Mondi nuovi, mentalità vecchie – la profezia maya come specchio di un’epoca

Non vi fate tesori sulla terra, ove la tignola e la ruggine consumano, e dove i ladri sconficcano e rubano, ma fatevi tesori in cielo”.

Matteo 6: 6, 19

Mancano due mesi.

La fatidica data del 21 dicembre 2012 è stata rinvenuta solamente in due iscrizioni maya, a Tortuguero e, qualche mese fa, a La Corona in Guatemala. Data la relativa sporadicità della sua ricorrenza epigrafica, è lecito suggerire che i Maya non abbiano assegnato a quel particolare giorno un significato epocale, come si tende invece a fare nelle società del consumo mediatico. Questo anche perché, essendo suddivisi in città-stato, non possedevano una cosmologia unificata ed univoca e i loro calendari non erano sincronizzati. Come non lo erano quelli degli altri popoli mesoamericani. La data di fine del mondo (di un’era) per gli Aztechi è il 4-Movimento di un anno 2-Canna. Sarebbe il 2027, o il 2079. I Mixtechi hanno altre date ancora.

Gli stessi indigeni maya dei nostri giorni sono venuti in gran parte a sapere della “loro” profezia su internet o per bocca dei turisti occidentali; il che spiega come mai, tra quelli che divulgano questa credenza, abbondino le allusioni tipicamente euro-americane ai teschi di cristallo, agli alieni e ad Atlantide.

Ciò nonostante, tra un paio di mesi, nella notte tra venerdì e sabato, migliaia di pellegrini si raduneranno in vari centri maya ed una recentissima ricerca Ipsos ha rilevato che, su un campione di 16.262 adulti in 21 paesi, 1 persona su 10 crede che la fine arriverà nel 2012 ed un 14% pensa che sarà testimone della fine del mondo. Mi pare significativo che, indipendentemente dalla fatidica data del 21 dicembre 2012, circa 1 persona 7 ritenga che la civiltà umana e forse l’intero pianeta si stiano avvicinando al capolinea. Dunque molti rifiutano la rigida e semplicistica dicotomia che vede contrapposti i due scenari: distruzione certa in quella data, oppure non succede nulla e ci si fa una risata.

La verità è che, periodicamente, si verificano delle enormi catastrofi, perché la crosta terrestre è sottoposta a pressioni endogene che la scuotono e perché alla Terra, per forza di cose, può capitare di trovarsi sul percorso di asteroidi e comete. Le grandi catastrofi del passato hanno lasciato tracce nelle tradizioni mitologiche di tutto il mondo che solo ora sono indagate da una disciplina di recente affermazione, la geomitologia. Nelle Metamorfosi di Ovidio leggiamo di Fetonte, “con le fiamme che gli divorano i capelli di fuoco, precipita vorticosamente su sé stesso e lascia nell’aria una lunga scia, come a volte una stella che sembra cadere”.

Proprio in Messico abbiamo appreso della terrificante industria del sacrificio umano degli Aztechi, del loro imperialismo finalizzato ad alimentarla, della loro assoluta devozione a dèi spietati, schiavisti e mortiferi che, presentatisi nella notte dei tempi come educatori e civilizzatori, avrebbero fatto la felicità dei superuomini ariani che popolavano i sogni e le visioni di Hitler. Un sistema di potere e distruzione del genere non avrebbe potuto sopravvivere così a lungo se le popolazioni sottomesse non avessero avuto ragione di credere che qualcosa di ancora più mostruoso era accaduto in passato e si sarebbe potuto ripetere.

 

Detto questo, un’obiezione generale alle ansie apocalittiche legate alla “profezia” maya è che i Maya non hanno saputo prevedere l’estinzione della propria civiltà: perché dovremmo prendere sul serio un computo di cui non conosciamo neppure il significato? E perché dovremmo credere che il futuro sia predeterminato e che nessuna variabile possa influenzare il corso degli eventi? E ancora: com’è possibile che la gente sia precipitata in un tale abisso di disperato fatalismo da rinunciare a tentare di cambiare le cose in prima persona, costruendo un Mondo Nuovo più umano, equo e dignitoso di quello del presente, con le sue forze, la sua iniziativa, la sua immaginazione, ingegnosità, industriosità e buona volontà? Come mai è prevalsa la via della fede millenaristica nella distruzione rigeneratrice e/o nella razza aliena salvifica?

Le radici dell’odierna credenza nella profezia apocalittica dei Maya vanno cercate negli anni Settanta, con la pubblicazione di alcuni libri che determineranno il corso delle successive interpretazioni. Gli autori di questi saggi del genere new age erano Terence McKenna, Jose Arguelles, Peter Tompkins, Luis Arochi e Frank Waters. Nessuno di loro è noto per l’uso rigoroso delle fonti e della logica. Sono autori che, per loro stessa ammissione e scelta, ripudiano il metodo scientifico, considerandolo inadeguato. Diversamente da loro, pur essendo un fiero critico dello scientismo, ritengo che la razionalità sia un dono, non una menomazione, e osservo che la stragrande maggioranza delle società “indigene”, incluse quelle con una tradizione sciamanica e quelle spiritualmente più avanzate – in termini New Age – come l’aborigena australiana e la tibetana,non ha fatto e non fa ricorso a “stimolanti” psichedelici, a differenza di McKenna e soci, preferendo sollecitazioni visive ed acustiche per indurre le trance.

Più significativo è il contributo di Michael D. Coe, uno dei giganti dell’archeologia ed antropologia mesoamericana che, nel suo “I Maya”, pubblicato nel 1966 (una curiosità: è il libro su cui ho imparato a leggere l’inglese): “Si propone che ognuno di questi [cicli] misuri 13 baktun, ossia un po’ meno di 5.200 anni,  e che l’Armageddon annichilirà i popoli depravati e l’intera creazione l’ultimo giorno del tredicesimo bantu…Il nostro universo sarebbe stato creato nel 3113 a.C. per essere distrutto il 24 dicembre del 2011, quando il grande ciclo del lungo computogiunge a compimento”. La data di inizio sarà poi corretta all’11 agosto 3114 a.C. e quella di fine ciclo al 21 oppure al 23 dicembre del 2012. Non è ancora chiaro quale dei due sia il giorno cruciale anche se in rete e sui media domina incontrastato il primo, sebbene i solstizi non rivestissero alcun ruolo particolare nella liturgia maya.

Sorprende che un luminare come lui, pur affermando di aver calcato i toni, abbia disinvoltamente precisato di non aver mai voluto rivedere quel passaggio nelle numerose edizioni successive.

Nel 2009 il massimo specialista di archeostronomia mesoamericana del mondo, Anthony Aveni, ha pubblicato un suo libricino, intitolato “The End of Time: The Maya Mystery of 2012” che prendeva spunto da uno scambio epistolare con un giovane inglese seriamente preoccupato di dover abbandonare prematuramente il suo corpo alla fine del 2012 e che, conoscendo la sua fama, si era rivolto a lui per chiedere lumi. Aveni esclude recisamente che i Maya avessero in mente un Armageddon ma rimarca che la stele C di Quiriguá in Guatemala registra la cronaca della discesa degli dèi celesti che imposero ai Maya il loro ordine sociale (non particolarmente pacifico, democratico o umano) dando l’avvio a quell’epoca che i Maya descrivevano come la più oscura, quella che precede la necessaria e fortemente sospirata rigenerazione/palingenesi. Poi aggiunge che quella di Tortuguero accenna ad un ritorno dei medesimi. Il che non ha fatto atro che piacere agli adepti del culto degli fratelli cosmici salvatori. Una lettura alternativa è stata fornita da nientemeno che la serie X-Files, che ha scelto proprio il 22 dicembre 2012 come data d’inizio della fase conclusiva dell’invasione aliena.

Infine, come ultimo punto-chiave dell’odierno canone neo-maya, il famoso allineamento galattico di quella notte è già avvenuto molte volte, ad esempio, a partire dal 1983 e continuerà a verificarsi in quella data fino al 2019.

Insomma, l’apocalisse maya è diventata un fenomeno planetario, epocale, una vera e propria industria a se stante, con enormi profitti per chi ha saputo cavalcare l’onda. Rivela molte più cose sulla nostra cultura che su quella maya.

Una credenza sintetica è stata partorita da sogni e desideri di alcuni psiconauti dediti all’assunzione di allucinogeni e diffusa capillarmente dalla macchina mediatica occidentale nella più completa indifferenza delle tradizioni locali, investite improvvisamente dalla mania apocalittica maya e da torme di turisti in preda a smanie millenaristiche.

Per concludere. La nostra conoscenza della civiltà maya non è più avanzata dell’egittologia del diciannovesimo secolo, però su una cosa possiamo concordare: nessun documento maya classico, post-classico o coloniale afferma che il mondo finirà in quel giorno. Semplicemente, si azzererà il computo e si ricomincerà con una nuova sequenza, a partire da 13.0.0.0.0, per un altro milione e 872mila giorni, pari a 5.125,366 anni.Infatti esistono altre iscrizioni che citano date successive a questa, come ad esempio l’incoronazione di Pacal, eccelso sovrano che dovrebbe tornare a regnare su Palenque nel 1.0.0.0.0.8, (21 ottobre 4772 d.C.) ed alcune che abbracciano milioni di anni.

Per ulteriori, affidabili, informazioni:

http://www.famsi.org/research/vanstone/2012/index.html

La mitezza non divenga mai un alibi

Tutti vedono la violenza del fiume in piena, nessuno vede la violenza degli argini che lo costringono.

Proverbio cinese

Allora anche i miti non disdegneranno di uscire dalla loro indole profonda e indossare quella dei loro nemici. Si tratta di combattere una buona battaglia che, nei risultati sperati, non contraddice affatto ma ribadisce la loro fedeltà alla mitezza. Quando ciò accadesse, quando ciò accadrà, bisognerebbe, bisognerà temere l’ira dei miti.

Gustavo Zagrebelsky, “Bobbio: la forza dei miti”, La Stampa, mercoledì 13 ottobre 2010

Arrivano momenti in cui diventa d’obbligo liberare una rabbia che scuota i cieli. Esiste un momento in cui bisogna dar fuoco alle polveri. In risposta a un’offesa grave, contro l’anima o lo spirito. Prima bisogna provare con tutte le altre strade ragionevoli per ottenere un cambiamento, ma se non portano a nulla allora occorre scegliere il momento giusto …giusto, come la pioggia…il momento in cui tirar fuori le viscere, il momento della collera giusta, della rabbia giusta.

Clarissa Pinkola Estés, “Donne che corrono coi lupi”

È sempre l’oppressore, non l’oppresso, che determina la forma della lotta.

Nelson Mandela

Avevo l’impressione che la guerra, pur non potendo mai essere un bene positivo o assoluto, potesse servire come bene negativo nel senso di impedire la diffusione e la crescita di una forza malvagia. per quanto orribile sia, la guerra potrebbe essere preferibile alla resa a un sistema totalitario: nazista, fascista o comunista…Dopo la lettura di Niebuhr, cercai di arrivare a un pacifismo realistico.

Martin Luther King

Il diritto alla tolleranza illimitata favorisce i forti a scapito dei deboli.

Claudio Pavone

Tu puoi essere pacifista fino all’estremo ed essere disposto al martirio per testimoniare la tua fede, ma ti sentiresti di rimanere inerte quando altri che non partecipano della tua fede sono esposti alla violenza? Ti sentiresti di dire loro: in nome di ciò che io credo, tu lasciati massacrare? Non sarebbe questa, a sua volta, un’estrema violenza, per di più rivestita di buoni sentimenti?

Gustavo Zagrebelsky, “La felicità della democrazia: un dialogo”, 2011

A proposito del disarmo, cavallo di battaglia dei pacifisti: che io butti via le mie armi non serve a niente. Né serve a qualche cosa che le buttino via tutti tranne uno, perché quest’uno diventerà il padrone della terra. Continuare a dichiarare il proprio pacifismo assoluto serve a salvare la propria anima. Serve anche a salvare il mondo? Alla base del nostro dissenso c’è forse la sua affermazione che le tendenze dominatrici e distruttrici sono patologiche e non fisiologiche nella natura umana. Tanto lei che io sappiamo ben poco della natura umana. Ma dalle testimonianze della storia e dei fatti che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi, sarei più prudente, o almeno distribuirei in parti eguali quello che appartiene alla grandezza e quello che appartiene alla miseria dell’uomo.

Norberto Bobbio a Enrico Peyretti (16 agosto 1993)

[Alexander Kerenksij è] un uomo onesto, sincero e pronto a dare la vita per il suo Paese. Ma che non sa assolutamente niente dell’arte del governo e immagina di fare grandi cose quando elabora sulla carta piani per l’abolizione della pena di morte in tempi di guerra e di rivoluzione. Aborrisce forza, violenza e crudeltà e pensa davvero che sia possibile esercitare il potere con parole gentili e sentimenti elevati. Più di ogni altra cosa sembra compiacersi della sua purezza, umanità e idealismo. Un uomo buono, ma un cattivo leader, di fatto il tipo perfetto dell’intelletto russo.

Pitirim A. Sorokin, già collaboratore di Kerenskij nel governo provvisorio del 1917.

L’idealismo degli indignati, convinti che la mera protesta prolungata farà cambiare atteggiamento a chi di dovere, è deleterio, futile e ottuso. La mitezza nei confronti della tracotanza e della violenza ha la stessa efficacia del belato di un agnellino nel tenere alla larga un branco di lupi. Arriva il momento in cui bisogna battersi per la libertà e la dignità. E battersi significa dire no ad un sistema decadente e corrotto e dire sì ad un sistema che va costruito assieme. Altrimenti è nichilismo, ribellismo luciferino, male travestito da bene.

La mitezza, che Bobbio definiva “la più impolitica delle virtù”, non va confusa con la passività mansueta. Per Bobbio il mite non è remissivo davanti alla soperchieria, anzi è baluardo contro l’arroganza (l’opinione eccessiva di sé che giustifica la sopraffazione), la protervia (l’ostentazione dell’arroganza) e la prepotenza (l’abuso di potere ostentato e praticato).

Bobbio, come Aung San Suu Kiy, era un fautore della mitezza, che considerava il contrario della tracotanza (l’hybris dei Greci), della protervia, dell’ostentazione, della prepotenza, senza però diventare remissivi e cedevoli di fronte alla soperchieria, senza farsi agnello al cospetto del lupo, perché non si può sfuggire al dovere di difendere il debole dal forte (etica della responsabilità). Permettere al nostro prossimo di essere quello che è ma, contemporaneamente, fare in modo che capisca che la cosa dev’essere reciproca (Bobbio, 2010).

La mitezza illimitata è un vizio, che comprende in sé imbecillità, passività, ignavia, apatia, irresponsabilità, connivenza e complicità involontaria con i violenti (Zagrebelsky, “Bobbio: la forza del mite”, La Stampa, 13 ottobre 2010).

Aung San Suu Kiy ci rammenta che (ibidem, p. 178): “essere compiacenti è molto pericoloso. Vogliamo liberare la gente da questo atteggiamento. […]. Credo che molte persone accettino le cose per paura o per inerzia. Questa disponibilità ad accettare senza fare domande dev’essere eliminata…Dopo tutto il Buddha non accettava lo status quo senza metterlo in dubbio”.

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