se vogliamo davvero fare la differenza dobbiamo andare oltre il sentimentalismo e sfidare le strutture ed i sistemi che perpetuano la disuguaglianza in tutto il pianeta. La disobbedienza civile serve, appunto, a salvare noi stessi e consentire ad altri di fare lo stesso.

http://www.theatlantic.com/international/archive/2012/03/the-white-savior-industrial-complex/254843/

RONY BRAUMAN, «Humanitaire, diplomatie et droits de l’homme», 2009

Il Terzo Mondo è visto come un territorio desolato, popolato da eterne vittime bisognose di incessante soccorso.

Occorre evitare che al potere vadano persone affetta da cinismo amorale (Machiavelli) e da idealismo intransigente (Robespierre): non c’è nulla di più sanguinario di queste due patologie della coscienza, che hanno una radice comune nel narcisismo, nell’esaltazione del proprio ego e della propria prospettiva sul mondo.

L’umanitarismo obbedisce alla legge dei gas perfetti: un’espansione infinita se non ci sono forze che lo limitano.

La violenza è sempre quella altrui, perché noi siamo democratici, civili ed umanitari. La nostra violenza è meno violenta di quella degli altri. È un male minore che in fondo è un bene e quindi si giustifica da sé. Ma il diritto non coincide sempre con la giustizia.

L’umanitarismo è la degradazione dell’umanitario, allo stesso modo in cui il moralismo è una perversione della morale.

L’umanitarismo elimina i dubbi e gli scrupoli, scredita le critiche e divide il mondo gerarchicamente tra vittime e soccorritori – non è più una moda, ma un modo di leggere il mondo.

È lecito parlare di cannibalismo umanitario – l’orco filantropico, l’ha chiamato Octavio Paz (Premio Nobel per la Letteratura nel 1990): fornire il nostro aiuto, rimediare ai misfatti, diventa una dipendenza. Abbiamo bisogno di un contingente di vittime per continuare a sentirci dei salvatori. L’ingerenza umanitaria diventa un dovere (dobbiamo farlo), un diritto (possiamo farlo) ed un vizio (non possiamo non farlo).

L’umanitarismo è un’industria, con le sue logiche ed i suoi metodi interni, è inquadrata, normativizzata, tecnicizzata, tecnocratizzata, arida e gelida: c’è un ingente budget disponibile, serve una crisi che lo giustifichi.

In Cambogia, in Etiopia, in Ruanda e nel Congo-Zaire l’umanitarismo è rimasto implicato in politiche criminali.

ALBERT CAMUS, La Caduta (La Chute) (1956)

http://fanuessays.blogspot.it/2011/11/il-narcisista-umanitario-parte-prima_14.html

MARCO DERIU, “Dietro aiuti e cooperazione sta una visione del mondo”, Solidarietà Internazionale, nov./dic. 2005

Negli ultimi decenni, secondo i dati dell’UNDP si è registrato un aumento degli indici di povertà in 37 dei 67 paesi di cui si disponeva di dati. A questo punto una domanda è d’obbligo: come spiegare la diffusione della miseria e di condizioni di esistenza sempre più drammatiche proprio nei decenni in cui si sono registrate i maggiori tassi di produzione, di consumo, di crescita? Il mondo non è mai stato così ricco, eppure sono milioni le persone che continuano a morire di stenti. Non ci deve venire forse il dubbio che le tradizionali categorie interpretative – legate all’idea di sviluppo, di crescita, di lotta alla povertà, di emergenza umanitaria – non riescono a spiegare quello che è successo, non permettono di dar conto di ciò che ci troviamo di fronte?
Le condizioni di miseria in cui vive una gran parte della popolazione mondiale non sono il risultato di una condizione di sottosviluppo, ma il risultato stesso delle strategie di sviluppo.

Le politiche di sviluppo concretamente hanno determinato in molti paesi del sud del mondo la distruzione sistematica delle forme di povertà conviviale praticate dalle comunità locali svalutando e soppiantando le forme di produzione per la sussistenza e delle forme di scambio locale per imporre l’imperativo della crescita. Hanno quindi gettato le basi di un’economia di mercato orientata alla crescita, che significa un’economicizzazione della società, una moltiplicazione dei bisogni, una maggiore dipendenza individuale e sociale dalla produzione, dal reddito monetario e dal consumo in una competizione di tutti contro tutti che alza le chance di arricchimento per alcuni, mentre condanna alla miseria tutti gli altri.

Man mano che si afferma l’economicizzazione della società non è più l’economia a dover corrispondere ai bisogni delle persone, ma piuttosto questi ultimi a dover corrispondere ai bisogni dell’economia. La produzione, l’induzione e la moltiplicazione dei bisogni è addirittura indispensabile al buon funzionamento dell’economia di mercato.

Le Ong e le agenzie internazionali hanno impiantato il verbo della crescita e dello sviluppo quasi in ogni angolo del pianeta. Assieme agli aiuti materiali ed economici hanno riversato sulle altre società soprattutto una visione del mondo. I cooperanti sono stati solerti spacciatori di illusioni: lo sviluppo, la crescita, la globalizzazione, la ricchezza.

Il giudizio di arretratezza che abbiamo imposto alle nostre alterità e la mentalità che ci porta a guardare noi stessi come rappresentanti di una civiltà più evoluta ci spingono a credere che gli altri popoli debbano in fondo imitarci per diventare come noi e accedere al nostro mondo di benessere. L’idea dell’aiuto, del dono, dunque non è altro che lo strumento attraverso cui il cooperante occidentale pensa si possa colmare questo gap “temporale” tra “noi” e “gli altri”. In altre parole, attraverso il dono si cerca di rendere gli altri simili a noi. Gli aiuti non sono semplicemente oggetti o beni, ma sono segni, simboli, strumenti performativi, agenti attivi di colonizzazione culturale.

L’unico imperativo morale che abbiamo non è quello di salvare il mondo per renderlo uguale a noi, ma quello di costruire relazioni rispettose e generose con le nostre alterità.

http://www.solidarietainternazionale.it/anno-xvi/n-06-novdic-2005/848-la-faccia-piu-subdola-della-colonizzazione.html

MARCO DERIU et al. (a cura di), “L’illusione umanitaria. La trappola degli aiuti e le prospettive della solidarietà internazionale”, 2001.

L’aiuto umanitario si rivolge non alla persona nella sua umanità complessiva, ma al solo “essere sofferente”. Mentre cerca di lenire o estirpare il dolore, contribuisce in realtà alla trasformazione ed alla riduzione simbolica dell’essere vivente a puro essere bisognoso. L’ascolto, l’aiuto, non riguarda più le persone ma solamente coloro che sono riconosciuti come vittime sofferenti. In altre parole si riconosce l’altro solo nella forma estrema della vittima. Si assiste dunque alla creazione di un ordine vittimale. […]. L’aiuto umanitario contribuisce alla riduzione dell’essere umano a nuda vita, cancellando ogni forma di alterità. La relazione che viene messa in gioco nell’assistenza umanitaria è in realtà un rapporto di tipo funzionale e non una relazione umana vera e propria. I soggetti cui dovrebbe essere rivolta l’azione umanitaria non hanno voce in capitolo. Non è previsto l’ascolto, il confronto, il conflitto, lo scambio, ovvero tutto ciò che può rendere accettabile e dignitoso per una persona il ricevere aiuto da un’altra persona. […]. Questa ignoranza è sintomo di un’implicita presunzione degli occidentali nei rapporti con le alterità (p. 25).

I paesi autosufficienti o esportatori di cibo divengono dipendenti dalle importazioni di prodotti occidentali (Somalia, Haiti, Bangladesh).

Nel 1995 Care, una delle più grandi agenzie di aiuto statunitensi affermava nel suo rapporto annuale: “i paesi che sono stati beneficiari di aiuto umanitario oggi acquistano il 31% delle esportazioni agricole degli Stati Uniti”.

È molto difficile convincere le persone che mentre credono di stare aiutando qualcuno in realtà gli stanno facendo del male. Che mentre pensano di migliorare la loro condizione in realtà la peggiorano. Spesso la gente non vuole saperne nulla. È incatenata a quello che sta facendo. È prigioniera delle sue buone azioni. Preferisce non interrogarsi sulle conseguenze delle proprie azioni (p. 90).

Il fatto di donare ci fa credere automaticamente di dover avere una qualche forma di potere sul nostro beneficiario (p. 92).

Se davvero – come abbiamo cercato di mostrare – l’umanitario serve a coprire, allora sarebbe meglio far esplodere i conflitti. È fondamentale infatti mettere la gente di fronte a quei problemi, a quelle contraddizioni e a quelle ingiustizie che l’umanitario cerca in tutti i modi di nascondere: la violenza del mercato e del totalitarismo economico, l’ingiustizia e il carattere egemonico delle attuali relazioni nord-sud, la riduzione della politica a un gioco di potere, l’utilizzo della retorica dei diritti umani e dei buoni sentimenti per coprire una strategia di dominio e gli interessi economici dei paesi ricchi (p. 176).

L’imperativo “dare!”, deve essere sostituito da “conoscere” e “ascoltare”. La conoscenza e l’incontro sono l’unica garanzia possibile per una reale amicizia e per un sostegno reciproco rispettoso, quando si rende necessario. […]. Inoltre instaurare un’ottica di reciprocità significa riconoscere che la cultura e le società occidentali hanno molto da apprendere dalle culture e dalle società del sud del mondo, e che parte di questo sapere può essere fondamentale per affrontare in maniera più saggia i problemi che tormentano le nostre società (pp. 186-187).

Zuccotti Park e Piazza Battisti: il fallimento di indignati ed autonomisti ci serva di lezione

di Stefano Fait

Ho notato (numero di visualizzazioni) che c’è un certo interesse per il mio punto di vista sulla questione: “autonomia al bivio”.

Mi fa ovviamente molto piacere e mi auguro vivamente di non deludere i lettori: non posso fare molto altro per la mia comunità se non cercare di analizzare quel che vedo e sento quanto più lucidamente mi sia possibile fare.

Dice bene il direttore del Trentino Alberto Faustini, nel suo editoriale: “A mancare erano…le facce delle persone che ogni giorno vivono d’autonomia, ma che sentono il Palazzo meno vicino d’un tempo…I cittadini, in piazza, non ci sono scesi proprio: chi di dovere, si chieda perché“.

È un fatto: Piazza Battisti era affollata, ma non piena, e certamente non più di un terzo dei presenti non è stato “convocato”.

Il tanto deprecato e vezzeggiato popolo non si è visto.

Sono stato intervistato e non ho idea di cosa sarà trasmesso in TV di quanto ho detto.

Ne approfitto per riproporre ed elaborare i punti nodali che ho toccato.

Primo, ma non per importanza. L’assessore Panizza doveva usare maggior circospezione. La situazione richiede una certa coesione, non visibilità personale e a vantaggio del proprio partito: uniti nella diversità, con pari dignità. Le strumentalizzazioni politiche allontanano la gente e costringono il dibattito nei binari del monologo. Un manifestazione per l’autonomia è diventata una manifestazione per gli autonomisti, non particolarmente riuscita. Bah…
Mettiamo da parte le partigianerie e lavoriamo tutti assieme per il bene comune (con diritto di critica e di dissociarsi).

Secondo. Faustini ha scritto un’altra cosa importante, che è venuta in mente anche a me. Lui l’ha espressa molto meglio: “Il Trentino…può scegliere di chiudersi a riccio, interpretando l’autonomia come un privilegio, oppure può mettere la propria esperienza al servizio dell’Italia come esempio. L’evento di ieri avrà senso solo se perseguirà la nuova strada”.

La strategia del riccio è nobilmente nonviolenta, perché fa male solo a chi aggredisce, ma è anche futile ed autodistruttiva, quando l’aggressore è di un certo peso. Appallottolarsi per resistere all’attacco di un’automobile è istintivo, però è anche suicida.

Per questo il movimento degli indignati e di Occupy Wall Street sta, temporaneamente, fallendo, com’è fallita la mobilitazione trentina.
Gli indignati non hanno combinato nulla, non hanno ottenuto nulla e ora li stanno scacciando da tutti i luoghi occupati, uno dopo l’altro. Succederebbe lo stesso ai no-Tav, se le comunità della Val di Susa non fossero determinate a resistere. Il fallimento è dovuto alla pateticità del fine principale, che pare essere solo quello di far vedere che ci siamo, che non possiamo essere ignorati, non di cambiare le cose in modo duraturo.

La gente si mobilita quando vede che c’è una ragionevole possibilità che un movimento possa cambiare le cose, che possa ristabilire la giustizia sociale o la libertà, quando è stata persa.

Al momento i Trentini non hanno ancora sentito i veri morsi della crisi, ma solo dei mordicchiamenti sopportabili. Molti non si sono resi conto che ciò è successo soprattutto grazie all’autonomia. I negozi del centro chiudono, ma la maggior parte dei Trentini può continuare a credere che è solo questione di tempo e tutto si sistemerà.

In quei paesi dove l’autonomia non esiste, la gente ha invece capito che la situazione è ben diversa:

Che ci piaccia o no, i dati indicano che è in atto una lotta di classe scatenata unilateralmente da un’oligarchia di ricchi contro la classe media. Dove questo conflitto ci potrebbe condurre l’ha spiegato Gustavo Zagrebelsky senza tanti giri di parole:
https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/02/29/gustavo-zagrebelsky-sul-nuovo-ordine-mondiale-e-lapocalisse/
Perché sia stata intrapresa proprio ora non è una questione da affrontare in questa sede, ma è probabilmente legata ad un progressivo risveglio della società civile globale, reso possibile da internet (e forse dalla consapevolezza di altri grandi eventi imminenti).

Data la situazione, credo senza precedenti, si rende necessaria una stategia diversa, che pretenda dai politici di rispettare la sovranità e la volontà popolare e di difendere lo stato sociale. Questo è un altro punto che ho toccato nell’intervista. L’autonomia è il fondamento della democrazia, che è nata per contrastare incessantemente ed instancabilmente la tendenza del potere ad accentrarsi in poche mani e per promuoverne la diffusione tra tutti i cittadini, assieme alla consapevolezza ed alle competenze necessarie ad usarlo saggiamente.

Ora, quel che è mancato ad indignati ed autonomisti è la capacità di fare richieste. Il potere non concede nulla se non c’è una richiesta specifica. Se vogliamo qualcosa dobbiamo domandarlo.
Dellai
e Durnwalder hanno chiesto maggiori competenze, ossia hanno assicurato che le due province autonome si faranno carico di maggiori spese, alleviando ulteriormente i costi che spettano allo Stato. È una buona mossa, ma non credo che avrà alcun successo, perché a Roma e Bruxelles la tendenza prevalente è quella dell’accentramento, della sottrazione di fette sempre più ampie di sovranità ai paesi membri.

Trentini ed Alto Atesini/Sudtirolesi non devono dividersi, devono fare fronte comune e farsi sentire, devono parlare la lingua di tutti, proprio come raccomanda di fare Faustini.

Ho scritto con Mauro Fattor il saggio “Contro i miti etnici. Alla ricerca di un Alto Adige diverso” proprio in previsione di questo tipo di evenienza globale con ripercussioni locali (cf. introduzione, pp. 15-20). Gli eventi ci stanno dando ragione.

Si devono fare richieste concrete che riguardino tutti e che possano realisticamente cambiare le cose, altrimenti Roma avrà buon gioco a mettere Lombardi e Veneti contro i Trentini, mentre i separatisti sudtirolesi frazioneranno ancora di più la società civile della provincia di Bolzano. Dobbiamo dare l’esempio a tutte le comunità italiane e non solo. Dobbiamo batterci per tutti e non solo per noi stessi. Dobbiamo agire localmente, ma pensare globalmente, pensare ad un Mondo Nuovo, dove il neoliberismo dei monopoli politico-economico-finanziari sia ricacciato indietro e si riprenda il cammino tracciato dai padri dell’autonomia e dai padri della Costituzione.

O si fa così, oppure le piazze non si riempiranno mai: né le nostre, né quelle altrui.

Concludo con una serie di interrogativi che spero riceveranno una risposta corale e positiva.
L’Alto Adige può imparare dagli errori trentini e vice versa?
Possiamo creare assieme un modello autonomistico che serva da piattaforma per tante altre realtà, disgiuntamente dal fattore etnico-linguistico?
Possiamo, cioè, essere “glocali”?
Come suggerisce Michele Nardelli, è possibile “fare del Trentino un laboratorio permanente per la risoluzione dei conflitti nazionali e territoriali attraverso l’autogoverno come paradigma post-nazionale”?
http://www.michelenardelli.it/
Ma, soprattutto, Bruxelles sarà capace di superare il paradigma centralista ed accettare questo genere di sperimentazioni?

Perché il 10 marzo sarò in piazza per l’autonomia (sintesi)

di Stefano Fait

Il precedente post su questo argomento era troppo lungo:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/06/il-10-marzo-si-fa-la-storia-a-piccoli-passi/

L’ho sintetizzato perché è importante che siano chiare le mie motivazioni, che mi auguro siano ampiamente condivisibili e condivise.

Sarò anch’io in piazza a celebrare l’autonomia, il 10 marzo.

Questo per due ragioni.

La prima è la condivisione del progetto ventilato da Michele Nardelli e da altri di “fare del Trentino un laboratorio permanente per la risoluzione dei conflitti nazionali e territoriali attraverso l’autogoverno come paradigma post-nazionale”.

La seconda ragione si è imposta ascoltando le parole di due parlamentari italiani, entrambi fautori di una Grande Coalizione a sostegno della ricandidatura di Monti nel 2013. La definivano un’Alleanza dei Responsabili, contrapposta a “tutti gli altri” (sic!), bollati come “populisti” e “demagoghi”. Mi ha particolarmente colpito una frase: “Non si può andare contromano su un’autostrada. Se il mondo va in una certa direzione, dobbiamo fare lo stesso”.

I due parlamentari dichiarano che esiste un unico modello di sviluppo possibile e che chi non lo condivide è un irresponsabile, proprio in una fase storica in cui le magagne del sistema sono dolorosamente sotto gli occhi di tutti ed è sempre più chiaro che il nostro stile di vita deve essere negoziabile, per il bene nostro e delle generazioni a venire.

Quel che è peggio è che s’intravede, alla radice, l’idea che il dissenso dei cittadini e delle comunità locali sia sempre e comunque espressione di un interesse particolare nocivo al bene comune e che i progetti del potere centrale siano al contrario sempre guidati da una prassi decisionale efficace, rapida e pragmatica che privilegia razionalità, disciplina ed assenza di sentimentalismi, preconcetti e pregiudizi.

Viene così a mancare la cultura tipicamente democratica della gestione del conflitto e della pluralità, fonte di creatività, innovazione, miglioramento, autocritica, graduale maturazione della società civile. Si prospettano, al contrario, energici disciplinamenti della popolazione e dei governi locali.

Alla luce di quanto detto, la manifestazione di sabato 10 marzo in piazza Battisti a Trento in difesa dell’autonomia potrebbe avere un significato molto importante, forse perfino epocale e voglio esserci anch’io.

Il 10 marzo si fa la storia, a piccoli passi

di Stefano Fait

Qui una sintesi delle riflessioni sviluppate nell’articolo che segue le citazioni:
https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/07/perche-il-10-marzo-saro-in-piazza-per-lautonomia-redux/

Se in piazza non ci saranno migliaia di persone, sarà un flop clamoroso.

Luis Durnwalder, “Trentino”, 2 marzo 2012

Il mio timore è che molti di noi, pur amando dissertare di autonomia, pur riconoscendone valore e utilità, non ne avvertano invece una sincera ed autentica passione.

Franco Panizza, “Trentino”, 3 marzo 2012

Una proposta, quella di fare del Trentino un laboratorio permanente per la risoluzione dei conflitti nazionali e territoriali attraverso l’autogoverno come paradigma post-nazionale, mettendo in rete – come è stato per la Carta sull’autonomia del Tibet – i luoghi della ricerca di questa terra impegnati sul piano internazionale, dall’Università al Centro di formazione alla solidarietà internazionale, dal Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani all’Osservatorio Balcani Caucaso… Ne avevamo parlato qualche giorno fa con l’ambasciatore del Marocco e con il presidente Dellai, a partire dalla semplice considerazione che quello trentino è in sé un piccolo laboratorio sull’autonomia, guardato con attenzione da molti e in latitudini diverse.

Michele Nardelli

http://www.michelenardelli.it/diario.php?anno=2012&mese=03

L’autonomia, sia individuale sia collettiva, pietra angolare dei regimi democratici, corrisponde al diritto di cercare attraverso se stessi, non alla certezza di trovare.

Tzvetan Todorov, “Il secolo delle tenebre”

Difetta nei più, per miseria, per indifferenza, secolare rinuncia il senso geloso e profondo dell’autonomia e della responsabilità. Un servaggio di secoli fa sì che l’italiano medio oscilli oggi ancora tra l’abito servile e la rivolta anarchica. Il concetto della vita come lotta e missione, la nozione della libertà come dovere morale, la consapevolezza dei limiti propri ed altrui, difettano. Gli italiani hanno più spesso l’orgoglio della loro persona, nei suoi valori e rapporti esterni, che della loro personalità. […]. Mussolini fornisce la misura della sua banalità quando considera il problema della autorità e della disciplina come il problema pedagogico essenziale per gli Italiani. Vivaddio, non è questo che occorre insegnare agli Italiani! Da secoli si piegarono a tutti i domini e servirono tutti i tiranni. La nostra storia non offre sinora nessuna vera rivoluzione di popolo.

Carlo Rosselli, “Socialismo liberale”

Ieri sera sono rimasto assolutamente sconcertato dalla visione del mondo delineata su Rai News 24 da due parlamentari italiani, Adolfo Urso (ex MSI, presidente della Fondazione i FareFuturo, e Guido Crosetto (PDL).

Entrambi fautori di una Grande Coalizione PDL-PD-Centro a sostegno della ricandidatura di Monti nel 2013, la definiscono un’Alleanza dei Responsabili, contrapposta a “tutti gli altri” (sic!) che bollano come “populisti” e “demagoghi”, spiegando che “non si può andare contromano su un’autostrada. Se il mondo va in una certa direzione l’Italia deve fare lo stesso”. I due parlamentari dividono il mondo tra i realisti che appoggiano Monti e la Tav e gli altri, gli anti-moderni, che rappresentano una zavorra per l’Italia e con i quali non si possono stabilire degli accordi, perché sono per definizione nel torto. La Grande Coalizione sarebbe allora una muraglia contro questi nuovi barbari, per preservare la civiltà. Se qualcuno pensa che io sia caduto in eccessi retorici, lo invito a seguire con attenzione le dichiarazioni di chi si schiera con il progetto della Grande Coalizione. Urso e Crosetto hanno promesso che nei prossimi mesi la separazione antropologica tra gli uni e gli altri sarà resa sempre più netta, “per poter chiarire le idee all’elettorato italiano, in special modo riguardo alla grande trasformazione della logica degli schieramenti che si renderà necessaria per dar vita alla Grande Coalizione”.

Considero un’assoluta priorità smascherare la reale natura di questo progetto, che è destinato a ridurre ulteriormente gli spazi democratici di questo paese e a confliggere con le autonomie locali.

La visione del mondo propagandata dai summenzionati parlamentari (ma anche dal governo Monti e da Napolitano) è quella, fatalistica, di una società governata da forze inarrestabili ed incontrollabili che si possono solo assecondare. Mentre la premessa della democrazia è l’autodeterminazione, la capacità dei cittadini di trasformare le proprie circostanze di vita eleggendo dei rappresentanti che incarnino la loro volontà, che può essere e spesso è in contrasto con quella di chi detiene il potere economico-finanziario e militare, la lettura della realtà di questi politici non è dissimile a quella che ha ostacolato l’abolizione dello schiavismo e dell’apartheid: esiste un unico modello possibile, chi dissente è un demagogo, chi sottoscrive è responsabile. Crosetto lo diceva con gli occhi bassi, senza guardare la telecamera. Forse una parte di lui si vergognava delle parole che gli uscivano dalla bocca. Urso, memore del suo passato alla direzione nazionale del Fronte della Gioventù, sembrava trovarsi molto a suo agio in questa cornice di ineluttabilità e di gerarchie inossidabili. Fosse stato per loro Rosa Parks, l’involontaria eroina dell’anti-segregazionismo, non sarebbe mai dovuta esistere: irresponsabile! Com’è irresponsabile, sempre dal loro punto di vista, una comunità autonoma che si oppone al volere delle autorità centrali.

Lo chiede Bruxelles! Lo chiedono le autorità mondiali!

Sarebbe bene che Durnwalder e Dellai – e chi verrà dopo di loro – riflettessero a lungo sulle implicazioni del varo della Grande Coalizione. Vi è, alla radice, l’idea che il dissenso dei cittadini e delle comunità locali è sempre e comunque espressione di un interesse particolare nocivo al bene comune e che i progetti del potere sono sempre guidati da una prassi decisionale efficace, rapida e pragmatica che privilegia razionalità, disciplina ed assenza di sentimentalismi, preconcetti e pregiudizi. Tecnici e professori non sbagliano e, se sono dalla parte sbagliata, come nel caso dei no-Tav, è perché sono faziosi e non analizzano la realtà obiettivamente (altrimenti sarebbero pro-Tav).

In questa supponente Weltanschauung, gli autonomismi rappresentano un’incoerenza ed una contraddizione nel disegno generale, sono intellettualmente e psicologicamente irritanti, fomentano l’indisciplina ed il disordine.

L’aggressività montiana contro le autonomie non è esclusivamente motivata dalla dottrina dell’austerità senza se e senza ma. C’è dietro anche un impulso psicologico dettato dal senso di intangibilità morale (che normalmente appartiene alla sfera del sacro), il senso che le proprie decisioni sono insindacabili e moralmente ineccepibili e che chi punta il dito contro l’arbitrarietà di certe decisioni prese in nome del bene comune non sa quello che dice o è un fanatico, populista/demagogo, ecc. Questo paternalismo/maternalismo statalista mal tollera le autonomie e non è per nulla benevolo, anche se ritiene di esserlo: il potere di generare la vita e di nutrirla è anche quello che la fa appassire; la fiducia può mutarsi in ricatto.

Viene allora a mancare la cultura tipicamente democratica della gestione del conflitto e della pluralità come fonti di creatività, innovazione, miglioramento, proprio in un momento in cui le magagne del modello di sviluppo dominante sono dolorosamente sotto gli occhi di tutti ed è sempre più chiaro che il nostro stile di vita deve essere negoziabile, per il bene delle generazioni a venire.

Invece il conflitto viene riclassificato come caos: il mantenimento dell’ordine delle cose non va messo in discussione e chi lo fa è dogmatico, superstizioso o disadattato ed il suo atteggiamento è passibile di correzione. Giusto è quel che il potere stabilisce sia giusto e solo dei malvagi e degli egoisti si potrebbero opporre al giusto ed al bene: saranno dunque necessari degli energici disciplinamenti della popolazione e dei governi locali. Ciò che stona va rimosso, in nome dell’utilità sociale.

Alla luce di quanto detto, la manifestazione di sabato 10 marzo in piazza Battisti a Trento in difesa dell’autonomia avrà un significato molto importante, forse perfino epocale.

In Italia non se ne accorgerà nessuno, perché i media saranno occupati a coprire ben altre questioni, ma resta il fatto che questo evento molto piccolo crescerà, con il tempo, fino ad assumere proporzioni forse ingiustificate, perché noi esseri umani viviamo in una rete di miti ed archetipi e continuiamo a produrne di nuovi. Quel che è certo è che si tratta dell’inizio di un discorso più ampio che non sappiamo dove ci condurrà, ma che è diventato irrinunciabile ed è decisamente stimolante, come lo sono, di norma, le grandi trasformazioni.

Data la situazione attuale:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/05/prima-vennero-per-i-greci-e-non-dissi-nulla-perche-non-ero-greco/

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/02/16/basta-prendersela-coi-tedeschi-siamo-tutti-sulla-stessa-barca/

ad aprile, i Greci voteranno quasi certamente per un governo tenacemente ostile a Bruxelles, che molti prevedono indirà quanto prima un referendum sulla permanenza nell’eurozona. Sfidando l’ira delle autorità europee, il nuovo primo ministro spagnolo Mariano Rajoy ha dichiarato che sarebbe suicida inseguire i termini europei sul taglio del deficit, perché spingerebbe il tasso di disoccupazione oltre la soglia del 25% (quella giovanile è già oltre il 40%). La Spagna è un morto che cammina, anche se i riflettori si concentrano su Grecia e Portogallo, che in effetti, fino ad oggi, se la sono passata peggio. Si trascura la Spagna (in termini di PIL, 1XSpagna = 5XGrecia), perché la sua caduta segnerebbe la fine del progetto degli Stati Uniti d’Europa. Però alla fine del 2011 il deficit spagnolo ha toccato quota 8,51%, 2 punti e mezzo percentuali oltre quel che aveva preventivato Zapatero. Quello delle comunità autonome è più che raddoppiato in un solo anno. Una politica di rientro del deficit che eviti sommosse in ogni città spagnola è praticamente impossibile.

In Francia la notizia che la Merkel avrebbe fatto (slealmente: si può dire?) campagna elettorale per Sarkozy ha favorito il suo sfidante socialista, Hollande, molto critico della politiche europee di austerità e centralistiche:

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-03-06/patto-antihollande-sarkozy-autogol-063917.shtml?uuid=AbRsOz2E

I potenti d’Europa non hanno ancora capito che la maggioranza dei cittadini li detesta?

La Repubblica Ceca si è saggiamente chiamata fuori dall’intesa fiscale (Fiscal Compact – la “regola d’oro” della disciplina del budget), assieme ai britannici. Il governo irlandese indirà un referendum sul Fiscal Compact, l’insieme delle nuove norme europee di controllo del budget fiscale. Gli Irlandesi hanno già bocciato il trattato di Nizza nel 2001 e quello di Lisbona nel 2008. Il giudizio dell’elettorato è, per il momento, negativo. Questo voto non rappresenta una minaccia per le autorità europee, dato che sono sufficienti 12 ratifiche su 25 stati firmatari per approvare il F.C. Tuttavia il no lancerebbe un chiaro segnale agli altri popoli europei che già associano il termine austerità all’idea di trasferimento dei beni dalla classe media ai ricchi.

Veniamo all’Italia, che registra una caduta dei consumi persino nel settore alimentare, quello che in tempi di crisi è l’ultimo a cedere. Nel frattempo il mercato delle auto sta tirando le cuoia (mentre Marchionne continua a pontificare su tutto):

http://www.unrae.it/primo-piano/categorie/comunicati-stampa/item/2287-immatricolazioni-di-autovetture-febbraio-2012

Quest’inverno migliaia di Europei sono morti assiderati (ipotermia) o di malattie stagionali perché non potevano permettersi di pagare le bollette e le medicine.

In Portogallo:

http://www.rtp.pt/noticias/index.php?article=530502&tm=8&layout=121&visual=49

nel Regno Unito:

http://www.dailymail.co.uk/news/article-2100232/Frozen-death-fuel-bills-soar-Hypothermia-cases-elderly-double-years.html?ito=feeds-newsxml

nell’Europa orientale ed occidentale:

http://it.euronews.net/2012/02/02/europa-ondata-di-freddo-killer/

Il prossimo inverno, se sarà rigido quanto il precedente (o più rigido),

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/02/16/verso-una-nuova-era-glaciale-il-quadro-dinsieme/

tutto questo non sarà accettato con fatalismo. Tra una tormenta e l’altra i cittadini andranno a prendersi con la forza quello di cui necessitano.

Il forte rallentamento dell’economia cinese (-1,5% rispetto all’anno precedente) e il nuovo boom dei junk bonds (i titoli spazzatura/obbligazioni ad alto rischio che ci hanno portato al disastro) ci fa capire che la crisi dell’eurozona è quasi certamente definitiva e che anche gli stati nazionali rischiano di essere trascinati nell’abisso di questo colossale fallimento, sotto il peso di un indebitamento senza rimedio.

Questo scenario può sfociare in due possibili direzioni: quella di uno stato centralizzato, sul modello degli Stati Uniti d’America (federazione), oppure quella di una proliferazione di piccoli stati confederati (confederazione), allineati allo spirito delle occupazioni degli indignati e della lunga tradizione dell’autonomismo/regionalismo/municipalismo italiano, che evolveranno verso nuove forme di auto-organizzazione collettiva.

Ahimè, ciò, verosimilmente, non avverrà pacificamente: nessun parto è pulito ed indolore.

L’AUTONOMIA PUÒ ESSERE IL VALORE-GUIDA DEL MONDO NUOVO

Ospitalità ed autonomia potrebbero rappresentare lo strumento del nostro riscatto, il volano per un Mondo Nuovo.

La libertà individuale, con annessa responsabilità personale, a volte ci sembra una zavorra. È più facile delegare le decisioni ad altri ed accusarli di aver sbagliato, se commettono degli errori. È ancora più facile distribuire la responsabilità tra i membri di un’intera comunità, enfatizzando la libertà collettiva e i narcisismi collettivi: “mal comune mezzo gaudio, e comunque tutte queste persone non possono aver torto” (chissà quanti Tedeschi l’hanno pensato o detto durante il nazismo!).

L’idea moderna di autonomia, però, è incentrata sul principio dell’importanza di assumere, almeno in una certa misura, il controllo delle proprie esistenze, coralmente, invece di vivere alla mercé degli agenti esterni, in un infantilismo protratto.

Ho già affrontato la questione della libertà, il principio da cui scaturisce quello dell’autonomia in un articolo di qualche tempo fa:

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/30/la-liberta-quella-vera/

L’idea moderna di autonomia presuppone l’autodeterminazione personale (libertà) in una cornice di autodeterminazione comunitaria (responsabilità).

L’una non esclude l’altra: sono complementari.

Un cittadino adulto, maturo, non ripudia la sua autonomia di giudizio e si batte per espandere questo suo diritto inalienabile (giacché non è un privilegio né una concessione), a partire dalla sua comunità, perché sa che essere circondato da persone consapevoli, libere e responsabili, che sanno decidere in coscienza, va a tutto vantaggio suo e del bene comune. In questo senso la democrazia autonomista ha provato, per quanto è possibile, a realizzare (inverare) l’ideale delle prime comunità cristiane: la piena autonomia delle personalità nell’unità di un destino comune. Questo ideale, a sua volta, in un circolo virtuoso, si fa spontaneo promotore delle virtù dell’autonomia: la tolleranza (non paternalistica), il dialogo, l’apertura, l’autodisciplina e la disponibilità all’autocritica ed al cambiamento. 

Riguardo a quest’ultimo aspetto, non dobbiamo commettere l’errore di ricadere in quello che chiamo “autonomismo tassidermico”, ossia la tendenza a fissare le identità come quando s’impaglia un animale, a bloccare il cambiamento, come i serpenti che cambiano pelle ma rimangono sempre gli stessi. Quella è la strada della morte dell’autonomismo e delle sue istituzioni, che diventano dei morti-viventi che pretendono devozione ed asservimento a beneficio della loro auto perpetuazione, invece di porsi al servizio dei cittadini, come sarebbero tenute a fare (è quella la loro ragion d’essere).

L’autonomia, l’autonomismo, le comunità autonome devono poter cambiare nel tempo, come cambiano gli esseri umani, altrimenti diventano ingabbiatori e vampiri, annichilitori della ragione e dignità umana. Un autonomismo etnicamente connaturato, per quanto si sforzi di passare per una crociata in favore dei più deboli, è ispirato al principio del diritto del più forte di prevalere ed infantilizza i cittadini invece di avviarli alla maturità. Infatti nessuno può definire me o chiunque altro: solo io posso assumermi la responsabilità di stabilire chi sono e come gestire responsabilmente questa mia identità mutevole, eterogenea, sfuggente.

Malauguratamente, la tendenza dominante al momento attuale è quella di un’unificazione europea di carattere tecnocratico ed autoritario, avversa alle autonomie locali. In ogni occasione ci viene ripetuto che questa è l’unica soluzione a tutti i nostri problemi.

Queste sono le mie argomentazioni in favore di un programma confederale (ossia contro il progetto degli Stati Uniti d’Europa):

  1. L’attuale configurazione dell’Unione Europea va già più che bene: c’è pace, c’è stabilità e ci sarebbe pure prosperità, se i politici prestassero più ascolto ai cittadini-elettori che alle sirene dell’alta finanza. Semmai, una sua riforma dovrebbe privilegiare le autonomie locali, non abolire la sovranità degli stati nazionali e, così facendo, minacciare le stesse autonomie locali (cf. Trentino-Alto Adige);
  2. tenuto conto dei successi indiscutibili delle nazioni più piccole di ogni continente, l’obiettivo dovrebbe essere quello di una confederazione di repubbliche di dimensioni più ridotte, meno militariste, unite dalla gestione della politica estera e delle questioni di interesse generale;
  3. le riforme dovrebbero riguardare essenzialmente la regolamentazione dell’economia, della finanza, del fisco e del mondo del lavoro – nel senso della tutela di chi produce ricchezza, non di chi si comporta come un parassita e vive alle spalle dei lavoratori, investitori ed imprenditori (speculatori ed evasori);
  4. non si attua un radicale riorientamento delle istituzioni dall’alto se manca il consenso popolare (la democrazia prevede strumenti di consultazione della cittadinanza);
  5. è mai possibile che le lezioni del nazismo, del comunismo e dell’americanismo non siano state apprese?
  6. quando il potere si accentra cresce il rischio di corruzione e si rafforza la minaccia di sviluppi oligarchici e tirannici (“il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente”);
  7. più ampia è la popolazione, più grande sarà la distanza tra elettori ed elettorato, perché ci saranno pochi rappresentanti per numerosissimi cittadini e ciò non può che nuocere alle dinamiche democratiche (Montesquieu docet: è improvvisamente diventato un pensatore irrilevante?);
  8. l’unionismo europeista comporta un drastico ridimensionamento dell’autonomia dei governi locali, gli unici strettamente a contatto con la realtà locale, eredità della lotta contro gli autoritarismi del passato: vogliamo più autonomie locali, non meno;
  9. un’unica capitale federale diventerebbe un ricettacolo di burocrati parassitari e politicanti. Pensiamo a Washington ed a Bruxelles. Hanno forse completamente torto i leghisti quando esclamano: “Roma ladrona”? Non c’è neppure un fondo di verità? Vogliamo che Bruxelles si degradi ulteriormente?
  10. in un ordinamento compiutamente confederale dotato di una carta dei diritti (o anche senza di essa, se le costituzioni dei vari stati vengono rispettate) ci potremmo permettere più ampie forme di democrazia diretta senza scivolare nella tirannia delle maggioranze. Saremmo tutelati dagli arbitri della Commissione Europea e della Banca Centrale Europea che stanno spogliando i cittadini dei loro risparmi per riassegnarli a chi già prospera;
  11. in una confederazione ci sarebbe il rischio di una burocrazia ipertrofica ed onnipotente come quella dell’attuale Unione Europea sarebbe attenuato;
  12. in una confederazione si introdurrebbero procedure che consentano le rotazioni periodiche degli incarichi politici di raccordo, per evitare che qualcuno si “incolli” alla sua poltrona, togliendo la delega in caso di incompetenza o disonestà;
  13. si bloccherebbe la strada del presidenzialismo, che assegna eccessive prerogative al presidente, senza che ci sia la minima certezza che sia invariabilmente una persona proba (es. Bush negli Stati Uniti e il mentitore, violatore del diritto internazionale e guerrafondaio Tony Blair, la cui candidatura alla presidenza dell’Unione Europea era stata ventilata da più parti);
  14. una confederazione abolirebbe gli eserciti professionali (permanenti), preferendo addestrare milizie locali, che non rappresentano mai una minaccia per la democrazia e i diritti civili e non instillano nei cittadini quella mentalità guerriera, aggressiva che affligge il mondo (cf. Merkel e Sarkozy e la vendita coatta di armi alla Grecia).

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/30/no-agli-stati-uniti-deuropa-le-ragioni-del-dissenso/#axzz1nlLMVkzb

Gandhi o Arundhati Roy? La scelta che determinerà il futuro dell’umanità

 

a cura di Stefano Fait

 

 

Le grosse imprese commerciali e industriali hanno la loro personale scaltra strategia per trattare il dissenso. Con una minuscola parte dei loro profitti gestiscono ospedali, istituti educativi e fondazioni, che a loro volta finanziano ONG, università, giornalisti, artisti, cineasti, festival letterari e perfino movimenti di protesta. Usano la beneficenza per attirare nella loro sfera di influenza coloro che plasmano ed orientano l’opinione pubblica. È un modo di infiltrare la normalità, di colonizzare l’ordinarietà, così che sfidarle sembri tanto  assurdo  (o esoterico) quanto lo è sfidare la “realtà” stessa. Da qui a “non esiste alcuna alternativa”, il passo è breve ed agevole.

Arundhati Roy

http://www.ft.com/intl/cms/s/0/925376ca-3d1d-11e1-8129-00144feabdc0.html

Mussolini è un enigma per me. Molte delle riforme che ha fatto mi attirano. Sembra aver fatto molto per i contadini. Inverità, il guanto di ferro c’è. Ma poiché la forza (la violenza) è la base della società occidentale, le riforme di Mussolini sono degne di uno studio imparziale. La sua attenzione per i poveri, la sua opposizione alla superurbanizzazione, il suo sforzo per attuare una coordinazione tra il capitale e il lavoro, mi sembrano richiedere un’attenzione speciale. […] Il mio dubbio fondamentale riguarda il fatto che queste riforme sono attuate mediante la costrizione. Ma accade anche nelle istituzioni democratiche. Ciò che mi colpisce è che, dietro l’implacabilità di Mussolini, c’è il disegno di servire il proprio popolo. Anche dietro i suoi discorsi enfatici c’è un nocciolo di sincerità e di amore appassionato per il suo popolo. Mi sembra anche che la massa degli italiani ami il governo di ferro di Mussolini.

M.K. Gandhi, Lettera a Romaine Rolland, dicembre 1931

Democrazia indiana? Non ci può essere alcuna democrazia in una società divisa in caste, pervasa di religioni fatalistiche  e misantropiche. L’India non è la più grande democrazia del mondo, non è moderna e non è laica. È dominata da un’élite oligopolista neofeudale che intrattiene rapporti neocoloniali con l’impero anglo-americano (potenza militare di Washington, potenza finanziaria della City di Londra) e sbatte in faccia a centinaia di milioni di poveri la sua opulenza in una nazione che si permette di esportare cibo mentre milioni di suoi cittadini vivono nella miseria più nera. Il sistema giudiziario protegge i ricchi (che possono uccidere restando impuniti) ed opprime i poveri (specialmente le donne). L’esercito è impiegato per tutelare gli interessi di pochi latifondisti a detrimento delle popolazioni degli stati di Tamil Nadu, Jharkand, Madya Pradesh, Orissa, Bengala, Bihar, che sono perennemente in rivolta, nell’indifferenza del mondo.

La struttura reazionaria dell’India fu molto utile al dominio britannico, che perciò non fece nulla per smantellarla, anzi la coltivò assiduamente. Oggi conviene agli oligopoli capitalisti, un terribile mix di oscurantismo orientale e avidità rapace occidentale: il peggio immaginabile. Tra la civiltà di un’umanità solidale e la barbarie della legge della giungla imposta da un’èlite che ha come unico obiettivo quello di restare tale, l’India è stata costretta a scegliere quest’ultima. L’ascesa del marchionnismo in Italia è un monito: non possiamo permetterci di sentirci al sicuro da questo genere di derive.

Qui si inserisce il discorso sull’ipocrisia della nonviolenza gandhiana. Gandhi ha predicato la nonviolenza a masse di oppressi in una della società più brutalizzanti che si possa immaginare. Che senso aveva convincere le masse a stare calme e non reagire, come una placida mandria, senza mai condannare la classe/casta dominante che con le sue consuetudini, leggi e politiche economiche diffondeva ed acuiva le disparità sociali, traendone lauti profitti? Non era e non è ancora oggi la peggiore delle violenze, questa? La violenza di interessi di parte mascherati da fatalismo, da “così va il mondo, è sempre stato così e così sempre sarà”? La violenza di una concezione nietzscheana del mondo?

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/24/morbido-e-bello-perche-amo-il-femminino-e-detesto-nietzsche-pur-ammirandolo/#axzz1nNrT1Utx

Con questa sua scelta di campo, Gandhi indossò i panni dell’apostolo di pace a beneficio del capitalismo più selvaggio e dell’imperialismo occidentale, persino di quello nazista, quando implorò Ebrei ed Inglesi di arrendersi mansuetamente all’aggressione nazista:

http://fanuessays.blogspot.com/2011/12/chi-era-veramente-gandhi.html

Ben diverso il comportamento di Arundhati Roy, che alle comode astrazioni di una realtà depurata dalle sue contraddizioni e ingiustizie preferisce la lotta contro una lurida quotidianità fatta di patimenti, iniquità, violenza incessante e multiforme, sfiducia e morte della speranza.

Gandhi annunciava al mondo di essere l’erede della migliore tradizione indiana, ma il Dharma dello Kshatriya gli ingiunge di proteggere i deboli e di aiutarli a proteggersi, non di esporli alla violenza contando sul fatto che, essendo numerosissimi, alla fine prevarranno quando l’oppressore sarà esausto. Questa è la logica utilitaristica dello scacchista, non di un autoproclamato campione dei diritti degli oppressi.

La Gita chiama ad essere correttori delle ingiustizie, non ad immolarsi senza resistere, senza neppure difendersi, come prescritto dalla Satyagraha, che raccomanda di essere pronti a morire e patire ogni sofferenza, purché non sia mai ricambiata. Il Satyagrahi rinuncia al diritto all’autodifesa e si vota al sacrificio supremo, alla sua dipartita. Lo spiega Gandhi: “l’unico dovere di un Satyagrahi è quello di sacrificare la sua vita a qualunque compito gli sia toccato. Questo è il fine più nobile che possa realizzare. Una causa spalleggiata da Satyagrahi così nobili non può mai essere sconfitta”. In questa maniera, assicurava Gandhi, il cambiamento sarebbe avvenuto spontaneamente, i forti si sarebbero sentiti in obbligo di effettuare le necessarie riforme.

Abbiamo visto che la storia ha dato torto a Gandhi. L’India indipendente non è un’India sensibilmente migliore di quella coloniale e i “nobili Satyagrahi” sono morti portando con sé nella tomba (nella cenere dei crematori) la loro causa.

Il Kshatriya, come il Satyagrahi, non temeva la morte, ma assegnava un valore alla vita, inclusa quella degli altri che si affidavano a lui cercando protezione. Per lui le due condizioni non erano esattamente intercambiabili come per Gandhi, che non sembrava dare valore alle vite dei suoi seguaci se non in funzione del trionfo della sua dottrina. Anche il semplice buon senso ci insegna che se una persona si trova a dover sostenere l’impegno di proteggere degli indifesi, l’ultima cosa che dovrebbe fare è cercare una morte “eroica” (patetica) ed “esemplare” (pessimo esempio) per mano di chi poi passerà ad eliminare le persone ora completamente indifese. Gandhi non comprese mai il senso di questa responsabilità, che gli spettava in quanto figura pubblica che sfidava, a suo modo, il potere ed in quanto esponente del Partito del Congresso (Indian National Congress) e del Congresso indiano per il Sudafrica (South African Indian Congress – SAIC); non la ritenne mai quell’ovvietà che appare come tale a qualunque persona di buon senso ed il cui raziocinio non sia obnubilato dal fanatismo ideologico.

Perché un avversario determinato ad averla vinta dovrebbe mostrare del buon cuore nel vedere che i suoi bersagli sono risoluti a non combattere e a non difendersi? È come rubare un leccalecca ad un bambino. L’aggressore consegue i suoi fini con inattesa ed eccitante disinvoltura. Lo Kshatriya, al contrario, è perfettamente consapevole del fatto che un cuore indomito ed una volontà di ferro non ottengono alcun risultato se non si è propensi ad usare la forza per proteggere se stesi e gli altri dall’aggressione e far valere i propri diritti e quegli degli altri. Tutti i più nobili rivoluzionari della storia, da Spartaco, a Zapata, a Sun Yat-sen l’hanno dato per scontato, molto assennatamente. È necessario combattere per proteggere la gente dalla sofferenza o per non esporla ad ulteriore sofferenza, se necessario fino alla neutralizzazione dell’aggressore/bullo, come si fece con i nazisti e come si è sempre fatto con chi è recidivo e dimostra di capire solo il linguaggio della forza (es. psicopatici/bulli):

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/16/golpe-psicopatico/#axzz1nNrT1Utx

Una difesa efficace, per lo Kshatriya, si basa sulla negoziazione (in cui si cercano di strappare i termini migliori), sull’approntamento di difese efficaci, sull’alleanza con i nemici dei propri nemici.

L’ahimsa era il monopolio del bramino, che non era tenuto a difendere la comunità, non essendo parte del suo dharma: il contributo del bramino apparteneva alla sfera intellettuale ed educativa (a volte esoterica e mistico-sciamanica) e gli era ben chiaro che qualcuno doveva sporcarsi le mani al posto suo, lo Kshatriya appunto, che doveva consigliare al meglio, se voleva avere ancora una comunità a cui impartire i suoi insegnamenti. Per di più l’ahimsa era ristretta ad una parte dei bramini, i Sannyasi, gli individui che aspiravano alla liberazione, non era certo pensata per le masse che non avevano alcun desiderio/predisposizione in tal senso. L’ahimsa era un mezzo per un ben determinato fine, non uno strumento di universale pacificazione.

Non si capisce come un devoto della Bhagavad Gita quale si considerava Gandhi potesse fraintendere il messaggio centrale del testo, contenuto nel discorso di Krishna ad Arjuna, che è tutto fuorché non-violento, essendo un’esortazione a combattere per ristabilire un equilibrio tra le forze – il Dharma, appunto – che era stato compromesso dall’altra fazione, che comprendeva alcuni suoi cugini (di qui i crucci di Arjuna).

L’interpretazione gandhiana di questo documento è intellettualmente disonesta ed equivale a dire che Gesù in realtà stava dalla parte delle autorità, contro le masse: un totale sovvertimento del messaggio originario. Per far valere il suo punto di vista Gandhi fu costretto a concludere che le descrizioni delle azioni e delle situazioni della Gita dovevano essere puramente allegoriche. Il che può anche essere vero, ma è insensato (o disonesto, appunto) dedurne che le forze che si scontrano a livello spirituale non debbano estroflettersi anche a livello materiale e che quindi l’insegnamento di Krishna non sia applicabile alla realtà fisica. Tanto più che proprio il dio spiega che le azioni umane non sono determinate unicamente dal loro libero arbitrio, che la realtà è un campo di battaglia tra forze cosmiche soverchianti (cf. Lost: Jacob e l’Uomo in Nero) e che ciascuno è chiamato a recitare una parte sul palcoscenico della storia:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/08/lost-eroi-nella-tempesta/

L’equivoco gandhiano non può che essere il frutto di una fanatica avversione alla violenza che, peraltro, non sembra averlo guidato nel suo ruolo di marito e di genitore (inflessibile, ma solo quando gli conveniva!):

http://fanuessays.blogspot.com/2011/10/il-vero-gandhi-nulla-di-cui-essere.html

Gandhi era convinto che solo una persona depurata da ogni difetto poteva farsi giudice del prossimo e delle sue malefatte. Era dunque un manicheo, un intellettuale che vede il mondo in bianco e nero: i puri (virtualmente inesistenti) e gli impuri (onnipresenti). La realtà è invece policroma. Gli Alleati, durante la Seconda Guerra Mondiale non erano certo puri, anzi, ma il nemico, il nazismo, era quanto di più impuro si fosse visto fino ad allora sulla faccia della terra e fu dunque correttamente contrastato con ogni mezzo disponibile. Falcone e Borsellino non erano forse sufficientemente puri per giudicare i mafiosi? Pertini non era sufficientemente puro per ricoprire il ruolo di Presidente della Repubblica?

Gandhi era un moralista troppo rigido, convinto che fosse possibile stabilire cosa fosse bene e male in senso assoluto, quando invece a noi umani è concesso solo di vedere le ombre del bene e del male, del giusto e dello sbagliato: vediamo i raggi del sole senza poter vedere il Sole, come suggeriva Agostino di Ippona.

Furono la sua vanità e la sua ambizione a renderlo inflessibile e spietato nei suoi rapporti con il prossimo e fin troppo indulgente in quelli con il suo ego, spingendolo a costringere una popolazione di centinaia di milioni di individui a redimersi ai suoi occhi, come quando affermò di pretendere che i musulmani indiani confessassero le loro colpe e si pentissero delle loro malefatte davanti a lui, come avevano fatto gli Hindu di Calcutta. Quanta superbia, quanta vanagloria in questa pretesa! Proprio lui che non riteneva che nessuno potesse essere giudice del prossimo e quindi fosse autorizzato ad usare la forza contro un antagonista: caduto, come Adamo, nella trappola del narcisismo, dell’hybris, dell’autobeatificazione:

http://fanuessays.blogspot.com/2011/11/il-narcisista-umanitario-parte-prima_14.html

http://fanuessays.blogspot.com/2011/12/limperialismo-umanitario-e-la.html

FONTE: http://www.scribd.com/doc/29991057/Violator-of-the-Kshatriya-Dharma

L’ALTERNATIVA A GANDHI È ARUNDHATI ROY

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/31/arundhati-roy-e-i-gattoni-tracotanti/#axzz1nNrT1Utx

 

La trascrizione tradotta del suo discorso a Zuccotti park, rivolto agli occupanti/indignati, il 16 novembre 2011:

Il capitalismo non può garantire benessere e giustizia sociale per tutte le persone.

Ieri la polizia ha sgombrato Zuccotti park, ma oggi le persone sono tornate. La polizia dovrebbe sapere che la protesta di Occupy Wall street non è una lotta per il territorio. Non stiamo combattendo per occupare un parco, ma per la giustizia. Giustizia non solo per il popolo degli Stati Uniti, ma per tutti. Con la protesta cominciata il 17 settembre, siete riusciti a introdurre un nuovo immaginario, un nuovo linguaggio politico nel cuore dell’impero.

Avete riportato il diritto di sognare in un sistema che cercava di trasformare tutti i suoi cittadini in zombie stregati dall’equazione tra consumismo insensato, felicità e realizzazione di sé. Per una scrittrice, lasciate che ve lo dica, questa è una conquista immensa. Non potrò mai ringraziarvi abbastanza.

Oggi l’esercito degli Stati Uniti conduce una guerra di occupazione in Iraq e in Afghanistan. I droni statunitensi uccidono civili in Pakistan e altrove. Decine di migliaia di soldati americani e di squadre della morte stanno entrando in Africa. Se spendere migliaia di miliardi dei vostri dollari per occupare l’Iraq e l’Afghanistan non dovesse bastare, oggi si parla anche di una guerra contro l’Iran. Dai tempi della grande depressione, la produzione di armi e l’esportazione di conflitti sono state gli strumenti fondamentali con cui gli Stati Uniti hanno stimolato la loro economia. L’amministrazione del presidente Barack Obama ha concluso un accordo con l’Arabia Saudita che prevede la fornitura di armamenti per 60 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti sperano di vendere migliaia di bombe antibunker agli Emirati Arabi Uniti. E hanno venduto aerei militari per cinque miliardi di dollari al mio paese, l’India, che ha più poveri di tutti i paesi dell’Africa messi insieme. Tutte queste guerre – dal bombardamento di Hiroshima e Nagasaki al Vietnam, dalla Corea all’America Latina – sono costate milioni di vite umane. E sono state tutte combattute per garantire l’american way of life.

Quattro proposte

Oggi sappiamo che l’american way of life – il modello a cui dovrebbe aspirare tutto il resto del mondo – ha fatto sì che negli Stati Uniti 400 persone possiedano la ricchezza di metà della popolazione. Ha significato migliaia di persone sbattute fuori dalle loro case e dal lavoro mentre il governo di Washington salvava le banche e le multinazionali: il gruppo assicurativo Aig ha ricevuto, da solo, 182 miliardi di dollari.

Il governo indiano adora la politica economica statunitense. Grazie a vent’anni di economia di libero mercato, oggi i cento indiani più ricchi possiedono beni che valgono un quarto del pil del pae­se, mentre più dell’80 per cento dei cittadini vive con meno di 50 centesimi al giorno.

Duecentocinquantamila agricoltori trascinati in una spirale di morte hanno finito per suicidarsi.

L’India lo chiama progresso, e oggi si considera una superpotenza. Come voi, anche noi indiani abbiamo una popolazione ben istruita, bombe nucleari e un livello di diseguaglianza vergognoso.

La buona notizia è che la gente ne ha abbastanza e non vuole più accettare tutto questo. Il movimento Occupy Wall street si è unito a migliaia di altri movimenti di resistenza in tutto il mondo grazie ai quali i più poveri tra i poveri si alzano in piedi per fermare l’avanzata delle multinazionali.

In pochi sognavamo di poter vedere voi – i cittadini degli Stati Uniti che stanno dalla nostra parte – combattere questo sistema nel cuore stesso dell’impero. Non trovo le parole per spiegare quanto tutto questo significhi.

Loro (l’1 per cento) dicono che non abbiamo richieste precise da fare. Non sanno, forse, che la nostra rabbia da sola sarebbe sufficiente a distruggerli. Ma ecco alcune proposte – alcuni miei pensieri “prerivoluzionari” – su cui possiamo riflettere insieme.

Noi vogliamo mettere un freno a questo sistema che fabbrica ineguaglianza. Vogliamo mettere un limite alla smisurata accumulazione di ricchezza da parte di alcuni individui e alcune società. Ecco le nostre richieste.

Primo. Mettere fine alle proprietà incrociate nel mondo degli affari. I produttori di armamenti, per esempio, non possono controllare reti televisive, le società minerarie non possono gestire i giornali, le aziende non possono finanziare le università, i gruppi farmaceutici non possono controllare i fondi per la sanità pubblica.

Secondo. Le risorse naturali e i servizi essenziali – acqua, elettricità, sanità e istruzione – non possono essere privatizzati.

Terzo. Tutti hanno diritto a una casa, all’istruzione e all’assistenza sanitaria.

Quarto. I figli dei ricchi non possono ereditare la ricchezza dei genitori.

Questa lotta ha risvegliato la nostra immaginazione. Da qualche parte, nel suo cammino, il capitalismo ha ridotto l’idea di giustizia al solo significato di “diritti umani”, e l’idea di sognare l’uguaglianza è diventata blasfema. Non stiamo combattendo per giocherellare con la riforma del sistema. Questo sistema deve essere sostituito. Da militante, rendo omaggio alla vostra lotta.

Salaam e zindabad.

Traduzione di Giuseppina Cavallo.

Internazionale, numero 929, 23 dicembre 2011

Arundhati Roy è una scrittrice indiana. Il suo libro più famoso è Il dio delle piccole cose (Guanda 1997).

http://www.internazionale.it/news/arundhati-roy/2011/12/27/lo-chiamano-progresso/

L’alternativa alla nonviolenza ipocrita e disfattista di Gandhi è la libertà, quella vera:

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/30/la-liberta-quella-vera/#axzz1nNrT1Utx


è l’autodifesa (in stile aikido), l’uso della forza e della violenza difensiva temperata da onestà intellettuale, equità, rispetto per i diritti e la dignità altrui e per i principi democratici, rifiuto di vedere nel prossimo una propria appendice o unicamente uno strumento per il proprio tornaconto, rifiuto di trasformarsi da vittime in aggressori:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/02/la-collera-dei-miti-sullimmoralita-di-pacifismo-e-nonviolenza/#axzz1nNrT1Utx

L’indignato dei nostri giorni può essere un vero Kshatriya:
http://www.informarexresistere.fr/2011/12/21/vendetta-e-rivoluzione-globale-leroe-indignato-in-omero-e-in-shakespeare/#axzz1nNrT1Utx

 

Basta prendersela coi Tedeschi! Siamo tutti sulla stessa barca

 

a cura di Stefano Fait

Un giornalista svizzero ha scritto che l’euro è il terzo tentativo tedesco in cento anni di sottomettere l’Europa [“der Euro ist der dritte Versuch Deutschlands innerhalb von 100 Jahren, Europa zu unterwerfen”].

Un’interessante constatazione, che però ritengo sia falsa e non solo per il fatto che non tiene conto della manovre della Banca Centrale del Regno Unito (Bank of England) negli anni antecedenti allo scoppio della Grande Guerra.

 

È un fatto inoppugnabile – per qualunque osservatore razionale – che diverse nazioni europee (e non solo) hanno ormai perso ogni speranza di beneficiare di una pur minima ripresa economica perché i loro rispettivi governi hanno imposto draconiane misure di austerità che hanno cancellato ogni possibilità di ripagare il proprio debito nazionale con la crescita.

Pare che l’intenzione di questi governanti sia quella di ripagare l’indebitamento con i risparmi privati, ossia di effettuare un trasferimento di ricchezze dal basso verso l’alto (anti-Robin Hood), anche e soprattutto attraverso la privatizzazione delle risorse pubbliche. Le agenzie di rating, dal canto loro, hanno buon gioco nello spolpare le carcasse di queste facili prede.

Gli stessi politici che hanno sempre ottemperato alle richieste dell’alta finanza e della grande industria hanno avviato le loro pecorelle al macello, promettendo che tutto sarebbe andato bene e che la crescita ed il progresso erano irreversibili. La crisi globale ha fatto arrivare tutti i nodi al pettine.

Una grossa fetta del debito greco è stata generata per sostenere le banche greche, come in altri paesi. Ma le nazioni creditrici non sono messe molto meglio. Sono state introdotte misure di austerità in Germania e Francia e quelle imposte al Regno Unito dal proprio governo sono quasi paragonabili a quelle delle nazioni fortemente debitrici (PIGS), con la motivazione che occorre salvare i PI(I)GS dalla bancarotta.

Ciò tuttavia non corrisponde al vero, come dimostra il caso greco. I Tedeschi non stanno soccorrendo i Greci per solidarietà paneuropea ma perché se la Grecia fallisce il sistema bancario tedesco riceverà un colpo terribile, forse fatale, essendo particolarmente esposto sia con l’amministrazione pubblica greca nei suoi vari gangli, sia con le banche greche. Dunque i fatti indicano che i Tedeschi stanno soccorrendo le proprie banche, non la Grecia. Lo stesso vale per il Regno Unito nei confronti dell’Irlanda e della Francia nei confronti del Portogallo e in particolar modo della Grecia. In pratica i soldi escono dalle tasche dei contribuenti delle nazioni “ricche” per affluire nelle banche delle loro nazioni, con una piccola, rapida deviazione attraverso i PIGS. ANTI-ROBIN HOOD, appunto.

Ci viene detto che la colpa è dei PIGS, che hanno speso più di quello che si potevano permettere e questo è certamente in parte vero. Ma la colossale omissione è che le banche anglo-franco-tedesche-italiane (ed extra-europee) sapevano che quei debiti non potevano essere ripagati – sono stati usati tutti i trucchi contabili possibili per nascondere la reale entità dell’indebitamento dei PIGS, fino a che non è emersa la verità in tutta la sua evidenza –, ma hanno comunque deciso di concedere i prestiti, alimentando un circolo vizioso, come uno spacciatore con i suoi clienti, presumibilmente nella certezza che, essendo “troppo grandi per fallire” (e che molti politici sono al loro servizio e non del bene comune), i governi sarebbero intervenuti per salvarle, a spese dei contribuenti, a beneficio dei consigli di amministrazione. Così i Tedeschi hanno pagato molto di più per salvare le proprie banche di quanto abbiano pagato per salvare la Grecia (senza averla salvata, peraltro) e, in ogni caso, quel che daranno alla Grecia finirà nelle tasche dei loro banchieri.

Dunque si tratta di capire quanto costerà ai cittadini salvare il sistema finanziario-bancario, che non intende pagare lo scotto delle proprie azioni. È presto detto: il costo per i cittadini è la perdita della sovranità nazionale a beneficio di piani di austerità draconiana (uso questo termine avvedutamente: Dracone applicava la pena di morte o la schiavitù ai debitori). È quel che è successo in questi mesi, sotto la supervisione della Commissione Europea, della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale.

Le misure contenute nei pacchetti di riforme “energicamente raccomandate” comprendono l’aumento dell’IVA e la riduzione delle imposte progressive – ossia la soppressione dei meccanismi perequativi che stanno alla base di una democrazia –, la diminuzione del costo del lavoro – ossia la contrazione del tenore di vita dei lavoratori –, il taglio delle pensioni, la riduzione del salario minimo e dei sussidi di disoccupazione e la revisione delle norme per la tutela dei diritti dei lavoratori. In questo modo chi paga il conto della crisi sono lavoratori dipendenti, pensionati e consumatori. I ricchi pagano meno tasse e il resto della popolazione si ritrova con i generi di prima necessità a costo maggiorato.

Non è un fenomeno nuovo. È già successo a molti paesi in via di sviluppo:

http://fanuessays.blogspot.com/2011/11/shock-economy-il-capitalismo-del.html

e sta succedendo negli Stati Uniti:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/22/il-tiranno-di-chicago-e-la-stupidita-del-bene/#axzz1mLNsw14z

Quel che prima è accaduto ai paesi in via di sviluppo ora succede ai “pezzi grossi”, alle economie “avanzate”. Siamo giunti alla resa dei conti:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/16/golpe-psicopatico/#axzz1mLNsw14z

In buona sostanza, quel che sta accadendo è che i sacrifici imposti alla Grecia servono a giustificare agli occhi dei Tedeschi lo svuotamento delle loro tasche. È una ruberia legalizzata ai danni di Greci e Tedeschi e per di più questi ultimi vengono definiti nazisti dai Greci e tiranni dagli altri popoli europei: cornuti e mazziati. Quando capiremo che i Tedeschi di oggi non sono quelli di Auschwitz? Quando la finiremo di usarli come un capro espiatorio, gli Ebrei d’Europa? I Tedeschi sono vittime di questo complotto quanto lo sono tutti gli altri popoli europei. Un complotto che vede la partecipazione di élite europee che non hanno alcuna lealtà nazionale ed antepongono il loro interesse personale e castale a quello nazionale ed europeo. Un complotto che, a mio modo di vedere, presuppone la liquidazione dell’Unione Europea come era stata concepita dai suoi fondatori, ossia l’antitesi del Nuovo Ordine Europeo del Terzo Reich.
Sì, sto affermando che le attuali élite europee sono nemiche dell’Europa antinazista, sto affermando che le oligarchie che comandano l’Unione Europea sono congenitamente anti-democratiche e quindi in diretta contrapposizione con l’Unione Europea dei sogni dei cittadini ordinari. Sono oligarchie che sanno che si sta preparando un conflitto mondiale ed hanno scelto di collaborare, indebolendo la classe media europea come si sta già facendo da tempo con la classe media nordamericana. L’obiettivo è quello di infliggere un tale livello di sofferenza alla popolazione “che conta” che questa sarà disposta a chiedere a gran voce una soluzione definitiva e rassicurante, cioè a dire un governo planetario che prenda in mano tutto, dalla gestione del cambiamento climatico a quella dell’ordine pubblico:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/31/breve-storia-del-nuovo-ordine-mondiale/#axzz1mLNsw14z

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/11/nel-nuovo-ordine-mondiale-non-ce-nulla-di-nuovo-di-ordinato-o-di-mondiale-cosa-ce-di-sbagliato/#axzz1mLNsw14z

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/26/la-pedagogia-nera-del-nuovo-ordine-mondiale/#axzz1mLNsw14z

 

 

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