Lost?

a cura di Stefano Fait, direttore di FuturAbles

 

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Se le porte della percezione fossero purificate, tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è, infinito.

William Blake -The Marriage of Heaven and Hell

Il volo 370 delle linee aeree malesiane non è l’unico grande velivolo scomparso misteriosamente senza lasciare traccia. Quattro droni americani sono svaniti nel nulla mentre sorvolavano l’Afghanistan – non sono mai più stati visti.

http://www.washingtonpost.com/news/checkpoint/wp/2014/06/20/over-afghanistan-drones-that-vanished-without-a-trace/

E’ un mistero senza precedenti, quello che ha colpito il volo 370 della Malaysia Airlines diretto a Pechino. Proprio tre mesi fa, infatti, l’aereo scompariva nel nulla, senza che – sino ad oggi – sia stato possibile recuperare alcun resto. Il governo malese si conta abbia già speso più di 8 milioni di dollari nelle ricerche e, secondo le famiglie, è ora che anche loro facciano qualcosa.

http://www.scienzamente.com/tecnologia/campagna-di-ricerca-fondi-per-la-scomparsa-del-volo-370/2725/

Venezuela, aereo scomparso a Los Roques: è il quarto episodio dal 1997 a oggi che coinvolge gli italiani. Il mistero della rotta maledetta – Quello di Los Roques, in Venezuela, si conferma sempre più come un arcipelago maledetto, una sorta di nuovo “Triangolo delle Bermuda

http://www.huffingtonpost.it/2013/01/05/venezuela-aereo-scomparso_n_2416184.html

E’ inspiegabile la scomparsa di tredici aerei dai radar avvenuta nei giorni scorsi. E’ accaduto il 5 e il 10 giugno nei cieli austriaci, tedeschi e della Repubblica Ceca e ad oggi non è stato ancora possibile risalire alle cause del misterioso fenomeno. Gli aerei sono inspiegabilmente scomparsi dai radar per circa 25 minuti lasciando di stucco e in forte apprensione i tecnici che si sono trovati nella totale impossibilità di individuare ben 13 velivoli.

http://www.centrometeoitaliano.it/spariscono-radar-13-aerei-mistero-cieli-austria-germania-13-06-2014-15677/

http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/europe/austria/10898385/13-planes-vanish-from-radars-over-Europe.html

Vogliamo essere orsi o lupi?

Non c’è solo il lupo dei proverbi, malvagio per antonomasia, ma anche quello dei fratelli Grimm, feroce ma stolido, strappato a chissà quale pantomima carnevalesca, capace di mangiarsi la nonna di Cappuccetto Rosso senza battere ciglio e poi di farsi riempire la pancia di sassi, per finire come il fantoccio del carnevale boemo, annegato in un fiume. Un personaggio sempre in bilico tra l’atroce e il comico, come il lupo dei tre porcellini, che ne disfa le casette di paglia a suon di peti (le “loffie”,  non a caso, e “loffia di lupo” è il nome della vescia dei boschi)…  Su un altro emisfero, quello mediterraneo, ecco la lupa capitolina, animale totemico della monarchia romana, certo più orsa che lupa, visto il profilo molossoide che le si riconosce, che è quasi umano e che, per una lupa vera, è quasi del tutto incongruo…I Luperci sono altre creature ibride, uomini-lupo, ovvero lupi-capri (lupus-hircus), interpretati da uomini proprio come nelle odierne mascherate, dove troviamo lupi in vesti di capra, o di pecora (“wolves in sheep’s clothes” è l’espressione inglese) come i moderni kurenti  (“currentes” alla latina, cioè corridori) dell’entroterra sloveno: hanno muso, lingua, denti e zanne di lupo, essendo però completamente avvolti di pelli di capra o di velli di pecora, a mo’ di curiosa sintesi totemica di fauci e di carne, di carnefice e di vittima.  Questo è il lupo della tradizione popolare, creatura ambigua, eternamente metamorfica, tra i poli opposti del feroce e del burlesco, del predatorio e, al contrario, di una feracità sessuale e lattifera del tutto sorprendente, in transito costante tra i poli opposti dell’animale e dell’umano…Poi c’è il lupo vero. Quando eravamo piccoli a Basovizza sul carso triestino, certe donne del paese raccontavano dandosi un po’ di importanza che da lì accadeva piuttosto spesso di sentire i lupi: e con tanta convinzione che ci pareva quasi quasi di sentirli anche noi, la notte, tutt’uno con l’abisso di ignoto e di bora gelida che si apriva poche centinaia di metri più in là, oltre i reticolati del confine. Poi ci hanno spiegato che il lupo, male che vada, è un innocuo smargiasso dei boschi, un killer per diporto, opportunista e vigliacchetto come tanti dei nostri cacciatori. Ma sarà difficile, per chi abbia provato quel brivido, sul carso triestino o altrove, guardare con simpatia al rinselvatichirsi del territorio, e all’inesorabile prossimo ritorno dei lupi.

Giovanni Kezich, “L’ambiguità del simbolo”, Dislivelli, aprile 2012

 

Se il lupo rappresenta di solito una malvagità cupa e un po’ stolida, comunque inavvicinabile, l’orso della tradizione popolare europea è quasi un uomo mancato, un uomo a metà, una parodia d’uomo. Ben lo sapevano gli antichi slavi, che sulla base di un’attribuzione antropomorfizzante e un po’ fiabesca hanno chiamato l’orso medved, il “mangia-miele”. Onnivoro, all’occasione bipede, giocherellone, goloso e improvvisamente iracondo come un òm selvadegh o un ragazzone un po’ scemo, l’orso appare come una controfigura selvatica dell’uomo, essendo la diretta dimostrazione in sede zoologica, nel sapere popolare di tutto il mondo, della continuità di fondo che, al di là delle molte differenze, esiste nei due sensi tra l’essere animale e l’essere uomo.

Giovanni Kezich, “Una cultura europea d’orso”, I fogli dell’orso, ottobre 2009

 

Noi siamo i nemici, come un lupo che si getta su un gregge di pecore. È quello che siamo!

P. Joseph Goebbels, annunciando l’ingresso dei deputati nazisti in Parlamento (Reichstag), nel 1928

 

Una gioventù dura, violenta e crudele, dotata della forza e della bellezza delle giovani belve.

Adolf Hitler

A questo punto, preso atto della situazione di gravissima crisi in cui versa la nostra civiltà e della nostra irriducibile umanità, non resta che scegliersi un animale totemico che valorizzi ciò che c’è di meglio in noi, scartando quelli che tirerebbero fuori il nostro peggio.

Perché un animale totemico? Perché gli animali sono sempre stati al centro del processo attraverso il quale gli esseri umani si formano un’immagine di se stessi. Sono le sorgenti dei più profondi significati simbolici e vengono da sempre utilizzati come veicoli di istruzione morale e di socializzazione, in quanto modelli di ordine e moralità. Sono buoni da pensare, ma anche buoni da insegnare e da imparare (pensiamo solo alla potenza e lucidità di “La Fattoria degli Animali” di George Orwell). Gli animali dominano il nostro modo di classificare eventi (“che porcata!”), rapporti tra le nazioni europee (“cicale e formiche”) e persone (“è un leone”, “che asino!”). Li celebriamo, li denigriamo, li temiamo, li trasformiamo in simboli, li introduciamo nel dibattito politico (cf. l’orso russo, l’aquila americana, Sarah Palin mamma grizzly, i figli della lupa, il serpente a sonagli del movimento ultrareazionario statunitense Tea Party, ecc.) in modo che possano combattere le nostre battaglie al posto nostro, o al nostro fianco, nelle teste della gente, dell’opinione pubblica. È sempre una questione riguardante la nostra visione del nostro posto nel mondo, ed ha poco a che fare con gli animali in sé e per sé. Sono gli attori di una saga che ha noi come protagonisti. Recitano il nostro ruolo. Facciamo fare un sacco di cose agli animali nelle nostre storie, assegniamo loro una molteplicità di compiti, specialmente a quelli carismatici, come appunto l’orso e il lupo, icone delle terre di frontiera, delle regioni selvagge. Sono gli orsi che rendono selvaggio il Trentino, lo distinguono dal resto d’Italia, ne sanciscono il diritto all’autonomia, in quanto diverso. Il Trentino è selvaggio e libero anche perché ci sono animali selvaggi e liberi come gli orsi, che non si lasciano addomesticare. Per questo, come nel caso dell’Alaska, le locandine, pieghevoli e pagine web legate all’industria turistica del Trentino abbondano di orsi. I nostri orsi (anche se provengono dalla Slovenia). I Trentini in fondo si compiacciono di essere considerati degli orsi, perché apprezzano le virtù che associano agli orsi ed a loro stessi, più o meno giustificatamente: tenacia, lealtà, forza, burbera schiettezza, bonaria scontrosità, innocente e comica ingenuità, genuinità, amore per la natura e le montagne, generosità, sobrietà, industriosità, ferocia se minacciato, gentilezza se rispettato, ecc. Nelle mitologie mondiali, forse quelle più arcaiche, data la loro diffusione planetaria, l’orso è consigliere, maestro e guaritore.

Non sono solo i Trentini ad avere un rapporto appassionato con gli orsi. Il simbolismo dell’orso è uno dei più prominenti dell’immaginario umano ed è arrivato fino a noi, con gli orsacchiotti per i bambini, gli orsi polari di “Lost”, le costellazioni – associate alle orse in numerose tradizioni – e l’orso rampante dello stemma personale di Benedetto XVI. In Grecia l’orsa era venerata come essenza della prosperità e della maternità premurosa e sollecita. Era l’animale sacro ad Artemide, nume tutelare della natura. La medesima radice “arth” dell’orso si rinviene nella dea gallica Artio, anch’essa accompagnata da un’orsa, e in Artoris, ossia Re Artù(ro). Mentre l’orsa femmina, lunare, è benevola, l’orso maschio, solare, è l’emblema della casta guerriera. Orione, il cacciatore d’orsi, fu ucciso da Artemide mentre cercava di stuprarla. I famigerati berserk erano guerrieri fanatici che indossavano pelli d’orso per assimilarne la ferocia e la resistenza al dolore. Nell’alchimia, come per Jung, l’orso era simbolo di oscurità e del mistero della materia prima e del subconscio. Nell’iconografia cristiana può rappresentare il demonio e non è quindi per caso che ci siano numerosi santi cristiani domatori di orsi: San Gallo, San Romedio, San Corbiniano evangelizzatore del Meranese, San Lugano dell’omonimo passo, Sant’Orsola, San Colombano e Santa Colomba. Laddove non ci sono i santi, ci sono invece gli sciamani.

La sua popolarità forse deriva dal fatto che, tra i non primati, l’orso è l’animale che assomiglia di più agli esseri umani, è il più antropomorfizzabile. È possibile che sia questa la ragione per cui nei letti dei bambini ci sono più orsetti che altri animali di peluche. L’orso può camminare a due zampe come noi, rispetto a noi ha il vantaggio di poter “morire e risorgere” durante l’inverno, grazie all’ibernazione del letargo. È spesso associato alla Dea Madre, forse perché si occupa amorevolmente ed a lungo dei propri cuccioli (così suggeriva Plinio il Vecchio). Dimora nelle caverne, come per millenni abbiamo fatto anche noi. Tra i popoli del nord, dalla Scandinavia all’Hokkaido (Giappone), il culto dell’orso è quello dominante. Là l’orso è il re degli animali. La tradizione coreana fa discendere quel popolo dagli orsi. Tra i Tlingit della costa del pacifico canadese, come tra i Norvegesi, esistono leggende in cui degli orsi sposano delle giovani donne.

Come abbiamo visto, l’orso è l’animale-simbolo del Trentino, dell’Alaska e della Russia.

Un altro esempio di impiego simbolico di un animale selvaggio, il lupo appunto, è stato molto meno innocente di quello trentino. Fu il lupo, suo malgrado, ad essere scelto per rappresentare totemicamente la Germania nazista.

Il Terzo Reich dimostrò una sensibilità verso gli animali e la natura inversamente proporzionale a quella dimostrata verso gli esseri umani. Le leggi sulla sperimentazione sugli animali e sul loro trasporto e la normativa per la tutela delle foreste e della biodiversità erano all’avanguardia nel mondo, tanto che alcune di esse rimangono in vigore in Germania. Forse l’incapacità di amare gli esseri umani potrebbe in parte spiegare la sproporzionata passione per gli animali – sproporzionata in relazione alla loro misantropia: amare gli animali non è mai un male – e la glorificazione nazista delle leggi di natura. Infatti il nazismo formulò una filosofia dei viventi (Lebensphilosophie), non dell’umano. Non serviva alcuna antropologia, perché la specie umana era sussunta nello schema del vivente, non v’era nulla di riconoscibilmente speciale negli esseri umani nel panteismo nazista (arte, scienza e spiritualità non contavano).

L’obiettivo dichiarato di Hitler era quello di rinselvatichire la razza ariana, corrotta dall’addomesticamento degeneratore del processo civilizzatore, per costruire una comunità naturale, biotica (organische Lebensgemeinschaft) capace di vivere in pieno accordo con le leggi di natura (interpretate secondo i dogmi nazisti, ossia social-darwinisti – la legge della jungla, insomma). “Voglio giovani uomini violenti, imperiosi, senza paura, crudeli…cancellerò migliaia di anni di domesticazione umana. Otterrò l’essenza più pura e nobile della natura”, profetizzava nel Mein Kampf. L’ariano doveva essere libero e selvaggio (!) per poter essere signore e padrone, dominatore delle altre razze inferiori, pervertite dall’etica della compassione e dell’altruismo.

In questo schema dottrinario l’animale totemico fu il lupo, ossia il cane non addomesticato. Il culto del lupo piaceva ai nazisti perché prometteva ordine e disciplina in uno stato di natura privo degli effetti deleteri della “civilizzazione”.

Furono i nazisti i primi ad emanare una legge per la tutela dei lupi (1934) anche se in Germania di lupi non ce n’era l’ombra. Ce n’erano però in Polonia, che fu occupata cinque anni dopo. Nell’immaginario nazista, il lupo era la bestia psicopatica per antonomasia: fredda, meccanica, crudele, completamente priva di scrupoli ed inibizioni morali, una macchina programmata per obbedire al leader del branco e massacrare gli avversari ed i deboli, inadatti alla vita (Boria Sax, 2000). Era l’animale più strettamente associato alle virtù marziali ed alla casta nobiliare: fiero, spietato, combattivo, leale nei confronti del branco. Wolfram, Wolfhart, Wolf, Wolfgang, sono nomi tedeschi che tradiscono una qualche arcaica identificazione totemica. Anche l’etimologia del nome “Adolf” è “nobile lupo”. L’indottrinamento e l’addestramento fisico delle reclute delle SS doveva servire a tramutarli in veri e propri lupi mannari, con tutte le peculiarità ad essi comunemente associate. Vi era una costante celebrazione delle presunte virtù dei lupi: lealtà, gerarchia, fierezza, coraggio, obbedienza e, se necessario, crudeltà, al punto da torturare i nemici. È evidente la continuità con l’iniziazione militare indoeuropea, che pianificava  la trasformazione rituale del giovane guerriero in un lupo sul modello della mitica casta guerriera nordica dei Volsung. I ragazzini della Gioventù Hitleriana mandati allo sbaraglio negli ultimi giorni di guerra e nei primi mesi del dopoguerra (partigiani anti-alleati) si facevano chiamare “lupi mannari”

Hitler definiva le SS il suo branco di lupi ed era convinto che la gente lo acclamasse perché percepiva che “era nato un lupo”. Tale era l’ossessione lupina nel Terzo Reich che il Führer si faceva soprannominare lupetto (Wolfi) da Eva Braun e “Geli” Raubal, figlia della sorellastra di Hitler verso la quale aveva sviluppato un legame possessivo maniacale, forse persino di carattere incestuoso. Il suo pseudonimo era Wolf, Herr Wolf. La Tana del Lupo (Wolfsschanze) era il nome del suo quartier generale nella Prussia Orientale, quello francese si chiamava Wolfsschlucht (la “Gola del Lupo”) e Werewolf (“Lupo Mannaro”) quello in Ucraina. La sorella più giovane di Hitler, Paula, entrata in clandestinità nel dopoguerra, aveva assunto il nome di Paula Wolf.

Come si vede, l’immagine del povero lupo fu letteralmente stuprata dalla propaganda nazista. Tutti i tratti più negativi e spaventevoli che gli umani attribuiscono ai lupi furono esaltati, mentre nessuno dei tratti che noi considereremmo positivi e che realmente contraddistinguono questo animale fu considerato degno di menzione. In pratica, quelle naziste, come di consueto, erano tutte scempiaggini. Il branco di lupi non compone quasi mai una gerarchia piramidale: il maschio alfa resta tale finché rispetta il branco e non per tutto il tempo; né guida il branco. Dipende dalle circostanze e dipende dal branco. Non esiste un modello che descriva il comportamento di ogni lupo, esattamente come non è possibile farlo per gli esseri umani. Non esiste un “lupo medio” che identifica la lupinità per antonomasia. Con buona pace della loro asserita biofilia e biocentrismo, i nazisti, in maniera sfacciatamente antropocentrica, inventarono di sana pianta il comportamento “idealtipico” dei lupi, per farlo corrispondere ai propri ideali. Poi lo applicarono agli umani, affermando che fosse il miglior modello organizzativo anche per loro.

Se i lupi non subirono alcun contraccolpo da questa strumentalizzazione, peggior sorte toccò ai cani, in particolare ai cani-lupo. I pastori tedeschi sono gli animali a cui uno pensa quando gli si chiede di immaginare delle SS alle prese con gli Ebrei (o dei carcerieri a Guantánamo o Abu Ghraib). Furono utilissimi per sorvegliare ed intimidire gli internati dei campi di concentramento e di sterminio. Le guardie aizzavano i loro cani contro i prigionieri per puro divertimento ed i cani SS ricevevano uno speciale addestramento che li nazificava, letteralmente, snaturandoli, in modo da far prevalere aggressività e spietatezza ed inibire la “pietà”, la “curiosità”, l’affettuosità. Una volta “rieducati”, i cani venivano trattati infinitamente meglio degli Ebrei e di tanti altri esseri umani non internati. Ormai facevano parte della famiglia SS, del branco ed era stato persino indetto un giorno di festa in loro onore, come segno di gratitudine per i loro servizi. I cani dei popoli occupati non godevano invece degli stessi privilegi e se si permettevano di abbaiare contro una pattuglia nazista venivano freddati all’istante. È noto che Hitler, incapace di amare gli esseri umani, era follemente innamorato dei suoi cani. Nessun altro, oltre a lui, poteva accarezzare il suo cucciolo, chiamato, prevedibilmente, “Wolf”. Un veterinario, Ferdinand Sauerbruch, rischiò l’arresto per aver osato placare ed ingraziarsi, grazie alla sua esperienza, uno dei cani di Hitler che gli era saltato alla gola. Ma Hitler non poteva tollerare che glielo avesse “svirilizzato” e sottratto al suo controllo: era intenzionato ad uccidere il cane e mettere in gabbia l’uomo. Per fortuna sua e del cane, il veterinario fu in grado di farlo ragionare.

La scelta, per come la vedo io, è tra il lupo e l’orso [tra Atlantide ed America, quella delle origini]. Però, come detto, non il lupo o l’orso come sono, ma come vorremmo che fossero o ci aspettiamo che siano. Le due metafore, la nostra reinterpretazione antropomorfizzata delle loro rispettive nature, gli specchi in cui ci specchiamo, l’ombra e l’idealizzazione di noi stessi.

La storia dell’orso, dell’uomo e di come finirono entrambi ingabbiati

Margherita D’Amico, “Trento, nel santuario torna l’orso rivolta contro la gabbia dei frati”, La Repubblica, 26 agosto 2012

Questione di giorni e la “buca” di San Romedio, la gola angusta e recintata, vuota dal 2008, che s’infossa sotto il famoso santuario della Val di Non, accoglierà un nuovo orso. 1500 metri quadrati umidi, privi di alberi; una solitudine su cui, nel lungo inverno trentino, non batte mai il sole: «Si ripropone un messaggio lugubre, diseducativo, arcaico: ci stupisce sia da parte delle istituzioni religiose che dalle amministrazioni locali», protesta Marcello Dell’ Eva, presidente del Movimento vegetariano No alla caccia, che guidando una formidabile battaglia popolare riuscì nel 2010 a ottenere il trasferimento di Jurka, l’ ultima prigioniera, in un’ oasi tedesca. Padre Fabio Scarfato, priore del santuario e della Diocesi di Trento, dice: «La Diocesi, proprietaria del santuario, mette a disposizione l’area in comodato alla comunità di valle. Ma San Romedio non ha affatto bisogno dell’animale in carne e ossa: è una tradizione molto recente e per quanto ci riguarda ne faremmo a meno». Più chiara la posizione dei sindaci dei comuni interessati: «L’orso è un richiamo turistico, la gente qui lo vuole, abbiamo ricevuto molte mail», asserisce Paolo Forno, sindaco ad interim di Coredo. Lo spunto che lega l’orso alla figura di Romedio di Thaur, eremita vissuto nel IV secolo, si rifà a un episodio leggendario. Si dice che il santo dovesse recarsi a Trento e un servitore gli riferì spaventato che un plantigrade gli stava sbranando il cavallo. Romedio non si preoccupò e fece mettere la briglia all’ orso, il quale docilmente si lasciò cavalcare. Ma nessun suo simile fu mai imprigionato, fino ai giorni nostri: nel 1958 Gian Giacomo Gallarati Scotti, senatore del Regno d’ Italia e ambientalista, riscattò da un circo Charlie. Per lui fu approntata una gabbia minima, di lì intrattenne i visitatori. L’ area fu migliorata un po’ solo in seguito, con la presenza di altri plantigradi. Marcello Bonadiman, sindaco di Sanzeno, dice: «La minoranza chiassosa degli animalisti stavolta ha avuto la peggio: l’orso tornerà. Ci costa 11mila euro l’anno di cibo, più il custode. Si chiama Bruno, viene dal Parco d’ Abruzzo». Se quest’ orso sia nato in cattività, da quale struttura provenga, sono domande a cui i sindaci trentini non rispondono, come pure Sergio Menapace, presidente della Comunità della Val di Non: «L’iter burocratico è definito, di altre informazioni non dispongo». Una chiusura che sembra tradire qualche timore. Nella valle c’è chi non dimentica infatti le fiaccolate notturne, le manifestazioni per Jurka, che arrampicata in cima all’ unica pertica di San Romedio divenne un simbolo. Entrò nel 2006, per lei fu sloggiata di corsa al Passo della Fricca un’altra coppia di orsi. Jurka era stata prelevata dalla Slovenia nel 2000, per ripopolare il Parco dell’ Adamello Brenta, in seno al progetto Life Ursus, finanziato dall’ UE alla Provincia di Trento con qualche milione di euro. Poi, però, la dichiararono “orsa problematica”. In un territorio antropizzato, impreparato ad accogliere i plantigradi, l’accusarono di avvicinarsi troppo alle abitazioni. Due dei suoi figli, JJ1 e JJ3, furono uccisi con clamore: il primo in Baviera nel 2006, mentre la Germania ospitava i Mondiali di Calcio; il secondo in Svizzera nel 2008, sempre a fucilate. Quando fu catturata per essere rinchiusa a San Romedio aveva tre cuccioli di un anno, lasciati a se stessi. Nel 2008 il fronte animalista ottenne che fosse spostata in un ettaro al Castellar, vicino Trento: lì oggi c’ è DJ3, altra orsa considerata ribelle. Quindi, nell’ agosto 2010, la migrazione all’ Alternativer Wolf – und Bärenpark Schwarzwald, piccola oasi nella Foresta Nera: 7 ettari che divide con altri orsi e alcuni lupi. Dice Dell’ Eva: «Basta detenzioni inadeguate, che la Provincia di Trento crei luoghi sostenibili per quegli orsi che, purtroppo, non possano tornare alla libertà».

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/08/26/trento-nel-santuario-torna-orso-rivolta-contro.html?ref=search

Massimo Comparotto (Oipa Italia Onlus), “Basta orsi nella buca di San Romedio”

Apprendiamo dalla stampa che entro il mese di agosto dovrebbe tornare l’orso a San Romedio.

Nonostante le serie motivazioni culturali, scientifiche, etiche, portate dal nostro movimento e da tutto il mondo animalista affinché non vengano più rinchiusi orsi in quel luogo sembra che la tradizione e gli interessi economici abbiano avuto ancora una volta la meglio.

Uno degli esperti più rinomati, Rüdiger Schmiedel, consultato a livello europeo per progettare ambienti dove accogliere orsi nati in cattività, dopo aver visitato San Romedio nel periodo in cui vi era rinchiusa Jurka, nella sua relazione ha affermato che il luogo non è assolutamente adatto ad ospitare un orso, nemmeno se nato in cattività; che non debbono essere lasciati animali da soli e che per offrire un minimo di spazio vitale ad una animale di tale specie, è necessario ampliare il recinto fino ad almeno un ettaro.

Questo per dare all’orso l’indispensabile possibilità di muoversi, di evitare seri problemi alle articolazioni a causa dell’elevata umidità e dell’insufficiente esposizione al sole del piccolo recinto e non per ultimo di nascondersi quando non desidera contatti con l’uomo.

Ci chiediamo poi come dei frati che si rifanno all’insegnamento di Francesco d’Assisi, noto per il suo amore incondizionato verso gli animali e ogni essere vivente, possano essere favorevoli al ritorno dell’orso sfruttandolo come attrazione turistica.

Inoltre ai bambini che visiteranno l’orso in gabbia, verrà trasmesso un messaggio totalmente diseducativo.

Un’educazione che mira a formare un futuro cittadino consapevole, dovrebbe trasmettere il rispetto per ogni essere vivente e non abituare i bambini a trattare gli animali come fossero oggetti ad uso e consumo dell’uomo.

http://www.no-alla-caccia.org/lacatturadijurkaelacampagnajurkalibera/534988a0ad0a02a01.html

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Gli antropologi dell’epoca a cavallo tra Ottocento e Novecento, specialmente quelli austriaci (Fuchs, 2003), adottarono una percezione statica dei Naturvölker, popoli “altri”, esclusi dai processi storici, i cui progressi tecnici e socio-culturali potevano solo avvenire per contatto e diffusione a partire dai Kulturkreise, circoli o sfere culturali coinvolte nei grandi processi storico-evolutivi. Alcuni di questi “fossili viventi”, rappresentanti di una natura umana preservatasi pura nel corso dei millenni, venivano esibiti nelle città tedesche tramite i Völkerschauen, esibizioni di umani esotici nel loro “habitat”, spesso ricostruito in modo tale da venire incontro alle aspettative di autenticità degli spettatori (Zimmerman, 2001). Per forza di cose, trattandosi di esseri umani con esigenze, desideri e finalità specifiche, gli “esemplari umani allo stato naturale” talvolta si rifiutavano di recitare la parte loro assegnata dalle società antropologiche che organizzavano gli spettacoli pubblici. Tantomeno erano disposti a lasciare che i loro crani e tratti anatomici fossero misurati dagli antropologi. I margini di negoziazione erano però ridotti, dato che l’obiettivo principale dei ricercatori era quello di raccogliere informazioni sulle tipologie umane primitive al fine di meglio comprendere gli stadi evolutivi della civiltà occidentale, ossia dei Kulturvölker, non certo quello di contrastare la brutalità dell’imperialismo europeo.

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Non sono solo i Trentini ad avere un rapporto appassionato ed ambivalente con gli orsi. Il simbolismo dell’orso è uno dei più prominenti ed ambivalenti dell’immaginario umano ed è arrivato fino a noi, con gli orsacchiotti per i bambini, gli orsi polari di “Lost”, le costellazioni – associate alle orse in numerose tradizioni – e l’orso rampante dello stemma personale di Benedetto XVI. In Grecia l’orsa era venerata come essenza della prosperità e della maternità premurosa e sollecita. Era l’animale sacro ad Artemide. La medesima radice “arth” dell’orso si rinviene nella dea gallica Artio, anch’essa accompagnata da un’orsa, e in Artoris, ossia Re Artù(ro).

Mentre l’orsa femmina, lunare, è benevola, l’orso maschio, solare, è l’emblema della casta guerriera. Orione, il cacciatore d’orsi, fu ucciso da Artemide mentre cercava di stuprarla. I famigerati berserk erano guerrieri fanatici che indossavano pelli d’orso per assimilarne la ferocia e la resistenza al dolore. Nell’alchimia, come per Jung, l’orso era simbolo di oscurità e del mistero della materia prima e del subconscio. Nell’iconografia cristiana può rappresentare il demonio e non è quindi per caso che ci siano numerosi santi cristiani domatori di orsi: San Gallo, San Romedio, San Corbiniano evangelizzatore del Meranese, San Lugano dell’omonimo passo, Sant’Orsola, San Colombano e Santa Colomba. Laddove non ci sono i santi, ci sono invece gli sciamani.

http://ricerca.gelocal.it/trentinocorrierealpi/archivio/trentinocorrierealpi/2010/07/04/AT6PO_AT601.html

 

Giovanni Kezich

Una cultura europea d’orso in I fogli dell’orso, Parco Naturale Adamello Brenta, ottobre 2009

www.pnab.it

Nell’Europa di un tempo, quella delle grandi selve e dei grandi spazi incolti, due sono le fiere a contenderne all’uomo il pieno dominio: il lupo, e l’orso. Ma se il lupo rappresenta di solito una malvagità cupa e un po’ stolida, comunque inavvicinabile, l’orso della tradizione popolare europea è quasi un uomo mancato, un uomo a metà, una parodia d’uomo. Ben lo sapevano gli antichi slavi, che sulla base di un’attribuzione antropomorfizzante e un po’ fiabesca hanno chiamato l’orso medved, il “mangia-miele”. Onnivoro, all’occasione bipede, giocherellone, goloso e improvvisamente iracondo come un òm selvadegh o un ragazzone un po’ scemo, l’orso appare come una controfigura selvatica dell’uomo, essendo la diretta dimostrazione in sede zoologica, nel sapere popolare di tutto il mondo, della continuità di fondo che, al di là delle molte differenze, esiste nei due sensi tra l’essere animale e l’essere uomo.

Ben lo sanno i pellegrini di San Romedio, che leggono all’ingresso del santuario questa massima moraleggiante, che dice infatti la stessa cosa: “Fatto stupendo, o cosa strana! L’orso, la belva si fa umana. / Stupor maggiore che l’uomo nato, in belva cerchi esser cangiato”.

Non vi è quindi da stupirsi se in quel mondo alla rovescia, in quella messinscena di valori all’incontrario, che è in tutta Europa il Carnevale, l’orso sia una comparsa d’eccezione, un personaggio, importante, talora un protagonista. Così è, ad esempio, in tutti i Balcani, dove l’orso tirato da una catena dal suo domatore, che nell’altra mano impugna l’immancabile gadulka e l’archetto, la piccola lira a tre corde per farlo ballare.

Così, per l’esibizione nel contesto carnevalesco, e in quello affine delle fiere, dei mercati e delle feste popolari, gli orsi venivano catturati anche vivi, meglio se da piccoli, strappandoli alla madre che veniva non di rado uccisa. In una valle dei Pirenei sul versante francese, non lontano da Lourdes, la valle del Garbet, gli abitanti, avuta l’idea da certi domatori d’orso boemi o zingari che si erano spinti fin là, si specializzarono in questo genere di catture, e cominciarono a girare l’Europa e anche l’America in proprio, andando ad esibire gli orsi, dapprima catturati in montagna e poi, dopo la quasi estinzione di questi sulle montagne di casa, reperiti alla meglio sul mercato algerino. Così, come il Tesino è la valle dei venditori di stampe e la Rendena la valle dei moléta, la valle del Garbet divenne nella leggenda popolare “la vallée des montreurs d’ours”, e le gesta anche d’oltreoceano di questi domatori improvvisati sono ormai oggetto di studi, ricerche, e di recente anche di un film, presentato con successo qualche anno fa al TrentoFilmFestival.
Duro, e molto crudele, il tirocinio musicale dei giovani orsi che – a quanto si racconta – venivano fatti ballare su una piastra rovente al suono di un tamburo, onde stimolarne per sempre un riflesso condizionato, che li avrebbe spinti alla danza ogniqualvolta ne avessero udito il rullare. Ma a poco a poco, vista la rapida riduzione delle popolazioni ursine un po’ ovunque in Europa, di orsi veri tra i baracconi delle fiere se ne videro sempre di meno e l’orso divenne quello che è oggi a carnevale, e cioè un personaggio in costume, una comparsa.

Così lo troviamo dalla Croazia alla Bulgaria, in tutti i Balcani, accompagnato dal suo fedele domatore imberrettato, vero antagonista clownesco con il quale ingaggia dei furiosi corpo a corpo seguito da altrettanto improvvise rappacificazioni: una coppia fissa del codazzo finale della processione carnevalesca, quello più buffonesco e sguaiato, insieme ad altri animali quali il cammello o l’immancabile cheval-jupon, ma anche a un’assortita compagnia di zingari veri e finti, di morti-viventi, di personaggi truculenti e di ogni genere di transgender.

Ma troviamo l’orso anche nell’Europa occidentale, e quantomeno dalla Navarra al Piemonte occitano. A Ituren in Navarra, in contesto culturale a fondo basco, è proprio un orso a condurre la processione degli Yoaldunak, l’antico gregge sacrale degli uomini-pecora che apre scampanando la processione del carnevale. Paradossalmente, come notava Cesare Poppi, l’orso (in basco artz) diviene così un pastore (arztain) come se a carnevale lo sterminatore dei greggi ne diventasse paradossalmente il custode: ancora, per il nostro orso, un’inversione di ruolo.

Dalla Navarra spagnola portiamoci nella Catalogna francese, sul versante settentrionale dei Pirenei. Qui l’orso è il vero protagonista del Carnevale che consiste, appunto, in una caccia all’orso. Nel villaggio di Arles-sur-Tech, per esempio, nel pomeriggio del sabato grasso, si sparge la notizia che l’orso ha rapito la bella Rosetta. Tutto il paese si lancia all’inseguimento del plantigrado, ma non riesce a evitare che la procace contadina (che è, manco a dirlo, un giovanotto travestito) venga stuprata in pubblico. Segue la rivincita dei paesani: un bravo cacciatore si fa avanti per catturare l’orso e riconquistare la Rosetta. Così, dopo qualche schermaglia dall’esito piuttosto scontato, l’orso verrà affrontato, bastonato, legato, ridotto alla ragione e alla fine fatto accomodare su una sedia, dove subirà, a cura del cacciatore divenuto barbiere, una rasatura con tanto di sapone e pennello: sorta di castrazione simbolica che ne sancisce l’avvenuta domesticazione.

Facciamo ancora un passo verso est, nel Piemonte occitano, e di cacce all’orso ne troviamo ancora molte, come ha dimostrato con grande dovizia di particolari l’antropologo Piercarlo Grimaldi. Qui però notiamo un fatto singolare: e cioè che il personaggio detto “orso”, e oggetto di una caccia in tutto e per tutto analoga a quella cui abbiamo assistito sui Pirenei, in realtà non assomiglia affatto a un orso vero, ma è una creatura di tutt’altro genere. A Valdieri nella montagna cuneese, per esempio, il cosiddetto “orso” è un portentoso uomo di paglia, ricoperto dalla testa ai piedi, fatto salvo il viso tutto nero di nerofumo, di una lunghissima treccia di paglia di segale, che lo avvolge tutto, conferendogli l’aspetto proprio di un vero covone semovente, o di uno spaventapasseri ambulante. Qualcuno ha suggerito che questo travestimento del tutto incongruo alla rappresentazione di un orso sia dovuto alla difficoltà intrinseca del reperirsi locale dei materiali (pelli, pelo, grugno…) atti una rappresentazione plausibile del plantigrado. A mio avviso, però, la spiegazione è tutt’altra, e ci impone una breve digressione.

Scrive infatti James Frazer, nella grande impareggiabile sua opera Il Ramo d’Oro, che fin dai tempi più remoti era uso degli antichi mietitori l’astenersi dal taglio dell’ultimo covone, che rimaneva così ritto in mezzo al campo a titolo di simulacro fino al completamento della raccolta, per essere oggetto in un tempo differito di un taglio ritualizzato o addirittura solenne. Si supponeva infatti che in quest’ultimo covone risiedesse lo spirito del grano, cioè lo spirito del raccolto, a cui si dava spesso nell’immaginario una forma animale: lupo, volpe, cinghiale, cervo, cigno, cicogna e naturalmente anche orso. Perché tutto questo? In origine, io credo, per conferire alla mietitura l’importanza sacrificale di una vera caccia, e al suo prodotto, il grano, uno status alimentare e simbolico non inferiore a quello della carne: una trovata non banale, io credo, per dei cacciatori neolitici risoltisi, e certo non sempre di buon grado, a transitare piuttosto repentinamente dalle grandi cacce a una dieta di carboidrati, certo meno adatta, almeno all’apparenza, a soddisfare appetiti preistorici. Con una importante differenza a favore del cibo di grano, però: mentre l’orso della caccia, una volta ucciso, è morto per sempre – salvo il ricomparire in quanto spirito nei mondi immateriali dello sciamanesimo – l’orso di paglia muore e risorge dal proprio seme, secondo quella elementare mistica di morte e resurrezione che vediamo infatti prender forma fin dalle origini nel mondo agrario del vicino oriente, intorno alla figura mistica di un dio – Attis, Osiride, Tammuz, Adone, fino ad Orfeo, per non fare altri nomi a noi più familiari – di cui il mito racconta l’esser stato capace, come il grano, di risorgere dopo la morte.

In questa prospettiva, l’orso di paglia, l’orso di Valdieri non è una sottospecie, non è una finzione, ma ci riporta al cuore stesso del percorso magico-religioso dell’umanità a partire dal neolitico e l’orso stesso, eterna figura di transizione tra il mondo animale e quello umano, diventa così in questa prospettiva un vero e proprio oggetto sacrificale, un quasi-dio.

Non a caso, il rito di Valdieri si conclude, come spesso avviene in questi casi, con il rogo pubblico di un pupazzo di paglia che è il perfetto simulacro dell’orso appena catturato e processato sulla pubblica piazza: arcaica anticipazione pagana, per il tramite del nostro antico mangia-miele, della scena del Golgota.
Tanto lontano ci conduce, se così vi piace, la storia dell’orso.

http://www.carnivalkingofeurope.it/resources/papers.php

BlackRock: i suoi tentacoli sulla Grecia e sui fondi-pensione del Trentino-Alto Adige

Cos’è BlackRock?
http://www.clarissa.it/editoriale_int.php?id=301

Leggiamo i cinque punti del programma di SYRIZA, il partito greco di sinistra guidato dal giovane Alexis Tsipras, un politico che spero venga clonato ed importato in Italia:
1. immediata cancellazione delle incombenti misure che impoveriranno ulteriormente i greci, come i tagli alle pensioni ed ai salari;
2. cancellazione immediata delle misure tese a indebolire i diritti fondamentali dei lavoratori, come l’abolizione di CCN;
3. abolizione dell’immunità parlamentare; riforma elettorale e generale ristrutturazione del sistema politico;
4. indagine sulle banche greche, e pubblicazione immediata dei risultati dell’audit eseguito da BlackRock sul settore bancario greco;
5. istituzione di un comitato internazionale di revisione dei conti, che indaghi sulle cause del deficit pubblico greco, in aggiunta ad una moratoria sulla riparazione del debito fino a che i risultati dell’indagine non siano resi pubblici.

BlackRock ha in mano i fondi-pensione della regione Trentino-Alto Adige (i politici tagliano le pensioni, gli squali della finanza si pappano i fondi integrazione):
“I gestori finanziari vengono ridotti da 6 a2. Ci sarà un gestore passivo e un gestore attivo. Il gestore passivo Eurizon Capital (gruppo Intesa) amministrerà il 60% del capitale e avrà lo scopo di replicare il benchmark. Vale a dire dovrà impegnarsi a conseguire i rendimenti medi di mercato. Il gestore attivo-tattico, BlackRock, amministrerà invece il 40% del patrimonio da investire e il suo obiettivo sarà addirittura di battere i rendimenti del benchmark nella linea bilanciata e dinamica, la quale ultima gli sarà consegnata in esclusiva. Altro scopo di BlackRock, in netto contrasto con il primo, sarà di proteggere il patrimonio nei momenti difficili. Insomma alla multinazionale americana si chiede nello stesso tempo di rischiare e proteggere il capitale. Non occorre essere esperti finanziari per capire che questo modello innovativo non sta in piedi. Da una parte la drastica diminuzione dei gestori, se porterà ad un risparmio minimo delle commissioni, sarà controbilanciata da un aumento del rischio di gestione per il principio della diversificazione e dalla mancanza di concorrenzialità fra gestori.
Ma soprattutto la scelta del gestore aggressivo americano è altamente rischiosa e poco affidabile per un’analista non legato agli interessi di mercato come Mauro Bottarelli, scrittore e giornalista (Il Riformista) che nel suo Blog (ilsussidiario.net) scrive: “Lo stato dell’arte, al netto dell’ottimismo per il piano Geithner e i rimbalzi da gatto morto delle Borse, è il seguente: l’amministrazione Obama sta arricchendo a dismisura banche e fondi a spese dei contribuenti senza intervenire realmente verso quegli istituti i cui default potrebbero pregiudicare pesantemente l’intera economia mondiale. Un esempio è quello di BlackRock, uno dei primi due enti privati che hanno aderito al piano di riacquisto degli assets tossici. Sapete qual è il motto di Blackrock? Aderire al piano Geithner per il bene dell’America e contemporaneamente scommettere contro la sua ripresa. Certo non lo troverete stampato sulla brochure informativa, ma è proprio questa la filosofia, tipica del fondo hedge, con cui Blackrock ha approcciato all’ultima mossa del Tesoro Usa per cercare di eliminare dai bilanci di banche e assicurazione gli assets (titoli) tossici che continuano a regalare perdite e svalutazioni a ogni trimestre, con conseguente necessità di intervento della Fed.

Il pericolo del gestore unico l’ho constatato di persona come consulente di parte davanti al tribunale di Milano, dove rappresentavo un consumatore truffato da una SIM. Il gestore finanziario giornalmente esegue un grande numero di operazioni speculative in tutte le direzioni, cercando di sfruttare le tendenze del momento, in continua competizione con gli altri operatori. Alla fine della giornata fa il bilancio delle perdite e degli utili. Se il bilancio è positivo passa alla ripartizione, trattenendo la “parte del leone” come meritato compenso per sé e la società finanziaria dalla quale dipende. La fetta più grande dunque viene fatta vincere al fondo favorito (l’Alpha Fund per BlackRock – hedge fund che nel2008 ha guadagnato il 41%). Il resto va nei fondi dei clienti in ordine d’importanza. le perdite vengono ripartite fra i clienti in ordine inverso.

Laborfonds per BlackRock è un piccolo cliente e niente più. Gli toccheranno le briciole degli utili. E per le perdite? Se si dovranno socializzare perdite speculative per salvare l’economia americana e rieleggere Obama, la cosa più logica è che finiscano a carico dei piccoli fondi. Come Laborfonds.

Queste sono le dure leggi della finanza. E l’esperienza ci dice che alla lunga distanza i fondi tendono a perdere non solo l’inflazione, ma anche parte del capitale. È la storia dei primi fondi lussemburghesi e quella recente dei fondi pensione americani finiti a zero. Basta un evento o un gestore truffaldino (sul mercato ce ne sono parecchi). BlackRock, a parer mio, è uno dei più pericolosi e rischiosi”.

http://www.questotrentino.it/qt/?aid=12208

http://www.beppegrillo.it/listeciviche/liste/bolzano/2011/10/fondi-pensione-e-speculazione-finanziaria-lesempio-laborfonds-2.html

Black Rock è anche il nome del brigantino schiavista di Lost

Gandhi o Arundhati Roy? La scelta che determinerà il futuro dell’umanità

 

a cura di Stefano Fait

 

 

Le grosse imprese commerciali e industriali hanno la loro personale scaltra strategia per trattare il dissenso. Con una minuscola parte dei loro profitti gestiscono ospedali, istituti educativi e fondazioni, che a loro volta finanziano ONG, università, giornalisti, artisti, cineasti, festival letterari e perfino movimenti di protesta. Usano la beneficenza per attirare nella loro sfera di influenza coloro che plasmano ed orientano l’opinione pubblica. È un modo di infiltrare la normalità, di colonizzare l’ordinarietà, così che sfidarle sembri tanto  assurdo  (o esoterico) quanto lo è sfidare la “realtà” stessa. Da qui a “non esiste alcuna alternativa”, il passo è breve ed agevole.

Arundhati Roy

http://www.ft.com/intl/cms/s/0/925376ca-3d1d-11e1-8129-00144feabdc0.html

Mussolini è un enigma per me. Molte delle riforme che ha fatto mi attirano. Sembra aver fatto molto per i contadini. Inverità, il guanto di ferro c’è. Ma poiché la forza (la violenza) è la base della società occidentale, le riforme di Mussolini sono degne di uno studio imparziale. La sua attenzione per i poveri, la sua opposizione alla superurbanizzazione, il suo sforzo per attuare una coordinazione tra il capitale e il lavoro, mi sembrano richiedere un’attenzione speciale. […] Il mio dubbio fondamentale riguarda il fatto che queste riforme sono attuate mediante la costrizione. Ma accade anche nelle istituzioni democratiche. Ciò che mi colpisce è che, dietro l’implacabilità di Mussolini, c’è il disegno di servire il proprio popolo. Anche dietro i suoi discorsi enfatici c’è un nocciolo di sincerità e di amore appassionato per il suo popolo. Mi sembra anche che la massa degli italiani ami il governo di ferro di Mussolini.

M.K. Gandhi, Lettera a Romaine Rolland, dicembre 1931

Democrazia indiana? Non ci può essere alcuna democrazia in una società divisa in caste, pervasa di religioni fatalistiche  e misantropiche. L’India non è la più grande democrazia del mondo, non è moderna e non è laica. È dominata da un’élite oligopolista neofeudale che intrattiene rapporti neocoloniali con l’impero anglo-americano (potenza militare di Washington, potenza finanziaria della City di Londra) e sbatte in faccia a centinaia di milioni di poveri la sua opulenza in una nazione che si permette di esportare cibo mentre milioni di suoi cittadini vivono nella miseria più nera. Il sistema giudiziario protegge i ricchi (che possono uccidere restando impuniti) ed opprime i poveri (specialmente le donne). L’esercito è impiegato per tutelare gli interessi di pochi latifondisti a detrimento delle popolazioni degli stati di Tamil Nadu, Jharkand, Madya Pradesh, Orissa, Bengala, Bihar, che sono perennemente in rivolta, nell’indifferenza del mondo.

La struttura reazionaria dell’India fu molto utile al dominio britannico, che perciò non fece nulla per smantellarla, anzi la coltivò assiduamente. Oggi conviene agli oligopoli capitalisti, un terribile mix di oscurantismo orientale e avidità rapace occidentale: il peggio immaginabile. Tra la civiltà di un’umanità solidale e la barbarie della legge della giungla imposta da un’èlite che ha come unico obiettivo quello di restare tale, l’India è stata costretta a scegliere quest’ultima. L’ascesa del marchionnismo in Italia è un monito: non possiamo permetterci di sentirci al sicuro da questo genere di derive.

Qui si inserisce il discorso sull’ipocrisia della nonviolenza gandhiana. Gandhi ha predicato la nonviolenza a masse di oppressi in una della società più brutalizzanti che si possa immaginare. Che senso aveva convincere le masse a stare calme e non reagire, come una placida mandria, senza mai condannare la classe/casta dominante che con le sue consuetudini, leggi e politiche economiche diffondeva ed acuiva le disparità sociali, traendone lauti profitti? Non era e non è ancora oggi la peggiore delle violenze, questa? La violenza di interessi di parte mascherati da fatalismo, da “così va il mondo, è sempre stato così e così sempre sarà”? La violenza di una concezione nietzscheana del mondo?

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/24/morbido-e-bello-perche-amo-il-femminino-e-detesto-nietzsche-pur-ammirandolo/#axzz1nNrT1Utx

Con questa sua scelta di campo, Gandhi indossò i panni dell’apostolo di pace a beneficio del capitalismo più selvaggio e dell’imperialismo occidentale, persino di quello nazista, quando implorò Ebrei ed Inglesi di arrendersi mansuetamente all’aggressione nazista:

http://fanuessays.blogspot.com/2011/12/chi-era-veramente-gandhi.html

Ben diverso il comportamento di Arundhati Roy, che alle comode astrazioni di una realtà depurata dalle sue contraddizioni e ingiustizie preferisce la lotta contro una lurida quotidianità fatta di patimenti, iniquità, violenza incessante e multiforme, sfiducia e morte della speranza.

Gandhi annunciava al mondo di essere l’erede della migliore tradizione indiana, ma il Dharma dello Kshatriya gli ingiunge di proteggere i deboli e di aiutarli a proteggersi, non di esporli alla violenza contando sul fatto che, essendo numerosissimi, alla fine prevarranno quando l’oppressore sarà esausto. Questa è la logica utilitaristica dello scacchista, non di un autoproclamato campione dei diritti degli oppressi.

La Gita chiama ad essere correttori delle ingiustizie, non ad immolarsi senza resistere, senza neppure difendersi, come prescritto dalla Satyagraha, che raccomanda di essere pronti a morire e patire ogni sofferenza, purché non sia mai ricambiata. Il Satyagrahi rinuncia al diritto all’autodifesa e si vota al sacrificio supremo, alla sua dipartita. Lo spiega Gandhi: “l’unico dovere di un Satyagrahi è quello di sacrificare la sua vita a qualunque compito gli sia toccato. Questo è il fine più nobile che possa realizzare. Una causa spalleggiata da Satyagrahi così nobili non può mai essere sconfitta”. In questa maniera, assicurava Gandhi, il cambiamento sarebbe avvenuto spontaneamente, i forti si sarebbero sentiti in obbligo di effettuare le necessarie riforme.

Abbiamo visto che la storia ha dato torto a Gandhi. L’India indipendente non è un’India sensibilmente migliore di quella coloniale e i “nobili Satyagrahi” sono morti portando con sé nella tomba (nella cenere dei crematori) la loro causa.

Il Kshatriya, come il Satyagrahi, non temeva la morte, ma assegnava un valore alla vita, inclusa quella degli altri che si affidavano a lui cercando protezione. Per lui le due condizioni non erano esattamente intercambiabili come per Gandhi, che non sembrava dare valore alle vite dei suoi seguaci se non in funzione del trionfo della sua dottrina. Anche il semplice buon senso ci insegna che se una persona si trova a dover sostenere l’impegno di proteggere degli indifesi, l’ultima cosa che dovrebbe fare è cercare una morte “eroica” (patetica) ed “esemplare” (pessimo esempio) per mano di chi poi passerà ad eliminare le persone ora completamente indifese. Gandhi non comprese mai il senso di questa responsabilità, che gli spettava in quanto figura pubblica che sfidava, a suo modo, il potere ed in quanto esponente del Partito del Congresso (Indian National Congress) e del Congresso indiano per il Sudafrica (South African Indian Congress – SAIC); non la ritenne mai quell’ovvietà che appare come tale a qualunque persona di buon senso ed il cui raziocinio non sia obnubilato dal fanatismo ideologico.

Perché un avversario determinato ad averla vinta dovrebbe mostrare del buon cuore nel vedere che i suoi bersagli sono risoluti a non combattere e a non difendersi? È come rubare un leccalecca ad un bambino. L’aggressore consegue i suoi fini con inattesa ed eccitante disinvoltura. Lo Kshatriya, al contrario, è perfettamente consapevole del fatto che un cuore indomito ed una volontà di ferro non ottengono alcun risultato se non si è propensi ad usare la forza per proteggere se stesi e gli altri dall’aggressione e far valere i propri diritti e quegli degli altri. Tutti i più nobili rivoluzionari della storia, da Spartaco, a Zapata, a Sun Yat-sen l’hanno dato per scontato, molto assennatamente. È necessario combattere per proteggere la gente dalla sofferenza o per non esporla ad ulteriore sofferenza, se necessario fino alla neutralizzazione dell’aggressore/bullo, come si fece con i nazisti e come si è sempre fatto con chi è recidivo e dimostra di capire solo il linguaggio della forza (es. psicopatici/bulli):

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/16/golpe-psicopatico/#axzz1nNrT1Utx

Una difesa efficace, per lo Kshatriya, si basa sulla negoziazione (in cui si cercano di strappare i termini migliori), sull’approntamento di difese efficaci, sull’alleanza con i nemici dei propri nemici.

L’ahimsa era il monopolio del bramino, che non era tenuto a difendere la comunità, non essendo parte del suo dharma: il contributo del bramino apparteneva alla sfera intellettuale ed educativa (a volte esoterica e mistico-sciamanica) e gli era ben chiaro che qualcuno doveva sporcarsi le mani al posto suo, lo Kshatriya appunto, che doveva consigliare al meglio, se voleva avere ancora una comunità a cui impartire i suoi insegnamenti. Per di più l’ahimsa era ristretta ad una parte dei bramini, i Sannyasi, gli individui che aspiravano alla liberazione, non era certo pensata per le masse che non avevano alcun desiderio/predisposizione in tal senso. L’ahimsa era un mezzo per un ben determinato fine, non uno strumento di universale pacificazione.

Non si capisce come un devoto della Bhagavad Gita quale si considerava Gandhi potesse fraintendere il messaggio centrale del testo, contenuto nel discorso di Krishna ad Arjuna, che è tutto fuorché non-violento, essendo un’esortazione a combattere per ristabilire un equilibrio tra le forze – il Dharma, appunto – che era stato compromesso dall’altra fazione, che comprendeva alcuni suoi cugini (di qui i crucci di Arjuna).

L’interpretazione gandhiana di questo documento è intellettualmente disonesta ed equivale a dire che Gesù in realtà stava dalla parte delle autorità, contro le masse: un totale sovvertimento del messaggio originario. Per far valere il suo punto di vista Gandhi fu costretto a concludere che le descrizioni delle azioni e delle situazioni della Gita dovevano essere puramente allegoriche. Il che può anche essere vero, ma è insensato (o disonesto, appunto) dedurne che le forze che si scontrano a livello spirituale non debbano estroflettersi anche a livello materiale e che quindi l’insegnamento di Krishna non sia applicabile alla realtà fisica. Tanto più che proprio il dio spiega che le azioni umane non sono determinate unicamente dal loro libero arbitrio, che la realtà è un campo di battaglia tra forze cosmiche soverchianti (cf. Lost: Jacob e l’Uomo in Nero) e che ciascuno è chiamato a recitare una parte sul palcoscenico della storia:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/08/lost-eroi-nella-tempesta/

L’equivoco gandhiano non può che essere il frutto di una fanatica avversione alla violenza che, peraltro, non sembra averlo guidato nel suo ruolo di marito e di genitore (inflessibile, ma solo quando gli conveniva!):

http://fanuessays.blogspot.com/2011/10/il-vero-gandhi-nulla-di-cui-essere.html

Gandhi era convinto che solo una persona depurata da ogni difetto poteva farsi giudice del prossimo e delle sue malefatte. Era dunque un manicheo, un intellettuale che vede il mondo in bianco e nero: i puri (virtualmente inesistenti) e gli impuri (onnipresenti). La realtà è invece policroma. Gli Alleati, durante la Seconda Guerra Mondiale non erano certo puri, anzi, ma il nemico, il nazismo, era quanto di più impuro si fosse visto fino ad allora sulla faccia della terra e fu dunque correttamente contrastato con ogni mezzo disponibile. Falcone e Borsellino non erano forse sufficientemente puri per giudicare i mafiosi? Pertini non era sufficientemente puro per ricoprire il ruolo di Presidente della Repubblica?

Gandhi era un moralista troppo rigido, convinto che fosse possibile stabilire cosa fosse bene e male in senso assoluto, quando invece a noi umani è concesso solo di vedere le ombre del bene e del male, del giusto e dello sbagliato: vediamo i raggi del sole senza poter vedere il Sole, come suggeriva Agostino di Ippona.

Furono la sua vanità e la sua ambizione a renderlo inflessibile e spietato nei suoi rapporti con il prossimo e fin troppo indulgente in quelli con il suo ego, spingendolo a costringere una popolazione di centinaia di milioni di individui a redimersi ai suoi occhi, come quando affermò di pretendere che i musulmani indiani confessassero le loro colpe e si pentissero delle loro malefatte davanti a lui, come avevano fatto gli Hindu di Calcutta. Quanta superbia, quanta vanagloria in questa pretesa! Proprio lui che non riteneva che nessuno potesse essere giudice del prossimo e quindi fosse autorizzato ad usare la forza contro un antagonista: caduto, come Adamo, nella trappola del narcisismo, dell’hybris, dell’autobeatificazione:

http://fanuessays.blogspot.com/2011/11/il-narcisista-umanitario-parte-prima_14.html

http://fanuessays.blogspot.com/2011/12/limperialismo-umanitario-e-la.html

FONTE: http://www.scribd.com/doc/29991057/Violator-of-the-Kshatriya-Dharma

L’ALTERNATIVA A GANDHI È ARUNDHATI ROY

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/31/arundhati-roy-e-i-gattoni-tracotanti/#axzz1nNrT1Utx

 

La trascrizione tradotta del suo discorso a Zuccotti park, rivolto agli occupanti/indignati, il 16 novembre 2011:

Il capitalismo non può garantire benessere e giustizia sociale per tutte le persone.

Ieri la polizia ha sgombrato Zuccotti park, ma oggi le persone sono tornate. La polizia dovrebbe sapere che la protesta di Occupy Wall street non è una lotta per il territorio. Non stiamo combattendo per occupare un parco, ma per la giustizia. Giustizia non solo per il popolo degli Stati Uniti, ma per tutti. Con la protesta cominciata il 17 settembre, siete riusciti a introdurre un nuovo immaginario, un nuovo linguaggio politico nel cuore dell’impero.

Avete riportato il diritto di sognare in un sistema che cercava di trasformare tutti i suoi cittadini in zombie stregati dall’equazione tra consumismo insensato, felicità e realizzazione di sé. Per una scrittrice, lasciate che ve lo dica, questa è una conquista immensa. Non potrò mai ringraziarvi abbastanza.

Oggi l’esercito degli Stati Uniti conduce una guerra di occupazione in Iraq e in Afghanistan. I droni statunitensi uccidono civili in Pakistan e altrove. Decine di migliaia di soldati americani e di squadre della morte stanno entrando in Africa. Se spendere migliaia di miliardi dei vostri dollari per occupare l’Iraq e l’Afghanistan non dovesse bastare, oggi si parla anche di una guerra contro l’Iran. Dai tempi della grande depressione, la produzione di armi e l’esportazione di conflitti sono state gli strumenti fondamentali con cui gli Stati Uniti hanno stimolato la loro economia. L’amministrazione del presidente Barack Obama ha concluso un accordo con l’Arabia Saudita che prevede la fornitura di armamenti per 60 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti sperano di vendere migliaia di bombe antibunker agli Emirati Arabi Uniti. E hanno venduto aerei militari per cinque miliardi di dollari al mio paese, l’India, che ha più poveri di tutti i paesi dell’Africa messi insieme. Tutte queste guerre – dal bombardamento di Hiroshima e Nagasaki al Vietnam, dalla Corea all’America Latina – sono costate milioni di vite umane. E sono state tutte combattute per garantire l’american way of life.

Quattro proposte

Oggi sappiamo che l’american way of life – il modello a cui dovrebbe aspirare tutto il resto del mondo – ha fatto sì che negli Stati Uniti 400 persone possiedano la ricchezza di metà della popolazione. Ha significato migliaia di persone sbattute fuori dalle loro case e dal lavoro mentre il governo di Washington salvava le banche e le multinazionali: il gruppo assicurativo Aig ha ricevuto, da solo, 182 miliardi di dollari.

Il governo indiano adora la politica economica statunitense. Grazie a vent’anni di economia di libero mercato, oggi i cento indiani più ricchi possiedono beni che valgono un quarto del pil del pae­se, mentre più dell’80 per cento dei cittadini vive con meno di 50 centesimi al giorno.

Duecentocinquantamila agricoltori trascinati in una spirale di morte hanno finito per suicidarsi.

L’India lo chiama progresso, e oggi si considera una superpotenza. Come voi, anche noi indiani abbiamo una popolazione ben istruita, bombe nucleari e un livello di diseguaglianza vergognoso.

La buona notizia è che la gente ne ha abbastanza e non vuole più accettare tutto questo. Il movimento Occupy Wall street si è unito a migliaia di altri movimenti di resistenza in tutto il mondo grazie ai quali i più poveri tra i poveri si alzano in piedi per fermare l’avanzata delle multinazionali.

In pochi sognavamo di poter vedere voi – i cittadini degli Stati Uniti che stanno dalla nostra parte – combattere questo sistema nel cuore stesso dell’impero. Non trovo le parole per spiegare quanto tutto questo significhi.

Loro (l’1 per cento) dicono che non abbiamo richieste precise da fare. Non sanno, forse, che la nostra rabbia da sola sarebbe sufficiente a distruggerli. Ma ecco alcune proposte – alcuni miei pensieri “prerivoluzionari” – su cui possiamo riflettere insieme.

Noi vogliamo mettere un freno a questo sistema che fabbrica ineguaglianza. Vogliamo mettere un limite alla smisurata accumulazione di ricchezza da parte di alcuni individui e alcune società. Ecco le nostre richieste.

Primo. Mettere fine alle proprietà incrociate nel mondo degli affari. I produttori di armamenti, per esempio, non possono controllare reti televisive, le società minerarie non possono gestire i giornali, le aziende non possono finanziare le università, i gruppi farmaceutici non possono controllare i fondi per la sanità pubblica.

Secondo. Le risorse naturali e i servizi essenziali – acqua, elettricità, sanità e istruzione – non possono essere privatizzati.

Terzo. Tutti hanno diritto a una casa, all’istruzione e all’assistenza sanitaria.

Quarto. I figli dei ricchi non possono ereditare la ricchezza dei genitori.

Questa lotta ha risvegliato la nostra immaginazione. Da qualche parte, nel suo cammino, il capitalismo ha ridotto l’idea di giustizia al solo significato di “diritti umani”, e l’idea di sognare l’uguaglianza è diventata blasfema. Non stiamo combattendo per giocherellare con la riforma del sistema. Questo sistema deve essere sostituito. Da militante, rendo omaggio alla vostra lotta.

Salaam e zindabad.

Traduzione di Giuseppina Cavallo.

Internazionale, numero 929, 23 dicembre 2011

Arundhati Roy è una scrittrice indiana. Il suo libro più famoso è Il dio delle piccole cose (Guanda 1997).

http://www.internazionale.it/news/arundhati-roy/2011/12/27/lo-chiamano-progresso/

L’alternativa alla nonviolenza ipocrita e disfattista di Gandhi è la libertà, quella vera:

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/30/la-liberta-quella-vera/#axzz1nNrT1Utx


è l’autodifesa (in stile aikido), l’uso della forza e della violenza difensiva temperata da onestà intellettuale, equità, rispetto per i diritti e la dignità altrui e per i principi democratici, rifiuto di vedere nel prossimo una propria appendice o unicamente uno strumento per il proprio tornaconto, rifiuto di trasformarsi da vittime in aggressori:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/02/la-collera-dei-miti-sullimmoralita-di-pacifismo-e-nonviolenza/#axzz1nNrT1Utx

L’indignato dei nostri giorni può essere un vero Kshatriya:
http://www.informarexresistere.fr/2011/12/21/vendetta-e-rivoluzione-globale-leroe-indignato-in-omero-e-in-shakespeare/#axzz1nNrT1Utx

 

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