I choosy e i gobj – “Se non hanno polenta, che mangino brioches!”

Ogni mattina in Italia, quando sorge il sole, un giovane si sveglia e sa che dovrà essere meno choosy o verrà rampognato dalla maestra.

 

Stay hungry, stay choosy.

 

La brillante carriera della figlia di Elsa Fornero. Due posti fissi nell’università di famiglia

Insegna nell’ateneo dei genitori e guida una fondazione finanziata dalla Sanpaolo, di cui la madre era vicepresidente.

http://www.corriere.it/politica/12_febbraio_07/La-titolare-del-welfare_1369e9e4-5167-11e1-bb26-b734ef1e73a5.shtml

“Elsa Fornero, nostra Maria Antonietta” di Salvatore Cannavò

È facile, ormai, ironizzare sulle presunte gaffes del ministro Fornero. Piena di sé e della propria missione “civilizzatrice”, la responsabile del Welfare non perde occasione per esibire un atteggiamento professorale che sta logorando la sua immagine, oltre che il nostro futuro. Le sue esternazioni sfociano ormai nello psicodramma e diventano occasione di una reazione popolare fatta di rabbia e disorientamento. Ma nel caso dell’ultima, in ordine cronologico, brutta figura, quel “choosy” rivolto ai giovani che cercano lavoro, colpisce non tanto il disprezzo e l’altezzosità quanto la buona fede del ministro.

Perché a Fornero quelle espressioni vengono naturali e rappresentano l’effetto genuino della sua estraneità dalla vita reale. Quali giovani frequenta, infatti, il ministro per parlare così? Dove sono questi giovani così schizzinosi? Tra coloro che, nonostante siano laureati e con un dottorato alle spalle, si “accontentano” di fare i camerieri, di lavorare in un call center, di fare le supplenze nelle scuole private senza contratto? Oppure tra quelli che accettano contratti a tempo determinato che non si determinano mai e aprono partite Iva per svolgere un lavoro dipendente? Nelle aziende in cui si ripetono all’infinito gli stage di formazione che sono prestazioni lavorative a tutti gli effetti? O tra i giovani che fuggono dall’Italia e cercano di farsi una vita all’estero?

I ministri tecnici, in realtà, sembrano guardare alla vita vera dall’alto di un Olimpo immaginario, con la lente dei grafici finanziari oppure con il ricordo delle stanze ovattate in cui hanno passato la propria, agiata, vita. Quella di qualche fondazione bancaria o di polverosi palazzi del centro di Roma, al riparo dalle intemperie, accucciati su un ricco conto corrente o accovacciati su una pensione d’oro. Tante nuove Maria Antonietta in cerca di moderne brioches da lanciare alla malcapitata folla di “schizzinosi”, esodati, precari e lavoratori a sbafo.

La classe dirigente italiana, quella della finanza, dell’alta burocrazia, della tekné, vive una propria vita parallela ma decide beatamente sulle vite degli altri, nascondendosi dietro a un simulacro di democrazia.

[…].

La democrazia che non c’è è il vero nervo scoperto del nostro tempo e la rivoluzione democratica quello che ci manca. In fondo, bisogna dire grazie a frasi come quelle di Elsa Fornero, perché ci aiutano a vedere le cose come stanno. E magari a indignarci davvero.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/10/23/elsa-fornero-nostra-maria-antonietta/390535/

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Maria Antonietta non ha mai detto una frase del genere, però il senso di un certo modo di atteggiarsi nei confronti del mondo era quello. E siamo tornati a quel punto. Ed è per questo che considero inevitabile lo scoppio di una rivoluzione. Se non è ancora successo è solo perché il simulacro di democrazia in cui viviamo ci trattiene: non vogliamo gettare la spugna, crediamo che sia ancora riformabile, che con le persone giuste al posto giusto si può tornare almeno nell’ambito della decenza.

Purtroppo temo che i predoni siano qui per restare, costi quel che costi.

La cosa buona è che sono congenitamente irrazionali: la loro avidità ed estraneità alla vita reale è un handicap insormontabile. Di esternazione insulsa in esternazione esasperante si stanno scavando la fossa da soli ed ogni volta che parlano di democrazia e meritocrazia mettono in risalto la loro appartenenza ad un universo differente ed incompatibile con questo.

Prima è toccato ai neri, poi agli altri colorati. Presto toccherà a molti bianchi (è il neoliberismo, bellezza!)

Lo stato è oggi ipertrofico, elefantiaco, enorme e vulnerabilissimo, perché ha assunto una quantità di funzioni di indole economica che dovevano essere lasciate al libero gioco dell’economia privata. […] Noi crediamo, ad esempio che il tanto e giustamente vituperato disservizio postale cesserebbe d’incanto se il servizio postale, invece di essere avocato alla ditta stato, che lo esercisce nefandemente in regime di monopolio assoluto, fosse affidato a due o più imprese private. […] In altri termini, la volontà del fascismo è rafforzamento dello stato politico, graduale smobilitazione dello stato economico”.

Benito Mussolini. Opera Omnia., XVI, p. 101

Una dittatura può essere un sistema necessario per un periodo transitorio. […] Personalmente preferisco un dittatore liberale ad un governo democratico non liberale. La mia impressione personale – e questo vale per il Sud America – è che in Cile, per esempio, si assisterà ad una transizione da un governo dittatoriale ad un governo liberale”.

Friedrich von Hayek, nume tutelare dei neoliberisti, intervistato da Renée Sallas per El Mercurio”, il 12 aprile 1981. Pinochet rimase al potere fino all’11 marzo 1990 e continuò a ricoprire l’incarico di comandante in capo delle Forze armate cilene fino al 1998. Hayek fu nominato presidente onorario del “Centro de Estudios Públicos”, think tank liberista fortemente voluto da Augusto Pinochet, dittatore cileno giunto al potere grazie al sostegno della CIA.

La mano invisibile del mercato non funzionerà mai senza un pugno invisibile. McDonald’s non può prosperare senza McDonnell Douglas e i suoi F-15. E il pugno invisibile che mantiene il mondo sicuro permettendo alle tecnologie della Silicon Valley di prosperare si chiama US Army, Air Force, Navy e Marine Corps“.

Thomas L. Friedman, A Manifesto for the Fast World“. New York Times. March 28, 1999.

“Penalizzazione, spoliticizzazione, razzializzazione. Sull’eccessiva incarcerazione degli immigrati nell’Unione Europea”

di Loïc Wacquant

Nel 1989, per la prima volta nella storia del Paese, la popolazione statunitense in stato di detenzione era di maggioranza nera. Come conseguenza dello sgretolamento del ghetto urbano e della “guerra alle droghe” lanciata dal governo federale come elemento della vasta politica della “legge-e-ordine” progettata per ripristinare i confini razziali nelle città e riaffermare il potere dello Stato di fronte alla rapida ristrutturazione economica e alla notevole limitazione del welfare, il tasso di incarcerazione degli Afro-Americani è raddoppiato in quasi 10 anni, passando dai 3.544 detenuti ogni 100.000 abitanti nel 1985, agli sconcertanti 6.926 per 100.000 abitanti nel 1995, quasi otto volte il numero dei loro compatrioti bianchi (919 per 100.000 abitanti) ed oltre venti volte i tassi registrati nei più grandi Paesi dell’Europa continentale. Se gli individui in carcere, affidati ai servizi sociali, o in libertà condizionata fossero tenuti in considerazione, risulterebbe che, tra la popolazione nera maschile dai 18 ai 35 anni, più di uno su tre (e il rapporto arriva a due su tre nel cuore delle grandi città della deindustrializzata “cinta della ruggine”) si trova sotto controllo del sistema penale giudiziario.

Se i neri sono diventati “i clienti” privilegiati del sistema carcerario statunitense, non è a causa di una certa tendenza particolare che questa Comunità avrebbe per la devianza ed il crimine; né è dovuto ad un aumento improvviso dei crimini che commettono. È perché si trovano nel punto di intersezione di un sistema di tre forze, che, insieme, determinano ed alimentano il regime, senza precedenti, dell’iperinflazione carceraria che l’America ha sperimentato nell’ultimo quarto di secolo, dopo lo scardinamento del sistema sociale fordista-keynesiano e l’attacco diretto alla struttura delle caste da parte del Movimento dei Diritti Civili e delle sue propaggini urbane:

I) il dualismo del mercato del lavoro e la diffusione dell’occupazione precaria, e della disoccupazione-sottoccupazione ai livello minimi;

II) lo smantellamento graduale dell’assistenza pubblica per i membri più deboli della società (reso necessario dalla diffusione del salario desocializzato) e il loro eventuale ricollocamento in programmi disciplinari ideati per indurli in lavori inferiori alla media del sistema economico; e

III) la crisi del ghetto come strumento di controllo e la relegazione della popolazione stigmatizzata, ritenuta inassimilabile al corpo della nazione e considerata numericamente eccessiva sia nei conteggi economici sia in quelli politici: la loro forza lavoro non è più necessaria, dato la loro mancanza di abilità ed è completamente rimpiazzata da quella di operai immigrati; le loro schede elettorali possono essere ignorate come conseguenza della commercializzazione dei voti di partito, del controllo repressivo e paralizzante degli interessi corporativi sulla presa di decisione politica e dello spostamento dell’epicentro elettorale del Paese dalla città al sobborgo.

[…].

Con la fine degli schemi, patrocinati dallo Stato, dell’importazione di forza lavoro straniera negli anni ‘70, “l’operaio ospite” immigrato dalla periferia coloniale si è trasformato in un immigrato tout court la cui presenza persistente è sempre più percepita immediatamente come minaccia professionale (delocalizza e decurta il numero dei lavoratori locali), come un peso per l’economia (è disoccupato e sfrutta i già scarsi servizi d’assistenza pubblica) e una minaccia sociale (essendo venuta a mancare l’“integrazione,” lui e la sua prole sono vettori della corrosiva alterità culturale, della devianza criminale e della violenza urbana). Con l’accelerazione dell’integrazione sovranazionale dopo il Trattato di Maastricht e gli accordi di Schengen, la presenza visibile degli stranieri non-bianchi è diventata doppiamente anomala da quando il reale tracciato dei confini esterni dell’Unione è andato affermandosi su un’opposizione definita fra “noi” europei e “loro” immigrati del Terzo Mondo che non sono più benvenuti – nonostante continuino ad essere disperatamente necessari. Come vedremo in questo scritto, la costruzione della “Fortezza Europa”, negli anni del lavoro flessibile e dell’insicurezza sociale generalizzata, ha effettivamente accelerato un movimento duplice di ostracizzazione che contrappone i non voluti Gastarbeiter agli Ausländer, con una rimozione all’esterno mediante espulsione e uno sradicamento interno tramite l’incarcerazione diffusa, direttamente rivolta a quanti rappresentano quell’“esterno” sociale e simbolico dell’emergente Europa postnazionale. Nel processo, il braccio penale dello Stato ha assunto un ruolo chiave nell’articolazione della costruzione discorsiva ed organizzativa dell’insicurezza interna ed esterna fino a che si è arrivati ad assimilare il clandestino nero con lo straniero criminale – due concetti diventati virtualmente sinonimi – come l’antitesi vivente del nuovo europeo in via di formazione.

Misurando la disproporzionalità etnonazionale

Durante il passato trentennio, quasi tutti i Paesi dell’Unione Europea hanno avvertito in modo significativo, a volte in maniera cauta, in altri casi esplosiva, l’aumento della popolazione carceraria, in coincidenza con l’inizio della disoccupazione di massa, dell’occasionalità dello stipendio e dell’ufficiale blocco della forza lavoro degli immigrati. Fra il 1983 e il 2001, questi aumenti sono passati da un terzo fino alla metà tra i vari Paesi più grandi, con il numero di detenuti (compresi quelli in attesa di giudizio) passato da 43.400 a 67.100 in Gran Bretagna, da 41.400 a 55.200 in Italia e da 39.100 – 54.000 in Francia. L’inflazione delle carceri è stata ancor più spettacolare nei Paesi più piccoli e vicini al Mediterraneo, con il Portogallo (6.100 – 13.500), la Grecia (3.700 – 8.300) e l’Irlanda (1.400 – 3.000), che evidenziano tassi raddoppiati, e la Spagna (14.700 – 46.900) ed i Paesi Bassi (4.000 – 15.300) con la triplicazione delle loro popolazioni carcerarie. Nonostante il ricorso periodico ad estesi atti di clemenza (per esempio, in Francia ogni anno dal 1991 per festeggiare la presa della Bastiglia) e le ondate dei provvedimenti di indulto che sono diventati ordinari (in Italia, in Spagna, nel Belgio e in Portogallo), le scorte di detenuti del continente si sono gonfiate inesorabilmente e le carceri dappertutto sono piene fino all’eccesso.

Ma, soprattutto, in Europa, gli stranieri e i cosiddetti immigrati “di seconda generazione” di estrazione non-Occidentale e persone di colore, che figurano fra le categorie più vulnerabili sia sul mercato del lavoro sia da punto di vista dell’assistenza sociale, a causa della loro basso ceto, per la scarsità delle credenziali e per le molteplici forme di discriminazione che perdurano, sono massicciamente sovrarappresentati negli strati più a margine della popolazione e questo ad un grado paragonabile, anzi in molti casi superiore, alla “disproportionalità razziale” che affligge i neri negli Stati Uniti.
http://loicwacquant.net/papers/on-penal-state/

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