Maiali, zingari, cicale e formiche nella fattoria degli animali europea

Se riprendiamo in mano i giornali tedeschi o olandesi della seconda metà degli anni Novanta, quando si dibatteva del diritto di questo o quello Stato di entrare nell’euro, vi troviamo gli stessi stereotipi che corrono di nuovo oggi, sull’onda della crisi partita dalla Grecia: PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna = maiali), Club Med e altre simpatiche definizioni di stampo antropologico. Categorie irrazionali ma potentemente radicate nelle opinioni pubbliche e nelle élite, che illustrano il presunto carattere dei vari popoli, echeggiando le teorie di Schumpeter sulla cultura monetaria come espressione della cultura nazionale. Quindici anni dopo, senza dracma né peseta né lira ma con l’euro in mano, siamo ancora a questo genere di polemica etnomonetaria. Un razzismo soft. Alla faccia dell’ affratellamento europeo che l’euro avrebbe inevitabilmente generato.

Lucio Caracciolo, “L’Europa è finita?”, 2010

Nessuno ha raccontato ai tedeschi che molte delle misure adottate sinora non servivano per salvare i “fannulloni” greci o spagnoli ma per salvare i sistemi bancari tedesco e francese (che detenevano molti titoli di questi paesi, ndr). Molti dei finanziamenti alla Grecia non sono mai arrivati ad Atene, hanno semplicemente fatto un giro da Francoforte a Francoforte.

Giovanni Dosi, economista della Scuola Superiore Sant’Anna e collaboratore del premio Nobel Joseph Stiglitz alla Columbia University, 28 luglio 2012

I sondaggi dell’eurobarometro indicano che tra l’autunno del 2009 e la primavera del 2012 la fiducia nelle istituzioni europee è crollata dal 48% al 31%; quella nei governi e parlamenti nazionali è al 28%. È utile rilevare che il presidente meno amato della storia americana, George W. Bush, non è mai sceso sotto il 33% nel livello di fiducia tra i cittadini statunitensi. Nell’Europa del dopoguerra non si è mai registrata una crisi di legittimità così imponente. Solo il 52% dei cittadini europei difende l’euro e il 51% sente che la distanza dai cittadini degli altri paesi dell’Unione Europea sta continuando a crescere, invece di diminuire. È assai probabile che questa crescente distanza sia dovuta ad una serie di errate percezioni delle cause e della natura della crisi dell’eurozona.

Lo scrittore e giornalista austriaco Robert Misik, in un articolo pubblicato dalla Tageszeitung il 12 luglio del 2012 (“A ranghi serrati dietro la cancelliera”) denunciava la litania di stereotipi, luoghi comuni, frasi fatte e scorciatoie logiche che imperversavano sui media di lingua tedesca influenzando pesantemente la comprensione della crisi tra i cittadini di lingua tedesca ed alimentando sfiducia, paura, rancore, risentimento e sentimenti razzisti.

È opportuno fare chiarezza in merito e ristabilire la verità perché non è sulle interpretazioni di comodo che tirano acqua al proprio mulino che si fa buona politica.

Anche gli economisti Massimo D’Angelillo e Leonardo Paggi (cf. “Deutschland, Deutschland …Über Alles”, in “Oltre l’austerità”, 2012) si sono domandati come sia possibile che sui media tedeschi la pretesa lassitudine degli Europei meridionali abbia finito per eclissare le responsabilità dei mercati finanziari nella creazione della bolla e nel convogliamento delle risorse pubbliche degli stati europei verso il salvataggio di banche improvvide? E, non secondariamente, come sia possibile che il tracollo verticale dell’economia greca, la disoccupazione di massa, l’aumento dei suicidi, l’implosione del sistema sanitario nazionale, le centinaia di migliaia di bambini denutriti in un paese con meno di 11 milioni di abitanti, la forte crescita dei neonazisti greci, la redistribuzione concentrativa delle ricchezze greche nelle mani di pochi capitali privati greci e stranieri che hanno lucrato sulle privatizzazioni siano considerati effetti indesiderati ma necessari di misure peraltro giudicate ancora insufficienti?

Uno dei massimi esperti di geopolitica in Italia, Lucio Caracciolo (“La guerra virtuale dell’Eurozona”, Limes 6/11) ha puntato il dito contro gli architetti dell’eurozona, che hanno più o meno consapevolmente indebolito le fondamenta dell’Unione Europea, imponendo una camicia di forza monetaria a nazioni sensibilmente diverse per cultura e storia fiscale, vocazioni e strutture economiche, dinamiche sociali e demografiche, in omaggio ad una peculiare concezione della valuta, cara a Joseph Schumpeter, secondo il quale la moneta esprime quel che un popolo vuole, compie, soffre, è; “la spiritualità della moneta: per noi latini, un concetto avvolto nelle nebbie nibelungiche”, è il commento sardonico di Caracciolo.

Se le cose stessero così, non si capirebbero come mai nel 2000 l’economia tedesca sia stata salvata da un gigantesco bail-out da parte della Banca Centrale Europea, in seguito all’esplosione della bolla speculativa precedente, quella della cosiddetta “New Economy” (cf. Richard Koo, capo-economista dell’Istituto di Ricerca Nomura, la più grande agenzia di consulenza giapponese nel settore IT, intervistato da Joe Weisenthal, Business Insider, 19 giugno 2012).

Inoltre, la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) ha certificato che la Germania e la Grecia hanno ricevuto lo stesso sostegno finanziario nel corso della crisi, almeno fino al 2012:

Nei milioni di parole scritte sulla crisi del debito in Europa, la Germania è in genere presentata come l’adulto responsabile e la Grecia come il figliol prodigo. La prudente Germania, dice la storia, è riluttante a salvare la Grecia scroccona, che ha preso in prestito più di quanto poteva permettersi e ora deve subire le conseguenze. Vi sorprenderebbe sapere che in Europa i contribuenti hanno fornito alla Germania lo stesso sostegno finanziario offerto alla Grecia? Lo suggerisce un esame dei flussi monetari Europei e dei bilanci delle banche centrali (Bloomberg, “Hey, Germany: You Got a Bailout, Too”, 24 maggio 2012).

Nonostante questo, l’ideologia che domina la percezione di questa crisi è che ci sono nazioni spericolate e dissolute e nazioni prudenti ed efficienti, popolate da cittadini rigorosi, puntuali e precisi. La ripetizione di questo mantra è quasi nauseante nella sua monotonia e sorvola sul fatto che le nazioni prudenti sono anche quelle che hanno continuato a prestare soldi alle nazioni imprudenti e che alcune delle loro maggiori banche si sono comportate a dir poco temerariamente e continuano a farlo, come se nulla fosse. Ma ai mercati conviene che faccia presa una nozione di colpa storica, di stampo razziale, un revival della dottrina del Volksgeist e di quella dei malati contagiosi che vanno messi in quarantena. È nella natura del capitalismo creare polarizzazioni che consentano di massimizzare i profitti di una parte a spese delle altre. Diversamente, non potrebbe auto-perpetuarsi e crescere.

Poco importa se questa propaganda, che sarebbe stata inconcepibile fino al 2008, renda impossibile un’ulteriore integrazione europea e metta i popoli gli uni contro gli altri. I media ed i politici euro-americani non si sono lasciati frenare dalle inibizioni del politicamente corretto ed hanno dato fondo alla retorica nordista di una presunta superiorità culturale rispetto al sud, esaltando l’azione salvifica di Germania, Olanda, Danimarca e Finlandia ed invocando la rieducazione dei popoli del sud alla scuola stoica, puritana ed innovatrice del nord (neoliberista, con un deciso voltafaccia rispetto alla tradizione socialdemocratica). Contemporaneamente politici e media del Sud, invece di descrivere la realtà in maniera più obiettiva, non hanno mancato di invitare all’emulazione, anche quando questa sfociava in un discutibile servilismo. Così 130 milioni di sudisti si sono sentiti etichettare come pigri, scialacquatori, corrotti, inefficienti, improduttivi, non sufficientemente ambiziosi ed industriosi, maiali (PIGS, oppure GIPSI, cioè a dire “zingari”) che si affollano intorno alla mangiatoia europea. Il Nord è ragionevole, ligio alle regole, rispettoso della legge, obiettivo, neutrale, disciplinato, attento. Il Sud è irrequieto, insofferente a regole e disciplina, soggettivo, parziale, emotivo, impetuoso. Questo ha creato una massiccia frattura psicologica tra nord e sud, con i sudisti costretti a riesaminare il loro ruolo e status in seno alla famiglia europea.

L’eurozona non è divisa tra formiche nordiche e cicale meridionali. Cicale e formiche si trovano a nord, come a sud. Le formiche hanno lavorato duramente senza sapere che su di loro incombeva una crisi che avrebbe permesso alle cicale di privatizzare i profitti e socializzare le perdite, mettendo alcune formiche contro le altre ed accumulando ricchezze nei paradisi fiscali. Non è difficile immaginare come mai milioni di Greci onesti, sentendosi accusare dai Tedeschi di essere disonesti, corrotti, dissipatori, imprevidenti, ecc. abbiano finito per riesumare i terribili ricordi dell’occupazione nazista, cadendo nell’altrettanto infelice trappola del più vieto stereotipo anti-tedesco. Invece la fiaba di Esopo aveva il fine di mettere in guardia dai rispettivi eccessi – e relativi risentimenti – sia le formiche sia le cicale. La formica, nella sua inestinguibile smania di accumulazione, non si faceva scrupoli di sottrarre alle altre formiche le loro scorte.

Frédéric Lordon, sociologo ed economista francese, ravvisando la stessa deriva razzista a livello mediatico, ricorda ai lettori di Le Monde Diplomatique (“Au-delà de la Grèce : déficits, dettes et monnaie”, 17 febbraio 2010; “Euro, terminus?”, 24 maggio 2012) che la natura umana è una sola e che il razzismo delle élite non ha nulla da invidiare a quello del “popolino”, stigmatizzato da quegli stessi media che indulgono nelle più funeste e squallide generalizzazioni. Con buona pace delle promesse di abolizione della guerra in Europa e di eterna amicizia tra i popoli europei, sta prendendo piede un “clima ideale per i nemici dell’Europa e per chi alla democrazia liberale e alla società aperta antepone il richiamo delle piccole patrie, delle tecnocrazie autoritarie e dei razzismi” (Lucio Caracciolo, “Euro: una moneta senza Stato”, la Repubblica, 7 maggio 2010).

Francia: una nazione con la spina dorsale

 

Più di 120 economisti hanno pubblicato oggi un articolo su Le Monde, ripreso da molti siti di informazione, in cui si pronunciano contro il trattato di bilancio dell’Unione europea. Denunciano un trattato “portatore di una logica recessiva che aggrava gli squilibri esistenti” e chiedono a François Hollande di non perseguire le politiche di austerità dei suoi predecessori. Tra i firmatari vi sono economisti molto conosciuti come Frédéric Boccara, Bousseyrol Marc Laurent Cordonnier, Denis Durand, Guillaume Etievant, Flacher David Bernard Friot, Gadrey Jean Jacques Genereux, Guerrien Bernard, Michel Husson, Sabina Issehnane, Florence Jany-Catrice, Esther Jeffers, Paul Jorion, Pierre Khalfa, Dany Lang, Philippe lege, Frédéric Lordon, Christiane Marty, François Morin, André Orlean, Dominique Plihon Ramaux Christophe, Gilles Raveaud, Rigaudiat Jacques Dominique Taddei Stephanie Treillet. [da InvestireOggi.it – traduzione di Carmen Gallus]

CAUSE DELLA CRISI – Dal 2008, l’Unione europea (UE) si trova ad affrontare una crisi economica senza precedenti. Contrariamente a quanto sostenuto dagli economisti liberisti, la crisi non è dovuta al debito pubblico. Spagna e Irlanda ora sono sotto attacco dei mercati finanziari benché questi paesi abbiano sempre rispettato i criteri di Maastricht. L’aumento dei deficit è una conseguenza della caduta delle entrate fiscali dovuta in parte ai regali fatti ai redditi più alti, degli aiuti pubblici alle banche commerciali e del ricorso ai mercati finanziari per finanziare questo debito a tassi di interesse elevati.

La crisi è dovuta anche alla totale mancanza di regolamentazione del credito e dei flussi di capitale a scapito dell’occupazione, dei servizi pubblici e delle attività produttive. E’ alimentata dalla Banca Centrale Europea (BCE) che supporta incondizionatamente le banche private, e invece, quando si tratta di rivestire il ruolo di “prestatore di ultima istanza“, richiede “rigorose condizionalità” di austerità agli Stati.

Essa impone loro politiche di austerità e non è in grado di combattere la speculazione sul debito sovrano, dato che la sua unica particolare missione riconosciuta dai trattati è quella di mantenere la stabilità dei prezzi. Inoltre, questa crisi è aggravata dal dumping fiscale intra-europeo e dal divieto imposto alla BCE di prestare direttamente agli stati per finanziare le loro spese, a differenza delle altre banche centrali di tutto il mondo, come la Federal Reserve degli Stati Uniti. Infine, la crisi è rafforzata dalla debolezza estrema del bilancio dell’Unione europea e dal suo tetto al tasso irrisorio dell’1,24% del PIL, con un orientamento che rende impossibile qualsiasi coordinata e ambiziosa espansione del business in Europa.

Francois Hollande, dopo essersi impegnato durante la campagna elettorale a rinegoziare il trattato europeo, non gli ha realmente apportato alcun cambiamento, e, come ha riconosciuto anche Elisabeth Guigou, ha scelto di proseguire la politica di austerità iniziata dai suoi predecessori. Si tratta di un tragico errore. L’aggiunta di un pseudo-patto sulla crescita, dall’importo effettivamente misero, è accompagnata dall’accettazione della “regola d’oro” del bilancio difesa da A. Merkel e N. Sarkozy. Essa stabilisce che il disavanzo cosiddetto strutturale (al netto delle variazioni dei cicli economici) non deve superare lo 0,5% del PIL, cosa che condannerà qualsiasi logica di spesa pubblica futura e porterà ad attuare un drastico programma di riduzione del campo di applicazione della amministrazione pubblica.

Limitando più che mai la capacità dei paesi di rafforzare le loro economie e imponendo loro l’equilibrio dei conti pubblici, questo trattato comporta una logica recessiva che aggraverà meccanicamente gli squilibri esistenti. I paesi che soffrono il crollo della loro domanda interna dovranno ridurre maggiormente la loro spesa pubblica. Dato che numerosi Stati membri sono già in recessione, questo minaccerà ulteriormente l’attività produttiva e l’occupazione, e quindi le entrate del governo, il che alla fine farà aumentare il deficit. Così, l’OFCE prevede già in Francia 300.000 disoccupati in più a fine 2013, per il solo fatto dell’austerità. Nel medio e lungo termine, questo metterà un’ipoteca sulla transizione sociale ed ecologica che richiede notevoli investimenti.

Nel nome di una cosiddetta “solidarietà europea”, il trattato organizza di fatto una garanzia pubblica per i grandi patrimoni finanziari privati. Incide sulla pietra delle misure automatiche di austerità imposte ai rappresentanti del popolo, ponendo dei vincoli alle loro decisioni di bilancio, vincoli dettati da un’istanza di non eletti. Il Meccanismo Europeo di Stabilità (ESM), istituzione anti-democratica per eccellenza, può essere in grado di offrire prestiti a un tasso leggermente inferiore (5% in media). Ma questi prestiti sarebbero subordinati all’attuazione di drastiche misure di austerità imposte al popolo! La garanzia del Governo agli investitori privati incoraggia solo la speculazione, mentre bisognerebbe stroncarla togliendole dalle mani il debito pubblico. L’intero edificio poggia quindi sulla condizionalità anti-sociale imposta a qualsiasi tipo di assistenza o di intervento, nonché sul rifiuto di un intervento diretto da parte della BCE per le nuove spese. La BCE si accontenta di un acquisto limitato di titoli di debito sul mercato secondario, come ha recentemente annunciato Mario Draghi.

Centinaia di economisti di tutto il mondo riuniti intorno a Premi Nobel come Joseph Stiglitz e Paul Krugman, hanno ampiamente criticato l’assurdità della politica economica attualmente in atto in Europa. La conclusione è chiara: l’austerità è nello stesso tempo ingiusta, inefficiente e antidemocratica.

Siamo in grado di fare diversamente. Il futuro dell’Europa merita un dibattito democratico sulle soluzioni alla crisi. Oggi in Europa sarebbe possibile un’espansione coordinata della produzione, dell’occupazione e dei servizi pubblici, in particolare attraverso il finanziamento diretto selettivo e a tassi bassi da parte della BCE alle amministrazioni pubbliche. Perché l’UE possa attuare questa politica, è urgente riformare e democratizzare le sue istituzioni. Un fondo europeo per lo sviluppo sociale ed ecologico, a gestione democratica, potrebbe sostenere questa dinamica. Inoltre, l’UE potrebbe istituire un controllo della finanza, tra cui il divieto di scambio di titoli di Stato sul mercato OTC, limitando severamente la cartolarizzazione e i derivati e tassando i movimenti speculativi di capitali.

Le sfide sociali ed ecologiche di oggi sono immense. E’ urgente cambiare rotta per uscire dalla crisi in positivo. E’ possibile annullare il triste record delle politiche liberiste di una Francia con 5 milioni di disoccupati e 10 milioni di poveri. Per riuscirci, dobbiamo spezzare la morsa dei mercati finanziari e non alimentarli. È per questo che respingiamo la ratifica del Trattato europeo di stabilità, di coordinamento e di governance (TSCG).

Seguono le firme di 120 economisti

Articolo originale: L’austérité aggrave la crise, non au Traité budgétaire européen !

FONTE: http://keynesblog.com/2012/10/04/appello-di-120-economisti-francesi-no-al-fiscal-compact-lausterita-aggrava-la-crisi/#more-2355

Questo progetto politico diventa progressivamente sempre più realistico:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/09/25/un-progetto-politico-per-un-mondo-nuovo/

Il pareggio di bilancio, Tafazzi e il massacro dei Proci – Fermatevi, prima che sia troppo tardi!

A cura di Stefano Fait

http://it.wikipedia.org/wiki/File:Mnesterophonia_Louvre_CA7124.jpg

“Cari presidente Obama, presidente Boehner, capogruppo della minoranza Pelosi, capogruppo della maggioranza Reid, capogruppo della minoranza al Senato McConnell,

Noi sottoscritti economisti sollecitiamo che venga respinta qualunque proposta volta ad emendare la Costituzione degli Stati Uniti inserendo un vincolo in materia di pareggio del bilancio. Vero è che il Paese è alle prese con gravi problemi sul fronte dei conti pubblici, problemi che vanno affrontati con misure che comincino a dispiegare i loro effetti una volta che l’economia sia forte abbastanza da poterle assorbire, ma inserire nella Costituzione il vincolo di pareggio del bilancio rappresenterebbe una scelta politica estremamente improvvida. Aggiungere ulteriori restrizioni, cosa che avverrebbe nel caso fosse approvato un emendamento sul pareggio del bilancio, quale un tetto rigido della spesa pubblica, non farebbe che peggiorare le cose. Un emendamento sul pareggio di bilancio avrebbe effetti perversi in caso di recessione. Nei momenti di difficoltà economica diminuisce il gettito fiscale e aumentano alcune spese tra cui i sussidi di disoccupazione. Questi ammortizzatori sociali fanno aumentare il deficit, ma limitano la contrazione del reddito disponibile e del potere di acquisto. Chiudere ogni anno il bilancio in pareggio aggraverebbe le eventuali recessioni. […]. Anche nei periodi di espansione dell’economia, un tetto rigido di spesa potrebbe danneggiare la crescita economica perché gli incrementi degli investimenti ad elevata remunerazione – anche quelli interamente finanziati dall’aumento del gettito – sarebbero ritenuti incostituzionali se non controbilanciati da riduzioni della spesa di pari importo. Un tetto vincolante di spesa comporterebbe la necessità, in caso di spese di emergenza (per esempio in caso di disastri naturali), di tagliare altri capitoli del bilancio mettendo in pericolo il finanziamento dei programmi non di emergenza.

[…]

Nessun altro Paese importante ostacola la propria economia con il vincolo di pareggio di bilancio. Non c’è alcuna necessità di mettere al Paese una camicia di forza economica. Lasciamo che presidente e Congresso adottino le politiche monetarie, economiche e di bilancio idonee a far fronte ai bisogni e alle priorità, così come saggiamente previsto dai nostri padri costituenti. Nell’attuale fase dell’economia è pericoloso tentare di riportare il bilancio in pareggio troppo rapidamente. I grossi tagli di spesa e/o gli incrementi della pressione fiscale necessari per raggiungere questo scopo, danneggerebbero una ripresa già di per sé debole”.

Kenneth Arrow, Nobel per l’Economia 1972; Peter Diamond, Nobel per l’Economia 2010; William Sharpe, Nobel per l’Economia 1990; Eric Maskin, Nobel per l’Economia 2007; Robert Solow, Nobel per l’Economia 1987.

http://keynesblog.com/2012/03/12/lappello-dei-premi-nobel-contro-il-pareggio-di-bilancio/

“I leader politici devono riconoscere che quella imboccata è una strada sbagliata. Una overdose di risparmio non può che peggiorare la situazione. Tutto ciò ricorda un po’ il Medioevo: quando il paziente moriva si diceva che il medico aveva interrotto troppo presto il salasso, che il paziente aveva in sé ancora troppo sangue. Con questa cura sono stati trattati per decenni molti paesi emergenti iperindebitati, e spesso la cura è stata letale. Ora sussiste il pericolo che in Europa si ripeta qualcosa di analogo”.

Joseph Stiglitz, Nobel per l’Economia 2001, 12 aprile 2012

http://temi.repubblica.it/micromega-online/stiglitz-leuropa-soffre-di-troppa-austerita-ripresa-solo-con-laumento-della-spesa/

Viene fuori che seguendo un parametro molto importante – variazione del Pil reale da quando la recessione è iniziata – la Gran Bretagna sta facendo peggio di quanto fece durante la Grande Depressione. Dopo quattro anni di crisi, il Pil inglese era tornato ai livelli pre-crisi; quattro anni dopo l’inizio della Grande Recessione, la Gran Bretagna non è invece nemmeno lontanamente vicina a recuperare il terreno perduto. È la Gran Bretagna non è da sola. L’Italia sta facendo peggio di quanto abbia fatto nel 1930 – e con la Spagna chiaramente sull’orlo di una doppia recessione, sono tre grandi economie europee su cinque che stanno messe peggio che durante la Grande Depressione…Si tratta di un sorprendente insuccesso di politica economica. E lo è, in particolare, della dottrina dell’austerità che ha dominato la discussione politica delle elite in Europa e, per larga parte, degli Stati Uniti negli ultimi due anni.

Paul Krugman, Nobel per l’Economia 2008, 29 gennaio 2012

http://www.nytimes.com/2012/01/30/opinion/krugman-the-austerity-debacle.html?_r=1&partner=rssnyt&emc=rss

“Quello che ancor più preoccupa è il silenzio corale che ha accompagnato questo processo di modifica costituzionale in corso ormai da sei mesi, mentre in altri paesi europei su questi temi e sul connesso Fiscal Compact si stanno sviluppando discussioni e confronti assai vasti e in Francia si gioca la stessa campagna elettorale per le presidenziali. Questo fatto lascia allibiti. In un Paese come il nostro in cui su questioni di chiacchiericcio politico si fanno spesso campagne di stampa ampiamente sopra le righe, su un tema di così rilevante portata, che tocca un cardine della Costituzione e la strumentazione della politica economica presente e futura, il silenzio è totale. Questo mi fa pensare che, da un lato, in buona parte dei parlamentari, soprattutto fra quelli del centro-sinistra, non ci sia affattola consapevolezza di ciò che si sta approvando. Dall’altro lato che operi un silenzio interessato dei grandi mezzi di comunicazione, il cui orientamento politico-culturale è ampiamente a favore della politica neoliberista e del governo Monti. In sostanza, siamo a metà strada tra l’incultura e il calcolo politico”.

Lanfranco Turci su Micromega, 10 aprile 2012

http://temi.repubblica.it/micromega-online/no-al-pareggio-di-bilancio-in-costituzione/?printpage=undefined

Dopo l’approvazione alla Camera, nella seduta pomeridiana di martedì 17 aprile, il Senato voterà sulle modifiche agli articoli 81, 97, 117 e 119, introducendo verosimilmente l’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione, imposto dalla sottoscrizione del Fiscal Compact europeo, al quale peraltro non hanno saggiamente aderito Regno Unito e Repubblica Ceca (l’Irlanda lo sottoporrà a referendum e i no vinceranno, perché gli Irlandesi sono meno fessi di noi, forse da sempre).

La conseguenza, per noi, sarà che il deficit non dovrà superare il 3% del PIL, indipendentemente dalle congiunture nazionali ed internazionali.

Come detto, questa decisione impedirebbe ai governi di spendere per poter rilanciare l’economia con politiche espansive (maggiori investimenti pubblici per la ripresa, come fecero Roosevelt o Schacht, l’economista che salvò la Germania hitleriana dal baratro).

È come mettersi un cappio al collo che si stringe ogni volta che uno tenta di muoversi.

Tutto questo accade perché, incredibilmente, nonostante il paradigma neoliberista sia condannato da praticamente tutti, molti nostri parlamentari hanno deciso di appoggiare un governo dichiaratamente neoliberista (non l’ha mai nascosto, anzi, e di questo bisogna dargliene atto: ha agito alla luce del sole), confortati dal parere di un 20% di elettori di sinistra che credono che Monti sia di sinistra, ossia che il neoliberismo – l’ideologia social-darwinista del forte che per natura deve prevalere sul debole – sia compatibile con politiche di sinistra.

Questa modifica consentirà al Fondo Internazionale Salvastati, alla BCE, alla Commissione Europea, all’FMI, ai mercati – istituzioni non elette – di stabilire cosa sia giusto e sbagliato per l’Italia. Un passaggio fondamentale per il progetto “Stati Uniti d’Europa” che, con buona pace di Barbara Spinelli, è la tomba delle aspirazioni europeiste del celebre Manifesto di Ventotene.

Il malcontento e la confusione serpeggiano tra la gente, i partiti pensano alle Grandi Coalizioni (Grandi Inciuci), i sindacati abbozzano. Il terreno è fertile per la transizione da una tecnocrazia autoritaria ad un regime post-costituzionale, magari con l’avvento di una “nuova forza politica”, “né di destra, né di sinistra”, che si proponga come paladina dello stato di diritto, dello stato sociale, della giustizia sociale, ecc.

È già successo dopo il cancellierato dell’austerità di Heinrich Brüning in Germania (1930-1932) e stava per succedere anche negli Stati Uniti, dopo l’amministrazione dell’austerità di Herbert Hoover (1929-1933). Ora, poiché nessuno può essere così stupido da commettere errori così mastodontici due volte, c’è malafede. Qui, molto semplicemente, si sta cercando di uccidere proditoriamente la democrazia:

http://www.informarexresistere.fr/2012/03/23/e-in-fondo-al-tunnel-dell%E2%80%99austerita-neoliberista-gia-si-scorge-la-nostra-sorte%E2%80%A6fascismo-o-rivoluzione/#axzz1s6AMkI2H

L’idea di base è che quando avremo raschiato il fondo del barile e saremo pronti a votare per un fronte di salvezza nazionale, improvvisamente spunterà lo Schacht di turno che farà esattamente l’opposto di Monti e ci riporterà a galla, come premio per la nostra rinuncia alla democrazia, per la nostra accettazione del golpe occulto, la rivoluzione reazionaria che dovrebbe porre fine alle conquiste sociali più importanti.

Falliranno, perché c’è internet e quasi tutti, direttamente o indirettamente, hanno accesso ad una mole di informazioni quasi illimitata.

COSA SUCCEDERÀ?

La disoccupazione aumenterà senza sosta e, dai e dai, anche i politici più lenti di comprendonio capiranno, tardi, che è come dinamite pronta ad esplodergli tra le mani. E lo farà. Il collasso del sistema economico e la rivelazione della continua sequela di menzogne che hanno mascherato la realtà produrranno un gigantesco choc nella popolazione. Anche le forze dell’ordine saranno colpite duramente dalla presa di coscienza dell’inganno e cambieranno la percezione del loro rapporto con l’establishment.

L’indignazione si tradurrà in “ira funesta”, che si diffonderà man mano che la classe media impoverita, disperata per la volatilizzazione dell’illusione che prima o poi ci sarà un rilancio dell’economia, si unirà ai cittadini che già vivevano sotto la soglia di povertà: ci saranno senzatetto ed emarginati fianco a fianco di accademici, avvocati e persino membri delle forze dell’ordine e dell’esercito (“siamo il 99%!”). I media nazionali saranno screditati e sostituiti da quelli locali e specialmente dalle radio. Certi comici, già popolari, diventeranno dei veri e propri eroi (“una risata li seppellirà!”).

Il fatto che una maggioranza parlamentare tale da scongiurare la necessità di indire un referendum costituzionale abbia votato alla Camera in favore della riforma dimostra che il conformismo, l’ignoranza e la malafede prevalgono in quelle “auguste sedi”. Anch’io, come Lanfranco Turci, sono straconvinto che moltissimi, tra loro, siano semplicemente beoti, altrimenti si renderebbero conto che decisioni così tremende, prese senza consultare i cittadini, servono solo a spianare la strada ad una rivolta di massa, potenzialmente una vera e propria rivoluzione. Perdona loro, perché non sanno quello che fanno: chi li ha manovrati li darà in pasto alle folle inferocite.

Tafazzi è un personaggio comico, votato al lieto fine, qui, invece, le cose non possono finire bene.

La gente non accetterà mai di immiserirsi senza fare qualcosa e la borghesia sta già capendo che è in atto un trasferimento di beni dalla classe media ai ricchi e che sarà la più duramente colpita. È facile immaginare quale sarà la sua furia.

Le leggi liberticide e i meccanismi di controllo e sorveglianza della popolazione già introdotti nel Regno Unito e in Spagna potranno ben poco. Solo degli illusi potrebbero davvero credere di poter fermare o incanalare un 1789 su scala globale (un 1848 all’ennesima potenza), per di più alla luce della retorica umanitaria della NATO. Infatti, come potrebbero mai giustificare un qualunque trattamento della loro stessa popolazione che si avvicinasse anche solo a quello egiziano e tunisino? Sono inchiodati ai loro stessi proclami, prese di posizione, appelli, denunce, crociate.

Alla fine, si raccoglie quel che si semina. Non si scappa.

Proveranno a reindirizzare la rabbia popolare anti-capitalista verso sviluppi anti-democratici, con il Grande Progetto di un movimento politico ultrapopulista, un contenitore di tutto e di niente, una scatola vuota, uno specchietto per le allodole. Ma non vedo come la cosa possa funzionare nell’era dell’informazione istantanea. L’Europa non è la Germania di Weimar, il mondo è cambiato e lo stesso pianeta è cambiato: si scuote, si scalda, si ghiaccia, esplode, è inquieto.

Non hanno alcuna chance.

Peggio per loro.

Resta il fatto che è pazzesco che le cose debbano finire così. Pazzesco. Sembra di vivere in un incubo in cui tutto ciò che potrebbe essere evitato diventa immancabilmente una realtà funesta.

Perché lo fanno? Chi li manovra? Come possono essere così ebeti? Chi può essere così visceralmente avido ed egoista da andare avanti in ogni caso, pur avendo capito che là in fondo c’è il baratro? Solo uno psicopatico.
Siamo dunque governati da un mucchio di stolti manipolati da una cricca di psicopatici?

È  come se i Proci avessero preso il controllo di Itaca.

Tutto questo è surreale.

Politici italiani di buona volontà e coscienza, mostrate senso di responsabilità ed un minimo di lucidità e fermatevi prima che sia troppo tardi per tutti!

RICORDATEVI DI ANFINOMO!

E, in fondo al tunnel dell’austerità neoliberista, già si scorge la nostra sorte…

a cura di Stefano Fait

 

Kendell Geers and K.O. Lab: T/Error, B/Order and D/Anger, 2003

Bisogna proseguire su questa strada, non c’è possibilità di uscire da questo sentiero più virtuoso e responsabile che abbiamo intrapreso…Ci impegnamo ad avere anche nella Costituzione il pareggio di bilancio. Non possiamo che continuare su questa strada. Le misure che vengono definite di austerità sono state imposte da una situazione molto delicata, come la crisi del debito sovrano in Europa, anche se le cause e le dimensioni della crisi economica sono molteplici. Ci muoviamo in questo orizzonte, sapendo che è il 2012 già è e sarà un anno difficile per le nostre economie.

Giorgio Napolitano, 20 marzo 2012

Quello che certamente si verificherà sarà una recessione dell’Area e il default della Grecia, con la possibilità che Atene arrivi all’abbandono dell’euro. Niente di tutto ciò renderà la vita facile al Portogallo.

Paul Krugman, Nobel per l’Economia, 28 febbraio 2012

Benché l’austerità non dia frutti, la risposta politica è quella di chiederne sempre di più. La crisi vede vacillare paesi come Spagna e Irlanda, che prima della crisi avevano avanzi di bilancio.

Joseph Stiglitz, Nobel per l’Economia, 7 marzo 2012

A me sembra che l’impostazione sindacale di Landini, che parte dai principi (repubblica imperniata sul lavoro, diritto di ogni cittadino al lavoro) piuttosto che dalle leggi naturali (domanda, offerta, libero scambio)…sia una scheggia di quel sindacalismo che prevaleva nell’Italia del dopoguerra, figlio dell’estremismo di sinistra.

Piero Ottone, Repubblica (un quotidiano che si diceva di sinistra), 22 marzo 2012

Notare la perla: ai principi costituzionali Piero Ottone antepone le “leggi naturali” (?), che poi sarebbero quelle del più forte ma detto in modo più algido, dimenticando che è proprio per difendersi da questo che i principi cui fa riferimento Landini sono stati scritti in Costituzione.La gente accetta per auto-evidenti affermazioni che sono tali solo perché appartengono al filone di pensiero prevalente. Mala tempora.

Mauro Poggi, 22 marzo 2012

L’incidenza dell’HIV / AIDS tra i tossicodipendenti per via endovenosa nel centro di Atene è aumentata del 1250% nei primi 10 mesi del 2011 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, secondo il capo di Medici Senza Frontiere Grecia, mentre la malaria sta diventando endemica nel sud del paese per la prima volta dopo il regime dei colonnelli.

Reveka Papadopoulos ha detto che, in conseguenza di tagli selvaggi al bilancio del servizio sanitario nazionale, comprese pesanti perdite di posti di lavoro e una riduzione del 40% dei finanziamenti per gli ospedali, l’assistenza pubblica greca “è stremata, se non a pezzi. Vediamo indicatori molto chiari di un sistema che non regge”. I pesanti e miopi tagli di bilancio sono coincisi lo scorso anno con un aumento del 24% della domanda di servizi ospedalieri perché le persone non possono più permettersi la sanità privata. L’intero sistema si sta deteriorando. L’aumento straordinario dell’HIV/Aids tra i tossicodipendenti, causato soprattutto della sospensione o cancellazione del programma di distribuzione di siringhe, è stato accompagnata da un incremento del 52% nella popolazione generale. “Stiamo inoltre assistendo per la prima volta in Grecia alla trasmissione tra madre e figlio. Qualcosa che siamo abituati a vedere nell’Africa sub-sahariana, non in Europa. Poi c’è la ricomparsa della malaria endemica in varie parti della Grecia, in particolare il sud. “La malaria è curabile, non dovrebbe diffondersi se il sistema funziona”.

http://www.guardian.co.uk/world/blog/2012/mar/15/greece-breadline-hiv-malaria

L’austerità uccide ed infligge il colpo di grazia ad economie stagnanti.

Herbert Hoover nell’America della Depressione e Arnold Schwazenegger in California hanno già dato ampia dimostrazione degli effetti dell’austerità neoliberista. Un altro politico che adottò la stessa strategia in un’analoga situazione fu il cancelliere di Weimar Heinrich Brüning: dopo di lui arrivò al potere Hitler, sull’onda del disastro economico prodotto dai suoi tagli alla spesa pubblica. Chi predica il dogma dell’austerità (incluso Napolitano) non può essere in buona fede. Lo ripeto: Napolitano e Monti non possono non sapere che stanno distruggendo l’economia italiana. Il loro è, necessariamente, un piano consapevole (è comunque anche possibile che Napolitano sia semplicemente troppo ignorante o senile per capire cosa sta succedendo). Monti, Cameron, Merkel, Sarkozy, Papademos, ecc. sono i Brüning dei nostri tempi.

È indispensabile fare un buon lavoro di sensibilizzazione perché il deterioramento degli standard di vita spingerà molte persone normalmente apatiche a prendere posizione e protestare contro un sistema sempre più iniquo. Questi milioni di persone, catapultate improvvisamente sul palcoscenico della storia, saranno un boccone prelibato per i demagoghi e potrebbero cadere nella trappola dell’estremismo di destra.

Sono giunto alla conclusione che il piano dell’élite sia appunto questo, perché, lo ripeto, è impossibile che non abbiano appreso neppure i rudimenti della storia economica. La crisi economica e l’attacco israeliano all’Iran saranno impiegati per demolire lo stato di diritto democratico e, se non li fermeremo in tempo, instaurare qualcosa di molto diverso e di molto minaccioso.

A questo proposito, riporto una fantastica analisi di Blicero:

“La parola che definirà il 2012 è principalmente una: austerità. La crisi azzanna le economie, il corpo della società è malato, la recessione incombente: l’unica soluzione è ingurgitare il pesante cocktail di tagli alla spesa pubblica, aumenti di tasse, esuberi, licenziamenti di massa e benzina a prezzi greci. Certo, i sacrifici – assicurano alteri e sobri i nostri politici/governanti – saranno durissimi. Ma alla fine la crescita sboccerà di nuovo, e la prosperità, dopo il carpet-bombing di misure di austerità, tornerà a scoccare e risuonare impetuosa in tutti i cieli d’Europa.

Giusto? Non proprio. Se si guarda alla storia dei programmi di austerità degli ultimi 90 anni si nota esattamente l’inverso: svolte autoritarie, feroci scontri  di piazza, tensione sociale, massacri, colpi di stato, rovesciamenti di governi e l’ascesa di regimi dittatoriali. Il paperAusterity and Anarchy: Budget Cuts and Social Unrest in Europe, 1919-2010” scritto da Jacopo Ponticelli e Hans-Joachim Voth1 rileva in maniera scientifica la correlazione tra austerità e instabilità politica e sociale.

In “Austerity and Anarchy” i due studiosi individuano cinque diversi tipi di instabilità (manifestazioni contro il governo, riots, assassinii, scioperi generali e tentativi di rivoluzione) in Europa nel periodo 1919-2009. Gli indicatori sono assommati e aggregati in una variabile chiamata CHAOS. Nella prima immagine, come si vede, gli anni antecedenti/successivi alla seconda guerra mondiale, gli anni ’70 e la fine anni ’80/inizio anni ’90 sono estremamente turbolenti.

 

(Grafico #1: Numero di incidenti in Europa, 1919-2009. Fonte: Ponticelli, Voth, “Austerity and Anarchy: Budget Cuts and Social Unrest in Europe, 1919-2010″)

Nella seconda immagine le barre indicano il numero di incidenti per anno e Paese. Più la barra diventa scura, più i tagli alla spesa pubblica sono massicci. Una volta che i tagli raggiungono il 2% del PIL, l’instabilità aumenta esponenzialmente. Quando i tagli arrivano al 5% del PIL vuol dire una cosa soltanto: Grecia odierna – e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.

(Grafico #2: Disordini e tagli al budget. Fonte: Ponticelli, Voth, “Austerity and Anarchy: Budget Cuts and Social Unrest in Europe, 1919-2010″)

Il programma di austerità più catastrofico della Storia è sicuramente quello della Repubblica di Weimar, portato avanti nel pieno della Grande Depressione (tra il 1930 e il 1932) dal “cancelliere della fame” Heinrich Brüning. Dopo aver appreso i fondamenti dell’austerity durante il dottorato alla London School of Economics, il cancelliere era fortemente supportato nel suo piano dai big dell’industria tedesca. Ma dopo due anni di austerità la situazione era degenerata: Brüning sospese di fatto la democrazia parlamentare e governò a colpi di decreti emergenziali; la disoccupazione raddoppiò dal 15% del 1930 al 30% del 1932; la miseria dilagò; le proteste si fecero sempre più violente; e le milizie paramilitari e i nazisti acquisirono un potere sconfinato. Brüning fu infine costretto a dimettersi, e nel 1933 salì al potere un certo Adolf Hitler.

Un altro interessante caso di studio sull’efficacia dei programmi di austerità è la Lituania dei primi anni ’90. L’URSS era appena collassata e la piccola repubblica sovietica cercava di sganciarsi definitivamente dall’orbita del Cremlino, anche e soprattutto sul versante economico. Per fare ciò, il governo lituano si rivolse all’economista Larry Summers (ex Segretario del Tesoro sotto Clinton ed ex presidente del National Economic Council sotto Obama), che prescrisse la solita medicina dell’austerità per la transizione dall’economia pianificata al libero mercato. I risultati? Disoccupazione alle stelle, corruzione galoppante, una popolazione che addirittura rimette al potere i comunisti (nel 1992, appena due anni dopo la dichiarazione di indipendenza dalla Russia) ed il più alto tasso di suicidi del mondo. Nel 1990, infatti, in Lituania il tasso era fermo a 26.1 persone su 100.000; dopo appena cinque anni era schizzato a 45.6 su 100.0002.

(Grafico #3: Suicidi in Lituania, 1986-1996. Fonte: Haghighat, “Psychiatry in Lithuania: the highest rate of suicide in the world” in “The Psychiatrist”)

[…].

I programmi di austerità non sono stati sperimentati solo in Europa. Nel paperTightening Tensions: Fiscal Policy and Civil Unrest in Eleven South American Countries, 1937-1995”, Hans-Joachim Voth analizza la corrispondenza tra le misure di austerità e l’instabilità politico-sociale in undici stati sudamericani nel periodo 1937-1995. Il risultato della ricerca, scrive Voth, “mostra una chiara e positiva correlazione tra austerità e instabilità”.

Il caso più eclatante del fallimento dell’austerity è quello venezuelano. Nel febbraio 1989 Carlos Andres Perez venne eletto presidente del Venezuela promettendo di combattere il piano di austerità che il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale volevano somministrare al suo paese. Ad appena tre settimane dall’elezione, però, Perez tradì le promesse e impose quegli stessi programmi a cui si era pubblicamente opposto. Le proteste furono massicce, la repressione cruenta: dopo aver dichiarato la legge marziale e sospeso la Costituzione, i reparti speciali della polizia trucidarono a Caracas circa tremila persone (i venezuelani chiamano il massacro “Caracazo”). In definitiva, il programma di austerity venezuelano aumentò esponenzialmente la povertà, fece esplodere la corruzione, rese incredibilmente ricco il solito ristretto club di oligarchi e nel 1992 portò ad un fallito tentativo di golpe da parte di Hugo Chavez. Perez, accusato di peculato e malversazione, venne destituito nel 1993 dalla Corte Suprema del Venezuela e fuggì a Miami, dove è morto il 25 dicembre del 2010.

 

(Grafico #4: Rivolte e Assassinii in Sud America, 1937-1995. Fonte: Voth, “Tightening Tensions: Fiscal Policy and Civil Unrest in Eleven South American Countries, 1937-1995″)

 

(Grafico #5: Rivoluzioni e Manifestazioni in Sud America, 1937-1995. Fonte: Voth, “Tightening Tensions: Fiscal Policy and Civil Unrest in Eleven South American Countries, 1937-1995″)

L’idea della “naturalizzazione de-politicizzata”3 della crisi sembra essere irrimediabilmente passata. Se vogliamo tornare a crescere, in parole povere, dobbiamo ingoiare l’amara pillola, rinunciare alle nostre pensioni, accettare di buon grado i tagli agli stipendi, accogliere con spirito di sacrificio lo smantellamento dello Stato sociale, chiudere un occhio sulle chiusure delle fabbriche, delle aziende e credere ciecamente nei vari pacchetti Salva-Qualcosa e Cresci-Qualcosa.

Il punto è che le misure di austerità non sono, come propugnano certi economisti e policy makers, l’unica & imprescindibile soluzione per imboccare nuovamente la retta via fiscale. La storia recente è lì a dimostrarlo: l’austerità non ha fatto altro che deprimere l’economia dei paesi che l’hanno adottata e ha risucchiato le società in una spirale di caos e disordine. “Ad eccezione della Germania, tutti i governi europei si stanno facendo in quattro per dimostrare ai mercati che non esiteranno a fare quello che è necessario – ha dichiarato tre giorni fa al New York Times Charles Wyplosz (professore di economia al Graduate Institute di Ginevra), riferendosi ai pacchetti di austerity approvati in questi ultimi mesi – Con questo tipo di politica stiamo andando dritti contro un muro. È follia pura”.

Quando si dice che l’alternativa all’austerità semplicemente non esiste, è una menzogna. Le misure di austerity sono una precisa scelta politica. Non è qualcosa che piove dall’alto. E non è nemmeno una catastrofe inevitabile come un terremoto, uno tsunami o un libro di Fabio Volo. Piuttosto, è la consapevole decisione di sfracellarsi contro un muro con una macchina senza l’airbag di serie”.

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