Quelli che: “Corbyn pensa vecchio, papa Francesco pensa vecchio pure lui. Perché non si tolgono dai piedi?”

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Gesù entrò poi nel tempio e scacciò tutti quelli che vi trovò a comprare e a vendere; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe e disse loro: “La Scrittura dice: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera ma voi ne fate una spelonca di ladri“.  

Gesù, un altro che pensava vecchio anche quando era giovane (era vecchio dentro!)

Matteo era un pubblicano, cioè riscuoteva le tasse degli ebrei per darle ai romani. I pubblicani erano malvisti e inoltre considerati peccatori, per questo vivevano isolati e disprezzati dagli altri. Con loro non si poteva mangiare, né parlare e né pregare. Per il popolo erano dei traditori, che prendevano dalla loro gente per dare ad altri.

Papa Francesco

Corbyn, durante e dopo le primarie, è stato oggetto di attacchi durissimi dall’ala moderata del suo partito, dal Primo Ministro David Cameron e dalla stampa nazionale ed estera (anche i giornali italiani hanno fatto la loro parte). Tutti intenti a prendere di mira, con argomentazioni generiche, e spesso con qualche calunnia (basti pensare all’infondata accusa di antisemitismo circolata qualche tempo fa), il nuovo volto del Labour…le semplificazioni che accompagnano Corbyn, che lo dipingono o come “il male” o come la personificazione della “sconfitta”

Renzi attacca Corbyn. La replica: “No comment”, PolisBlog, 22 settembre 2015

B017Osservate attentamente l’onda di disprezzo (odio?) che si è levata nel centrodestra e nel centrosinistra all’indirizzo di Jeremy Corbyn, il nuovo leader del partito laburista inglese.

Non è paragonabile a quella riservata a Podemos o Syriza. Qui c’è qualcosa di più profondo e implacabile, presumibilmente l’astio dei ricchi e potenti contro chiunque prenda le difese dei deboli e si permetta di farlo a Londra, nella tana del lupo (la City).

Quando Cameron definisce in un twitter il Labour guidato da Corbyn “una minaccia per la nostra sicurezza nazionale, per la nostra economia e la sicurezza delle vostre famiglie“, l’analista più attento capisce che l’establishment si è spaventato sul serio e ha perso il controllo della retorica, con una virata iperbolica che getta discredito su di sé.

Corbyn è universalmente associato al concetto di “vecchio”, ossia sorpassato. Il suo programma è anti-moderno. Ma che che cosa si propone di fare?

Ridurre le disparità sociali, interrompere l’iter di privatizzazione delle risorse comuni, scaricare i costi anche sui ricchi, lottare contro le agevolazione fiscali per le grosse multinazionali, riprendere il controllo del sistema finanziario e regolarlo, prevedere spazi verdi coltivabli ogni volta che si costruiscono abitazioni, riconoscere lo stato palestinese, investire nell’energia e nelle infrastrutture per migliorare i servizi, non rifinanziare l’armamento nucleare, ridimensionare i costi per l’istruzione senza indebitare gli studenti, porre fine ai “bombardamenti umanitari”, dare slancio all’edilizia popolare per aiutare le giovani coppie a vivere dignitosamente, restituire Chagos agli indigeni “etnicamente ripuliti” per costruire la base americana, pensare a un’amministrazione congiunta per la Falkland/Malvinas, mettere l’embargo alla vendita delle armi ad Israele, bloccare il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), è contrario al fracking, favorevole alla riunificazione dell’Irlanda, al tetto agli stipendi, all’educazione musicale dei bambini, allo smantellamento della NATO, alla riduzione della produzione e commercio delle armi.

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Più in generale, i discorsi di Corbyn grondano di termini desueti come giustizia, uguaglianza, solidarietà, altruismo e fratellanza (orrore! orrore! magari è più a sinistra di papa Francesco!).
Ora, se è papa Francesco a dire certe cose, i “nuovi sinistri” non lo possono attaccare, perché sarebbe un suicidio elettorale. Lo tollerano e aspettano che passi a miglior vita e contano sul fatto che tanto lui si occupa di anime, non di politiche e voti.
Michael Ledeen (sponsor di Renzi) su papa Francesco:
_http://pjmedia.com/michaelledeen/2015/09/20/the-pope-of-montecristo/

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Corbyn, invece, è imperdonabile e, poiché propone misure che avrebbero sottoscritto i fratelli Kennedy, rischia di fare la loro fine.

Julian Assange, che lo ammira, l’ha avvertito: vacci piano, abbassa i toni, se no in qualche modo ti rimuovono:

 

La morte del premio Nobel Elinor Ostrom (Beni Comuni)

 

La morte del premio Nobel Elinor Ostrom non ha fatto notizia in Italia: il fatto non può sorprendere nel Paese più irrimediabilmente lontano dal liberalismo di tutto l’occidente. Ma la Ostrom ha condotto alle più coerenti conseguenze l’intuizione tocquevilliana dell’autogoverno della società civile, formulando una rigorosa teoria della gestione collettiva, ma non pubblica, del governo dei beni comuni.

di Giovanni Vetritto, da criticaliberale.it

Se ne è andata nella solita indifferenza della comunità scientifica e dei mezzi di comunicazione di massa.

Non è bastato essere stata la prima donna a vincere il premio Nobel per l’economia; aver dato un contributo fondamentale alla fondazione della scuola neoistituzionalista; aver smantellato l’ideologismo della “tragedy of the commons” con una delle opere metodologicamente e contenutisticamente più innovative delle scienze sociali del ‘900; aver dato una teoria empiricamente dedotta da decenni di ricognizioni a livello mondiale sulla gestione dei beni collettivi, indicando con ciò una alternativa praticabile alla ingenua dicotomia secca Stato/Mercato.

Per Elinor Ostrom l’attenzione è stata sempre inferiore ai meriti, soprattutto in Italia. E conseguentemente, la sua morte non ha fatto notizia, non è di fatto comparsa quasi per nulla sui media nazionali.

Il fatto non può sorprendere nel Paese più irrimediabilmente lontano dal liberalismo di tutto l’occidente.

Elinor Ostrom ha condotto alle più coerenti conseguenze l’intuizione tocquevilliana dell’autogoverno della società civile, formulando una rigorosa teoria della gestione collettiva, ma non pubblica, del governo dei beni comuni, iscrivendosi esplicitamente in un filone culturale di razionalismo critico ed empirico che ella stessa faceva risalire a Hume, Smith e allo stesso Tocqueville. Con ciò ponendosi come la più genuina epigona della tradizione della democrazia fondata sulla libera associazione degli individui, che il grande storico francese aveva individuato come lo specifico della “Democrazia in America” nella sua fondamentale opera del 1835.

Esaminando una ricca casistica di esperienze di gestione associata da parte dei fruitori di beni collettivi, per individuarne le ragioni di successo o vivisezionarne le ragioni di fallimento, nella sua principale opera “Governing the commons” del 1990 Ostrom ha messo in evidenza come non sia sempre necessario ricorrere al Leviatano burocratico per garantire socialità e vantaggio collettivo nella gestione di utilità comuni; allo stesso tempo, ha dimostrato come non sia solo e sempre la molla dell’egoismo individuale a consentire valore aggiunto per la collettività, come avrebbe voluto una rilettura unilaterale e semplicistica dello Smith della arcinota pagina del macellaio e del birraio de “La ricchezza delle nazioni”. Una rilettura, sia detto per inciso, che non rende giustizia alla complessità e alla ricchezza di quella che resta l’opera fondamentale di un liberalismo molto più aperto e perfino interventista di quanto si sia voluto contrabbandare nella recente età del “pensiero unico” del Washington consensus.

Ma d’altra parte, è questa la sorte di alcune grandi teorizzazioni della storia del liberalismo: essere banalizzate e distorte, da chi non ha nemmeno voglia di applicarsi a leggerle, per farne alcunché di diverso, e in alcuni casi perfino di opposto.

È accaduto, negli ultimi mesi, anche a Ostrom; la cui autorità, dopo il conferimento del Nobel, è stata da tante parti evocata per giustificare una nuova fortuna dell’espressione “beni comuni”, nella stragrande maggioranza dei casi evocata però proprio a difesa di quello statalismo acritico che è quanto di più lontano dal portato della sua opera maggiore.

È invece la potenzialità delle dinamiche cooperative al centro dell’analisi di Ostrom, non certo la vecchia e ormai consunta teorica della gestione burocratica. Una potenzialità indagata in una logica non ingenua di composizione e coordinamento degli interessi degli individui, non certo in quella di una illusoria irenica cancellazione degli stessi in vista di non si bene quale paradiso dell’altruismo. L’individualismo e l’interesse particolare sono contemplati, ed anzi posti a base della sua teoria delle istituzioni; solo, attraverso lo studio analitico di una moltitudine di casi di democrazia regolativa e gestionale, Ostrom ha saputo dimostrare come una regolazione convenzionale e deliberativa possa renderli compatibili, ed anzi funzionali, alla conservazione e valorizzazione di beni scarsi e non riproducibili: bacini idrici e di pesca, sistemi di irrigazione, patrimoni boschivi. E ciò a distanze immense di tempo e di spazi, dalle “regole ampezzane” trecentesche alle deliberazioni partecipate sulla gestione dei bacini idrici negli Stati Uniti degli anni ’50 del ‘900, dalle Filippine al Giappone al Messico e alle Alpi svizzere.

In anni nei quali il criterio della “sostenibilità” e quello dell’equilibrio ambientale divengono, a volerli “prendere sul serio” nel senso indicato da Roland Dworkin, indirizzi fondamentali per le politiche pubbliche, tanto nelle raccomandazioni delle maggiori organizzazioni sovranazionali quanto nelle regole fondanti della res publica europea, la casistica ostromiana offre tesori tutti da esplorare per un vero e ambizioso riformismo ambientalista nel fine e liberale nel metodo.

Allo stesso tempo, nel momento in cui valorizza le potenzialità delle deliberazioni collettive e la virtù della regolazione flessibile, condotta attraverso il metodo consensuale, quella stessa casistica assume una rilevanza ancora maggiore come esempio di una modalità efficace di costruzione di assetti di regolazione e gestione sussidiaria e socialmente condivisa: proprio ciò che si dovrebbe intendere come il senso generale delle moderne politiche di governance, in quanto contrapposte al determinismo dirigistico delle vecchie e ormai superate politiche di government statalistico.

Una duplice valenza, nel merito della sostenibilità e nel metodo del deliberativismo, che fa di Ostrom una delle personalità del liberalismo recente più interessanti e innovative. Non a caso, Ostrom è stata, nell’ultima fase delle sua riflessione, anche al centro delle concettualizzazioni riguardo al nuovo atteggiarsi della conoscenza come valore condiviso e “bene comune” nell’età di internet e dei creative commons. Dimostrazione ulteriore, ove ce ne fosse bisogno, della modernità di una riflessione iniziata studiando scartafacci del duecento,e finita immaginando il futuro. Come spesso accade al miglior liberalismo.

(20 giugno 2012)


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