Eletto Obama, ora i PIIGS potrebbero lasciare l’euro (i pro e i contro)

Dopo le presidenziali americane si aprono 2 questioni: il futuro dell’eurozona e le mosse di Israele.

In questo post presento le due posizioni, pro e contro l’uscita della Grecia e dell’Italia dall’eurozona.

Rilevo però che, invariabilmente, non si toccano dei problemi che per me sono centrali:
– i poteri finanziari angloamericani e le destre di Nord e MittelEuropa sono da sempre a favore delle uscite dei PIIGS e della creazione di un euronucleo germanico;
– non si discute mai della possibilità (mi pare estremamente realistica) che l’abbandono dell’euro dia la spinta finale al secessionismo catalano, padano e sudtirolese in una fase storica estremamente tesa, in cui è più facile la violenza è più probabile ed in cui sarebbe bene restare uniti per cambiare le cose e tornare a parlare di autodeterminazione solo una volta che ci saremo liberati della dittatura dei mercati finanziari e del finanz-capitalismo;
– non è chiaro come l’uscita dall’euro possa restituirci una sovranità che comunque resterebbe nelle mani delle banche d’affari (il sotto-citato Bortocal se ne occupa);
– perché la California non dovrebbe salvarsi dal default abbandonando gli Stati Uniti? Perché il Maryland ed il Connecticut dovrebbero continuare a pagare per l’Alabama ed il Mississippi?

PRO E CONTRO

“La Grecia è davvero in corsa verso il default? E’ possibile che debba lasciare la zona Euro dopo le elezioni USA? Ci sono almeno cinque questioni per le quali sia possibile supporre un Grexit nelle prossime settimane: alcune sono strettamente collegate alle elezioni, altre a semplici questioni di tempo. Ecco, dunque, cinque ragioni che potrebbero determinare l’uscita della Grecia dalla zona Euro”:

http://www.forexinfo.it/Grecia-in-default-5-ragioni-che

Che cosa succede se la Grecia esce dall’euro? Pro e contro per Atene e gli altri Paesi dell’Ue

di Vito Lops, Sole 24 Ore, maggio 2012

L’articolo 50 del Trattato dell’Unione europea prevede che un Paese membro, anche senza motivazioni particolari, può liberamente uscire dall’Unione europea. E di conseguenza, secondo l’opinione prevalente, anche dall’euro. Ma lo stesso articolo, e neppure altri del Trattato, non fanno riferimento a quali sarebbero le modalità di uscita e di ritorno alla valuta nazionale. In questo clima di caos dei mercati finanziari e di incertezza normativa la Grecia sembra più fuori che dentro l’euro.

La voglia di uscire dall’Eurozona è emersa in modo lampante nelle elezioni del 6 maggio dove i partiti anti-euro hanno giocato un ruolo da protagonista. Lo stesso Alexis Tsipras, il leader del partito della Coalizione delle sinistre radicali (Syriza) che ha cercato invano di formare un nuovo governo, fa parte della schiera di coloro che ben vedrebbero la Grecia fuori dall’euro.

[FALSISSIMO: Tsipras è categoricamente contrario all’uscita dall’euro come il 70-80% dei Greci a seconda dei sondaggi. Il 25-30% degli elettori greci che votano per lui lo sanno bene e lo votano ugualmente, NdR].

Ma cosa succederebbe alla Grecia (e agli altri Paesi dell’Unione) se davvero Atene si sganciasse dai cordoni del trattato di Maastricht?

Lo abbiamo chiesto a esperti del settore per valutare gli impatti che un tale shock avrebbe sui mercati finanziari e sull’economia reale.

Come sarebbe Atene senza euro

«Come tutte le mete e le strade inesplorate, anche l’uscita della Grecia dall’Eurozona avrebbe conseguenze non prevedibili sulla base delle esperienze passate -spiega Andrea Ragaini, ad di Banca Cesare Ponti -. Se il mondo fosse a “compartimenti stagni”, l’uscita della Grecia dal gruppo dei 17 non comporterebbe problematiche rilevanti: il peso percentuale del Pil greco su quello europeo è inferiore al 3%, il flusso di scambi internazionali è irrilevante ed anche il contributo alla governance europea non è certo determinante. Il mondo di oggi non è però fatto a compartimenti e i mercati finanziari vivono di aspettative. Il rischio è quindi che si individui un altro “candidato” all’uscita su cui concentrare l’azione ribassista; Spagna e Italia potrebbero essere i primi ad essere coinvolti nel fuoco della speculazione. Non sono quindi a nostro avviso stimabili gli effetti a catena dell’uscita della Grecia dall’area euro. Possiamo tranquillamente dire però che a livello interno la Grecia vivrebbe anni di caos economico e finanziario e, probabilmente, anche di forti tensioni sociali. Pensiamo quindi che i contro supererebbero i pro».

Secondo Vincenzo Longo di Ig Markets, il «Paese si ritroverebbe a partire da zero, con un’economia interamente da ricostruire senza aiuti o fondi provenienti dall’esterno. Inoltre il Paese potrebbe trovarsi isolato nei traffici commerciali con il resto dell’area. Da non trascurare che sarebbe seriamente minacciata anche la credibilità del Paese e questo complicherebbe la capacità di Atene di attirare capitali dall’estero. D’altro canto la Grecia potrebbe giovare della possibilità di decidere in piena autonomia la propria politica monetaria, che in questa fase di crisi potrebbe essere improntata verso una svalutazione della valuta locale, la dracma, per far ripartire l’economia. In uno scenario simile ci aspettiamo che il recupero che il Paese potrebbe avere sarebbe molto più lento e doloroso rispetto al salvataggio previsto dalla Ue».

Un’uscita della Grecia dall’euro? «Nel breve periodo comporterebbe molte difficoltà: tassi di interesse e inflazione in forte rialzo con grosse difficoltà a rinegoziare i prestiti dall’estero – sottolinea Gabriele Vedani, managing director di Fxcm -. Una condizione che avrebbe una ricaduta sulla società civile, si pensi ai mutui delle famiglie. Nel lungo periodo però lo sganciamento dell’euro potrebbe anche ridare fiato alla Grecia che un è un forte esportatore. Tra gli altri vantaggi Atene avrebbe una maggiore libertà di manovra su spesa pubblica e tasse. Ma è difficile stabilire se i pro supererebbero gli altissimi costi di uscita».

Costi di uscita tecnicamente imprevedibili secondo Massimo De Palma, responsabile asset management di Swiss & Global Asset Management Sgr. «È inevitabile che uscendo dall’euro ci sarà un ulteriore haircut con forti conseguenze sui possessori del debito che oggi è sempre più domestico. E poi ci sarebbero grossi problemi tecnici legati alla reintroduzione della dracma».

Tommaso Federici, responsabile gestioni di Banca Ifigest, non ha dubbi: «Il pro sarebbe solo uno, una maggiore competitività derivante da una svalutazione, presumibilmente di oltre il 50% rispetto ad euro e dollaro, della nuova dracma ma che sarebbe di scarso impatto date la scarsa propensione all’esportazione e alla bassa industrializzazione del Paese. Per non parlare di eventuali dazi che i Paesi dell’Eurozona potrebbero mettere sulle merci greche. Ovviamente i 110 miliardi di euro del primo prestito non potrebbero essere restituiti. I contro sarebbero tantissimi, primo fra tutti il conseguente Bank Run o corsa a gli sportelli. Tra gli altri effetti negativi di maggiore portata ci sarebbe il dimezzamento del valore di tutte le attività presenti nel Paese, l’impossibilità di poter consumare e acquistare materie prime e merci non presenti e non prodotte nel Paese perché più care di almeno il 50%, l’impossibilità per un tempo considerevole di poter tornare sui mercati finanziari per poter finanziare investimenti pubblici e privati».

Secondo Leonardo Bloch, responsabile investimenti mobiliari di Prisma sgr, «mentre l’assemblaggio della moneta unica è stato un esercizio tecnicamente relativamente semplice, il suo smontaggio parziale o globale sarebbe un vero rompicapo. A titolo di esempio, si consideri la questione della valuta in cui rinominare le passività verso l’estero. Se infatti è assodato che lo Stato sia dotato del peso giuridico per rinominare tutto il proprio debito in valuta nazionale, è altresì incerto se emittenti e mutuatari privati possano aver facoltà di procedere a un’analoga conversione nei confronti dei creditori esteri. Ciò provocherebbe problematiche quasi irrisolvibili nell’asset/liability management degli operatori economici – specie in quelli del settore bancario/finanziario – o in alternativa esporrebbe i creditori internazionali a perdite su cambi di rilevante entità. L’eventuale uscita greca dall’euro avrebbe l’ingrato compito di definire le linee guida tecniche di tali processi. È indiscutibile che già da sé la defezione di un componente avrebbe come inevitabile conseguenza uno sfavorevole repricing del rischio di tutte le economie meno stabili dell’area euro».

Le conseguenze sugli altri Paesi dell’area euro

Un’uscita della Grecia accentuerebbe nel breve periodo, a parer degli esperti, l’incertezza sui mercati e sui titoli dei Paesi periferici. «Stiamo già notando – continua De Palma – un ritorno dell’avversione al rischio. Una Grecia senza euro può anche essere vista come un fattore positivo perché l’Eurozona si libererebbe del suo anello debole, ma allo stesso tempo si andrebbero a guardare gli altri anelli, Portogallo, Spagna e anche Italia, che potrebbero essere colpiti da un ulteriore allargamento degli spread».

«Il maggiore pericolo resta a mio avviso la percezione che potrebbe succedere lo stesso a Irlanda, Portogallo e, soprattutto, a Spagna e Italia, il cosiddetto rischio contagio – argomenta Laura Tardino, strategist di Bnp paribas investment partners -. Credo che rimarrà “solo” una percezione – con effetti quindi potenzialmente molto negativi sui mercati finanziari, allargamento degli spread e discesa dell’azionario, che già vediamo in questi giorni, e di riflesso anche sull’economia reale, erogazione dei prestiti a imprese e consumatori ai minimi, – ma concretamente non credo che la Germania lo permetterà essendo queste economie importanti nel contesto europeo. Significherebbe ammettere il fallimento del progetto europeista. Non è comunque difficile immaginare cosa potrebbe accadere, se anche questi Paesi dovessero uscire dall’euro: svalutazione e inflazione con un aumento significativo dei fallimenti aziendali e un impoverimento legato al minor potere di acquisto».

«L’euro ne uscirebbe rafforzato perché si libererebbe di uno dei Paesi più deboli e problematici che tanto è costato alla comunità europea, dall’altro lato aumenterebbe in maniera enorme la pressione sugli altri Paesi deboli, Spagna, Portogallo e Italia», concorda Vedana.

Il fattore Germania

Insomma, gli esperti concordano che un’uscita della Grecia dall’euro (sostenuta largamente dalle attuali forze politiche) innescherebbe un caos imprevedibile, tanto per la Grecia quanto per i Paesi meno virtuosi dell’area. «L’unica a beneficiare della condizione attuale – sottolinea De Palma – è la Germania che ai tassi attuali sta ristrutturando il debito gratuitamente e sta aumentando le esportazioni».

Il problema dell’euro e l’euro?

Quale soluzione allora al problema? «Un’economia in difficoltà non può convivere con una valuta forte. L’Argentina ne è stato un esempio.
Se l’euro non svaluta, finanche l’Italia e la stessa Francia saranno destinate a soccombere
. È solo questione di tempo. In tal senso va vista positivamente la vittoria in Francia del socialista Hollande, perché potrebbe spingere al cambiamento: Eurobond, Bce con doppio mandato fino all’azzeramento dei tassi e a un quantitative easing (Bce che stampa moneta, ndr) che finalmente svaluterebbero l’euro – spiega Nicolò Nunziata, strategist di Jc&Associati -. La Grecia, come il Portogallo e l’Irlanda dovrebbero uscire, semplicemente perché al di là del rigore non avranno mai più alle attuali condizioni la capacità di crescere. La stessa Irlanda si sta salvando solo per l’aliquota bassa alle aziende estere ma in prospettiva in un contesto di maggiore integrazione dovrà rinunciare. L’importante è che l’uscita avvenga sotto la tutela del Fondo monetario internazionale. Ci sarebbe una svalutazione della nuova moneta e probabilmente sarebbe necessaria una ristrutturazione del debito, già pienamente scontata. A quel punto, come è successo in Argentina, potrebbero ripartire.

Un’uscita di questi Paesi per gli altri Paesi – prosegue Nunziata – potrebbe addirittura essere positiva, soprattutto se accompagnata da quelle misure di cui sopra. L’unico rischio è la resistenza della Germania, ma sono convinto che sarà superata, altrimenti continuando così si andrà inevitabilmente alla dissoluzione dell’euro, o all’uscita della Germania che sarebbe per tutti l’ipotesi migliore. Perché oggi è come se il Real Madrid giocasse in serie B».

http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2012-05-09/cosa-succede-grecia-esce-122324.shtml?uuid=AbgZdzZF

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Dai mutui ai Btp: cosa succede se salta l`euro. Con il ritorno alla lira aumenterebbero le rate e si deprezzerebbero i titoli di Stato. Più cari anche benzina e hi-tech. E gli stipendi…

::: ANTONIO CASTRO  e TOBIA DE STEFANO, Libero, 26 luglio 2012

Cosa succede ai nostri mutui?

«Mutui e rate», spiega Roberto  Anedda, vicepresidente di MutuiOnline.it, «dovrebbero essere ricalcolati in base al concambio con la nuova moneta e quindi almeno nell`immediato non ci sarebbero perdite. Il problema è che con il passare del tempo la nuova lira tenderebbe probabilmente a svalutarsi rispetto all`euro e quindi il valore delle rate aumenterebbe proporzionalmente. In caso di prestito immobiliare a tasso variabile, poi, bisogna aggiungere l`ulteriore rischio dell`incertezza per il fluttuare dei tassi».

A proposito di tassi: Euribor (per il variabile) ed Eurirs (per il fisso) resterebbero gli indici di riferimento per calcolare gli interessi?

«Questa è la vera incognita. Perché se dovessero cambiare sicuramente lo farebbero in peggio. Nel senso che sarebbero applicati degli indici con un valore fondi più alto, con il conseguente aumento degli interessi da pagare».

E per chi un mutuo lo deve ancora fare?

«Oltre al rischio tassi di cui prima, va aggiunta la possibilità che gli spread applicati dalle banche tendano al rialzo, visto che anche i nostri istituti di credito pagherebbero di più per il denaro che prendono in prestito».

Come cambia il valore della casa?

«Le conseguenze naturali di un ritorno alla lira», sottolinea Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari, «sono un`iperinflazione e il blocco degli investimenti all`estero. Insomma, i prezzi delle case sono destinati ad aumentare. In questo scenario, infatti, vivremmo un primo anno di grandi movimenti. In pratica, chi ha liquidità da spendere dovrebbe preferire il mattone. Ma non solo. Perché l`Italia diventerebbe molto attrattiva anche per gli investitori stranieri, penso ai classici fondi sovrani».

In sostanza, chi stava bene starà meglio e chi se la passava male se la passerà ancora peggio?

«Beh, lo scenario, soprattutto dopo i primi mesi di grandi scambi, dovrebbe essere proprio questo. Nel senso che i tassi dovrebbero salire alle stelle e quindi fare un mutuo diventerà sempre più difficile, mentre chi ha soldi da spendere avrebbe la possibilità di farla da protagonista sul mercato».

Che valore avranno i Titoli di Stato?

«La memoria corre al 1992», evidenzia Angelo Drusiani, esperto obbligazionario di banca Alberdni Syz, «quando la lira uscì dallo Sme e i tassi si avvicinarono al 20%. Anche nel nostro caso i rendimenti potrebbero raggiungere gli stessi picchi con un riflesso in negativo sui titoli in portafoglio. Su un Btp scadenza 2017, tanto per fare un esempio, il prezzo dovrebbe subire una svalutazione di 5 o 6 punti, e si tratta di una previsione ottimistica. Mentre sui Bot la perdita potrebbe limitarsi a tre o quattro punti».

E se decidessi di portare il titolo a scadenza?

«Si tratta di titoli a cedola fissa che ovviamente resterebbero ancorati agli interessi previsti al momento della stipula, ma il vero rischio è che con tassi così alti nel lungo periodo l`Italia non riesca a ripagare il proprio debito».

E sui conti correnti?

«Non dovrebbe succedere nulla, ma il rischio è che il potere d`acquisto diventi nettamente inferiore rispetto a quello dell`era euro».

Quanto costerà fare il pieno?

Non c`è solo l`approvvigionamento energetico a preoccupare. L`Italia è un Paese privo di importanti materie prime. La svalutazione della nuova moneta comporterebbe acquisti in valuta forte (dollaro Usa, principalmente). Con una nuova lira svalutata di almeno il 25% (è questo il range individuato da una buona parte degli economisti), acquistare un barile di petrolio costerebbe almeno il 25% in più. Però, spiega Claudio Borghi, docente di economia degli intermediari finanziari alla Cattolica di Milano, chi ipotizza un litro di benzina a 4, 5 euro è fuori strada. Depurato il costo della materia prima delle accise (circa il 60%), resta il costo del greggio. «La componente oil, cioè il nostro prezzo del litro di benzina, da 50 passa a 75 centesimi perché svalutiamo del 50 e quindi dobbiamo pagarla in dollari e invece di pagarla 50 centesimi la paghiamo 75». Borghi propone anche un rimedio per evitare
rialzi: un «calo di 25 centesimi delle accise e il prezzo alla pompa non cambia». Difficile però che l`Erario possa fare a meno di un gettito tanto importante. Nel 2012 la fattura energetica dovrebbe toccare il record di 66,5 miliardi di euro, in crescita di oltre 4 miliardi rispetto a quella del 2011 (62 miliardi di euro). La stima dell`Unione petrolifera spiega anche che oggi la fattura energetica italiana pesa per il 4,4% sul Pil, il doppio rispetto ai primi anni del 2000. Impatti si avranno anche sulla bolletta del gas e della luce, ovviamente.

Il made in italy tornerà a crescere?

L`uscita ordinata dell`Italia dall`area euro non farebbe altro che riportare invitale compiante svalutazioni competitive. In sostanza i nostri prodotti (agroalimentare, moda, macchinari, beni di lusso) avrebbero un costo inferiore per i Paesi di acquisto con valuta forte. La domanda crescerebbe sensibilmente ridando fiato alle commesse e agli ordinativi, quindi, convincendo gli imprenditori ad investire e a fare nuove assunzioni per soddisfare la nuova domanda. Il che si traduce nell`immediato in una ripresa dell`occupazione. Di contro beni di lusso (come una Ferrari) con una svalutazione consistente, diventerebbero appetibili per fasce di pubblico oggi impossibilitate all`acquisto.

Cellulari e tablet: quanto costeranno?

Se è vero che la svalutazione porterebbe indubbi benefici ai prodotti italiani (e quindi all`occupazione e quindi anche in termini di ricchezza prodotta), acquistare un cellulare, un tablet o un computer diventerebbe molto più impegnativo. Dall`introduzione dell`euro i pezzi dei prodotti tecnologici sono calati di circa il 40%. Un ritorno ad una moneta svalutata farebbe aumentare il costo hi-tech dei prodotti importati. Insomma un cellulare che oggi costa 400 euro potrebbe arrivare a costarne anche 700.

Che valore avranno stipendi e pensioni?

Il passaggio dalla lira all`euro ha infranto i sogni del ceto medio. Chi nel 2000 guadagnava la bellezza di quattro milioni poteva certo essere ben più soddisfatto di chi oggi vede la busta paga languire a 2.000 euro. Se mai si dovesse abbandonare la valuta europea per una nuova moneta nazionale per gli italiani poco cambierebbe. La crisi del consumi insegna che gli italiani negli ultimi anni hanno mutato profondamente i comportamenti negli acquisti. Il risparmio delle famiglie italiane – tradizionale fiore all`occhiello del Belpaese – è stato eroso e il calo della spesa alimentare dimostra che c`è maggiore attenzione (e minore disponibilità economica), oltre che il timore per una fase economica recessiva della quale non si vede la fine.

Nuova lira, acquisti in saldo?

L`adozione di una nuova valuta di riferimento potrebbe far ripartire i consumi interni anche perché le industrie nazionali (ma anche quelle estere), hanno bisogno del potenziale di spesa di 60 milioni di clienti italiani. Come dimostrano le continue offerte promozionali della grande distribuzione il calo ha costretto supermercati (ma anche i piccoli esercizi) a mettere in promozione i prodotti per invogliare un consumatore sempre più accorto. Come nei primi mesi del 2000 con il passaggio all`euro – si è assistito ad un calo dei consumi, è ipotizzabile che i consumatori troveranno prezzi più contenuti. Una precisa strategia di marketing per evitare l`effetto boomerang e un’ulteriore retromarcia dei consumi. Certo l’inflazione rialzerebbe la testa, riducendo il potere d’acquisto.

http://www.segugio.it/rassegna-stampa/articoli/2012-08/12-07-26.LIBERO.MOL.pdf

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Claudio Borghi [economista docente dell’Università Cattolica di Milano, giornalista e ex managing director di Deutsche Bank]

Atene fuori dall’euro? Per l’Italia danni minimi. Già paghiamo per loro, Il Giornale, 5 maggio 2012

La bomba dell’uscita dall’eu­ro è finalmente stata messa al centro del tavolo. Tic­chetta minacciosa ma adesso la stanno guardando tutti. Meglio tar­di che mai: metterla sotto il tappe­to sperando che si disinnescasse da sola non è servito e adesso si co­mincia­ a fare i conti di quante vitti­me potrà fare.

Le stime che circola­no sono però quasi tutte viziate da un errore di base: si riferiscono in­fatti a danni potenziali rispetto ad una situazione intatta e ideale. Pur­troppo (o per fortuna) non è così. I danni di un’esplosione sono diver­si se l’ordigno scoppia prima o do­po un terremoto. Nel secondo ca­so la distruzione è largamente infe­riore perché la maggior parte del disastro è già avvenuta, anzi, in cer­ti casi far esplodere un edificio peri­colante potrebbe persino essere utile in quanto ne viene facilitata poi la ricostruzione. Cerchiamo quindi di dare uno sguardo senza pregiudizi a questo ultimo atto del­la crisi greca per poter iniziare un dibattito che troppo a lungo è stato rimandato. 

1) Se la Grecia esce dall’euro noi ne subiremmo conseguenze In realtà le conseguenze le stiamo già subendo. Lo spread, le tasse, la di­so­ccupazione e la recessione han­no tutti una matrice comune e stan­no già da tempo incenerendo ric­chezza. I mercati finanziari e gli in­vestitori non stanno fermi ad aspet­tare che la bomba scoppi: da mesi hanno cominciato a vendere in massa i titoli dei paesi deboli origi­nando quindi il famoso spread. Ciò ha già ridotto il valore dei ri­sparmi e sta appesantendo il bilan­cio statale, costretto a pagare tassi passivi più alti. Di sponda le conse­guenze sono già arrivate al­la vita re­ale nella forma della stretta al credi­to e dei mutui a tassi molto elevati.

Quando e se la Grecia uscirà dal­l’euro sarà cosa già anticipata dai mercati, così come già presente nei prezzi attuali dei titoli italiani c’è la percentuale di rischio che an­che noi, prima o poi, ne seguiremo le tracce. L’effettivo ritorno alla dracma significherà semplice­mente un rischio maggiore di usci­ta di altri paesi percepito dai mer­cati, non di certo una sorpresa. Mi­nimale sarà invece l’impatto sulla bilancia commerciale italiana ma anch’esso non positivo, in quanto la Grecia è pur sempre una contro­parte commerciale. 

2) Quali sono le differenze fra Italia e Grecia La posizione del­l’economia italiana di fronte ad un rischio di uscita dalla moneta uni­ca (con conseguente svalutazio­ne) è molto migliore rispetto a quella ellenica. Atene importa tre volte più beni rispetto a quelli che esporta, con alimentari ed energia a guidare la lista delle importazio­ni. In caso di ritorno alla dracma i greci dovrebbero subire sia la fine degli aiuti finanziari della Ue che un aumento pesantissimo dei co­sti delle importazioni, non facil­mente sostituibili con prodotti do­mestici. Si capisce quindi il perché la Grecia è stata costretta a soppor­tare i diktat europei, visto il suo mi­nimo potere contrattuale. Molto differente è la situazione italiana: oltre ad avere un avanzo primario le nostre esportazioni verso l’este­ro compensano quasi esattamen­te le importazioni, principalmen­te costituite da energia e altri pro­dotti che, però, sarebbero in molti casi facilmente sostituibili con pro­duzioni interne. Una svalutazione rilancerebbe fortemente i consu­mi interni e l’export così come av­venuto dopo il ’92 quando uscim­mo dallo Sme e come è accaduto dopo le pur drammatiche svaluta­zioni di Argentina e, recentemen­te, Islanda. Il maggior costo del pe­trolio, invece, essendo in gran par­te fiscalizzato, potrebbe essere am­mortizzato con una corrisponden­te riduzione delle accise. Non di­mentichiamo che i problemi sono generalizzati, non solo nostri, e una svalutazione italiana (se gesti­ta prima che le cose peggiorino ul­teriormente) difficilmente sareb­be prevedibile oltre il 20%.

3) Quali sarebbero le grandezze

Gran parte dei circa 9.500 miliardi della ricchezza nazionale lorda è costituita da beni che il cui valore non dipende da cambi di moneta: come gli immobili, le partecipazio­ni o i titoli esteri. Vengono invece impattati i titoli di debito domesti­ci, soprattutto detenuti da soggetti esteri che otterrebbero un rimbor­so in una valuta di valore inferiore con conseguente default sulle ob­bligazioni. Anche in questo caso per la maggior parte la bomba è già scoppiata: il valore largamente in­feriore dei nostri Btp rispetto ai Bund tedeschi incorpora già ab­bondantemente questo rischio. Difficile aspettarsi molto di peggio rispetto a quanto già accaduto ed in ogni caso le conseguenze sareb­bero più per gli investitori esteri che per quelli domestici. Rimane l’incognita dei depositi che, se l’uscita dall’euro fosse gestita in modo ordinato, potrebbero an­che essere mantenuti in euro, al pa­ri di un normale conto in valuta, di­sattivando il rischio di fughe disor­dinate di capitali (peraltro già da tempo in atto per causa del fisco). Ci sono alternative? Certamen­te, ma adesso con l’eurobomba sul tavolo si dovrà forzatamente fare i conti con essa, confrontando i pro e i contro di ogni scelta. Le nostre carte sono meno disastrose di quel­lo che pensiamo e potremmo gio­carci bene la partita. Basta volerlo.

http://www.ilgiornale.it/news/economia/atene-fuori-dall-europer-l-italia-danni-minimi-gi-paghiamo.html

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Paolo Becchi, Liberarsi dei vincoli della moneta si può, Libero, 22 giugno 2012

Nella discussione sulla «crisi» della moneta unica e sulle possibilità di uscita dall’euro, ci siamo finalmente liberati di un tabù economico. Dopo le prese di posizioni di molti autorevoli economisti, anche alcuni dei partiti che sostengono l’attuale governo sono stati costretti ad ammettere che un ritorno alle monete nazionali potrebbe presentare, dal punto di vista economico, una serie di vantaggi.

Ma lo spettro della «catastrofe economica», scacciato dalla porta, rientra dalla finestra sotto mentite spoglie, quelle della «catastrofe politica». Si ammette che uscire dall’euro potrebbe rappresentare una soluzione meno dolorosa dell’agonia provocata dall’attuale unione monetaria, ma, nel contempo, si alza la posta in gioco: ciò provocherebbe, infatti, «forti rischi» sia per la democrazia politica che la stessa integrità dello Stato nazionale.

Tale è la tesi sostenuta da Angelo Panebianco, in un recente intervento sulle pagine del Corriere della Sera («Moneta unica e democratica», 21 Giugno 2012): la fine della moneta unica annuncerebbe, ora, una «catastrofica dissoluzione di quasi tutto ciò che è stato costruito in sessanta anni di integrazione europea». Secondo Panebianco, la stabilità del sistema politico e democratico italiano sarebbe inseparabile dalla presenza di un «vincolo esterno». L’Italia avrebbe, in altri termini, trovato la propria stabilità non tanto nelle proprie tradizioni culturali e politiche, quanto da una sere di vincoli e costrizioni esterne («la Nato e, per essa, il rapporto con l’America, la Comunità europea in subordine») senza le quali la stessa unità nazionale sarebbe stata destinata a disgregarsi dall’interno. Senza la moneta unica, sembra doversi concludere, verrebbe meno non tanto la stabilità economica dei Paesi europei, quanto la stessa esistenza dell’Italia, dello Stato-nazione.

Ora che lo spauracchio della «crisi economica» è stato smentito, ecco dunque farsi avanti l’incubo politico, ed il suo scenario catastrofista: democrazia a rischio, vuoti improvvisi di stabilità, forse la guerra civile. Ma noi non possiamo permetterci, soprattutto oggi, questa assuefazione alla catastrofe, questo senso di paura di vedere lo Stato disgregarsi («Né disgregazione né assuefazione», era il titolo di uno splendido editoriale di Claudio Magris, scritto nell’annus horribilis della Repubblica 1993).

La realtà è, tuttavia, rovesciata. È, infatti proprio la moneta unica che costituisce, oggi, il «vincolo esterno» che impedisce all’Italia di poter rivendicare la stessa sovranità e stabilità interna. È la moneta unica che è in crisi perché non è stata uno strumento efficiente nel favorire quel processo di unificazione politica dell’Europa a cui era preordinata. L’integrazione politica degli Stati era stata pensata al fine di evitare altri milioni di morti in Europa, ma ha finito per produrre miseria e desolazione.

La presenza di costrizioni ed influenze esterne sul nostro Paese, inoltre, è proprio ciò che ha impedito all’Italia di divenir nazione, per restare un Paese irrisolto e debole, una patria «mancata» e contestata, uno Stato-ombra, una provincia, un’espressione geografica. Proprio quei «vincoli esterni» hanno reso possibile l’«anomalia» italiana, la sua «nazionalizzazione contrastata ed imperfetta » (Soldani-Turi). Panebianco sembra confondere la «stabilità» di una nazione con la sua dipendenza economica e politica. E se si può dire che questo Paese è rimasto «stabile» proprio perché gli è stato impedito di divenire una nazione, allora, proprio dal punto di vista politico, varrebbe la pena di domandarsi se non sia finalmente giunto il momento di liberarsi da questa stagnante «stabilità».

http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=print&sid=10470

QUI UNA RACCOLTA DI ARTICOLI IN FAVORE DEL RITORNO ALLA LIRA

http://www.ritornoallalira.it/

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Giovanni De Mizio, L’Italia fuori dall’euro? Ecco cosa accadrebbe

Negli ultimi tempi, complice l’aggravarsi della crisi economica, si sta facendo strada l’ipotesi che per uscire dalla recessione possa essere utile l’uscita dell’Italia dall’euro e la conseguente svalutazione della nuova lira. Il motivo è lo stesso già attuato altre volte nel corso della vita della Repubblica, e cioè rendere più competitivi i prodotti italiani all’estero. In altre parole, dicono i favorevoli alla svalutazione, le imprese potrebbero vendere più facilmente i propri prodotti all’estero, produrrebbero di più, assumerebbero di più e tutti vivrebbero felici e contenti.

I motivi per cui questa teoria è una sciocchezza sono innumerevoli: basterebbe cominciare con il chiedersi “se l’Italia ha già svalutato più volte la lira in passato, come mai il Paese non cresce da vent’anni e ora è con l’acqua alla gola?”. La risposta risiede in un principio fondamentale dell’economia, cioè che ogni scelta di politica economica richiede un trade-off, ovvero richiede di rinunciare a qualcosa in cambio di un beneficio. Nel caso della svalutazione, il beneficio è una crescita più forte (o meno debole) nel breve periodo, in cambio, però, di una crescita più lenta (se non addirittura ferma o negativa) nel lungo periodo, a parità di altre condizioni.

L’arma della svalutazione aveva ancora un senso in passato quando i prezzi delle materie prime (come il petrolio) erano molto bassi, i salari erano ridotti ai minimi termini e l’unico modo per vendere i prodotti italiani era portarli all’estero: una facile scorciatoia per permettere l’accumulo di un capitale che dopo la guerra non esisteva più, favorendo gli investimenti e la crescita dei salari, così come ha fatto la Cina negli ultimi anni. Tuttavia, man mano che l’Italia è diventata un’economia moderna e integrata, la scorciatoia della svalutazione ha rappresentato la via più breve verso l’abisso.

Si può immaginare che l’Italia decida di uscire dall’euro: la nuova lira nascerebbe debolissima, nessuno la vorrebbe (neanche gli italiani, se potessero), i capitali sparirebbero dal Paese, e la svalutazione sarebbe poderosa, nell’ordine del 30-50%. Un ipotetico tentativo di sostenere la moneta brucerebbe velocemente le riserve (come sta avvenendo nella per nulla tranquilla Argentina).

Il lato positivo della medaglia della svalutazione, abbiamo detto, è che le merci italiane si venderebbero più facilmente all’estero. L’altra faccia della medaglia è che le merci estere diventerebbero più costose, sia per i consumatori che per le imprese. In primo luogo il petrolio (che con il gas naturale è il prodotto che più contribuisce alla parte negativa della bilancia commerciale) diventerebbe enormemente più caro di adesso e i prezzi di energia e carburante, già oggi altissimi, finirebbero alle stelle. Dato che tutte le imprese utilizzano energia, una parte dei più elevati guadagni dovuti alle esportazioni verrebbero bruciati dai costi che lievitano. Lo stesso vale per gli stipendi, destinati ad alzarsi con ulteriore aggravio per le imprese, a meno che non si voglia lasciare che perdano ulteriore valore reale, che poi è una delle ricette già oggi imposte da Bruxelles e Berlino a Irlanda, Grecia e Portogallo.

Le imprese che vogliono innovare e crescere, inoltre, si ritroverebbero in forte difficoltà: nel mondo globalizzato moderno moltissimi prodotti vengono costruiti utilizzando input prodotti nei punti più disparati del pianeta. Un iPhone americano, per esempio, viene assemblato in Cina con i processori coreani della Samsung, gli schermi della giapponese Sharp (in futuro) e molti altri pezzi come gli accelerometri, nati ad Agrate Brianza: Apple può permettersi di acquistare questi pezzi in virtù della forza del dollaro. Un’impresa italiana munita di liretta non potrebbe mai pensare di fare lo stesso, e un’azienda come la FIAT avrebbe una ragione in più per lasciare Torino destinazione Detroit.

Il risultato sarebbe che i prodotti italiani non standardizzati (come auto e dispositivi elettronici) finirebbero per essere prodotti con materiali più scadenti, un po’ come gli smartphone cinesi, e poi venduti sul mercato a prezzi stracciati, in un processo chiamato dumping, con un duplice corollario: le imprese concorrenti estere non dovranno fare altro che migliorare la qualità dei propri prodotti per buttare fuori le aziende italiane dalle fasce alta e media del mercato (le più redditizie), mentre il marchio Made in Italy, che dovrebbe essere sinonimo di qualità, ne risulterebbe decisamente indebolito.

La verità è che l’Italia già da tempo non riesce a competere su molti mercati ad alta innovazione: il Paese, per fare alcuni esempi, non produce computer, e i medicinali sono importati o al massimo prodotti su licenza in Italia (il problema vale più in generale per l’intero settore chimico, oggi pressoché di appannaggio estero). Una svalutazione non aiuterebbe a sviluppare settori di questo tipo, poiché diventerebbe enormemente più oneroso l’acquisto di know-how e tutto quanto necessario per competere in questi mercati.

Si potrebbe dunque prendere in considerazione l’ipotesi che l’Italia possa vendere all’estero prodotti standardizzati (come le derrate alimentari) oppure prodotti tipici (ad esempio i vini, i formaggi). Il problema è che anche in questi casi le aziende avrebbero bisogno di una moneta relativamente forte: anche questi settori necessiterebbero di input importati (non solo la già citata energia: i metodi di produzione di molti prodotti “tipici” sono stati profondamente cambiati dall’innovazione tecnologica nel corso degli ultimi decenni). Ma soprattutto, perché questi prodotti possano essere venduti, avranno bisogno di adeguata promozione in loco, che andrà pagata inevitabilmente in valuta locale. L’Italia esporta oggi gran parte del proprio prodotto destinato all’estero verso Paesi con moneta più forte dell’eventuale liretta (Germania, Regno Unito, Francia, Stati Uniti) e i costi per la promozione lieviterebbero per via del cambio meno favorevole. E certo non si può pensare di vendere un prodotto che nessuno conosce: la pubblicità è l’anima del commercio ovunque.

A chi gioverebbe dunque la svalutazione? Non alle imprese che desiderano innovare e dunque contribuire attivamente alla crescita di lungo periodo, che poi è l’unico tipo di crescita economica che dovremmo avere a cuore. La svalutazione darebbe respiro alle imprese che non vogliono innovare, come le ostinatissime piccole imprese che vogliono rimanere tali, che vogliono produrre gli stessi prodotti, con gli stessi metodi di produzione, destinati a diventare obsoleti, poiché una lira debole proteggerebbe queste imprese dalla concorrenza delle più innovative, frizzanti, ricche imprese straniere. Per poco, però: con il tempo queste ultime riuscirebbero, con innovativi metodi di produzione, ad abbassare i costi e dunque i prezzi (come è normale in un mercato concorrenziale vero), e/o a migliorare la qualità dei propri beni, spazzando via le vetuste aziende italiane.

La svalutazione della moneta, dunque, darebbe al massimo solo un po’ di ossigeno alle imprese nel breve periodo, ma nel lungo periodo i problemi strutturali dell’economia italiana tornerebbero presto a galla, come è già stato in passato, come è oggi. L’Italia ha già svalutato in passato, ma a nulla è servito e a nulla servirà finché il Paese resterà incrostato nel gioco di potere fra politica, caste, poteri forti e sindacati vari. Questo è il problema fondamentale dell’Italia: non la sua moneta.

http://www.dirittodicritica.com/2012/06/28/italia-monti-euro-49284/

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BORTOCAL  (blogger) CONTRO L’USCITA DALL’EURO

Ma al di là delle sue argomentazioni, mi interessano di più le ulteriori riflessioni:

“…mica mi sfugge, e non credo sfugga neppure a chi mi legge, che questi studi sono fatti dal punto di vista di quegli investitori finanziari che detengono i crediti, di queste potenze che superano di gran lunga la potenza economica di un medio stato come l’Italia, di questi nuovi feudi antidemocratici cresciuti alle nostre spalle e a nostra insaputa, mentre noi eravamo beatamente occupati a spendere al di sopra delle nostre forze, indebitandoci con loro.

sono loro che controllano in realtà la finanza mondiale: ed è chiaro che, se la massa dei derivati è pari da tre a sette volte la ricchezza reale, cioè il valore, del pianeta terra, sono loro che dirigono le danze delle nostre vite.

è dunque perfettamente inutile agitarsi contro i governi che ne sono succubi, se non andiamo a cogliere dove stanno le radici del male e non troviamo un modo per liberarci di loro: finché esisterà una finanza con una potenza simile, qualunque governo che non sia rivoluzionario dovrà cercare di entrare a patti con loro, e dunque perseguirà una politica economica volta a salvarli.

Le radici del male: la massa enorme del potere finanziario, così enorme che non corrisponde neppure più a valori reali!

ecco il punto, ecco il punto: i fondi che i grandi speculatori internazionali ci prestano NON SONO REALI, non corrispondono a nessun valore reale.

siamo entrati nel mondo della finanza virtuale; siamo indebitati con persone che ci prestano a loro volta i loro futures, che ci fanno credito sulle loro speranze di guadagno.

questo enorme castello di carte si tiene in piedi come una specie di grande allucinazione collettiva: noi lasciamo alle grandi finanziarie di prestarci la moneta del domani, che ancora non esiste.

e se andassimo, tutti insieme, a vedere il bluff?

se cancellassimo dall’oggi al domani la moneta, ogni moneta?

se chiudessimo i grandi grattacieli della finanza, mandassimo a casa gli yuppies che ci lavorano, cancellassimo le liquidazioni miliardarie in euro e le pensioni da nababbi dei manager, garantendo a tutti soltanto una pensione minima garantita, se svuotassimo le banche?

se riscoprissimo il grande anno sabbatico degli ebrei antichi che ogni 50 anni cancellavano tutti i debiti e ricominciavano da capo?

e cancella a noi i nostri debiti, Singore, come noi li cancelliamo ai nostri debitori…             

http://bortocal.wordpress.com/2012/04/28/216-che-cosa-significa-uscire-dalleuro/

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E SE PER L’ITALIA FOSSE MEGLIO USCIRE DALL’EURO ?

DI JULES ROBERT

latribune.fr
Secondo le proiezioni della Bank of America & Merril Lynch, l’Italia e l’Irlanda avrebbero maggiori vantaggi se lasciassero la zona euro e adottassero una propria valuta. Al contrario, il paese che avrebbe più da perdere sarebbe la Grecia, e quello che potrebbe farlo nel modo più semplice, ma che non ne ha nessun interesse è la Germania.

L’Italia, il cui rating è stato appena degradato di due punti da Moody’s, non troverebbe la sua salvezza fuori della zona euro?

Il paese è, secondo l’agenzia di rating statunitense, esposto “al rischio di contagio” da Grecia e Spagna, e al rischio “di non essere in grado di ottenere finanziamenti dai mercati dei capitali” a causa di una crescita “debole” e di una “disoccupazione troppo alta”, che impediscono di soddisfare i propri obiettivi di riduzione del disavanzo.

Eppure Venerdì, l’Italia non ha avuto nessuna difficoltà a raccogliere 5,25 miliardi di euro sui mercati obbligazionari.

Mentre molti esperti si aspettano un “Grexit”, “Gli investitori sottovalutano la volontà di uno o più paesi di uscire dalla zona euro”, hanno sentenziato David Woo e Athanasios Vamvakidis.  Questi due strateghi del mercato dei cambi, esperti di Bank of America & Merril Lynch hanno concluso che l’Italia sarebbe il più grande beneficiario di una simile operazione tra gli 11 paesi che hanno adottato la moneta unica.

Facendo una analisi costi-benefici, hanno stilato una classifica basata su quattro domande su una eventuale uscita dalla zona euro:

– Quali sono le possibilità di uscire in modo ordinato?
– Quali saranno gli effetti di un’uscita sulla crescita economica?
– Quali sono gli effetti sui tassi di prestito?
– Qual è l’impatto sul bilancio economico del paese?

Avanzo primario per l’Italia

Nel primo caso, dove si prende in considerazione lo stato del bilancio pubblico e il conto corrente come una misura del rischio di uscita, senza una grave crisi nel settore, l’Italia occupa il terzo posto. L’Italia è davvero l’unico paese a realizzare un vero avanzo primario, con la Germania che è al primo posto, mentre la Francia è nona, come l’Irlanda.

Per la seconda domanda, che si basa sull’evoluzione delle esportazioni in caso di un effetto cambio più favorevole, l’Irlanda potrebbe trarre i maggiori benefici con un incremento del 7% della sua produzione, l’Italia segue con il 3%. Dall’altro canto la Germania sarebbe penalizzata con una riduzione dell’11% della sua produzione e la Francia arriva al quinto posto ma guadagna l’1%.

Sul terzo punto, sul tasso sul debito, è la Grecia, che trarrebbe maggior vantaggio da un’uscita, con una diminuzione del tasso di 2.200 punti base (bps), logicamente seguita da Portogallo e Irlanda, i tre paesi che hanno più accesso ai mercati dei capitali. L’Italia è al quinto posto (- 20 bp) seguita dalla Spagna (-80 bps). La Germania è il paese che ha più da perdere, con un aumento dei tassi di interesse di 80 bps, mentre la Francia occupa il settimo posto, senza alcun effetto.

Infine, per quanto riguarda il bilancio contabile del paese, stabilito tenendo conto della esposizione netta internazionale degli investimenti e applicando un deprezzamento della valuta, l’Irlanda si classificherebbe al primo posto, la Germania ultima (undicesima), l’Italia quarta e la Francia quinta.

Combinando questi quattro criteri, Italia e Irlanda risulterebbero al primo posto, all’ultimo la Germania e la Francia ottava.

In altre parole, la Germania potrebbe facilmente uscire dalla zona euro ma non ne ha nessun interesse ma anche l’Italia potrebbe lasciare facilmente la zona euro e con un grande vantaggio.

Il prezzo da pagare per far restare l’Italia

“La Germania potrebbe ‘corrompere’  l’Italia per farla restare?” Si interrogano su questo punto i due esperti di Bank of America e Merrill Lynch.

Dopo la dimostrazione esposta con la teoria dei giochi che prendono in considerazione i diversi scenari che penalizzano la Germania in caso di uscita o no dell’Italia dalla zona euro, ritengono che Berlino non potrà imporre alla penisola tutto quello che ha imposto alla Grecia, sotto forma di austerità in cambio di aiuti finanziari. I due analisti ritengono che per Berlino il costo per far restare l’Italia nell’area euro sarebbe superiore a quello della sua uscita. Questo sarebbe un motivo in più per la Germania per non trattenere Roma e per minare  la coesione dell’area della moneta unica.

Infine, se un tale scenario si rivelasse esatto “Potrebbe avere serie ripercussioni negative per i mercati finanziari nei prossimi mesi”, hanno concluso David Woo e Athanasios Vamvakidis, che in questo modo danno anche loro un contributo all’ondata di pessimismo che prevede  “una estate assassina” per i mercati.
Jules Robert

Fonte: www.latribune.fr/

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Alberto Bagnai: “primo, la svalutazione non coincide con l’inflazione; secondo, l’inflazione non coincide con la perdita di potere d’acquisto da parte dei lavoratori” > uscire dall’eurozona subito.

Si leggano le 2 repliche di Marco Marci (erano 3, una non è stata approvata da Bagnai)

http://goofynomics.blogspot.it/2012/04/svalutazione-e-salari-ad-usum-piddini.html

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Ettore Livini, “Grecia, il ritorno della dracma costerebbe 11mila euro all’anno per ogni europeo”

Il ritorno della dracma, se mai succederà, “non sarà indolore né per la Grecia né per la Ue”, ha garantito Per Jansson, numero due della Banca di Svezia (che non è parte in causa, NdR).

IL PRIMO ATTO

Il primo atto del possibile Calvario è già scritto: un fine settimana, a mercati chiusi, Atene formalizzerà a Bruxelles la sua uscita dalla moneta unica. Poi sarà il caos. La Banca di Grecia convertirà dalla sera alla mattina depositi, crediti e debiti in dracme, agganciandoli al vecchio tasso di cambio con cui il Paese è entrato nell’euro nel 2002: 340,75 dracme per un euro. Si tratta di un valore virtuale: alla riapertura dei listini, prevedono gli analisti, la nuova moneta ellenica si svaluterà del 40-70 per cento. Per evitare corse agli sportelli (i conti correnti domestici sono già calati da 240 a 165 miliardi in due anni), Atene sarà costretta a sigillare i bancomat, limitare i prelievi fisici allo sportello e imporre rigidi controlli ai movimenti di capitali oltrefrontiera.

IL PIL GIU’ DEL 20%

L’addio all’euro costerà carissimo ai greci: il Prodotto interno lordo, calcolano alcune proiezioni informali del Tesoro, potrebbe crollare del 20 per cento in un anno. I redditi andrebbero a picco, l’inflazione rischia di balzare del 20 per cento. Il vantaggio di competitività garantito dal “tombolone” della dracma sarà bruciato subito. La Grecia – che a quel punto non avrebbe più accesso ai mercati – sarà costretta a finanziare le sue uscite (stipendi e pensioni) solo con le entrate (tasse) senza potersi indebitare. E non potrà più contare né sui 130 miliardi di aiuti promessi dalla Trojka, nei sui 20,4 miliardi di fondi per lo sviluppo stanziati da Bruxelles. Di più: i costi delle importazioni (43 miliardi tra petrolio e altri beni di prima necessità nel 2011) schizzerebbero alle stelle mettendo altra pressione sui conti pubblici. Un Armageddon che rischia di far passare il memorandum della Trojka per una passeggiata. Il colpo di grazia per una nazione in ginocchio, reduce da cinque anni di recessione che hanno bruciato un quinto della sua ricchezza nazionale e con la disoccupazione al 21,7 per cento.

TORNANO I DAZI

In questa tragedia greca, l’Europa non avrà solo il ruolo di spettatore. Il pedaggio a carico del Vecchio continente – che un minuto dopo il ritorno della dracma potrebbe imporre dazi alle merci elleniche (LO FARANNO: MORS TUA VITA MEA, NdR) – è salatissimo. L’effetto contagio, tanto per cominciare, si tradurrà in una Caporetto per i mercati e una via crucis per Italia e Spagna. Gli spread, calcolano gli algoritmi di Sungard, potrebbero salire del 20 per cento, le borse scendere del 15 per cento. Ma è solo l’antipasto. La Grecia – dove le banche saranno nazionalizzate – smetterà di pagare i debiti anche ai privati e così lo tsunami della dracma travolgerà diversi istituti di credito e molte imprese continentali. Una matassa inestricabile (anche legalmente), molto peggio di quella della Lehman che nel 2008 ha mandato in tilt il mondo.

I CALCOLI DI UBS

Italiani e spagnoli, ha calcolato Ubs un anno fa, pagherebbero tra i 9.500 e gli 11.500 euro a testa all’anno per l’addio all’euro di Atene. I tedeschi poco meno. Le cifre vanno aggiornate al rialzo: il debito di Atene a fine 2009 (301 miliardi) era tutto controllato da privati. Ora, grazie alla ristrutturazione, è sceso a 266 miliardi. E ben 194 sono in mano a paesi Ue, Bce e al Fondo Monetario. Se la Grecia non onorerà i suoi impegni come ha fatto l’Argentina, l’Apocalisse europea è belle e servita.

http://www.repubblica.it/economia/2012/05/15/news/grecia_il_ritorno_della_dracma_costerebbe_11mila_euro_all_anno_per_ogni_europeo-35060321/

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La Grecia si avvicina ad una sua uscita dall’Euro? La situazione economica della Grecia non è delle migliori: ha un rapporto debito/Pil pari al 150,3% e, negli ultimi 4 anni, il Pil è calato del 18,4%. Ma le stime del Fmi non lasciano presagire nulla di buono: infatti è previsto un ulteriore calo del 4% solo nel 2013. Insomma una situazione catastrofica.

Effetti dell’uscita dall’euro della Grecia

E se la Grecia provasse ad uscire dall’Euro cosa accadrebbe? Questa è la domanda che si sono posti gli economisti della banca d’affari giapponese Nomura.

 Innanzitutto, ciò comporterebbe un ritorno alla dracma (la moneta che si usava in Grecia prima che aderisse all’Eurozona), che subirebbe una svalutazione compresa tra il 55 e il 60%. “Solo l’Argentina nel 2002 e l’Indonesia nel 1997 – fanno notare gli economisti giapponesi – si ritrovarono in una situazione peggiore, con le rispettive valute deprezzate ancora di più, intorno al 64% e al 67%“.

 “Nel caso greco – continuano gli economisti della banca giapponese, ndr – le variabili da osservare si chiamano perdita di competitività a causa della sopravvalutazione dell’euro, basse riserve di valuta estera e scarsa efficienza del governo”.

 Se la Grecia dovesse tornare alla sua vecchia moneta, significherebbe che la banca centrale dovrebbe tornare a stampare dracme, causando un’elevata inflazione, nonché una grande erosione del potere d’acquisto dei risparmiatori. Non solo: l’euro nei confronti della dracma si apprezzerebbe e quest’ultima subirebbe – secondo gli economisti – una svalutazione compresa tra il 50% e il 60%.

http://www.forexinfo.it/Grecia-fuori-dall-euro-Nomura-fa

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“La mancanza di un processo costituzionale (o permesso da un trattato) per uscire dalla zona euro ha una solida logica solida alle spalle. Il punto di creare la moneta comune era quello di convincere i mercati che si trattava di un’unione permanente che avrebbe assicurato perdite enormi per chiunque avesse osato scommettere contro la sua solidità. Una singola uscita basta ad abbattere questa solidità percepita. Come una piccola crepa in una possente diga, un’uscita greca porterà inevitabilmente al collasso l’edificio…Nel momento in cui la Grecia viene spinta fuori accadranno due cose: una massiccia fuga di capitali da Dublino, Lisbona, Madrid, ecc., seguita dalla riluttanza della BCE e di Berlino ad autorizzare liquidità illimitata alle banche e stati. Questo comporta il fallimento immediato di interi sistemi bancari, nonché dell’Italia e della Spagna. A quel punto, la Germania dovrà affrontare una terribile dilemma: mettere a repentaglio la solvibilità dello stato tedesco (devolvendo alcune migliaia di miliardi di euro per salvare ciò che resta della zona euro) o salvare se stessa, abbandonando la zona euro. Non ho alcun dubbio che sceglierà la seconda. E poiché questo significa strappare una serie di trattati e carte dell’UE e della BCE, l’Unione Europea, di fatto, cesserà di esistere”.

http://yanisvaroufakis.eu/2012/05/31/interviewed-by-fxstreet-com-on-grexit/

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Tornando allo studio della Bertelsmann (ottobre 2012), secondo i calcoli, nel peggiore dei casi, le 42 economie principali del mondo potrebbero subire perdite sul fronte della crescita fino a 17 mila miliardi: questo sarebbe infatti l’effetto di una perdita di fiducia in Madrid e Roma da parte del mercato e di una conseguente bancarotta dei due Paesi europei.

RISCHIO PERDITA FIDUCIA. Hanno infatti scritto gli economisti: l’uscita di Atene dalla moneta unica in sé è «sostenibile» per l’economia mondiale, «ma non si può escludere che il mercato dopo perda fiducia anche nel Portogallo nella Spagna e nell’Italia, con una conseguente bancarotta anche in questi Paesi».

La sola uscita di Atene dalla moneta unica costerebbe alla Germania 73 miliardi di euro in termini di crescita fino al 2020. A questo si aggiungerebbero i 64 miliardi di fondi perduti (una tantum) per creditori privati e pubblici.

DRACMA VUOL DIRE CRAC. Il ritorno alla dracma costerebbe alla Grecia 164 miliardi di perdite sul fronte della crescita fino al 2020. In questo scenario si sottintende che creditori privati e pubblici dovrebbero rinunciare a circa il 60% delle loro rivendicazioni verso Atene. E che la nuova moneta verrebbe svalutata del 50% rispetto all’euro.

http://www.lettera43.it/economia/macro/ue-la-grexit-costerebbe-17-mila-miliardi_4367568612.htm

La “Modesta proposta per superare la crisi dell’Euro” di Yanis Varoufakis

Varoufakis ha perso la sua cattedra all’Università di Atene a causa della crisi e delle politiche europee e ora vive in “esilio”, migrando come visiting scholar da una facoltà estera all’altra.

E’ categoricamente contrario all’uscita dall’eurozona, per delle ragioni assolutamente condivisibili.

Alcune sue interviste rilasciate in italiano e analisi tradotte in italiano.

[Premetto che il grave limite di Varoufakis, come di Bagnai, è quello di rifiutarsi di considerare l’idea di complotti finanziari globali che hanno finalità politiche e non solamente di mero profitto. Penso che a questo punto sia surreale non tenerne conto. Varoufakis incolpa principalmente i banchieri tedeschi, il nazionalismo tedesco e le manovre sul dollaro e l’egemonia americana (un complottino, insomma) che sono solo una dimensione del problema, Bagnai riduce il tutto alle naturali dinamiche della finanziarizzazione dell’economia (bah). Ciò non toglie che occorre fornire un’alternativa affinché la gente possa dire: “allora non è vero che non ce n’erano”, “allora sono veramente dei criminali”. Varoufakis, Stuart Holland e Joseph Halevi hanno fatto precisamente questo e qualcuno lo doveva fare. Per altri è stato Bagnai a farlo ma, dal mio punto di vista, la fuga dall’eurozona è effettivamente un suicidio, come sostengono i critici. Per chi vuole qualcosa di più di questo è interessato a sentir parlare di economia e finanza ad alti livelli (ma con stile divulgativo) con un dibattitto che includa i veri complotti in corso – in particolare come l’indebitamento sia impiegato per rifeudalizzare le democrazie occidentali (ma senza riferimenti ad alieni, Haarp, scie chimiche o altro) -, rimando a (in inglese!): http://www.golemxiv.co.uk

Ci dovrebbe essere più integrazione in Europa per combattere la crisi?

“Assolutamente, ma possiamo farlo domani. Non abbiamo bisogno di una Federazione europea, di un nuovo trattato o di cose del genere. Il Fondo Salvastati deve intervenire direttamente nella ricapitalizzazione delle banche, senza passare dai governi. La Banca centrale europea dovrebbe prendersi carico dei debiti pubblici e lo potrebbe fare immettendo gli eurobond. Abbiamo bisogno degli investimenti bancari europei per creare le condizioni per avere la meglio sulla recessione”.

Ci sono alcuni Paesi, come la Germania, che non voglio creare una maggiore integrazione economica. Come se ne esce?

“La Germania, prima di accettare un’integrazione economica, vuole una unione politica. Finché la crisi non verrà arrestata non ci saranno unioni politiche, perché per crearle serve molto tempo. E noi non abbiamo tempo. Dobbiamo fermare la crisi il prima possibile in modo da avere la possibilità di un’unione politica. Se continuiamo così non uniremo altro che cenere“.

http://affaritaliani.libero.it/esteri/yanis-varoufakis-ad-affaritaliani200612.html

Tre cose. I passi molto semplici che devono essere fatti. In Europa, sia in Grecia che in Spagna, quello che succede ora è che le banche insolventi sono strette in un abbraccio mortale con gli stati insolventi. Così, gli Stati prendono in prestito denaro dal centro dell’Europa al fine di finanziare le banche, e le banche prendono in prestito per dare allo Stato, e sia le banche che gli stati sono bloccati in una sorta di abbraccio mortale. Quindi quello che dobbiamo fare è rompere questo legame tra le banche insolventi e gli stati insolventi. Il modo per farlo è unificare il sistema bancario, europeizzarlo all’interno dell’Unione Europea, finanziandolo direttamente e non attraverso i governi nazionali. Questo è un passo molto semplice, ma è un passo che sembra essere troppo lontano dall’Unione Europea.

In secondo luogo ciò che serve è una mutualizzazione, una sorta di debito comune, come in Australia, dove il governo federale ha il proprio debito al di sopra degli Stati.

In terzo luogo, abbiamo bisogno di una politica di investimento in tutta la zona euro. Perché siamo in un’area monetaria, è necessario disporre di una strategia di investimento, di un meccanismo di riciclaggio del sistema. Se non abbiamo queste cose, e la Germania non vuole avere queste cose, temo che non ci sia assolutamente la possibilità di evitare questo deragliamento al rallentatore.

L’economia Greca non può essere sistemata. L’economia Greca è finita. L’economia Greca è in una grande, grande depressione. L’economia sociale è nel lungo, lungo inverno del suo scontento. Non c’è nessun potere, nessuna forza all’interno dell’economia Greca, della società Greca, che possa evitare tutto questo – è come se fossimo nell’Ohio nel 1931, e ci chiedessimo: che cosa possono fare i politici dell’Ohio per tenere l’Ohio fuori dalla Grande Depressione? La risposta è: niente.

Tutto dipende da ciò che accade nella zona euro. Proprio come quello che è successo in Ohio è dipeso dell’ascesa del presidente Roosevelt e dal New Deal – a meno che non ci sia un new deal per l’Europa, la Grecia non ha possibilità. Questo non vuol dire che se l’Europa si sistema, anche la Grecia si sistemerà. Una condizione necessaria è che la zona euro trovi un piano razionale per se stessa. Ma non è una condizione sufficiente. L’Europa potrebbe mettersi a posto e la Grecia, così fragile e maligna, potrebbe ancora avere grossi problemi e non recuperare mai. Ma fino a quando la zona euro non troverà un piano razionale per fermare questo disastro ferroviario che avanza al rallentatore in tutta l’Unione Europea, in tutta la zona euro, la Grecia non ha alcuna possibilità.

Questa è la nostra Grande Depressione. Non solo in senso economico, ma anche in senso psicologico. I Greci passano da uno stato catatonico a uno stato di rabbia, ed è un tipico caso di depressione maniacale. Non ci sono prospettive. Non c’è luce alla fine del tunnel. Ci sono sacrifici, ma nessuno ha la sensazione che si tratti di sacrifici che assumono la forma di un qualche tipo di investimento per girare l’angolo. Questo è il problema quando si è bloccati in una zona euro davvero mal progettata, che sta crollando, e che non dà la possibilità alle sue parti più deboli di venirne fuori attraverso una sorta di crisi rigeneratrice, di catarsi.

http://www.frontediliberazionedaibanchieri.it/30-categorie-12335539.html

Come si pone la crisi greca rispetto a quella che assume sempre più i connotati, anche politici, di una crisi dell’intera zona euro?

Io sono convinto che si debba, finalmente, ammettere come la crisi economica greca non sia, in realtà, greca, non nel senso di un paese vittima del proprio debito. Si pensi a uno tsunami: l’onda esiste indipendentemente dalla città che poi andrà a colpire. La Grecia aveva, e continua ad avere problemi che non hanno il Paese come unico obiettivo. Semplicemente, Atene è la prima destinazione di un percorso che sta investendo l’intera zona dell’euro.

Si faccia l’ipotesi che, dal 1998 al 2008, la Grecia fosse stata guidata da governi saggi e angelici i quali, per esempio, avessero colpito corruzione ed evasione fiscale: non saremmo stati la prima vittima dello tsunami, eppure questo sarebbe comunque arrivato anche a noi, qualsiasi cosa avessimo fatto. Si pensi al Portogallo: non ha un deficit esorbitante e anche l’ammontare del debito non è paragonabile al nostro. L’Irlanda, poi, non conosce fenomeni di corruzione e rappresentava il modello del Fmi, della zona euro e del Washington consensus. Eppure entrambi i Paesi sono vittime della crisi che stiamo vivendo ed è chiaro che l’Irlanda, come la Grecia, avrà presto bisogno di un secondo prestito. Questo, penso, significa che siamo di fronte a una crisi sistemica della moneta unica ed è un falso assoluto che l’euro sia vittima di attacchi speculativi; molto semplicemente, l’Euro è vittima della sua stupidità [come Bagnai, anche Varoufakis, per ragioni che mi sfuggono, nega l’evidenza del fatto che gli attacchi speculativi coordinati ci sono stati e sono stati documentati dai maggiori quotidiani internazionali, come ad esempio il New York Times, l’Huffington Post e la Repubblica: https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/10/02/mercati-mercatini-e-monti-bis/, https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/09/01/il-complotto-delle-banche-daffari-documentato-dallhuffington-post-non-da-un-blogger-paranoico/, NdR]

Si faccia l’esempio della Spagna, un paese che, allo scoppio della crisi, nel 2008, aveva surplus finanziario e, in questo preciso istante, ha un debito e un deficit inferiori a quelli britannici. Ciononostante, mentre la Gran Bretagna non affronta nessun problema a farsi prestare denaro dai mercati internazionali, non è così per la Spagna, la quale rimane attaccata a una moneta problematica; l’euro. Questa è la vera questione: se io fossi un investitore giapponese e detenessi bond inglesi e spagnoli sarei fortemente preoccupato dello stato di salute dei due Paesi; telefonerei al mio broker e gli direi, per esempio, di vendere i bond inglesi. A quel punto potrei reinvestire il ricavato della vendita o in Gran Bretagna o, continuando l’esempio, in Germania. Se scegliessi di investire fuori dalla Gran Bretagna vendendo, pertanto, sterline per comprare euro, il prezzo delle prima crollerebbe, rendendo le esportazioni inglesi vantaggiose, le importazioni costose, dunque migliorando la bilancia dei pagamenti inglese. Sia che si tenga un bond inglese sia che si venda, qualcosa di buono per l’economia britannica accadrà comunque.

Nel caso, invece, dei bond spagnoli dell’esempio, se io chiedessi al broker di liquidare e acquistare bond tedeschi non registreremmo la vendita di valuta spagnola; gli euro uscirebbero, semplicemente, dalla Spagna che, non avendo una moneta nazionale, non potrebbe far altro che assistere impotente alla propria emorragia. Ecco perché, nonostante le statistiche vitali della Spagna siano migliori della Gran Bretagna, quest’ultima si trova in posizione di vantaggio rispetto alla penisola iberica.

Prima dell’avvento dell’Euro, pertanto, il problema non esisteva e la crisi ha rivelato le debolezze del sistema della moneta unica.

Dieci anni fa la crisi non c’era e gli Stati Uniti, principalmente, assorbivano le eccedenze tedesche attraverso le importazioni. Nel 2008 tutto questo cessò e la struttura della moneta unica, per come è stata edificata, non è stata capace di assorbire una frana di tali dimensioni.

Chiaro che, nel corso di un terremoto, la prima abitazione a crollare è quella le cui fondamenta sono marce. Ma se non fosse stata la Grecia, sarebbe stato un altro Paese. Il fatto, però, non è riconosciuto a livello delle istituzioni europee che continuano ad additare la Grecia come il grande colpevole. Io credo che si tratti del rifiuto psicologico ad ammettere errori. Si ipotizzi che, nel giro di pochi minuti scompaiano tutti i greci: cambierebbe qualcosa? Ci sarebbero sempre la Spagna e l’Italia e quando cadessero anche loro, l’Euro cesserebbe di esistere. Bisogna, pertanto, mettere da parte sciocchezze e cercare soluzioni ai problemi strutturali dell’Euro.

Il governo greco, alla frana di più di un anno fa, rispose con il ricorso a un meccanismo di salvataggio che comprendeva un prestito di 110 miliardi, erogati dalla Ue, dalla Bce e dal Fmi. In virtù di tale prestito, la Grecia si impegnò all’adozione di misure che avrebbero dovuto risanare il deficit. Oggi sappiamo che il deficit non solo non diminuisce con i ritmi previsti ma il debito sale a ritmi vertiginosi e saranno presto necessari altri 100 miliardi di prestito. Cosa non ha funzionato?

Senz’altro le previsioni del meccanismo erano sbagliate eppure la responsabilità maggiore grava sul governo greco che non doveva accettare molta parte delle imposizioni.

Sono almeno duecento anni che conosciamo e siamo tutti d’accordo su due cose. Innanzitutto, quando qualcuno ha fallito, non puoi ”aiutarlo” garantendogli un nuovo prestito e, per giunta, con tassi di interesse molto alti. Questo è solo un aiuto temporaneo che, però, non fa che accrescere il problema. Il fatto che la Grecia stia trattando un nuovo prestito rappresenta una tragedia.

Il secondo elemento è che quando un’economia è in recessione, se si diminuiscono le spese pubbliche la recessione si aggrava. Ora, con il memorandum firmato un anno fa, abbiamo fatto proprio le due cose che non dovevamo fare: abbiamo preso un prestito enorme e abbiamo tagliato le spese pubbliche. Questa è la definizione della paranoia: fare tutte le volte la stessa cosa e tutte le volte aspettarsi un risultato diverso.

Lei ha proposto una soluzione alla crisi dell’Euro articolata in tre punti che non richiedono il raggiungimento, irreale al momento, di un’organizzazione politica dell’Ue diversa da quella presente. Al tempo stesso sostiene con fermezza la necessità di mantenere l’Euro come moneta della Grecia, definendo il ritorno alla dracma come ritorno all’età della pietra.

Innanzitutto, bisogna riconoscere che stiamo vivendo una crisi strutturale dell’euro e il problema non è risolvibile attraverso la proposta, dall’esito altamente improbabile, della creazione di una struttura politica europea altra da quella presente. La crisi si fonda sull’incidenza di tre fattori: del primo nessuno parla in una congiura del silenzio, dal momento che tutte le banche, non solo greche, sono ”zombie banks” in tutta Europa, ossia, detta semplicemente, esse non hanno liquidità a disposizione [es. Deutsche Bank, NdR]. Il debito statale rappresenta solo il secondo fattore, non l’unico, mentre si deve aggiungere che, dal 2008, non si attua in tutta Europa, nessun investimento di una qualche rilevanza.

Dobbiamo, pertanto, affrontare contestualmente le tre questioni. Il Fondo strutturale europeo (Fse) deve smettere di prestare agli Stati e invece sostenere le banche europee, garantendo loro capitali a basso tasso d’interesse, perché possano ricapitalizzarsi; il Fse otterrebbe in cambio azioni che poi rivenderebbe al fine di non incidere sui contribuenti europei.

Rispetto al debito, chiarito che non è possibile garantire nuovi prestiti a chi è già indebitato a dismisura, la soluzione sta nel sollevare il debitore di quella parte di debito ammessa dal trattato di Maastricht, ossia il 60 per cento del Pil. Il modo per farlo è che la Bce prelevi i bond nazionali in scadenza e li trasformi in un bond europeo di buona qualità e, pertanto, appetibile ai mercati.

Il terzo asse su cui ruota la mia proposta è che la Banca europea per gli investimenti (Bei) assuma il ruolo di coordinatrice di un vero e proprio piano Marshall per l’Europa, ove il 50 per cento di ogni misura messa in atto verrà finanziata dai bond europei invece che dai singoli stati.

[nota bene: chi, come me, apprezza Webster G. Tarpley, sarà lieto di sapere che le sue proposte coincidono con quelle di Varoufakis]

La soluzione, pertanto, potrebbe essere molto semplice, anche se la cancelleria tedesca non ne vuole sentire parlare e, di conseguenza, il governo greco non la propone neppure. Di conseguenza scegliamo, ancora una volta, la via dell’ulteriore indebitamento e delle misure che esso comporta. Tuttavia, anche se riuscissimo a rispettare proprio tutte le condizioni che porrà il nuovo prestito, in pochi anni l’esposizione al debito della Grecia sarà superiore al 400 per cento. Non è pensabile, dunque, che il Paese, prima o poi, non dichiari default sovrano, con la differenza che più tardi avverrà, peggiori saranno le conseguenze; basti pensare che allora lo Stato non avrà più nulla da sfruttare, dal momento che avrà svenduto tutto nel frattempo.

http://it.peacereporter.net/articolo/29047/Grecia.+Processo+all%27euro.+Una+ricetta

Yanis Varoufakis: la sua “Modesta proposta per superare la crisi dell’Euro”, presentata fra l’altro sul sito del Levy Institute in un articolo con Stuart Holland, è stata oggetto di ampio dibattito fra gli economisti e anche sui mass media greci ed europei (inclusa la BBC). La proposta è vicina ha quella avanzata da molti studiosi e politici e consiste nel trasferire una quota del debito pubblico dei paesi europei presso la BCE, che ne potrebbe assicurare la sostenibilità a bassi tassi di interesse. Ulteriori notizie sono ricavabili dal sito: http://yanisvaroufakis.eu/.

Nella lettera qui sotto tradotta egli si rivolge al primo ministro Greco Papandreu affinché resista all’imposizione delle politiche restrittive imposte dall’Europa, socialmente devastanti e, ahimè, inutili, sostenendo invece con l’appoggio del popolo greco una diversa soluzione lungo le linee delineate nella “Modesta proposta”. Nella lettera traspare, fra l’altro, il dramma di un governo di sinistra salito al potere, come sempre, con un  carico di speranze che finisce per accettare umilianti politiche anti-popolari. Prima che ciò accada anche nel nostro paese, nella Lettera aperta a Bersani abbiamo cercato di inviare un avviso preventivo al segretario del PD a riflettere sulla necessità di una riposta progressista alla crisi, ma il monito è esteso anche agli altri leader della sinistra. S.Cesaratto, L.Turci

«Caro George,

Pochi giorni dopo le elezioni 2009 che ti hanno portato al potere, hai detto al tuo governo in un incontro trasmesso in tv: “Siamo anti-autoritari al potere”. La maggior parte del tuo governo, uomini e donne che avevano per anni ambito al potere, ti hanno guardato increduli, mentre i tuoi detrattori ti derisero. Sembravi piuttosto solo in quel momento. E tuttavia, nella misura in cui ti conosco, sei stato assolutamente autentico a pronunciare quel pensiero.
Da allora molta acqua avvelenata è passata sotto il proverbiale ponte. Le dichiarazioni utopiche sono state sommerse dallo sforzo carico d’angoscia per salvare il paese. Ti ha costretto non solo a stringere i denti, e a nascondere la tua natura utopica, ma anche a rinunciare ad alcune delle tue convinzioni di base su ciò che dovrebbe, e ciò che non dovrebbe, essere fatto da coloro che hanno autorità. Nella misura in cui ti conosco, sono convinto che consideri le tue difficili decisioni le migliori possibili di un orribile lotto. E posso immaginare la tua solitudine immediatamente dopo aver preso ognuna di loro.
Così siamo arrivati a maggio 2010, un momento in cui sei stato colto dalla necessità della decisione più importante che il primo ministro ha dovuto affrontare finora in tempo di pace. Tu sai che eravamo in disaccordo sulla questione se è stata la decisione corretta. Poco importa ora. Ti hanno convinto che l’accordo su cui hai messo la tua firma sia stato un vero e proprio piano di salvataggio, un giubbotto di salvataggio offerto dopo un naufragio scioccante per consentire al naufrago l’opportunità di guadagnare tempo e trovare la sua strada, attraverso le acque tempestose, verso la terraferma. Ho considerato lo stesso ‘bailout’ un enorme palla al piede attaccata alle nostre caviglie collettive, trascinando l’intera zona euro verso il basso (le nazioni in surplus e in deficit allo stesso modo, Nord e Sud uniti in una trappola mortale). Hai scelto di seguire il consiglio dei tuoi collaboratori e dei capitani della finanza, giudicando che il ‘salvataggio’ necessario, infatti, e acquistando tempo prezioso. Tuttavia, nella misura in cui ti conosco, la tua decisione ti ha riempito di angoscia e tristezza.

Da mesi si sapeva che il ‘salvataggio’ stava fallendo perché era nel suo DNA di fallire (e non perché non è stato seguito nel miglior modo possibile dal tuo governo). Noi economisti, come ben sai, non siamo d’accordo su quasi nulla. La storia, tuttavia, ci ha insegnato due lezioni: (1) Non è possibile salvare il fallito grazie a costosi nuovi prestiti, e (2) austerità a fasi alterne non può ridurre e non ridurrà il deficit e i debiti di una macro-economia catturata da una recessione selvaggia, soprattutto quando non si è in grado di svalutare la propria moneta e, per di più, costretto ad operare in un contesto di recessione globale e regionale. Il ‘bailout’ dello scorso anno ha violato entrambi i principi. C’è da meravigliarsi che non sia riuscito?
Non sapevi che sarebbe andata cosi? E ‘possibile che tu sperassi in un miracolo di natura economica (ad esempio qualche grosso flusso di crescita dell’economia europea che avrebbe aiutato la Grecia trascinarsi fuori dal fango) o forse di tipo politico (alcune visite ad Angela Merkel da parte dello Spirito Santo). Ahimè, non è accaduto. E ora sei chiamato, per la seconda volta in un anno, ad andare contro l’essenza di quello che credi, le informazioni in tuo possesso, i tuoi istinti, le tue esperienze (dell’anno passato, quantomeno). Ti dicono, proprio come hanno fatto l’anno scorso: “primo ministro, pensa a quello che accadrà alla nostra nazione, se non otteniamo prestiti freschi. Come faremo a pagare gli stipendi del settore pubblico e le pensioni? “Nella misura in cui ti conosco, so che ti stai mordendo la lingua.

Alcuni mesi fa ti è diventata famigliare una proposta politica di tre semplici passi, denominata “Modesta proposta per superare la crisi Euro”. Le mie informazioni sono che tu pensi molto bene di questa proposta, sia in termini di meriti tecnici che con riguardo al suo potenziale politico (anche tra l’elettorato tedesco, olandese, austriaco e finlandese)Infatti, sei stato recentemente informato che questa proposta è stata adottata dal Consiglio europeo dei sindacati, per volere dei suoi membri tedeschi e austriaci.

Come sai, le tre indicazioni contenute nella “Modesta proposta” affrontano in modo efficace (e senza invocare la necessità di modifiche sostanziali del Trattato di Lisbona), tre aspetti della crisi: (A) la crisi bancaria che infuria all’interno della zona euro da Francia a Grecia e dalla Germania alla Spagna; (B) la crisi del debito sovrano che sta trascinando la periferia verso il basso (e con essa la BCE e le regioni in surplus della zona euro); e (C) la crisi di sotto-investimento che solo una programma europeo di ripresa dagli investimenti può essere in grado di affrontare, piantando così l’ultimo chiodo sulla bara della crisi. Se ti credessi in disaccordo con questa modesta proposta, non avrei scritto questa lettera. Ma ho molta paura … che tu sia d’accordo con questa. (In caso contrario, dillo.)

Tu potresti dire: “Diciamo che sono d’accordo con la tua proposta. Come posso, come Primo Ministro di un piccolo paese in bancarotta, andare a Bruxelles e proporre una ridefinizione di tutta la zona euro? Soprattutto quando i miei consiglieri attuali mi dicono di abbandonare tali idee? “

Se me lo dicessi, la mia risposta sarebbe: “Come puoi tu, come Primo Ministro di un piccolo paese in bancarotta, andare a Bruxelles per accettare un nuovo prestito di svariati miliardi che, in tutte le ipotesi plausibili (anche se tutte le privatizzazioni e gli obiettivi di tagli di spesa fossero raggiunti in pieno), non riesce a rallentare (per non parlare di invertire) il percorso esplosivo del debito nazionale del paese? Come tu, e i leader dell’Unione, affronterai ad un anno da oggi  la inevitabile crisi di legittimità sia nel Nord che nel Sud Europa , dal momento che le garanzie sui prestiti dei contribuenti tedeschi e olandesi alla fine (tramite lo Stato greco) risiedono nelle casse di banche zombie quasi in bancarotta, mentre per tutto il tempo il debito greco continua a crescere, il PIL greco è in calo, i greci sono spinti ulteriormente nella miseria senza nulla in cambio, e gli olandesi e i tedeschi sono invitati a scavare più a fondo una volta ancora per salvarli?

Potresti chiedere: “Allora, che cosa devo fare?

Io ti risponderò in un modo che suonerà a molti utopistico, ma che sono convinto sia la tua ultima possibilità realistica. Se qualcuno può capire il realismo della mia proposta, quella persona sei tu: Salta sulla tua bicicletta questa sera, da solo, senza guardie del corpo o consulenti, e pedala verso piazza Syntagma, la piazza centrale di fronte al nostro Parlamento, dove le manifestazioni anti-austerità, contro il governo si verificano ogni notte. Una volta lì, la gente sarà infastidita in un primo momento, ma, visto che sei solo, la folla si aprirà come il Mar Rosso e si formerà un percorso che ti consentirà di spostarti al centro della piazza, dove uno Speaker’s Corner è stato allestito. Richiedi agli organizzatori il diritto di parlare per dodici minuti, la durata del tempo concesso a tutti. E affronta la folla stordita.

Dì loro che è giunto il momento per i greci di recuperare la nostra dignità perduta. Annuncia che il tuo governo non accetterà altri prestiti fino a quando la zona euro si rifiuterà di discutere la sua ristrutturazione istituzionale  e il suo orientamento politico lungo le linee di una serie di principi razionali. Proclama che il tuo governo, se necessario, procederà nell’ambito della zona euro, ma senza prestiti. Se qualcuno ti chiede quali sono i principi razionali su cui la zona euro deve essere rifondata, e come questo potrebbe essere realizzato in tempi brevi, conosci la risposta, l’abbiamo fornita nella Modesta Proposta. L’hai già studiata, ad ogni modo. Spiegala tu stesso al popolo riunito. E aggiungi che fino a che non si terrà un dibattito a Bruxelles su queste linee (linee che seri politici europei come JC Juncker e G. Tremonti hanno già illustrato), non accetterai un solo euro dei nostri partner. Afferma chiaramente che si domanda un dibattito sull’idea di Eurobond e sull’uso delle euro-obbligazioni, al fine di stimolare la Banca europea degli investimenti, per realizzare un New Deal per l’Europa.

Suggerisci che il EFSF dovrebbe ricapitalizzare le banche, invece di concedere prestiti agli Stati. Mostra al tuo popolo, e al mondo, che sai che esiste un’alternativa. Afferma a chiare lettere che fino a che fino a che questo dibattito non creerà nuove prospettive di crescita e la prosperità della zona euro, la Grecia farà quello che avrebbe dovuto fare da tanto tempo: vivere con i propri mezzi! E se ti chiedono di come si pagheranno i salari e le pensioni, rispondi che  ridurrai  lo stipendio più alto del settore pubblico al livello del secondo più grande e quindi entrambi a livello del terzo più grande e quindi questi tre al livello del quarto, e così via fino a  tutte le riduzioni necessarie siano effettuate fino a che  lo Stato greco non raggiunga il break evenAggiungi che porremo fine tutti i contratti della difesa fino a nuovo avviso. Che lo Stato greco farà tutto ciò che è necessario al fine di sopravvivere senza un euro di addizionali e costosi prestiti da parte della UE.

Man mano che ti avvicini alla fine del tuo discorso, alza la voce per dire che è assurdo che le stesse persone che accusano la Grecia di vivere col denaro preso in prestito stanno ora insistendo sul fatto che la Grecia umiliata e in bancarotta dovrebbe accettare molti miliardi in più di prestiti quando tutti sanno che sarà impossibile ripagarli. Concludi facendo un paragone con i maneggioni che, negli Stati Uniti, prima del 2008, costrinsero a costosi prestiti famiglie povere insolventi, ma che questa volta l’azione è rivolta contro un intero paese. Dichiara una volta per tutte che, come un cittadino europeo, e presidente della Internazionale socialista, non ti senti in diritto di firmare un altro contratto di finanziamento che mette a rischio non solo un piccolo paese del Mediterraneo, ma tutta la zona euro e, anche, l’idea di una Europa unita e democratica.

Alla fine, guarda in una delle telecamere puntate nella tua direzione da parte  del pubblico,  video  che presto troverà la sua strada su YouTube, guarda la sua lente e rivolgiti allo spettatore tedesco, in inglese, dicendo: ” E’ uno scandalo di primo grado che tu, tedesco che lavori sodo, dovresti fornire prestiti al mio governo che, tragicamente, sono costretto a non utilizzare per rinvigorire la nostra economia in crisi, ma per rimborsare le banche zombie che, pienamente consapevoli del loro stato terribile, si accaparrano i soldi, rifiutano prestiti alle imprese e, quindi, diventano buchi neri che assorbono le tue energie economiche, nello stesso momento in cui il tuo omologo greco soffre senza speranza per il futuro.”

A quel punto, un saluto rapido e raggiungi a piedi  la tua bicicletta parcheggiata. Per la prima volta in tanto tempo, non ti senti più solo. Avrai contribuito a un emozionante momento di democrazia partecipativa, la forma di democrazia che tu ed io abbiamo discusso  un bel po’ di volte, e sparso un sacco di inchiostro e sudore cercando di integrarla nella piattaforma del partito tanti anni fa. Piazza Syntagma, non può essere, come ai manifestanti sarebbe piaciuto, un luogo di democrazia diretta (cosa che richiede non solo la partecipazione ma anche reale potere esecutivo), ma, credo, costituisce una riedizione moderna di Agorà che calza come un guanto all’anti-autoritario George che conosco.

Ti aspetto stasera. Intorno alle 19 sarebbe bello!

PS. Ora che ci penso, forse è meglio non venire da solo. Perché non portare con sé (a patto di possedere una bici e voler partecipare) il tuo vecchio amico di college, Antonis Samaras (il leader dell’opposizione ufficiale). Fate a turni ad affrontare la folla, cantando più o meno dallo stesso libro di inni, facendo così la storia. Forse i nostri partner europei, non domandano consenso all’opposizione in questo momento cruciale? Diamogli quindi il consenso.

Yanis Varoufakis

http://www.melogranorosso.eu/index.php?option=com_content&view=article&id=169:lettera-aperta-al-primo-ministro-greco&catid=27:documenti&Itemid=313

Barcellona alla mercé di “Madrid ladrona” – che ne pensano i separatisti nostrani?

 

“Non abbiamo altra banca che voi”

la Catalogna chiede aiuto a Madrid

La seconda maggiore regione spagnola in termini di pil, seconda solo a quella che fa capo alla capitale Madrid, sta studiando le condizioni per chiedere un aiuto finanziario al governo centrale. In Spagna la crisi sembra aver messo in ginocchio proprio tutti, anche le autonomie che si ritenevano più forti e convinte di poter uscire dall’empasse sulle proprie gambe.

La Regione diventerebbe così la seconda dopo Valencia a domandare accesso al fondo da 18 miliardi di euro messo a disposizione dal governo di Madrid per soccorrere le amministrazioni locali in difficoltà e anche la piccola Murcia parrebbe in procinto di chiedere un salvataggio. Un “bailout” delle regioni non farebbe però che mettere ulteriore pressione su un Paese che gli investitori vedono ormai prossimo a dover chiedere aiuto all’Europa perché non più in grado di finanziarsi sui mercati.

http://www.repubblica.it/esteri/2012/07/24/news/non_abbiamo_altra_banca_che_voi_la_catalogna_chiede_aiuto_al_governo-39618032/?ref=HREA-1

La Catalogna sommersa dai debiti chiede aiuto al governo di Madrid. Cade la “Lombardia” spagnola

il portavoce del governo catalano, Francesc Homs, ha evitato di pronunciare la parola salvataggio. «Ancora non c’è la richiesta formale», ha provato a minimizzare. «Valuteremo tutti gli strumenti per la liquidità», ha aggiunto, senza specificare l’ammontare che sarà richiesto per evitare, già dal prossimo mese, la paralisi di servizi scolastici, sanitari o sociali per mancanza di fondi.

Due settimane fa la Generalitat ha dovuto indebitarsi per altri 500 milioni per pagare la quattordicesima ai 230.000 dipendenti pubblici regionali. E venerdì aveva comunicato di non poter garantire ad agosto il pagamento delle residenze degli anziani. I problemi finanziari delle comunità stanno trascinando il governo centrale nel baratro del salvataggio integrale dell’economia, al quale la stampa europea già pone cifre – 300 miliardi stimati da The Guardian, 400 dalla Faz. E lo stesso Fondo di liquidità potrebbe essere insufficiente, anche se la Commissione Europea, attraverso il portavoce Antonine Colombani, ha sostenuto oggi il contrario, sottolineando che «è completamente in linea con le raccomandazioni dell’esecutivo comunitario». Il debito in scadenza delle regioni è di 15,838 miliardi di euro da qui alla fine dell’anno, inclusi prestiti, linee di credito e titoli di debito. Oltre ad altri 15 miliardi di debito necessari a finanziare il deficit al tetto dell’1,5% del Pil imposto dallo Stato alle Comunità per quest’anno.

La Catalogna da sola ha debiti in scadenza per 7,182 miliardi di euro, secondo i dati del ministero delle Finanze, 3.912 miliardi solo nel secondo semestre, con un deficit pendente da finanziare di 2,967 miliardi. Ammontano invece a 2,885 miliardi i crediti che pendono sulla Comunità Valenciana, quasi il triplo di quelli che gravano sull’Andalusia (1,610 miliardi) e Madrid (1,344 miliardi), seguite da La Rioja (940 milioni) e Castilla-La Mancha (705 milioni), stando ai piani di riequilibrio finanziario presentati al governo. Tutte tessere del delicato puzzle delle autonomie costruito nella transizione dal franchismo, pronte a cadere sull’altare della recessione economica. Il ministro delle Finanze, Cristobal Montoro, oggi al Congresso ha applaudito alla richiesta di aiuti della Catalogna, della Comunità Valenciana e di Murcia: «È positivo dire la verità – ha sostenuto – Bisogna spiegare la realtà davanti alla quale si trovano i servizi e la stessa funzione pubblica». Una realtà drammatica, al punto che lo stesso Montoro oggi ha teso una mano al Psoe all’opposizione, che col leader Alfredo Perez Rubalcaba propone un accordo di unità nazionale per dare fiducia ai mercati, ridurre la pressione sulla Spagna ed evitare un salvataggio integrale dell’economia: «Abbiamo un progetto di austerità, di riduzione delle spese dei ministeri. E da quello dipende la ripresa economica» [AHAHAHAHAHAH un altro idiota/criminale, NdR], ha detto Montoro. Una ripresa che, però, secondo le previsioni dello stesso esecutivo, non ci sarà fino al 2014, con la disoccupazione al 25% per quest’anno e al 24,6% per il prossimo. E la riduzione del deficit a tappe forzate, che strangola l’economia [appunto! NdR].

http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/463508/

La regione, che vale circa il 18% del Pil nazionale (la Lombardia è al 20%, con un sesto della popolazione italiana), ha 13 miliardi di euro di debito pubblico da rifinanziare, oltre al deficit.

Nonostante gestisca il 50% dell’Irpef, il 50% dell’Iva ed il 60% delle imposte speciali raccolti a livello nazionale, ha un debito di oltre 30 miliardi di euro. Il quotidiano La Vanguardia di Barcellona ha calcolato che il debito regionale è aumentato del 244% negli ultimi 14 anni.

Se finora, le analisi economiche sono state focalizzate sul debito sovrano degli stati, poco si è detto sui debiti degli enti locali, che sono proporzionali a quelli degli stati.

La Spagna, a differenza dell’Italia, era già intervenuta con una riduzione media delle retribuzioni statali del 5% nel 2010, seguita da un congelamento nel 2011. Ma in Spagna la bolla immobiliare è già scoppiata, e la situazione è cupa; le banche spagnole stanno discutendo sulla creazione di una “bad bank”, dove infilare gli asset tossici, per alleviare la pressione sul settore finanziario del paese.

La settimana della passione spagnola prosegue con Bankia, la quarta maggior banca iberica che detiene circa il 10% del totale dei depositi del paese, ora ha chiesto aiuto al governo per 19 miliardi di euro (il doppio di quanto annunciato dal Ministro delle Finanze per affrontare le perdite che hanno causato il settore immobiliare, e circa 4 volte tanto il governo gli aveva già concesso non più tardi di poche settimane fa, nazionalizzandola). Bankia ha anche corretto i suoi conti precedenti, annunciando che nel 2011 ha avuto una perdita di 3 miliardi, al posto del guadagno dichiarato in precedenza.

E le agenzie di rating hanno abbassato il giudizio di affidabilità di cinque banche spagnole, in un rapporto che dipinge prospettive poco rosee, per l’economia iberica, passando a Junk (spazzatura) il giudizio sul debito dell’istituto di credito nato dalla fusione di sette banche regionali in difficoltà.

E’ vero che l’attenzione dei Leader dell’Europa si è finalmente spostata sulla crescita (l’altro misuratore del rapporto Debito/Pil) ma se non si interviene sulle rigide regole di Basilea, che hanno messo fuorigioco il credito delle banche e sul Fiscal Compact, che ipotizza parametri assurdi per paesi super indebitati come l’Italia, l’unica soluzione pare sia quella di continuare con la finanza perché il sistema è completamente indebitato.

http://www.finanzaelambrusco.it/finanza/1004-la-catalogna-e-bankia-incornano-la-spagna.html

 

http://ccaa.elpais.com/ccaa/2012/06/15/catalunya/1339763353_875974.html

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https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/07/22/contro-i-miti-etnici-alla-ricerca-di-un-alto-adige-diverso-un-libro-preveggente/

Il celebre economista Nouriel Roubini paventa un 2013 con banchieri impiccati ai lampioni e guerra mondiale in corso

Le mie previsioni non sembrano più così ardite.

«Una tempesta perfetta», con tanto di «banchieri impiccati per le strade». Se a parlare così fosse un minoritario militante extraparlamentare, quasi tutti alzerebbero le spalle sorridendo. Se a dirlo è «Mr. Doom», forse l’unico economista di statura globale che abbia capito per tempo cosa stava accadendo nel 2007, all’epoca dell’esplosione di una bollicina insignificante come i mutui subprime statunitensi, allora è tutta un’altra faccenda.

L’analisi di Nouriel Roubini è impietosa e senza vie d’uscita visibili. E certo non piacerà né a Monti né a Merkel. Ma centra il problema dei problemi.

«Nulla è cambiato dalla crisi finanziaria. Gli incentivi per le banche (la liquidità a piene mani garantita dalle banche centrali, ndr) permettono loro di agire in modo truffaldino, di fare cose illegali e immorali; l’unico modo per evitarlo è rompere questo grande supermercato finanziario».

Altro che codici di autoregolamentazione, istituti che debbono «riscrivere le regole»… Roubini ritiene che solo delle «sanzioni penali» avrebbero potuto fermare la folle ricostruzione del meccanismo che aveva prodotto la crisi del 2007. «Se alcune persone finiscono in carcere, forse sarà una lezione». Rabbioso, ma probabilmente inefficace e sgradito ai governanti. L’alternativa, avverte Roubini, è che «qualcuno verrà impiccato per le strade» [“If some people end up in jail, maybe that will teach a lesson to somebody – or somebody will hang in the streets”].

Il fatto è che ci ritroviamo al punto di partenza, nella stessa situazione del giorno prima del fallimento di Lehmann Brothers. E quindi «il 2013 sarà peggio del 2008» perché «oggi siamo a corto di contromisure». Di fatto: «nel 2008 si potevano tagliare i tassi di interesse», che oggi sono a zero quasi dappertutto. Allora e finora si poteva «immettere liquidità»; ma oggi «sta diventando sempre meno efficace perché il problema è di solvibilità, non di liquidità». I debitori non pagano, quindi la circolazione si ferma e il denaro resta in cassaforte. Infine gli stati non possono più salvare nessuno, perché «hanno disavanzi bilancio già troppo grandi» per colpa dei salvataggi di qualche anno fa. Diventa dunque impossibile tornare a «salvare le banche»; i governi sono «prossimi a essere insolventi», come la Grecia e, forse, la Spagna.

L’unica mossa di una certa efficacia per procrastinare l’esplosione globale sarebbe a disposizione della Bce, che dovrebbe fare «una monetizzazione non sterilizzata in quantità illimitata». Ma non è nel suo statuto, quindi le è vietato («costituzionalmente illegale»). Naturalmente Nouriel è un economista attento anche all’economia reale. Quindi aggiunge un elemento fin qui ignorato dagli opinionisti alla Giavazzi: «infine c’è il pericolo di una possibile guerra tra Israele, Stati uniti e Iran, che raddoppierebbe il prezzo del petrolio in una notte».

Bingo. Difficile sintetizzare meglio le molte ragioni per cui un sistema economico fondato sull’«avidità» individuale a scapito del benessere collettivo è «obbligato» ad esplodere «a grande velocità». Quando? Roubini è ottimista: «il fondo Efsf-Esm deve essere almeno quadruplicato; in caso contrario si avrà una crisi più grande non tra sei mesi, ma nelle prossime due settimane». Buone vacanze…

Francesco Piccioni

Fonte: www.ilmanifesto.it

10.07.2012

Le banche centrali sono diventate dei buchi neri

 

 

Il Pachistan deve capire che la nostra pazienza ha un limite. Gli imprenditori indiani non dovrebbero fare affari con la Russia. L’Unione Europea sarà completamente trasformata entro cinque anni, ma l’euro sopravvivrà.

George W. Bush, 9 novembre 2011

http://timesofindia.indiatimes.com/india/Chinas-No-1-target-is-the-US-next-is-India-Bush/articleshow/10664570.cms

Attorno ad ogni buco nero c’è quello che viene chiamato un orizzonte di eventi. È il punto oltre il quale non è più possibile tornare indietro. È difficile da notare, proprio come uno tsunami in mare aperto. Una leggera increspatura che non si nota finché non è passata. Lo stesso succede con i debiti. Anche in vaste quantità, il debito può essere relativamente innocuo. Ma oltre una certa soglia di accumulazione, le cose cambiano. La FED, la Banca del Giappone e la BCE hanno accumulato una tale massa di debiti, che ormai sono in procinto di convertirsi in buchi neri del debito. In altre parole, il debito che si sono accollate è così massiccio da essere gravitazionale, risucchiando qualsiasi debito e attività finanza, con una forza attrattiva sempre crescente.

Il problema è che le banche centrali hanno scelto di prestare a banche insolventi e alle nazioni che erano già in bancarotta, nel tentativo di salvare le loro banche, che a a tutti gli effetti non potevano essere salvate. Sperando di riuscire a far sembrare ragionevole la loro follia, le banche centrali hanno promesso a tutti che avrebbero accettato in garanzia dalle banche che ricevevano i loro prestiti solo i beni (asset) migliori.

La cosa non ha funzionato. Le banche non hanno reimmesso la liquidità sul mercato, non hanno contribuito a far ripartire l’economia, non hanno ricominciato a fidarsi l’una dell’altra. Questo perché le banche sanno che i loro “migliori beni” che si potevano offrire l’un l’altra come garanzia sono di qualità mediocre, anche perché, in teoria i bocconi prelibati spettavano alle banche centrali. Senza alcuna possibilità di ottenere dei prestiti orizzontalmente, le banche si sono dovute nuovamente rivolgersi alla sorelle maggiori, la BCE e la Fed. Poiché i beni migliori erano già stati dati in garanzia, i criteri sono diventati sempre più elastici e, dopo gli AAA [e sappiamo già quanto questi AAA possano essere fittizi, es. Lehman Brothers], si sono cominciati ad accettare anche i titoli di nazioni in difficoltà. Poi è stata la volta di tutto ciò che era a portata di mano. Il che, comprensibilmente, ha reso il ‘mercato’, ossia le altre banche, sempre più riluttanti ad accettare come garanzia quello che era rimasto. E così via, in un circolo vizioso che tra austerità e contrazione delle economie nazionali sta deteriorando ulteriormente il valore di queste garanzie. E lo sanno tutti. L’Irlanda è in recessione, l’economia della Spagna si sta contraendo e così quella del Portogallo. E lo spread s’impenna. [La stampa italiana esulta per uno spread tra i 300 ed i 350 punti base, quando fino a pochi mesi fa eravamo a 180].

Il risultato è che le banche private hanno già promesso in garanzia tutto quel che di buono avevano. Non si presteranno a vicenda alcunché, perché sanno benissimo che nessuna ha a disposizione qualcosa di valore. Ogni nuovo giro di prestiti dalla banca centrale comporta il risucchiamento di titoli tossici e l’affossamento di ogni possibilità di ristabilire un minimo di fiducia. In pratica, le banche centrali hanno inghiottito il mercato. Tutti i debiti e debitori stanno per essere assorbiti e nessuno sfuggirà, perché questi stessi beni sono stati usati come garanzia (“ri-ipotecati”) più volte, di banca in banca, fino alle banche centrali. Una catena che, ad un certo punto, innescherà un effetto-domino.

Fonte

http://www.golemxiv.co.uk/2012/03/the-ecb-swallowed-the-market/#comments

Le cause della Rivoluzione in Europa – L’hanno fatto una volta, lo rifaranno ancora

All’improvviso è lì, l’ospite di un altro mondo. Potrebbe venire tra mille anni, o anche domani. Che cosa faremo allora? Come ci proteggeremo da noi stessi, se assumerà ancora una volta la forma di un essere umano – uno che ovviamente non rassomiglierà per nulla ad Hitler, ma che potrebbe ad esempio essere calvo, con una lunga barba ed una voce paterna? Oppure giovane e in forma, dall’aspetto sveglio ed irresistibile? […]. Sedurrà la gente dalla testa ai piedi, come fece Hitler, e non solo la testa come fa il marxismo, o la pancia come fa il capitalismo. Gli crederanno, come credono in un dio, e saranno disposti a morire per lui, al fianco delle sue vittime, sentendosi finalmente vivi.

Harry Mulisch, “Criminal Case 40/61, the Trial of Adolf Eichmann An Eyewitness Account”, 2005, pp. 149-150.

L’hanno fatto in passato e probabilmente lo rifaranno anche in futuro.

Robert Servatius, avvocato difensore di Adolf Eichmann.

Quali furono le cause del contagio rivoluzionario che attraversò l’Europa nel corso del 2012?

Erano già state individuate in un oscuro e prezioso libricino, pubblicato proprio all’inizio dell’anno da Vladimiro Giacché, economista e giornalista del Fatto Quotidiano.

S’intitolava “Titanic-Europa: la crisi che non ci hanno raccontato” e fu, naturalmente, ignorato dai media ufficiali. Fu il passaparola degli internauti a decretarne il meritato successo.

Ecco una sintesi dei punti-chiave.

CAUSE DELLA CRISI

Il settore edilizio statunitense era in affanno già dal 2005 per un eccesso di offerta che non era compensato dalle facilitazioni creditizie. Risultato: cittadini indebitati, crollo del valore degli immobili, crisi dei mutui subprime. Questi sono poi cartolarizzati, ossia trasformati in titoli obbligazionari per essere rivenduti a banche e fondi di investimento per coprire fittiziamente le insolvenze, come nelle scatole cinesi. La montagna di liquidità si rivela essere un’illusione, consistendo in realtà in una montagna di debiti.

A questo proposito, Giacché segnala che i debiti della banche sono superiori a quelli delle famiglie, negli USA ed in molti altri paesi.

Per questo le banche hanno stretto i cordoni della borsa, causando un congelamento degli investimenti.

PERCHÉ IL RUOLO DELLA FINANZA È DIVENTATO COSÌ PROMINENTE?

L’ipertrofia finanziaria è l’inevitabile conseguenza della diminuzione della crescita dell’economia mondiale.

Tra 1973 e 2008 il tasso di crescita è di poco superiore alla metà di quello registrato tra 1950 e 1973. Senza includere la Cina equivarrebbe ad un terzo.

I profitti si dimezzano in Germania, Francia e Italia, tra gli anni Sessanta e i primi anni del terzo millennio.

Nel 2009 Marchionne rivela che il mercato assorbe solo 2/3 delle auto prodotte. Ossia, ogni anno, si fabbricano 30 milioni di auto invendibili. Nel 2002 erano 22 milioni (fonte: Wall Street Journal). Le case automobilistiche sopravvivono solo grazie agli aiuti di stato. Lo stesso Marchionne infatti aggiunge che “le autovetture finanziate in Europa sono 3 su 4”. Alla faccia del liberismo!

La finanza è la via di fuga dal rallentamento dell’economia, ma comporta un’impressionante crescita del debito e la moltiplicazione delle crisi: tra 1945 e 1971 non si verifica nessuna crisi finanziaria. Tra 1975 e 2010, ce ne sono 160 (e 54 crisi bancarie).

Negli anni Novanta scoppia la bolla finanziaria giapponese e comincia la sua stagnazione che, salvo brevi intervalli dovuti alla crescita cinese, dura ancora oggi.

Nel marzo del 2001 scoppia la bolla della New Economy e la recessione colpisce gli Stati Uniti. I profitti delle prime 500 imprese dell’indice di Standard & Poor’s nel secondo trimestre del 2001 erano calati mediamente del 60%. Il 10 settembre la Banca dei Regolamenti Internazionali certifica che la recessione riguarda l’economia globale.

Apro una parentesi sulla BRI: “I poteri del capitalismo finanziario avevano un obiettivo più ampio, niente meno che la creazione di un sistema globale di controllo finanziario in mani private in grado di dominare il sistema politico di ciascuna nazione e l’economia mondiale nel suo complesso. Questo sistema andava controllato in stile feudale dalle banche centrali di tutto il mondo, agendo di concerto, per mezzo di accordi segreti raggiunti in frequenti incontri privati e conferenze. Al culmine della piramide ci doveva essere l’elvetica Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) di Basilea, una banca privata posseduta e controllata dalle banche centrali mondiali che a loro volta erano imprese private…non bisogna immaginare che questi dirigenti della principali banche centrali del mondo fossero loro stessi dei ragguardevoli potenti nel mondo della finanza. Non lo erano. Erano piuttosto dei tecnici e gli agenti dei massimi banchieri commerciali delle loro rispettive nazioni, che li avevano allevati ed erano perfettamente capaci di liberarsene…e che rimanevano in gran parte dietro le quinte…Questi costituivano un sistema di cooperazione internazionale e di egemonia nazionale più privato, più potente e più segreto di quello dei loro agenti nelle banche centrali. Il dominio dei banchieri commerciali era fondato sul controllo dei flussi di credito e dei fondi di investimento nelle loro nazioni e nel mondo….potevano dominare i governi attraverso il controllo dei debiti nazionali e dei cambi. Quasi tutto questo potere era esercitato dall’influenza personale e dal prestigio di uomini che in passato avevano dimostrato la capacità di portare a compimento con successo dei golpe finanziari, di mantenere la parola data, di mantenere la mente fredda nelle crisi e di condividere le loro opportunità più vantaggiose con i loro associati”. Lo scrive Carroll Quigley – docente di storia, scienze politiche e geopolitica a Princeton, Harvard e Georgetown, una delle massime autorità mondiali del suo tempo nel suo campo e mentore del giovane Bill Clinton, quando era uno studente universitario – in “Tragedy and Hope: A History of the World in Our Time” (New York: Macmillan, 1966).

http://www.scribd.com/doc/71732657/Carroll-Quigley-Tragedy-and-Hope-2011-Ed

Chiusa parentesi.

Il mondo si salva dalla crisi che scoppierà nel 2008 solo grazie all’11 settembre. Nel novembre del 2001 la recessione ha termine.

Le imprese cercano di sfuggire alla contrazione dei profitti attraverso le attività finanziarie (la quota dei profitti generati in questo modo arriva al 40% del totale nel 2007), pretendendo (ed ottenendo) una marcata riduzione del carico fiscale, ma anche congelando o riducendo i salari.

Per questo, nel 2007 i lavoratori si ritrovano con un tenore di vita pari a quello del 1970. Se non se ne sono accorti è stato perché le banche hanno concesso prestiti agevolati e mutui ad alto rischio. Se vivono meglio è perché si indebitano di più. Si realizza il sogno del capitalista: i lavoratori guadagnano di meno ma consumano di più!

Nel 2007 il tasso di indebitamento in rapporto al reddito disponibile è del 176% in Irlanda, 145% nel Regno Unito, 138% negli Stati Uniti, 123% in Canada, 115% in Spagna

La cosa ha funzionato finché il valore degli immobili continuava a crescere e restava salda la percezione che la tendenza sarebbe continuata. Da 5 anni questo credenza si è infranta.

Successivamente, la retorica del libero mercato ha lasciato il posto agli aiuti di stato per “il salvataggio dei mercati” (Ben Bernanke).

Così, tra autunno 2008 e primavera 2009, almeno la metà delle 20 maggiori banche mondiali riceve un sostegno governativo diretto. Fino al giugno del 2009 il sistema bancario riceve, nel complesso, 14mila miliardi di dollari (equivalenti al colossale debito degli Stati Uniti!!!). Ora le autorità monetarie e i governanti europei ci spiegano che sono stati i cittadini comuni a vivere al di sopra delle proprie possibilità. D’improvviso, le nazionalizzazioni di Northern Rock, Royal Bank of Scotland e Dexia sono diventate un aspetto marginalissimo della questione.

I dati indicano, invece, che si è verificato “un gigantesco trasferimento del debito privato nel debito pubblico, ossia a una semplice socializzazione delle perdite” (Giacché, p. 43). Senza che peraltro si sia provveduto ad introdurre regole per evitare che questi eventi si ripetano. Non è per caso che il mercato dei derivati abbia toccato livelli record.

Contemporaneamente, le banche usano i soldi ricevuti non per risanarsi e concedere prestiti ai cittadini (rilanciando l’economia), ma per investire nei titoli di stato, i cui rendimenti sono superiori al tasso d’interesse a cui hanno ricevuto i prestiti dalle banche centrali.

 

IL PROBLEMA DEL DEBITO

Il debito complessivo, nel 2011, è pari al 310% del PIL mondiale.

Il governo italiano interviene con 30 miliardi annui di incentivi pubblici.

Chi paga? Per circa il 70% del totale i lavoratori dipendenti, in Germania come in Italia.

Così, dal 2007 al 2010 l’indebitamento della Germania cresce del 30%.

Quali sono le nazioni più indebitate?

In termini assoluti, gli Stati Uniti (oltre 14mila miliardi di dollari di debito e un deficit annuale di 1.300 miliardi di dollari).

In rapporto al PIL, il Giappone (229% contro il 120% italiano). Per ripagare il suo debito il Giappone dovrebbe devolvere tutte le sue entrate annue per vent’anni!

Se invece sommiamo debito pubblico e debito privato, vince la Gran Bretagna: già nel 2008 aveva raggiunto il 469% del PIL. Al secondo posto il Giappone (459%), Spagna (342%), Francia (308%), Italia (298%). Il Regno Unito manterrà o allargherà verosimilmente questo margine di vantaggio, dato che il suo deficit statale era del 10,4% nel 2010 e dell’11,7% nel 2011. Quello statunitense ha raggiunto la soglia del 10% del PIL. Gli USA sono una nazione allo stremo:

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/30/la-zombificazione-degli-stati-uniti-e-pensano-di-potersi-permettere-unaltra-guerra/#axzz1od3sL7a5

che, nel 2010, ha dedicato il 20% delle sue spese alle forze armate. Con Obama si è raggiunto il 5% del PIL, superiore a quello dell’amministrazione Bush. Gli Stati Uniti non hanno mai speso così tanto per la voce armamenti dal tempo della fine della Seconda Guerra Mondiale. Intanto l’aspettativa di vita dei suoi cittadini li colloca ad un miserevole 37º posto nel mondo e le tasse sulle imprese sono pari a ¼ di quelle pagate dai cittadini (durante la Grande Depressione il rapporto era 1:1 e durante la Seconda Guerra Mondiale le imprese pagavano il 50% in più). Nel 2010 la General Electric non ha pagato un dollaro di tasse negli Stati Uniti. Il calo dei redditi è stato del 3,2% tra 2007 e 2009 e del 6,7% tra 2009 e 2011.

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/13/the-big-squeeze-us-and-uk-income-drop-2002-2013/

Ho già descritto altrove la crisi del debito eurozona:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/02/16/basta-prendersela-coi-tedeschi-siamo-tutti-sulla-stessa-barca/

I lavoratori tedeschi hanno già subito molto, avendo perso il 4,5% del salario in termini reali (al netto dell’inflazione) dopo l’introduzione dell’euro. In nessun altro paese dell’eurozona si è registrata una diminuzione paragonabile a questa.

MENZOGNE SUI PIIGS E L’EURO:

Lavorano troppo poco: prima della crisi i Greci lavoravano in media 44,3 ore in settimana, contro una media europea di 41,7 e quella tedesca di 41 ore;

Sono sempre in ferie: avevano 23 giorni di vacanze contro i 30 dei Tedeschi;

Hanno stipendi eccessivi: ricevevano il 73% del salario medio dell’eurozona e gli insegnanti erano pagati il 40% in meno che in Germania;

Pensioni d’oro e pensioni baby: andavano in pensione dopo i Tedeschi e ricevevano il 55% della media del’eurozona;

Il grande problema di Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e, in misura minore ma sostanziale, Italia e Francia, è che all’ingresso nell’eurozona è corrisposta la deindustrializzazione. Nessuno di questi paesi poteva competere con la Germania senza svalutare (la dracma era stata svalutata del 45% rispetto al marco nel decennio precedente all’introduzione dell’euro). Così le esportazioni tedesche verso la Grecia sono aumentate a dismisura, tra il 47% ed il 94% a seconda dei settori.

Ciò nonostante, la Grecia non se la stava cavano male, fino al 2008. Poi si è trovata a dover salvare le due maggiori banche private del Paese. Questo ha fatto esplodere il deficit, che è passato da un ATTIVO del 2,9% nel 2006 ad un passivo del 32% nel 2010.

Dal 2010 le misure di austerità dei governi greci hanno ridotto il reddito dei Greci del 20%. Il conseguente crollo dei consumi e degli investimenti ha fatto esplodere il rapporto debito/PIL, che potrebbe arrivare al 180% nel 2012. Il deficit ha superato il 10% nel 2010.

Se, nel 2010, le autorità europee avessero speso 167 miliardi di euro per riportare il debito greco sotto controllo, all’80% del PIL, pari a quello tedesco, si sarebbe evitato questo buco nero. Quella stessa cifra è stata però spesa nel 2008-2009 per salvare Bank of America, Royal Bank of Scotland, Ing e Goldman Sachs.

Non contenti di aver fallito con la Grecia, gli eurocrati hanno applicato le stesse “terapie” alle altre nazioni, ad esempio in Irlanda per salvare le banche tedesche e britanniche (esposte rispettivamente per 184 e 188 miliardi di euro). L’Italia, che aveva un debito pubblico sotto controllo ed il più grande avanzo primario cumulato dell’intero Occidente, è stata (è) un’altra vittima: “il buco è stato colmato con l’IVA…un’imposta regressiva: le tasse indirette infatti colpiscono i poveri più dei ricchi, e questo perché la proporzione del reddito speso in beni di consumo è maggiore per gli stupendi bassi che per quelli alti” (p. 103-104).

Anche la Francia è a rischio. Il debito è cresciuto di quasi il 28% tra 2007 e 2010 e la bilancia commerciale ha un disavanzo annuo di oltre 100 miliardi di euro.

IN PRINCIPIO ERA HITLER (NELLA MIGLIORE DELLE IPOTESI, LA DIRIGENZA EUROPEA È COMPOSTA DA FANATICI)

Nouriel Roubini dixit: “come negli anni trenta, stagnazione prolungata, depressione, guerre valutarie e commerciali, controlli sui capitali, crisi finanziaria, insolvenze dei debiti sovrani e grande instabilità sociale e politica”.

Dylan Grice, analista di Société Génerale, osserva che sono state le politiche deflazionistiche del cancelliere Brüning a far balzare la disoccupazione al 30%, regalando milioni di voti ai nazisti.

Giacché cita lo storico dell’economia Derek Aldcroft: “Per tutta la seconda metà del 1930 e del 1931 la situazione economica si deteriorò costantemente ovunque. Con la caduta dei redditi il bilancio statale e i conti con l’estero divennero squilibrati e la prima reazione dei governi fu quella di varare provvedimenti deflazionistici, che non fecero che peggiorare le cose”.

Si associa ed aggiunge: “Quello che allora ne seguì è noto: ascesa al potere di Hitler, guerre valutarie, protezionismo e guerre commerciali, e infine la seconda guerra mondiale. Fu quest’ultima a risolvere la crisi, uccidendo oltre 50 milioni di persone e distruggendo capitali e forze produttive in misura senza precedenti per la storia dell’umanità” (pp. 130-131).

Cosa succederà? “Il processo di rientro dai deficit pubblici sta aggravando la crisi della domanda interna…siccome il settore privato sta già diminuendo i propri investimenti a causa della crisi, la forte diminuzione anche degli investimenti pubblici non farà che peggiorare la situazione. Non solo. Siccome questi risparmi sono attuati contemporaneamente in tutti i Paesi europei, e siccome il mercato europeo è fortemente integrato e interconnesso…la crisi della domanda interna diventa immediatamente crisi dell’export reciproco” (p. 133).

Repetita iuvant: “La razionalità dei mercati, lo Stato che deve dimagrire, la necessità delle privatizzazioni, le liberalizzazioni come toccasana per la crescita, la deregolamentazione del mercato del lavoro come ingrediente essenziale contro la disoccupazione: praticamente nessuno di quei luoghi comuni, che proprio la crisi scoppiata nel 2007 si è incaricata di smentire clamorosamente, ci viene risparmiato…si tratta di un fenomeno evidentissimo a chiunque provi a ragionare con la propria testa su quanto sta accadendo, senza farsi intrappolare dai cliché e dalla frasi vuote sull’argomento” (pp. 138-139).

I governanti europei sono colpevoli di crimini contro l’umanità: “bisogna avere il coraggio di dire che il raddoppio in tre anni del livello di suicidi in Grecia non è un effetto collaterale “naturale” della crisi, ma un vero e proprio crimine che ha mandanti ed esecutori” (p. 140).

I governanti europei sono nemici della democrazia: “Chi avrebbe detto che proprio quell’Europa che pretende di insegnare la democrazia a tutto il mondo, e talvolta di esportarla con i bombardieri, avrebbe impedito a un governo di organizzare un referendum popolare sulle misure di austerity da assumere come è avvenuto in Grecia? Chi avrebbe mai considerato normale che l’esito delle elezioni in Portogallo fosse ritenuto irrilevante, perché comunque il programma da seguire era già stato scritto a Bruxelles e a Francoforte? E che dire dell’Italia, dove si è ritenuto un atto di alta responsabilità nazionale impedire che si andasse alle elezioni anticipate dopo il catastrofico fallimento di un governo, oltretutto ormai privo di maggioranza parlamentare? In questi anni in Europa è successo letteralmente di tutto. La guida di fatto dell’unione Europea assegnata a Francia e Germania senza che questo sia previsto da nessun Trattato. Una Banca Centrale Europea che non può fare il prestatore di ultima istanza perché i Trattati le legano le mani, ma che in compenso manda lettera minatorie a governi di Paesi sovrani, dettando il proprio programma di governo (per giunta sbagliato). Parlamenti ricattati e costretti a votare l’inserimento in Costituzione di norme assurde e controproducenti come il vincolo del pareggio di bilancio. Tutto ciò mentre l’Europa degli accordi intergovernativi si adopera per modificare (in peggio) i Trattati esistenti facendo accuratamente in modo che nessun popolo europeo possa esprimersi con il voto su di essi” (p. 157).

La spada di Damocle sospesa sull’Italia: “La regola delirante della dimunizione del debito in ragione di 1/20 all’anno della quota che eccede il 60% del PIL resta appesa come una spada di Damocle sulle nostre teste: se applicata alla lettera essa comporterà per il nostro Paese manovre correttive annue da 50 miliardi di euro per 20 anni. Nietne paura, comunque: con i tassi d’interesse attuali, andremo in default molto prima” (p. 160).

La spada di Damocle sospesa su UK, USA e Giappone: “il contagio della crisi del debito sovrano difficilmente lascerà indenni tre grandi debitori pubblici quali il Regno Unito, gli Stati Uniti e il Giappone. In particolare la situazione del Regno Unito sarà aggravata dall’entità abnorme del debito delle banche che va aggiungendo a quello pubblico” (p. 160).

Rivoluzione o distruzione: “Ma davvero non c’è via d’uscita? È davvero un destino ineluttabile che una classe dirigente inadeguata riesca a provocare tutto questo? Forse no. Se il timoniere non vuole cambiare idee e rotta, resta pur sempre un’altra possibilità: cambiare il timoniere” (p. 161).

“La Grecia è salva” – Le ultime parole famose di Massimo Giannini

Le potete leggere su Affari & Finanza di oggi, 12 marzo 2012.
Un editoriale che si rivelerà imbarazzante per il direttore del supplemento di Repubblica del lunedì che, inspiegabilmente, è stato affidato ad un laureato in giurisprudenza. E si vede!

Tre analisi che vanno oltre la retorica ufficiale che ha imbambolato Giannini.

“Stiamo tenendo il fiato per l’esito di un programma complesso e incerto, che a tutto servirà tranne che a risolvere il problema dell’economia greca e neppure di quella europea. Già circolano stime secondo cui non solo la Grecia, ma anche il Portogallo avranno presto bisogno di un altro ciclo di interventi, sempre spacciati per “aiuti” perché è bello far leva su sentimenti nobili.  Perchè allora montare un meccanismo così complesso? Semplicemente, per consentire alla Grecia di coprire il suo fabbisogno finanziario fino al 2014, senza ricorrere al mercato. Come ha documentato il Sole 24 Ore, con 176 miliardi (cioè con i 130 attuali e il completamento dei fondi stanziati nel 2011), la Grecia sarebbe in grado di fronteggiare tutti i suoi impegni del triennio, compresa una ricapitalizzazione delle banche per 50 miliardi. E dopo? È difficile pensare che ci si aspetti che a quel punto la Grecia sia risanata e i sottoscrittori privati di titoli accorrano nuovamente festanti.

Lo stesso Financial Times ha scritto che il governo greco sta tagliando il ramo su cui è seduto. È più probabile che ci si attenda che a quel punto l’economia europea e il suo sistema bancario siano più robusti e in grado di assorbire meglio l’impatto di un evento traumatico collegato alla Grecia o a qualche altro piccolo paese periferico. Dimenticando però di avviare le riforme necessarie per mettere sotto controllo i settori del credito (come i derivati e in particolare quelli sul rischio di credito) che oggi fanno tanto paura proprio perché totalmente sconosciuti e incontrollati. Perché fra tre anni dovrebbero fare meno paura, se continueranno a operare come oggi? Poiché la politica europea non è in grado di prendere decisioni se non quelle del rigore fiscale e poiché di regolamentare più rigidamente le banche non si parla più, va quindi bene a tutti di spostare un po’ in là nel tempo il problema del debito greco e lasciare che la Bce con interventi eccezionali inondi di liquidità il mercato per favorire le banche nell’immediato e attendere che queste sostengano una ripresa economica ancora di là da venire. Qui non è questione di essere ottimisti o pessimisti, è proprio il gioco del dare e dell’avere che non torna”.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/03/09/grecia-chiamateli-aiuti/196311/

*****

“Insomma, la Grecia ha fatto default sul 105 miliardi di euro, ma ha aggiunto nuovo debito per 172 miliardi – nuovi prestiti di Ue e Fmi – oltre ai 107 di debito garantito e debitamente “nascosto” finora: dopo lo swap, quindi, Atene si è caricata di 279 miliardi tra nuovo debito e debito non contabilizzato! E sapete perché non era contabilizzato? Perché non era “in nome della Repubblica di Grecia”, ma “garantito dalla Repubblica di Grecia”! Ah beh, gran bella differenza! Quattro domandine quattro, per concludere. La Grecia, al netto dei prestiti di Fmi e Ue, ha un debito maggiore o minore dopo lo swap e il default selettivo? Come pagherà la Grecia quei 107 miliardi di dollari di debito garantito (scattando i cds, non ci sono storie, né dispute nominalistiche da fare)? Se la ragione dell’intero pacchetto di misure per la Grecia era riportare la ratio debito/Pil al 120%, creare maggiore debito è la strada giusta e fiscalmente possibile? Non sarà che l’unica ragione dell’intero programma, invece, era soltanto quella di proteggere le banche europee esposte alla Grecia? Provate a darvi una risposta e vedrete con occhi diversi la pantomima che si terrà oggi e domani, ovvero l’Eurogruppo e l’Ecofin che si riuniranno per decidere lo sblocco dei 130 miliardi di nuovi aiuti”.

http://www.rischiocalcolato.it/2012/03/e-ora-spunta-un-debito-nascosto-della-grecia.html

*****

“So, Greece defaulted. In the beginning, May 2010 to be precise, Europe and the IMF put up the largest loan in history supposedly to avert any kind of debt restructuring.  Then, when by the summer of 2011 it had become clear that debt restructuring was unavoidable, Europe embarked on ten months of navel gazing and a series of odd negotiations in order to effect the type of debt restructuring that would not, we were told, trigger CDS contracts. This week the default occurred and the CDS contracts were triggered. In terms of the troika’s own criteria, this was a spectacular failure to meet both targets”.

http://yanisvaroufakis.eu/2012/03/12/what-was-it-all-for-the-latest-greek-bailout-psi-in-the-morning-afters-cold-light/

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