La missione dell’America, dopo la sua caduta e risurrezione

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Quel che mi disturba quando si parla di America è il riflesso condizionato tra molte persone di sinistra che le spinge a descrivere gli USA come i neocon o i leghisti descrivono l’Islam.
Un riflesso uguale e contrario a quello dei commentatori di destra che amano appassionatamente USraele.
Non ho scritto “Contro i miti etnici” assieme a Mauro Fattor perché ero disposto a tollerare questi dogmatismi e questo post dedicato a Jacob Needleman è il secondo di una lunga serie che lo vedrà protagonista, perché è uno dei pensatori che più ammiro in assoluto.

Mitch Horowitz intervista Jacob Needleman sulle tematiche trattate nel libro intitolato “The American Soul. Rediscovering the Wisdom of the Founders”

Mitch Horowitz: Il suo libro si apre con un aneddoto dell’epoca del Vietnam, in cui presenta ad un gruppo di studenti un uomo di cultura. Uno studente si lamenta amaramente dell’ipocrisia della nazione. A un certo punto, l’uomo si rivolge a lui e gli dice: “Tu non sai quello che hai qui”. Come l’ha intesa lei quest’affermazione e perché cominciare proprio da quella scena?

Jacob Needleman: Questa persona era un uomo molto saggio, ma anche un uomo di mondo, un uomo d’affari ed un grande maestro. Lo conoscevo da molti anni e lo consideravo la figura che più mi ha aiutato a comprendere la natura del cammino spirituale. Non ha mai parlato molto di politica, ma più che altro della via della tradizione spirituale. Volevo che questi giovani studenti lo incontrassero per via della saggezza delle sue idee filosofiche e spirituali. Saltò fuori il tema della guerra in Vietnam, come succedeva sempre con i miei studenti – questo era un momento in cui il paese era veramente straziato ed i giovani erano indignati. Nella mia vita, non ero mai stato in grado di coniugare spiritualità e questioni politiche. Le ho sempre considerate due mondi completamente separati e vedevo la politica come un mondo prevalentemente pieno di illusioni. Quest’uomo era venuto dalla Scozia e scherzosamente si definiva come “l’ultimo americano”. Ha davvero amato questo paese.

Gli studenti si rivolgevano a me condannando veementemente l’America e all’improvviso disse, in un modo che intimava ai presenti di fare attenzione: “voi non sapere quel che avete qui”. Sbalordì tutti. Ci fu un momento di silenzio assoluto. Venendo da quest’uomo sapiente e di profonda comprensione spirituale, le sue parole si insinuarono in noi come un grande interrogativo, un profondo shock spirituale che ci faceva riflettere e ci spingeva a porci delle domande.

È successo 30 anni fa. Quell’affermazione mi è rimasta dentro, come una bomba a orologeria, nel corso degli anni. E poi, una decina di anni fa, mi sono reso conto che nel tentativo di creare un ponte tra le idee spirituali e le problematiche del mondo contemporaneo – di vedere come le grandi tradizioni di saggezza del mondo potevano illuminare i problemi attuali – mi trovavo di fronte a delle questioni scottanti: Che cos’è l’America? Che cosa significa? A cosa serve? Chi siamo noi americani? Che cosa abbiamo qui? Queste domande, che erano lievitate in me in tutti questi anni, erano affiorate nella mia mente e mi avevano spinto a scrivere questo libro.

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Nel libro lei descrive l’America come parte di una catena di grandi civiltà che nel corso della storia sono state influenzate dalle tradizioni sapienziali. L’America può rivendicare una maggiore o diversa affiliazione a quelle tradizioni rispetto ad altre prospere nazioni democratiche della contemporaneità?

Sì, penso di sì. C’è qualcosa di speciale nell’America, nel senso che questo paese è nato con uomini e donne che erano ​​in parte o in larga misura spiritualmente motivati. Per molti di loro la motivazione della spiritualità era in un certo senso fondamentale e anche le nostre icone, i Washington, Madison, Jefferson, possedevano ragioni di natura spirituale frammiste a pragmatismo e motivazioni economiche e politiche. I fondatori erano profondamente interessati, in un modo o nell’altro, alle questioni relative al cuore, alla ricerca spirituale, e questa passione si è fatta strada nella formazione dei loro ideali, influenzati in larga misura dalle idee che hanno la loro radice nelle tradizioni spirituali dell’umanità, nella filosofia perenne, nella saggezza antica [il libro di Needleman offre abbondanti prove documentarie dell’impetuosa spiritualità degli architetti della dichiarazione d’indipendenza e della costituzione americana, i quali, aspetto non secondario della questione, erano in buona parte massoni o, come nel caso di Jefferson, amici di massoni, NdT].

Le loro motivazioni principali non erano solo di mera convenienza politica, necessità economica, o del bisogno di fare in modo che le persone potessero fruire in parti eguali delle risorse della società. Gli ideali dell’Illuminismo erano molto più esplicitamente o fortemente sviluppate nella fondazione dell’America. Le sue radici affondano in una dimensione spirituale che riecheggia le tradizioni sapienziali. In questo senso, l’America è la madre di tutte le democrazie, anche quando le democrazie assumono forme diverse. Come genitrice di queste democrazie, l’America possiede ancora una dimensione spirituale come parte integrante della sua natura, una dimensione che non è così forte nelle altre democrazie, più recenti.

Oltre alla prosperità materiale ed alla democrazia politica, quali condizioni cercavano di creare in questa nuova società i suoi fondatori?

Stavano cercando di creare una condizione della vita umana in cui uomini e donne fossero liberi di cercare la propria verità, la verità della coscienza, un rapporto con ciò che c’è di più elevato e migliore in loro, di fronte a Dio. I fondatori non erano legati ad una particolare religione settaria, poiché sentivano che esse erano degenerate in dogmatismi e tirannie mentali. Volevano che le persone fossero libere di cercare la propria verità e di associarsi tra loro in modo tale da facilitare questa ricerca. Volevano delle condizioni in cui le persone fossero libere di interpretare Dio, non con partigianeria, ma in quei termini che riflettono una divinità interiore ed un Dio esteriore.

Il libro è popolato da molte delle icone della storia americana: George Washington, Abraham Lincoln, Frederick Douglass, Benjamin Franklin e Thomas Jefferson – Lincoln sembra essere una spanna sopra gli altri. Quali influenze spirituali vede nella sua vita e nel suo lavoro?

Quando ero bambino mi bastava guardare il viso di Abraham Lincoln per avvertire quel senso di grandezza che gli esseri umani sono in grado di raggiungere. Sapevo che era un grande uomo. C’era qualcosa nella sua presenza o individualità, nel suo essere, una qualità di essere pienamente umano, che rivelava la sua grandezza. Era il mio primo contatto con una persona di un altro livello di esistenza, un altro livello di presenza.

Lincoln rappresenta l’individualità nella sua forma più matura: il significato dell’essere un individuo, non un’idea puerile di qualcuno che si limita a fare cose intelligenti od originali, o che non si cura di nessun altro parere, salvo il suo – nulla di tutto ciò. Fu un uomo che rappresentava nel suo volto, nel suo sguardo, nel suo corpo e nella sua presenza il diritto di dire: “Io sono”. È questo che mi ha impressionato, e che penso impressioni molti americani.

Lei descrive Benjamin Franklin come un uomo che ha creduto nella costante ricerca del proprio miglioramento. Che tipo di contributo ha dato all’anima americana?

Franklin è un meraviglioso rompicapo. Più lo studio, più complesso diventa. A volte ti chiedi se è solo un astuto, materialistico imprenditore della politica. Oppure è un esploratore scientifico che ama la conoscenza e la sperimentazione, o un diplomatico ed ambasciatore estremamente intelligente. È una figura come quella di Merlino o un uomo profondamente spirituale, alla ricerca di un contatto con il Dio della natura e del Dio che dimora nell’essere umano?

Penso che sia tutte queste cose e un uomo profondamente spirituale che è anche straordinariamente pratico delle cose del mondo. Mi piace ri-mitologizzarlo come il simbolo americano della ricerca della verità spirituale nel bel mezzo di un’attiva, impegnata ed efficace esistenza mondana. È un mago, in un certo senso, un imbroglione, un uomo che è legato a Dio in modo molto stretto, fortemente non convenzionale ma altrettanto robustamente genuino. È nel mondo, ma non vi appartiene. Tale principio, che si trova in tutte le tradizioni spirituali, si applica a Franklin in maniera estremamente dinamica.

Esiste, oggi, un’anima americana?

Se usiamo il termine “anima americana” per indicare il significato spirituale del paese, direi, sì, il paese ha un significato spirituale. Il paese rappresenta un’idea del sé umano che circola da migliaia di anni, un’idea del sé definita in una nuova lingua, una lingua americana calata in un’esperienza americana – quella che troviamo ben articolata in alcuni dei discorsi di Lincoln e anche da Emerson, Thoreau e Whitman.

L’anima americana esiste come parte delle nostre ossa e dei nostri tessuti – è nella nostra natura, in quanto americani – ma è stato soppressa, coperta ed oscurata dal consumismo, dal materialismo, dal militarismo e da tutte le cose che sono sbagliate nell’America e che continueranno ad esserlo. Ma il materialismo ed il consumismo fuori controllo della nostra cultura ci hanno fatto vergognare più di una volta di essere americani e ci hanno impedito di vedere l’anima americana celata sotto la superficie della nostra psiche. Ora, quest’anima sta riemergendo. Esiste, certo, ma in un certo senso del termine, è ed è sempre stata in procinto di rinascere, di essere riscoperta.

Quale reputa sia un giusto uso della forza degli Stati Uniti nel mondo di oggi?

L’America è una nazione e le nazioni operano nel mondo delle nazioni. Il mondo delle nazioni è una giungla. Si obbedisce ad una legge molto dura. Non si può giudicare una nazione come si giudica una persona. Alcune persone immaginano che l’America dovrebbe essere santa, ma una nazione non ha alcuna chance di esserlo. Una nazione deve proteggere i suoi cittadini, deve proteggere se stessa, deve lottare a volte, deve avere denti e armature, e ogni nazione che ne è priva viene immediatamente inghiottita o sconfitta dalle altre. Un governo esercita la sua forza: è lì per difendere, punire e proteggere. La società è molto diversa, molto più morbida, molto più umana, molto più etica e, vorrei aggiungere, spirituale.

Quindi mi sento di potermi rifare a Thomas Paine e dire che lo scopo del governo americano, della nazione americana, è quello di proteggere lo spirito americano, l’anima americana, per permetterle di crescere e prosperare. Quel che l’America può fare per noi, e quindi per il mondo, dal momento che è la nazione più potente del mondo e culturalmente la più influente, è continuare a proteggere e favorire la diffusione di condizioni che permettano la ricerca della verità che avrà luogo non solo nel nostro paese, ma anche all’estero. L’America può favorire chi cerca di divenire un essere umano autentico e le condizioni che rendono gli esseri umani felici. La ricerca della felicità non significa la ricerca del piacere. Significa la ricerca di una vita in cui si è in contatto con quegli aspetti di sé che, soli, possono rendere felici. L’America può proteggere quella ricerca e consentire che essa continui ad esistere nel mondo, così come all’interno dei suoi confini, ma non certo per mezzo di maldestre ingerenze.

Un’altra cosa che l’America può fare è essere più generosa verso i poveri del mondo. La qualità che contraddistingue gli americani è la loro buona volontà. Gli americani, con tutti i loro difetti, vogliono davvero aiutare, e sono abbastanza bravi a sistemare le cose. Quindi ci sono molti modi in cui la nostra forza può e dovrebbe essere utilizzata, perché se non riusciamo ad esprimere la nostra natura spirituale, la nostra forza scomparirà.

Lei ci ricorda che i nativi americani avevano una mitologia ed una metafisica pari a quella di qualsiasi altra nazione nella storia. Che cosa abbiamo perso con la distruzione della cultura degli indiani americani?

Abbiamo sicuramente perso la loro influenza spirituale. La forma di governo irochese può aver influenzato la nostra Costituzione, in quanto trova molti sorprendenti riscontri nella nostra Costituzione. Questa cultura si è formata a partire da una visione spirituale della natura dell’universo e delle forze divine operanti nel mondo – le forze cosmiche che gli esseri umani devono comprendere interiormente ed articolare nella forma in cui indirizzano le loro esistenze, il lavoro, il governo e la società. Quindi direi che una cosa che abbiamo perso è il significato cosmico del governo, delle leggi, dell’etica e delle relazioni umane.

Vi è una legge morale inscritta nella natura dell’universo e nella natura dell’essere umano, e il nostro modo di convivere deve rifletterla. È una cosa che ho appreso studiando la cultura degli indiani d’America. Per quanto riguarda il rapporto dei nativi con la natura, lo sanno tutti che, per molti versi, avevano una straordinaria civiltà immersa nella natura. La loro conoscenza della natura era pari a quella di molte delle nostre intuizioni scientifiche al riguardo. Tuttavia, avevano compreso la natura non solo attraverso la mente analitica, razionale e logica, alla quale abbiamo fatto così abbondante ricorso e che ci ha donato il tipo di potere che abbiamo, ma anche attraverso l’attivazione di una qualità della mente di cui sappiamo poco.

Parlano di “visioni” e noi subito pensiamo a qualche sorta di fantasia New Age. Eppure è una qualità della mente che interpreta la natura delle cose e comporta uno stato qualitativamente diverso di coscienza di quello in cui tendiamo a vivere. Le culture premoderne possedevano una visione, un potere, una conoscenza, una comprensione che a volte è superiore a quello che abbiamo. Non hanno usato la logica, l’approccio analitico che privilegiamo, ma l’indiano ce l’abbiamo nel sangue, nelle ossa. Dobbiamo renderci conto che la cultura indiana non se n’è davvero andata, anche se è stata distrutta.

L’atteggiamento americano verso la nostra storia è come un pendolo che oscilla da un estremo all’altro. Quindi o lodiamo George Washington come il ragazzo che ha abbattuto l’albero di ciliegio o denunciamo Thomas Jefferson per il suo schiavismo. Quale delle icone della storia americana direbbe che esemplifica meglio delle altre la nostra incomprensione?

Chiaramente Jefferson, al momento attuale. È stato buttato giù dal piedistallo e penso che le calunnie ai suoi danni indichino un malinteso non solo nei suoi confronti, ma anche circa il il tipo di simbolo che dovrebbe incarnare. È chiaro che i grandi riformatori del genere umano, per quanto ho potuto vedere, sono senza eccezione parte del problema a cui stanno cercando di porre rimedio. Capiscono il dolore e l’orrore del problema che fronteggiano, perché ne fanno parte e forse ne sono responsabili, ed è proprio questa constatazione che alimenta la loro energia riformatrice. Non dico che questo sia vero per tutti, ma Jefferson è stato invischiato nella schiavitù, come tutti i padri fondatori, in un modo o l’altro. Penso che proprio perché ne era intrappolato divenne uno dei maggiori formulatori di quegli ideali e valori e del linguaggio in cui furono espressi, sulla scorta dei quali, per ironia della sorte, oggi viene condannato. I suoi critici non avrebbero gli strumenti per giudicarlo se non avesse articolato quegli ideali. Non si rendono conto che i loro standard di uguaglianza e di equità sono dovuti in larga misura al pensiero di Jefferson ed alla sua mente.

Sì, è stato coinvolto nella schiavitù, e deve aver sofferto lui stesso, perché è noto che dichiarò che se Dio è giusto, allora non poteva che temere per il futuro del suo paese. Sapeva che con la schiavitù era come cavalcare una tigre. La storia dell’America inizia con un compromesso, perché l’America non avrebbe mai potuto prendere l’avvio senza un compromesso intorno a questa questione al momento della formulazione della Costituzione. Quindi Jefferson aveva questa grandezza, questa visione, i suoi ideali e al tempo stesso era coinvolto in quello stesso problema e probabilmente ne aveva tratto profitto. Ma questo non significa che non ne riconoscesse l’erroneità. Infatti, si potrebbe dire che la sentisse ancora più intensamente di chi, come noi, non si vede nei panni dell’oppressore. Ma noi siamo l’oppressore.

Quindi penso che Jefferson debba essere ripensato, proprio per i motivi che servono a condannarlo: era sia un visionario sia un responsabile del problema che stava cercando di correggere. Sant’Agostino e San Francesco divennero santi dopo essere stati peccatori; avevano un atteggiamento verso il loro peccato che li aveva trasformati. Perciò la santità o la virtuosità non derivano dalla capacità di astenersi dal peccare: ma dalla coscienza e dal rimorso. Questa è l’energia che ci guarirà.

Quale domanda crede che noi americani dovremmo tenere sempre al centro dei nostri pensieri?

Dovremmo porci quella domanda d’inizio intervista: “sappiamo che cosa abbiamo qui?”. Se riesaminiamo la storia e diamo un’occhiata al mondo vediamo che  sono molto rari i luoghi in cui si è liberi di informarsi, di associarsi, nella ricerca della verità. L’America, ad onta di tutti i suoi difetti, è ancora un posto in cui possiamo farlo. E’ ancora un luogo in cui possiamo lavorare insieme e cercare la verità. Abbiamo bisogno di apprezzare questo paese per questa ragione molto più di quanto lo stiamo facendo. L’America è il luogo dove possiamo ravvisare i nostri obblighi nei nostri confronti, verso Dio e verso la Terra. Questo è quello che vorrei fare io, nel mio cuore.

http://www.mitchhorowitz.com/jacob-needleman.html

La democrazia diretta non ha mai ucciso nessuno…finora!

Non credete a chi vi dice che più democrazia diretta ci sarà, meno problemi avremo. Non è successo in Svizzera e non succederà altrove. La democrazia diretta è una buona cosa se usata con misura, sobrietà, buon senso, assennatezza e discernimento, altrimenti è un’arma micidiale. In ogni caso, i diritti fondamentali e la pari dignità di cittadini e residenti/soggiornanti NON DEVONO ESSERE MAI TOCCATI (se non per migliorarli ed ampliarli!)

Un estratto dal mio prossimo libro
:

“[…] Gli etnopopulisti elvetici dell’SVP, imprigionati dai vincoli costituzionali, adoperano la democrazia diretta, incluse le proposte di legge di iniziativa popolare e i referendum, per vincere delle battaglie che altrimenti non potrebbero neppure intraprendere. Questo, naturalmente, significa che la fede di carattere messianico dei campioni della democrazia diretta, che vedono nella democrazia diretta la soluzione alla gran parte del mali della società, è malriposta. Lungi dall’indebolire la partitocrazia, la democrazia diretta dal basso incentiva lo sviluppo di nuove forme di partitismo non meno manipolative e spregiudicate di quelle giustamente sotto accusa (Ladner/Brändle, 1999).

Uwe Serdült e Yanina Welp, due tra i massimi esperti elvetici di democrazia diretta, hanno studiato le iniziative popolari di democrazia diretta in tutto il mondo dalla prima (nel 1874) al 2009 (Serdült/Welp 2012) ed hanno scoperto che la diffusione della democrazia diretta non ha nulla a che vedere con la crisi della democrazia rappresentativa nelle democrazie consolidate. Infatti la spinta per una maggiore democrazia diretta ha riguardato soprattutto paesi non-europei. Sono solo quattro su 38 le nazioni dell’Europa occidentale che si sono dotate degli strumenti per attuare la democrazia diretta a partire dal basso. E di queste 38 nazioni solo 19 ne hanno fatto uso dalla fine degli anni Ottanta. La tanto bistrattata democrazia italiana risulta al secondo posto nel mondo, con 62 referendum a partire dal 1974, dopo la Svizzera (336 dal 1874) e davanti al Liechtenstein (56 dal 1925), San Marino (14 dal 1982) e Uruguay (11 dagli anni Cinquanta). Proprio in Uruguay dei referendum di riforma costituzionale sono stati promossi nel 1958, 1962 e 1966 per imprimere una svolta autoritaria al sistema di governo uruguagio. In Estonia, nel 1933, sotto la pressione della Depressione, il regime fascista fu instaurato proprio attraverso un’iniziativa popolare di democrazia diretta.

Più recentemente, numerosi studiosi hanno messo in guardia dal sottovalutare la capacità dei gruppi di pressione e dei poteri forti di influenzare l’andamento delle campagne referendarie e l’esito del voto: il cosiddetto “paradosso populista” (Gerber, 1999). David S. Broder (2000) ha evidenziato con abbondanza di riferimenti come, soprattutto in California, ma non solo, è tragicamente ingenua la fiducia che si ripone del potere taumaturgico dell’iniziativa popolare: laddove c’è un netto divario di risorse, demagoghi e lobbisti strumentalizzano la democrazia diretta senza che gli elettori se ne rendano conto e sussiste un rischio molto concreto che, prima o poi, il sistema democratico rappresentativo e, con esso, la cornice costituzionale, possa essere abbattuto dall’interno, a furor di plebiscito. In pratica, quella che doveva essere una cura contro il lobbismo si è trasformata in un’ulteriore opportunità di manipolazione degli orientamenti dei cittadini, perché la politica non ha ancora provveduto a regolamentare adeguatamente le attività di pressione e renderle trasparenti.

Barbara Gamble, che ha rianalizzato le esperienze di democrazia diretta negli Stati Uniti tra il 1959 ed il 1993, ha mostrato che le maggioranze hanno ripetutamente usato lo strumento referendario per tiranneggiare le minoranze, con iniziative contrarie ai loro diritti civili che hanno riscosso una serie straordinaria di successi (Gamble 1997, p. 261). Questo avviene ancora più di frequente nelle comunità più piccole, laddove manca quell’eterogeneità di interessi che rende più arduo formare delle maggioranze coese che possano spadroneggiare sulle minoranze (Donovan/Bowler 1998).

Il problema principale è che chi è in grado di investire molto denaro ha una concreta possibilità (statisticamente significativa) di far pendere la bilancia da una parte o dall’altra, in accordo con le sue preferenze (Hertig, 1982; Kriesi, 2005; Stratmann, 2006). Hanspeter Kriesi, direttore del dipartimento di politica comparata all’Università di Zurigo e specialista di democrazia diretta, ha rilevato che le iniziative di democrazia diretta in Svizzera sono molto spesso impregnate di emotivismi e di tenaci pregiudizi in favore delle indicazioni di voto del proprio partito di riferimento e moltissimi elettori decidono fin dall’inizio che cosa voteranno, cambiando idea molto di rado e facendo proprie le argomentazioni che raccolgono durante la campagna referendaria solo per razionalizzare scelte predeterminate e di carattere emotivo. In un intervento alla conferenza internazionale annuale dell’associazione di studi politici sul tema “in difesa della politica” (aprile 2012), Kriesi ha amaramente commentato che l’esercizio deliberativo nelle campagne di democrazia diretta non corrisponde ad uno scenario ideale in cui i votanti prendono delle decisioni sulla base delle argomentazioni più persuasive.

Mentre l’islamofobia e la xenofobia hanno pesantemente condizionato la pratica della democrazia diretta in Svizzera, ostacolando per esempio gli sforzi dei rappresentanti politici di naturalizzare gli immigrati e garantire i loro diritti civili (Hainmueller/ Hangartner 2012), l’omofobia ha più volte annullato virtualmente tutte le iniziative a livello rappresentativo negli Stati Uniti che volevano garantire pari diritti agli omosessuali. Negli Stati Uniti, tra il 1995 ed il 2004, gli stati che prevedevano la democrazia diretta hanno approvato molte più proposte di legge ostili alle minoranze di quelli che non la contemplano (Lewis, 2011). La Svizzera, avendo previsto questo tipo di risvolto, è meno affetta – ma tutt’altro che immune – da questa sindrome di populismo autoritario e discriminatorio perché ha cercato di mettere al sicuro i principi costituzionali ed i diritti civili già garantiti dalle aggressioni di un elettorato volubile (ma sulle naturalizzazioni ha potuto fare ben poco).

Dobbiamo, tristemente, prendere atto del fatto che James Madison, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, aveva ragione quando ammoniva che “quando una maggioranza è unita da un comune interesse, i diritti della minoranza sono incerti” (1787)”.

Non saranno gli hippies a cambiare il mondo – esaurita l’indignazione, è tempo di fare sul serio

di Stefano Fait

Victor Hugo, “I Miserabili” (Les Misérables)

Per il momento per quello che vediamo, anche in vertenze molto difficile, non vediamo elementi che ci possano ricondurre al clima violento degli anni Settanta. Ovviamente non ci auguriamo che tornino fenomeni di violenza e dobbiamo avere tutti la massima vigilanza. Vedo amarezza ed esasperazione crescente. Siamo contemporaneamente con livelli di disoccupazione che non ci ricordavamo da tempi infiniti, siamo con tanti lavoratori in cassa integrazione e con migliaia di esodati senza lavoro e senza pensioni. Non si vede un’iniziativa che crei un posto di lavoro che sia uno. È normale che i lavoratori pensino che ci sia un accanimento se in questa situazione si dice loro che alla crisi uniamo anche il fatto che licenziare sarà più facile. È sbagliato pensare di ridurre le tutele in questa stagione di crisi. Aver tolto la possibilità per il giudice di reintegrare i lavoratori significa togliere quell’effetto deterrente, che finora aveva impedito nel nostro Paese che il licenziamento diventasse uno strumento generalizzato nelle aziende. Certo c’è il rischio che la tensione salga, perché si continua nell’idea che si possa dividere il Paese.

Susanna Camusso, 25 marzo 2012

Nella prefazione all’edizione del 1944 di “Confidenze di Hitler”, di Hermann Rauschning, venuta alla luce clandestinamente a Padova, nella Repubblica di Salò, per i tipi de Il Torchio, l’anonimo traduttore, A.F., scriveva “ecco appunto una fondamentale diversità fra questa e le precedenti guerre: le crudeltà individuali, “illegali”, sono diminuite; quelle sistematiche, “legali”, di cui è responsabile un comando o un governo, sono immensamente aumentate. La violenza è organizzata, la crudeltà imposta, la rapina metodica, il terrore ufficiale (p. VII). Un po’ più oltre l’autore delinea un’interpretazione realistica – che trovo molto persuasiva – del principio di libertà: “chi invoca la libertà non è mosso da ottimismo ingenuo, ma da pacato pessimismo. Proprio la fredda constatazione che i moventi fondamentali delle umane azioni sono gli interessi e gli egoismi, porta a suggerire, come primo e fondamentale rimedio agli eccessi antisociali, il controllo esercitato da interessi e da egoismi diversi e opposti. E questo controllo funziona soltanto con la libertà di parola, di stampa, di riunione, di associazione, di sciopero. Non è, no, l’umanitarismo democratico che spinge a invocare la libertà; è invece il realismo critico che ritiene la libertà condizione indispensabile per quel necessario controllo”.

Infine, a coronamento di un ragionamento di particolare acutezza, il richiamo alla coincidentia oppositorum – una delle mie predilezioni: “esistono molecole, ioni, ormoni, apparati, che sono detti “antagonisti” non già perché esauriscano il loro compito in una dispendiosa lotta scambievole, ma perché agendo o reagendo in senso opposto a diversi stimoli, o anche a uno stesso stimolo, ottengono il mirabile risultato di mantenere un’alta sensibilità funzionale e uno stabile vicendevole equilibrio. Quando il benefico gioco degli antagonismi regolatori è interrotto per il prevalere di una sola parte, incominciano le manifestazioni morbose” (pp. IX-X).

Questi sono, per l’appunto, i tre fattori decisivi per la riuscita della rivoluzione che porrà fine al presente status quo e, ce lo auguriamo, ci condurrà in un Mondo Nuovo meno ipocrita ed iniquo di questo:

  1. la constatazione che la società in cui viviamo è così intrinsecamente corrotta da essere irriformabile. Chi detiene il potere al momento attuale non si farà MAI da parte e non è per nulla raccomandabile. Molto presto la maschera cadrà, il guanto di velluto sarà tolto e nessuno potrà più ignorare una realtà in cui “la violenza è organizzata, la crudeltà imposta, la rapina metodica, il terrore ufficiale”;
  2. l’idealismo degli indignati, convinti che la mera protesta prolungata farà cambiare atteggiamento a chi di dovere, è deleterio, futile e ottuso. La mitezza nei confronti della tracotanza e della violenza ha la stessa efficacia del belato di un agnellino nel tenere alla larga un branco di lupi. Arriva il momento in cui bisogna battersi per la libertà e la dignità: “Non è, no, l’umanitarismo democratico che spinge a invocare la libertà”;
  3. il conflitto, l’antagonismo sono l’anima della democrazia, quando non sono fini a se stessi. Quando però una parte, spinta da un’irrefrenabile hybris, decide di monopolizzare ogni forma di potere e risorsa, lasciando le briciole all’altra (1% vs. 99%), “il benefico gioco degli antagonismi regolatori è interrotto per il prevalere di una sola parte e incominciano le manifestazioni morbose” (cf. la psicopatia che sociopatizza l’intera società). A quel punto, è dovere di ciascuno di noi ristabilire l’equilibrio tra le forze contrarie, per il bene di chi verrà dopo di noi.

Chi mi segue da tempo sa che sono contrario alla violenza che non sia per autodifesa (e per difendere gli innocenti inermi). Ho sempre perorato la causa dello sciopero generale e continuerò a farlo, perché il Mondo Nuovo che ho in mente dovrà essere molto meno iniquo di questo, molto meno egoista di questo, molto meno avido di questo e perciò molto meno violento di questo. Purtroppo le mie analisi mi hanno portato a concludere che la rivoluzione ci sarà in ogni caso, che mi/ci piaccia o no (e io vorrei tanto che non ci fosse, perché la considero una sconfitta), perché chi comanda non cerca il dialogo, la negoziazione e il compromesso. Vorrei tanto che non fosse così, ma la situazione è a dir poco terribile. Ho appena sentito al notiziario radio che gli Italiani hanno cominciato a rubare frutta e verdura dai campi e dagli orti!! Quanto più in basso di così dovremo finire, ancora?

Fatta questa premessa, è necessario esaminare le cause della sconfitta degli indignati/indignados/occupanti e provare a mostrare come il loro fallimento possa dimostrarsi benefico per chi si è posto come obiettivo quello di contrastare e sconfiggere le politiche neoliberiste proposte come rimedio ad crisi globale causata da, guarda un po’, politiche neoliberiste (!).

Tra parentesi, l’indice del lavaggio del cervello che abbiamo subito è misurato da quel 20% di elettori del centrosinistra che colloca Monti, un neoliberista convinto ed orgoglio di esserlo, nell’area di centrosinistra (!!!). Di buono c’è che, molto probabilmente, 3 mesi fa erano molti di più.

La sconfitta del movimento di protesta globale è solo congiunturale ed è di buon auspicio.

Controllato da leader inetti o sabotatori, il movimento ha sprecato l’occasione di agganciarsi alla primavera araba ed ha rinviato il suo sbocco naturale: la Rivoluzione. “Naturale” solo perché viviamo in oligarchie, non democrazie. Una volta i potenti erano meno fessi, avidi ed egoisti di quelli attuali e sapevano mantenere un discreto equilibrio tra le forze, pur privilegiando la sommità della piramide.
Sia come sia, i semi dell’indignazione daranno frutti quest’anno, giacché la popolazione euro-americana (e non solo), estenuata dalle politiche di governi intenti a demolire lo stato sociale, prenderà in mano il testimone, ignorando bellamente le scemenze postmoderniste e neo-hippy di indignati ed occupanti. Il 2012 sarà, per l’appunto, l’anno della Rivoluzione, quella con la R maiuscola, in Egitto come in Europa, nel Nord America come in Asia:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/14/il-2012-e-lanno-della-rivoluzione-vi-spiego-perche/

Non ci sarà spazio per i fighettini di piazza Tahrir, gli inetti di Puerta del Sol e i seccatori di piazza Battisti (Trento).

Chi era presente alla manifestazione pro-autonomia del 10 marzo in piazza Battisti avrà constatato l’inciviltà di alcuni tra gli occupanti No-Tav, incapaci di intuire che usare un megafono per sovrastare le voci di chi interveniva, imponendo il loro messaggio, tra i fischi dei presenti, era una pugnalata alla schiena delle benemerite comunità della Val di Susa. Questi protestatari di professione non sembrano minimamente inclini a mettersi al servizio della comunità: sono troppo immacolati e melodrammaticamente eroici per volersi sporcare le mani. Le loro urla e le occupazioni sono autoreferenziate: l’unica comunità che potrebbero voler abitare è quella che rispecchi le loro convizioni e gratifichi il loro ego. Non credono nell’unità nella diversità, ossia nel pluralismo democratico: se potessero, farebbero in modo che la realtà e l’altrui percezione della realtà si conformasse ai loro desideri. Non paiono disposti ad adattare i propri desideri al dato reale ed alle esigenze delle persone che li circondano. Come Victor Hugo diceva di Robespierre: “hanno la forza della linea retta”.

In questo, non sono per nulla diversi dalle autorità che avversano.

Sono quelli che, con il loro assolutismo, fanno fallire ogni progetto di riforma della società ed ogni rivoluzione:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/14/se-incontrerete-questo-tipo-di-rivoluzionari-isolateli-sono-mortiferi/#axzz1od3sL7a5

Molti, tra gli indignati, hanno un profilo psicologico di questo tipo.

Tra i leader intellettuali del movimento degli occupanti (Occupy Wall Street – OWS) più nocivi, vorrei citare David Graeber e Slavoj Zizek, i due maggiori sabotatori del movimento di protesta contro gli eccessi del capitalismo monopolistico (ne approfitto per precisare che il capitalismo delle origini era un fattore di emancipazione: sono stati gli oligopolismi, ossia la deregulation, a trasformarlo in un meccanismo di asservimento).

Graeber è questo personaggio qui:

http://www.ilpost.it/2011/10/04/david-graeber-occupy-wall-street/

Io, come lui, sono convinto che l’anarchismo sia di gran lunga la migliore organizzazione sociale concepibile ma, a differenza sua, ho il buon senso di aver preso coscienza della sua INATTUABILITÀ in questo mondo.

La democrazia rappresentativa con robuste iniezioni di democrazia diretta, autonomismo, tutela dei beni comuni e cooperativismo è la migliore approssimazione possibile all’utopia anarchica. Il valore combinato di questi “additivi” deriva precisamente dalla loro capacità di mirare all’anarchismo senza perdere di vista la concretezza della natura e dell’esperienza umana.

Chiunque voglia realizzare l’anarchismo integrale in terra è un pirla e sarà causa di immensi patimenti per chi lo seguirà.

Chiunque intenda avviare una rivoluzione su basi anarchiche è un pirla al quadrato (vedi premessa).

Mi pare che il segreto di un movimento capace di realizzare un cambiamento autentico e non solo cosmetico stia nella capacità di tenersi alla larga da due estremi. Uno è quello dell’attesa messianica del leader carismatico/guru che ci guiderà verso un avvenire migliore: le pecore seguono i pastori, gli esseri umani dovrebbero agire coralmente, consapevolmente, responsabilmente, senza affidare le proprie sorti ad un deus ex machina.

Questo estremo è incarnato dal pensiero di Zizek, che oscilla tra il nichilismo ed il totalitarismo (classici compagni di merenda):

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/27/partigiani-del-terrore-sicari-della-rivoluzione-slavoj-zizek/#axzz1od3sL7a5

L’altro estremo è l’utopismo ingenuo, relativista e vacuo di Graeber, su cui non mi voglio soffermare.

Si deve tenere a mente che Occupy Wall Street non ha preso l’avvio a Wall Street ma in contemporanea con la primavera araba, a Madison, nel Wisconsin, uno stato governato da un politico repubblicano autoritario ed intenzionato a vincere un braccio di ferro con sindacati ed impiegati pubblici dello stato, uno scontro che lui stesso aveva reso inevitabile, con il suo tentativo di liberalizzare il “suo” stato, ossia di soggiogare sindacalisti e lavoratori. In piazza Tahrir si vedevano cartelli di solidarietà nei confronti della lotta di Madison ed un egiziano acquistò pizze da distribuire agli scioperanti. Sono i semi di una futura rivoluzione globale coordinata su internet.

Quel che è mancato, finora, è stato, appunto, il coordinamento, tra lavoratori, studenti, disoccupati e cittadini scontenti (es. ipertassazione per alcuni, dispense, agevolazioni ed elusioni fiscali per altri) o rovinati dalle speculazioni (es proprietari di case pignorate). È assai probabile che una guerra forgerebbe spontaneamente questo nesso e molto saldamente, forse indissolubilmente. Obama ha appena annunciato che la finestra per la diplomazia con l’Iran si sta chiudendo [è mai stata aperta? Dopo quello conferito a Kissinger, il Nobel per la Pace a Obama è il più ridicolo della storia: ormai lo potrebbe vincere anche Mugabe].

Invece di un coordinamento e di richieste concrete, c’è stata abbondanza di chiacchiere ed occupazioni piuttosto sterili, senza che il movimento se la sia sentita di incolpare il comandante della nave, Obama, di quel che sta accadendo. Se al posto di Obama ci fosse stato Bush avremmo già avuto barricate nelle strade di tutte le principali città americane. Se non è così è perché c’è ancora speranza nelle capacità e volontà di Obama di salvare capra e cavoli, sebbene molti abbiano preso coscienza del fatto che la sua amministrazione è pesantemente influenzata da collaboratori con un passato, anche recentissimo, alla solita Goldman Sachs, la stessa banca d’affari che ha dato fraudolentemente via libera all’ingresso della Grecia nell’eurozona ben sapendo cosa ciò avrebbe comportato nel giro di qualche anno.
In Spagna il fallimento è stata la diretta conseguenza della presenza al governo del “progressista” Zapatero e al timore di un’alternativa ultraconservatrice, se non neo-franchista. Un’ulteriore ragione è che la guida del movimento – intellettuali giovani e meno giovani – l’ha spinto in un avvitamento solipsistico e narcisistico fatto di eterne e vacue sedute assembleari che ricordano vagamente quelle dileggiate da Nanni Moretti. Molto fumo, poco arrosto: un po’ come Gandhi.

Soprattutto, si registra scarsissima attenzione alla tragica situazione delle altre categorie di cittadini – anziani, contadini, lavoratori, minoranze, ecc. – che, di conseguenza, non si sentono coinvolti e non rispondono con entusiasmo alle sollecitazioni di indignati ed occupanti.

Il problema è che se questo movimento, invece di evolvere imparando dai suoi errori, si spegne, ci sarà una fondata possibilità che la società americana, in special modo ma non esclusivamente quella, degeneri in senso autoritario. È emblematico l’esempio dell’Egitto e dei “fighetti di piazza Tahrir” che, non avendo neppure cercato di coinvolgere il resto della popolazione, hanno scacciato un autocrate per ritrovarsi con una giunta militare molto più oppressiva di Mubarak. È compito di tutti noi quello di assistere il movimento e, possibilmente, indirizzarlo verso sbocchi più trasformativi.

Finchè alla testa del movimento ci saranno teste d’uovo intossicate dalle loro fantasie egoistiche la gente resterà una massa informe, invece di organizzarsi per difendere la classe media e il restante 99%; prima o poi arriverà un incantatore a servire gli scopi dell’1%.

L’obiettivo di chi ha le idee piuttosto chiare su cosa sia necessario fare dev’essere quello di fare in modo che il movimento si espanda costantemente, adoperi la necessaria circospezione e formuli obiettivi chiari, ampiamente condivisibili, migliorativi, cioè a dire un’alternativa al sistema attuale. Se pensiamo a quanto indecente e fallimentare sia quest’ultimo, che ogni giorno che passa si scava la fossa con la vanga della sua superbia e incoscienza, non dovrebbe essere un compito al di sopra delle nostre possibilità.

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