“Stare insieme è un’arte. Vivere in Alto Adige/Südtirol”, di Lucio Giudiceandrea e Aldo Mazza

978-88-7223-206-4

Insomma, alla fine me lo sono letto, come promesso, e mi è piaciuto.

Non ci ho trovato nulla di rivoluzionario, ma è un bel libro e, soprattutto, un libro che infonde fiducia; e Dio solo sa quanto ce n’è bisogno in questi tempi così cupi, dominati dalla paura, dal sospetto, dalla paranoia, dall’aggressività, dal rancore, dall’esasperazione, dall’egoismo, dalla tracotanza, dalla prevaricazione.
C’è un gran bisogno di libri che uniscano le persone, non nel senso che deve regnare la concordia e l’uniformità – senza conflitto/tensione la vita non sarebbe possibile – ma nel senso della coincidentia oppositorum, cioè a dire quella condizione in cui nessuno degli opposti desidera far scomparire l’altro e restare padrone del campo, ma rispetta il suo diritto ad esistere (unità nella diversità – “E dai discordi bellissima armonia” diceva Eraclito, un aforisma che piaceva molto a R.W. Emerson).

La parte che credo sia stata scritta da Lucio Giudiceandrea è molto chiara e condivisibile. [N.B. Nel suo commento a questo post Giudiceandrea ha precisato che il libro non è separabile in due porzioni]

La parte di Aldo Mazza è molto dettagliata e precisa.

Il contributo di Gabriele Di Luca è importante perché ribadisce un concetto – tradimento autocritico – che se anche fosse ripetuto 1000 volte non sarebbe mai sufficiente (e lo ribadisce bene).

Confesso però che è stato lo scritto di H.K. Peterlini ad impressionarmi di più. Una narrazione che è personale, psicologica ed antropologica, una testimonianza che scava nell’interiorità: è facile sedurmi con questo tipo di cose ;o)

Non ho letto il testo originale in tedesco ma la traduzione in italiano (sempre di Gadilu) scorre via piacevolmente.

Di Peterlini ho letto solo “Freiheitskämpfer auf der Couch” e non era una lettura facile, anche se l’ho trovata preziosa – e infatti l’ho citata molte volte nel mio prossimo libro. Tradurre il tedesco in italiano è comunque un’arte, un’arte necessaria.

**********

Note a margine di “Stare insieme è un’arte. Vivere in Alto Adige/Südtirol”, di Lucio Giudiceandrea & Aldo Mazza, Merano: alphabeta, 2012

di Stefano Fait, co-autore di “Contro i miti etnici. Alla ricerca di un Alto Adige diverso“, Bolzano: Raetia, 2010.

“La famosa convivenza non è un fatto naturale, non viene da sola. Essa va imparata. È come fare il falegname, se il paragone è lecito. Intanto quel mestiere dovrà effettivamente interessarmi; poi dovrò conoscere le caratteristiche dei vari tipi di legno, saper usare gli strumenti adatti, preparare i piani di lavoro, provare, sbagliare, riprovare. Solo così arriverò a dei risultati apprezzabili” (p. 11).

La metafora del falegname è bella ma non sono sicuro che sia calzante. Chiunque abbia osservato dei bambini giocare avrà notato che lo fanno con certi bambini e non con altri, per una questione di affinità personale che va ben al di là del colore della pelle, della lingua o dell’accento, dei vestiti indossati e dei cibi consumati. Con alcuni c’è intesa, con altri non c’è. Inoltre, in genere, i figli sembrano avere una soglia di tolleranza alla diversità mediamente più alta rispetto ai loro genitori. I cinici la chiamano beata ingenuità, altri ribattono che è proprio il cinismo a corrompere un’innocenza che renderebbe il mondo adulto meno crudele e doloroso.

In ogni caso, mentre ciascuno nasce interattivo e dipendente dal prossimo, nessuno nasce falegname. Falegnami si diventa con l’aiuto di qualcuno che ti insegna i rudimenti del mestiere. Quando una società valorizza la separazione al di sopra della condivisione, della comunanza e dell’unione, vengono a mancare maestri di convivenza (es. Alexander Langer) e proliferano i maestri di distanziamento (es. Anton Zelger). In Veneto, al sindaco leghista di Tarzo, nel trevigiano, Gianangelo Bof, che, avendo subito sulla sua pelle la condizione di immigrato (in Germania) è diventato un maestro di comunione e simbiosi, corrisponde il sindaco leghista di Adro, nel bresciano, Oscar Lancini, che si è dimostrato maestro di separazione ed entropia.

Quando esiste una lingua ponte che permetta di comunicare, gli esseri umani hanno sempre dimostrato di essere disposti a socializzare. Sono “animali” sociali, in fondo, è la loro natura. Per quanto ne so, non esiste un solo dato etnografico, storico o prodotto dalle scienze cognitive che corrobori la tesi che “vivere in contatto con un’altra cultura non è qualcosa di naturale ma di artificiale”.

Se le cose stessero così esisterebbero le razze (mentre l’umanità è meticcia) e non sarebbero praticati l’esogamia (matrimonio all’esterno del proprio clan, un’opzione che favorisce lo scambio, l’incontro e l’alleanza) ed il commercio; esisterebbe invece uno stato per ogni lingua parlata nel mondo (c. 6500), mentre in realtà gli stati sono circa 200 e la futura nascita di uno stato europeo o di una federazione araba ridurrebbe di molto questo numero.

Perciò non è corretto asserire che istintivamente ognuno sta con i suoi simili e non con chi è diverso. Vale certamente per una maggioranza di persone per la gran parte della loro vita e per tutte le persone in diversi periodi della loro vita, ma la curiosità è una forza irresistibile per quasi tutti gli esseri umani ed il desiderio di allontanarsi quanto più possibile da parenti serpenti, conoscenti scocciatori e comunità soffocanti non è certo un’anomalia nella storia. Non è corretto fingere che questa dimensione dell’umanità non sia significativa, stabilire che la norma sia quella della separazione naturale e volontaria e quindi dare ragione ad Anton Zelger (“più ci dividiamo, meglio ci comprendiamo”) e torto ad Alex Langer (“più ci uniamo, meglio ci comprendiamo”).

Il timore è che sottolineando le componenti “sacrificio” ed “eccezionalità” si finisca in qualche misura per magnificare l’eccellenza di chi ce l’ha fatta (un’impresa quasi “eroica”, in questa prospettiva – il che mi sembra francamente eccessivo, per esperienza personale) e scoraggiare tanti altri dal tentare di uscire dal proprio orticello. Quello della convivenza è un processo arduo solo se tra due gruppi umani manca la fiducia, il rispetto e la stima e questo troppo spesso succede perché certi potentati economici e politici godono di una rendita di posizione derivante dal dividere invece che dall’unire. La componente del potere è sempre al centro dell’agire umano e non deve essere oscurata da un riferimento esclusivo alla sfera culturale. Che ci piaccia o meno, ogni cultura è comunque e prima di tutto espressione di certe relazioni di potere.

È questa, e non delle ipotetiche inamovibili costanti della natura umana, la ragione per cui Giudiceandrea e Mazza sono costretti ad ammettere che “sotto una calma apparente il conflitto [l’Alto Adige] è pronto a riaccendersi” (p. 15).

Non a caso, nel testo tedesco della “dichiarazione di appartenenza ad un gruppo linguistico”, che conta i residenti in relazione alla lingua parlata per determinare la titolarità di certi diritti, non si parla di “consistenza” ma di “Stärke” (forza). Il che ci riporta alle disfide demografiche tra gli stati europei negli anni che precedettero la Grande Guerra: “chi ha la popolazione più grossa?”. Schermaglie viriliste tra potenze con conseguenze deleterie per le persone comuni.

Il potere e la sua distribuzione è sempre il primo fattore da considerare nell’esaminare una società.

Una questione di equilibri di potere ha fatto sì che il modello di convivenza (sarebbe meglio dire “coesistenza”) che è stato scelto per l’Alto Adige fosse quello del Nebeneinander (vivere l’uno a fianco dell’altro), per evitare lo sbocco nel Gegeneinander (l’uno contro l’altro) o nell’Ohneeinander (l’uno senza l’altro). Questa scelta ha sacrificato, o comunque rinviato a data da destinarsi, il Miteinander (l’uno assieme all’altro).

Quando un assessore dei Verdi (partito politico erede di Langer e della sua battaglia per l’incontro e la reciproca contaminazione), Patrizia Trincanato, dichiara che “questa è una terra delicata e complessa dove tutti dobbiamo fare attenzione a muoverci per non pestare i piedi e le sensibilità altrui ed il pentolone dove butti dentro di tutto mi fa paura”– riferendosi al progetto di un maxipolo culturale post-etnico – è difficile non concludere che le cose stanno andando maluccio e che il prosciugamento delle risorse pubbliche non potrà fare altro che peggiorare la situazione. Infatti il timore dell’assessore è che quest’iniziativa faccia parte di un preciso piano della SVP che sfrutti la necessità di compiere dei tagli per affidare la regia della cultura nella provincia di Bolzano alla supervisione del partito di governo, l’SVP: “Secondo me i passi che il presidente Luis Durnwalder ha fatto sono molto chiari. Penso alla toponomastica ed a tutta la questione dei cartelli sui sentieri di montagna, penso alla volontà di creare un Museo unico “Il Landesmuseum”, penso alla creazione di un Polo bibliotecario unico “La Landesbibliothek” magari sotto la direzione di un direttore unico, penso ai colpi che sono stati inferti all’autonomia della scuola e penso adesso alla volontà di andare verso la gestione unica degli spettacoli…. Sarà ma tutto questo non mi piace”. Una privatizzazione della cultura, insomma: “Vogliamo mettere un bavaglio alla cultura? Vogliamo che l’Svp ci spieghi quale spettacolo è bene vedere e quale sarebbe meglio di no? Vogliamo questo in questa nostra meravigliosa terra che ha fatto della convivenza e dell’assoluto rispetto dell’idea altrui la sua bandiera? Vogliamo tenerci una pluralità culturale solo di facciata o la vogliamo reale? Vorrei tanto saperlo” (Alto Adige, 19 agosto 2012).

Hanno perfettamente ragione, i due autori, a paventare che l’unico fattore di integrazione, a questo punto, potrebbe diventare il nemico comune, ossia gli ultimi arrivati, gli immigrati.

Al centro dell’analisi di Giudiceandrea e Mazza si situa, molto giustamente, l’enunciato che “il conflitto ha dalla sua parte gli automatismi, i pregiudizi, i “pensieri semplici”; esso può contare sul fatto che dividersi, riconoscersi come nemici è la reazione più immediata. Stare insieme invece richiede la fatica dei “pensieri complessi” (op. cit., p. 30).

Ma non è forse esattamente questo quello che siamo chiamati a fare in quanto esseri umani? Il dominio dei pensieri semplici è quello dell’infanzia e degli altri primati, di tanti mammiferi, non degli adulti. Senza contare che certi bambini ci stupiscono già in tenera età con intuizioni maestose, pensieri profondi, sintesi che ci lasciano senza fiato (Roehlkepartain et al., 2006). Perché accontentarsi di automatismi, di ragionamenti e comportamenti meccanici quando in noi c’è il potenziale per ben altro? Se uno ha una Ferrari e la guida come se fosse al volante di una Panda difficilmente godrà di un’alta considerazione tra i suoi conoscenti.

Proprio i due autori, tra l’altro, ribadiscono che siamo noi gli artefici del nostro destino. A maggior ragione, quindi, dovremmo sentirci chiamati a vincere le nostre paure, pigrizie, piccinerie, egoismi e pregiudizi e dare una mano al nostro prossimo, per il bene comune, in una prospettiva di coralità che beneficia tutti quanti e non solo una minoranza di privilegiati.

Personalmente io vedo la storia come un tiro alla fune tra chi interpreta il progresso come la realizzazione dell’inscindibile unità di libertà, uguaglianza e fratellanza e chi invece, cinicamente, non scorge nulla al di fuori della relazione pastore-pecora/padrone-servo/élite-massa. L’era della globalizzazione ha reso ancora più netta questa distinzione, polarizzando le coscienze in un senso o nell’altro, in funzione della scelta tra controllo e libertà, gerarchia ed uguaglianza, divisione ed unità.

Di conseguenza, il Nebeneinander non è più sostenibile: alcuni desiderano più muri e più lealtà rispetto alla compattezza etnica ed alla propria civiltà; altri desiderano più ponti, più traditori del proprio gruppo, maggiore autocritica. La via di mezzo non trova più spazio.

C’è bisogno di un Alto Adige diverso, spiega molto bene Hans Karl Peterlini (cf. Giudiceandrea/Mazza 2012, p. 173): “un Sudtirolo non come programma politico o esercizio di sopravvivenza etnica, come esperimento culturale o esempio statale, ma come spazio vitale, campo di possibilità, terreno creativo per coltivare dei sogni”. Recuperando il sogno (che non è utopia, ma lavoro in corso) di Alexander Langer: “Ciò che in lui come visione, come predilezione per l’essere umano al di là di ogni costrutto, come fede nel bene e nell’onestà, come fame e sete di giustizia, appariva nelle edizioni dei suoi scritti, era la summa di tutto quello che doveva sembrare possibile, se soltanto lo si fosse voluto, se non si fosse preferito e si preferisse tenersi abbarbicati a tutte le barriere che sono nella nostra testa, perché tanto si sa che l’altro è fatto così e potrebbe rappresentare per me una minaccia e io sono quello che sono e non posso fare altrimenti (cioè, non è che non vorrei, ma non ho il coraggio di farlo, per usare le parole di Karl Kraus)” (ibidem). Che, poi, sono anche le parole di Paolo di Tarso: “Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto…in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio (Romani 7, 15-19).

Credo che moltissimi abitanti dell’Alto Adige/Südtirol desiderino un Alto Adige diverso. Non sono però pochi quelli che vorrebbero avere la botte piena e la moglie ubriaca. Ossia vogliono le identità forti ma anche la concordia, il particolarismo ma anche l’universalismo, vogliono gli Schützen ma anche Langer, la separazione ma anche l’unione, il cambiamento ma anche l’identità e la stabilità.

Malauguratamente per loro, però, l’indispensabile unità nella diversità richiede dei sacrifici, richiede agli ego (miti, golem) personali e collettivi di fare un passo indietro, richiede di pagare un prezzo – e il prezzo da pagare per un Alto Adige diverso è la scomparsa dell’Alto Adige in cui sono cresciuti.

Bersani o Renzi? Ma anche no!

I DISPERATI – Senza Soste

“Il grandissimo Elias Canetti [uno che cita Canetti per parlare di Renzi e Bersani è già indiscutibilmente un grande, NdR] parlava della disperazione come dell’unica forma disinteressata di esistenza. Insomma, un sentimento così profondo da superare, in importanza, l’interesse e il potere. Si trattava di un modo di esistenzializzare la disperazione. Come se fosse esclusivamente legata alla viva percezione della mortalità e al deperimento, alla caducità del senso del proprio agire. Nell’Italia della politica istituzionale la disperazione è invece legata al mantenimento, ad ogni costo, di ciò che si pensa essere interesse e potere. Persino a prescindere dal fatto che, una volta portato a compimento un piano, interesse e potere ci siano davvero. La disperazione rappresenta così i tratti complessivi di una antropologia del declino della ragione strumentale della politica mainstream, sedimentatasi nell’Italia dell’ultimo trentennio, quella dove le forme di soggettivazione si riproducono solo in tattiche di potere senza visione e senza uscita. Infatti, come non definire un disperato Mario Monti che parla di uscita dalla crisi entro pochi mesi?

Le revisioni delle stime del Fmi sull’Italia, che si presume conosca, proiettano al ribasso sia la recessione del 2012 che quella del 2013. Non solo: almeno due fattori globali, il rallentamento della “crescita” cinese (ai tassi più bassi dall’inizio degli anni ’90) e il fiscal cliff americano (la fine delle agevolazioni fiscali alla “crescita”, pari al 4% del Pil, entro il 2012) fanno capire che, a differenza di altri periodi anche recenti, la stagnazione non è solo italiana ma riguarda le locomotive economiche globali. Inoltre lo stato delle banche europee, se si segue la recente inchiesta del Wall Street Journal, è persino peggiore di quelle americane. I titoli tossici, spazzatura, inesigibili, speculativi affollano disordinatamente i portafogli delle banche del continente, se si sta all’inchiesta del WSJ, maggiormente rispetto a quelli delle consorelle americane. Dove siano le condizioni strutturali della ripresa, specie quando la governance continentale delle banche resterà ufficialmente in pieno caos per tutto il 2013 (come da compromesso recente nel vertice eurozona), lo sa solo Monti.

Ma in fondo lo sappiamo anche noi: le ragioni della ripresa stanno nella propaganda della disperazione. Di quel genere di disperazione di chi sa che ha un ruolo solo reiterando all’estremo l’unica politica che conosce. Mario Monti è l’Heinrich Brüning dei nostri tempi: similmente al cancelliere del Reich dal ’30 al ’32 attua una politica di tagli di bilancio e di deflazione salariale a prescindere dalla dinamica centrifuga che queste politiche provocano nel cuore della società. Brüning, a capo di un governo di centristi appoggiato dalla sinistra “responsabile”, sfuggì a stento da Hitler, il prodotto sociale maturo di quella stagione di austerità e rigore da lui promossa. Vedremo cosa accadrà a Mario Monti. [qualcuno potrebbe insinuare che Monti sia stato messo al potere proprio per generare quel tipo di clima – Monti è troppo intelligente per fare tutto questo in buona fede, NdR].

Comportamento simile lo troviamo in altri due disperati della politica italiana: Pierluigi Bersani e Matteo Renzi. Il primo ha sostenuto, nelle scorse settimane, con la copertura della discrezione di Repubblica e Unità, uno dei più robusti e silenziosi, almeno a livello di opinione pubblica, tentativi di salvataggio di banche tossiche della storia d’Italia. Stiamo parlando di una iniezione di liquidità superiore ai tagli delle pensioni della recente riforma Fornero a favore di uno dei feudi piddini: il Monte dei Paschi.  Allo stesso tempo, a differenza della Gran Bretagna (che è IL paese liberista) la decisiva immissione di liquidità non ha comportato che la banca passasse sotto controllo pubblico. Insomma, la società italiana ha compiuto uno sforzo immenso per pagare le avventure di MPS, e di riflesso del Pd, nel mondo della speculazione finanziaria.  Di fatto ha dovuto pagare anche il disastro MPS dell’acquisizione di Antonveneta (costata 9 miliardi), ma il controllo del Monte, a differenza di quanto accaduto in Gran Bretagna per casi analoghi, resta privato. Nonostante questo Moody’s ha declassato nei giorni scorsi i titoli MPS a spazzatura. Un’operazione da serio, serissimo dibattito politico. Lusi, Penati e lo scandalo Enac, di un altro collaboratore stretto di Bersani, rispetto a quanto è costato alla società italiana  MPS, e a fondo perduto, a confronto sono questioni da ricettazione di un camion trafugato pieno di salumi.

Non fosse che i titoli dei giornali di area centrosinistra sono tutti sulle regole delle primarie. E nel frattempo, con la defiscalizzazione dei crediti inesigibili delle banche (crediti inesigibili dove, già indirettamente, ci sono molte avventure di borsa) la società italiana paga un’altra cifra pari alla riforma Fornero. Già, e in questo scenario che ti tira fuori Bersani? La polemica con Renzi per le cene elettorali organizzate da un finanziere. Perché qui siamo su un altro piano di realtà: il campo di forza della creazione di consenso. E in quel campo di forza tornano utili, per vincere alle primarie, i servizi di Repubblica, ad uso dell’elettorato di centrosinistra quindi sterilizzati dalla realtà, su Occupy come il malcontento nei confronti dell’austerità genere Ballarò o Piazzapulita. Ecco quindi che, per estrarre il consenso necessario, Bersani il timoniere politico del crack MPS, già nella sala di comando ai tempi dell’operazione BNL-Unipol (quella della telefonata Fassino-Consorte “abbiamo una banca”), fautore della rapacità delle multiutility sui territori attacca Renzi perchè fa le cene promozionali con i finanzieri proprietari di società off-shore. Quando si dice la disperazione di Bersani: per vincere le primarie usando il tema delle banche bisogna tentare di tenere separato il campo della polemica da quello della realtà. Ridurre la questione a comportamenti che fanno effetto sugli spettatori di un televoto, dove si votano i personaggi meglio riusciti, e far evaporare il resto. Quello che paghiamo noi, tutti i giorni.

Su Renzi, il cui programma politico esporrebbe il paese ad una fine simile a quella dell’Argentina sotto Domingo Cavallo, bisogna dire che i tratti antropologici della disperazione del potere italiano sono di una particolare profondità che si agita  giusto sotto la superficie del non detto. La disperazione di Renzi, e di chi lo segue, che traspare da interviste sempre meno lucide, è quella di un potere anni ’90, blairiano che non ha mai avuto cittadinanza in Italia e che percepisce nervosamente di non avere futuro, qualsiasi sia l’esito delle primarie, viste le ristrutturazioni politiche ed economiche che abbiamo di fronte.

E qui, sotto le affermazioni renziane di disprezzo del fascismo e di desiderio di una vera democrazia, vediamo agitarsi dei tratti di disperazione che appartengono alle stagioni originarie delle squadracce fiorentine che riunivano futuristi e reduci della prima guerra mondiale. Basta guardare il pubblico di Renzi in sala e sentire le loro interviste, a volte ben fatte: l’adrenalina sale quando si parla di “decisione”, concetto sulla cui appartenenza a destra ci sono pochi dubbi in antropologia politica specie se, come qui, declinato con la consapevolezza di mandare a mare pezzi interi di società dopo un processo decisionale. L’eccitazione raggiunge l’acme nel modo con cui, Renzi dal palco e i fan nelle interviste, si coniuga il concetto di “merito”: come cavallo di Troia per farne passare uno nuovo di gerarchia.

Molto simile a quello espresso nella propaganda aziendale più autoritaria. Possiamo dirlo senza problemi: nel tentativo ansioso di riproporre schemi blairiani, applicabili fuori tempo massimo, alla società italiana il renzismo rielabora, nella forma della democrazia delle primarie, i trattici archetipici presenti nel fascismo della squadraccia della “Disperata” di Firenze: disprezzo per il lento sedimentarsi della vita sociale, selezione gerarchica degli appartenenti, mistica futuristica verso il nuovo. Allora quella tipologia comportamentale si nutriva del pensiero, comunque originale, di Marinetti. Oggi la sua sottile riedizione passa attraverso un pensiero importato e rimasticato, espresso da uno slang spaghetti marketing della politica pure cognitivamente povero. Renzi della squadraccia fiorentina ha rielaborato la disperazione politica ma non la sinistra originalità: il brand più importante di un raduno alla Leopolda era di Apple, gli slogan sono vintage fine anni ’90, l’organizzazione potrebbe indifferentemente essere applicata per una raccolta fondi fatta di titoli tossici o per il casting di un reality. L’immaginario della camicia, reiterato da Renzi con un bianco troppo acceso, rivela poi inavvertitamente l’antico eco della Disperata. In questo senso, il nero, il bruno e questo genere di bianco sono politicamente colori più vicini di quanto si osi pubblicamente dire. E questo in un paese che sembra più vicino all’Italia de Il Conformista di Bertolucci, una nazione apparentemente inerte in mano ad una propaganda ossessiva e a musica banale, che a qualsiasi altro periodo precedente.

[…].

Non guardiamo i dettagli, come lo spessore anonimo dei personaggi in scena o la formale fedeltà alla democrazia, piuttosto cerchiamo di capire quanto, e come, questo passato oscuro riesce a tornare sulla scena. In questo senso i briefing per la stampa dopo i vertici a Bruxelles, le conferenze della politica indoor fatti ad uso delle telecamere, i rapidi commenti a cascata su twitter su questi eventi, i blog dei giornalisti tipo “non ci sono alternative al rigore” che si richiamano a vicenda, la stampa intrisa di scandali da furto nella canonica rappresentano qualcosa di diverso dall’esercizio democratico della sfera dell’opinione pubblica. Perché c’è un modo disperato, un tratto antropologico dell’esercizio di questa democrazia che rischia di portarci direttamente frutti, materiali e sociali, prodotti da altri regimi”.

per Senza Soste, nique la police

21 ottobre 2012
http://senzasoste.it/internazionale/i-disperati

Gandhi o Arundhati Roy? La scelta che determinerà il futuro dell’umanità

 

a cura di Stefano Fait

 

 

Le grosse imprese commerciali e industriali hanno la loro personale scaltra strategia per trattare il dissenso. Con una minuscola parte dei loro profitti gestiscono ospedali, istituti educativi e fondazioni, che a loro volta finanziano ONG, università, giornalisti, artisti, cineasti, festival letterari e perfino movimenti di protesta. Usano la beneficenza per attirare nella loro sfera di influenza coloro che plasmano ed orientano l’opinione pubblica. È un modo di infiltrare la normalità, di colonizzare l’ordinarietà, così che sfidarle sembri tanto  assurdo  (o esoterico) quanto lo è sfidare la “realtà” stessa. Da qui a “non esiste alcuna alternativa”, il passo è breve ed agevole.

Arundhati Roy

http://www.ft.com/intl/cms/s/0/925376ca-3d1d-11e1-8129-00144feabdc0.html

Mussolini è un enigma per me. Molte delle riforme che ha fatto mi attirano. Sembra aver fatto molto per i contadini. Inverità, il guanto di ferro c’è. Ma poiché la forza (la violenza) è la base della società occidentale, le riforme di Mussolini sono degne di uno studio imparziale. La sua attenzione per i poveri, la sua opposizione alla superurbanizzazione, il suo sforzo per attuare una coordinazione tra il capitale e il lavoro, mi sembrano richiedere un’attenzione speciale. […] Il mio dubbio fondamentale riguarda il fatto che queste riforme sono attuate mediante la costrizione. Ma accade anche nelle istituzioni democratiche. Ciò che mi colpisce è che, dietro l’implacabilità di Mussolini, c’è il disegno di servire il proprio popolo. Anche dietro i suoi discorsi enfatici c’è un nocciolo di sincerità e di amore appassionato per il suo popolo. Mi sembra anche che la massa degli italiani ami il governo di ferro di Mussolini.

M.K. Gandhi, Lettera a Romaine Rolland, dicembre 1931

Democrazia indiana? Non ci può essere alcuna democrazia in una società divisa in caste, pervasa di religioni fatalistiche  e misantropiche. L’India non è la più grande democrazia del mondo, non è moderna e non è laica. È dominata da un’élite oligopolista neofeudale che intrattiene rapporti neocoloniali con l’impero anglo-americano (potenza militare di Washington, potenza finanziaria della City di Londra) e sbatte in faccia a centinaia di milioni di poveri la sua opulenza in una nazione che si permette di esportare cibo mentre milioni di suoi cittadini vivono nella miseria più nera. Il sistema giudiziario protegge i ricchi (che possono uccidere restando impuniti) ed opprime i poveri (specialmente le donne). L’esercito è impiegato per tutelare gli interessi di pochi latifondisti a detrimento delle popolazioni degli stati di Tamil Nadu, Jharkand, Madya Pradesh, Orissa, Bengala, Bihar, che sono perennemente in rivolta, nell’indifferenza del mondo.

La struttura reazionaria dell’India fu molto utile al dominio britannico, che perciò non fece nulla per smantellarla, anzi la coltivò assiduamente. Oggi conviene agli oligopoli capitalisti, un terribile mix di oscurantismo orientale e avidità rapace occidentale: il peggio immaginabile. Tra la civiltà di un’umanità solidale e la barbarie della legge della giungla imposta da un’èlite che ha come unico obiettivo quello di restare tale, l’India è stata costretta a scegliere quest’ultima. L’ascesa del marchionnismo in Italia è un monito: non possiamo permetterci di sentirci al sicuro da questo genere di derive.

Qui si inserisce il discorso sull’ipocrisia della nonviolenza gandhiana. Gandhi ha predicato la nonviolenza a masse di oppressi in una della società più brutalizzanti che si possa immaginare. Che senso aveva convincere le masse a stare calme e non reagire, come una placida mandria, senza mai condannare la classe/casta dominante che con le sue consuetudini, leggi e politiche economiche diffondeva ed acuiva le disparità sociali, traendone lauti profitti? Non era e non è ancora oggi la peggiore delle violenze, questa? La violenza di interessi di parte mascherati da fatalismo, da “così va il mondo, è sempre stato così e così sempre sarà”? La violenza di una concezione nietzscheana del mondo?

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/24/morbido-e-bello-perche-amo-il-femminino-e-detesto-nietzsche-pur-ammirandolo/#axzz1nNrT1Utx

Con questa sua scelta di campo, Gandhi indossò i panni dell’apostolo di pace a beneficio del capitalismo più selvaggio e dell’imperialismo occidentale, persino di quello nazista, quando implorò Ebrei ed Inglesi di arrendersi mansuetamente all’aggressione nazista:

http://fanuessays.blogspot.com/2011/12/chi-era-veramente-gandhi.html

Ben diverso il comportamento di Arundhati Roy, che alle comode astrazioni di una realtà depurata dalle sue contraddizioni e ingiustizie preferisce la lotta contro una lurida quotidianità fatta di patimenti, iniquità, violenza incessante e multiforme, sfiducia e morte della speranza.

Gandhi annunciava al mondo di essere l’erede della migliore tradizione indiana, ma il Dharma dello Kshatriya gli ingiunge di proteggere i deboli e di aiutarli a proteggersi, non di esporli alla violenza contando sul fatto che, essendo numerosissimi, alla fine prevarranno quando l’oppressore sarà esausto. Questa è la logica utilitaristica dello scacchista, non di un autoproclamato campione dei diritti degli oppressi.

La Gita chiama ad essere correttori delle ingiustizie, non ad immolarsi senza resistere, senza neppure difendersi, come prescritto dalla Satyagraha, che raccomanda di essere pronti a morire e patire ogni sofferenza, purché non sia mai ricambiata. Il Satyagrahi rinuncia al diritto all’autodifesa e si vota al sacrificio supremo, alla sua dipartita. Lo spiega Gandhi: “l’unico dovere di un Satyagrahi è quello di sacrificare la sua vita a qualunque compito gli sia toccato. Questo è il fine più nobile che possa realizzare. Una causa spalleggiata da Satyagrahi così nobili non può mai essere sconfitta”. In questa maniera, assicurava Gandhi, il cambiamento sarebbe avvenuto spontaneamente, i forti si sarebbero sentiti in obbligo di effettuare le necessarie riforme.

Abbiamo visto che la storia ha dato torto a Gandhi. L’India indipendente non è un’India sensibilmente migliore di quella coloniale e i “nobili Satyagrahi” sono morti portando con sé nella tomba (nella cenere dei crematori) la loro causa.

Il Kshatriya, come il Satyagrahi, non temeva la morte, ma assegnava un valore alla vita, inclusa quella degli altri che si affidavano a lui cercando protezione. Per lui le due condizioni non erano esattamente intercambiabili come per Gandhi, che non sembrava dare valore alle vite dei suoi seguaci se non in funzione del trionfo della sua dottrina. Anche il semplice buon senso ci insegna che se una persona si trova a dover sostenere l’impegno di proteggere degli indifesi, l’ultima cosa che dovrebbe fare è cercare una morte “eroica” (patetica) ed “esemplare” (pessimo esempio) per mano di chi poi passerà ad eliminare le persone ora completamente indifese. Gandhi non comprese mai il senso di questa responsabilità, che gli spettava in quanto figura pubblica che sfidava, a suo modo, il potere ed in quanto esponente del Partito del Congresso (Indian National Congress) e del Congresso indiano per il Sudafrica (South African Indian Congress – SAIC); non la ritenne mai quell’ovvietà che appare come tale a qualunque persona di buon senso ed il cui raziocinio non sia obnubilato dal fanatismo ideologico.

Perché un avversario determinato ad averla vinta dovrebbe mostrare del buon cuore nel vedere che i suoi bersagli sono risoluti a non combattere e a non difendersi? È come rubare un leccalecca ad un bambino. L’aggressore consegue i suoi fini con inattesa ed eccitante disinvoltura. Lo Kshatriya, al contrario, è perfettamente consapevole del fatto che un cuore indomito ed una volontà di ferro non ottengono alcun risultato se non si è propensi ad usare la forza per proteggere se stesi e gli altri dall’aggressione e far valere i propri diritti e quegli degli altri. Tutti i più nobili rivoluzionari della storia, da Spartaco, a Zapata, a Sun Yat-sen l’hanno dato per scontato, molto assennatamente. È necessario combattere per proteggere la gente dalla sofferenza o per non esporla ad ulteriore sofferenza, se necessario fino alla neutralizzazione dell’aggressore/bullo, come si fece con i nazisti e come si è sempre fatto con chi è recidivo e dimostra di capire solo il linguaggio della forza (es. psicopatici/bulli):

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/16/golpe-psicopatico/#axzz1nNrT1Utx

Una difesa efficace, per lo Kshatriya, si basa sulla negoziazione (in cui si cercano di strappare i termini migliori), sull’approntamento di difese efficaci, sull’alleanza con i nemici dei propri nemici.

L’ahimsa era il monopolio del bramino, che non era tenuto a difendere la comunità, non essendo parte del suo dharma: il contributo del bramino apparteneva alla sfera intellettuale ed educativa (a volte esoterica e mistico-sciamanica) e gli era ben chiaro che qualcuno doveva sporcarsi le mani al posto suo, lo Kshatriya appunto, che doveva consigliare al meglio, se voleva avere ancora una comunità a cui impartire i suoi insegnamenti. Per di più l’ahimsa era ristretta ad una parte dei bramini, i Sannyasi, gli individui che aspiravano alla liberazione, non era certo pensata per le masse che non avevano alcun desiderio/predisposizione in tal senso. L’ahimsa era un mezzo per un ben determinato fine, non uno strumento di universale pacificazione.

Non si capisce come un devoto della Bhagavad Gita quale si considerava Gandhi potesse fraintendere il messaggio centrale del testo, contenuto nel discorso di Krishna ad Arjuna, che è tutto fuorché non-violento, essendo un’esortazione a combattere per ristabilire un equilibrio tra le forze – il Dharma, appunto – che era stato compromesso dall’altra fazione, che comprendeva alcuni suoi cugini (di qui i crucci di Arjuna).

L’interpretazione gandhiana di questo documento è intellettualmente disonesta ed equivale a dire che Gesù in realtà stava dalla parte delle autorità, contro le masse: un totale sovvertimento del messaggio originario. Per far valere il suo punto di vista Gandhi fu costretto a concludere che le descrizioni delle azioni e delle situazioni della Gita dovevano essere puramente allegoriche. Il che può anche essere vero, ma è insensato (o disonesto, appunto) dedurne che le forze che si scontrano a livello spirituale non debbano estroflettersi anche a livello materiale e che quindi l’insegnamento di Krishna non sia applicabile alla realtà fisica. Tanto più che proprio il dio spiega che le azioni umane non sono determinate unicamente dal loro libero arbitrio, che la realtà è un campo di battaglia tra forze cosmiche soverchianti (cf. Lost: Jacob e l’Uomo in Nero) e che ciascuno è chiamato a recitare una parte sul palcoscenico della storia:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/08/lost-eroi-nella-tempesta/

L’equivoco gandhiano non può che essere il frutto di una fanatica avversione alla violenza che, peraltro, non sembra averlo guidato nel suo ruolo di marito e di genitore (inflessibile, ma solo quando gli conveniva!):

http://fanuessays.blogspot.com/2011/10/il-vero-gandhi-nulla-di-cui-essere.html

Gandhi era convinto che solo una persona depurata da ogni difetto poteva farsi giudice del prossimo e delle sue malefatte. Era dunque un manicheo, un intellettuale che vede il mondo in bianco e nero: i puri (virtualmente inesistenti) e gli impuri (onnipresenti). La realtà è invece policroma. Gli Alleati, durante la Seconda Guerra Mondiale non erano certo puri, anzi, ma il nemico, il nazismo, era quanto di più impuro si fosse visto fino ad allora sulla faccia della terra e fu dunque correttamente contrastato con ogni mezzo disponibile. Falcone e Borsellino non erano forse sufficientemente puri per giudicare i mafiosi? Pertini non era sufficientemente puro per ricoprire il ruolo di Presidente della Repubblica?

Gandhi era un moralista troppo rigido, convinto che fosse possibile stabilire cosa fosse bene e male in senso assoluto, quando invece a noi umani è concesso solo di vedere le ombre del bene e del male, del giusto e dello sbagliato: vediamo i raggi del sole senza poter vedere il Sole, come suggeriva Agostino di Ippona.

Furono la sua vanità e la sua ambizione a renderlo inflessibile e spietato nei suoi rapporti con il prossimo e fin troppo indulgente in quelli con il suo ego, spingendolo a costringere una popolazione di centinaia di milioni di individui a redimersi ai suoi occhi, come quando affermò di pretendere che i musulmani indiani confessassero le loro colpe e si pentissero delle loro malefatte davanti a lui, come avevano fatto gli Hindu di Calcutta. Quanta superbia, quanta vanagloria in questa pretesa! Proprio lui che non riteneva che nessuno potesse essere giudice del prossimo e quindi fosse autorizzato ad usare la forza contro un antagonista: caduto, come Adamo, nella trappola del narcisismo, dell’hybris, dell’autobeatificazione:

http://fanuessays.blogspot.com/2011/11/il-narcisista-umanitario-parte-prima_14.html

http://fanuessays.blogspot.com/2011/12/limperialismo-umanitario-e-la.html

FONTE: http://www.scribd.com/doc/29991057/Violator-of-the-Kshatriya-Dharma

L’ALTERNATIVA A GANDHI È ARUNDHATI ROY

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/31/arundhati-roy-e-i-gattoni-tracotanti/#axzz1nNrT1Utx

 

La trascrizione tradotta del suo discorso a Zuccotti park, rivolto agli occupanti/indignati, il 16 novembre 2011:

Il capitalismo non può garantire benessere e giustizia sociale per tutte le persone.

Ieri la polizia ha sgombrato Zuccotti park, ma oggi le persone sono tornate. La polizia dovrebbe sapere che la protesta di Occupy Wall street non è una lotta per il territorio. Non stiamo combattendo per occupare un parco, ma per la giustizia. Giustizia non solo per il popolo degli Stati Uniti, ma per tutti. Con la protesta cominciata il 17 settembre, siete riusciti a introdurre un nuovo immaginario, un nuovo linguaggio politico nel cuore dell’impero.

Avete riportato il diritto di sognare in un sistema che cercava di trasformare tutti i suoi cittadini in zombie stregati dall’equazione tra consumismo insensato, felicità e realizzazione di sé. Per una scrittrice, lasciate che ve lo dica, questa è una conquista immensa. Non potrò mai ringraziarvi abbastanza.

Oggi l’esercito degli Stati Uniti conduce una guerra di occupazione in Iraq e in Afghanistan. I droni statunitensi uccidono civili in Pakistan e altrove. Decine di migliaia di soldati americani e di squadre della morte stanno entrando in Africa. Se spendere migliaia di miliardi dei vostri dollari per occupare l’Iraq e l’Afghanistan non dovesse bastare, oggi si parla anche di una guerra contro l’Iran. Dai tempi della grande depressione, la produzione di armi e l’esportazione di conflitti sono state gli strumenti fondamentali con cui gli Stati Uniti hanno stimolato la loro economia. L’amministrazione del presidente Barack Obama ha concluso un accordo con l’Arabia Saudita che prevede la fornitura di armamenti per 60 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti sperano di vendere migliaia di bombe antibunker agli Emirati Arabi Uniti. E hanno venduto aerei militari per cinque miliardi di dollari al mio paese, l’India, che ha più poveri di tutti i paesi dell’Africa messi insieme. Tutte queste guerre – dal bombardamento di Hiroshima e Nagasaki al Vietnam, dalla Corea all’America Latina – sono costate milioni di vite umane. E sono state tutte combattute per garantire l’american way of life.

Quattro proposte

Oggi sappiamo che l’american way of life – il modello a cui dovrebbe aspirare tutto il resto del mondo – ha fatto sì che negli Stati Uniti 400 persone possiedano la ricchezza di metà della popolazione. Ha significato migliaia di persone sbattute fuori dalle loro case e dal lavoro mentre il governo di Washington salvava le banche e le multinazionali: il gruppo assicurativo Aig ha ricevuto, da solo, 182 miliardi di dollari.

Il governo indiano adora la politica economica statunitense. Grazie a vent’anni di economia di libero mercato, oggi i cento indiani più ricchi possiedono beni che valgono un quarto del pil del pae­se, mentre più dell’80 per cento dei cittadini vive con meno di 50 centesimi al giorno.

Duecentocinquantamila agricoltori trascinati in una spirale di morte hanno finito per suicidarsi.

L’India lo chiama progresso, e oggi si considera una superpotenza. Come voi, anche noi indiani abbiamo una popolazione ben istruita, bombe nucleari e un livello di diseguaglianza vergognoso.

La buona notizia è che la gente ne ha abbastanza e non vuole più accettare tutto questo. Il movimento Occupy Wall street si è unito a migliaia di altri movimenti di resistenza in tutto il mondo grazie ai quali i più poveri tra i poveri si alzano in piedi per fermare l’avanzata delle multinazionali.

In pochi sognavamo di poter vedere voi – i cittadini degli Stati Uniti che stanno dalla nostra parte – combattere questo sistema nel cuore stesso dell’impero. Non trovo le parole per spiegare quanto tutto questo significhi.

Loro (l’1 per cento) dicono che non abbiamo richieste precise da fare. Non sanno, forse, che la nostra rabbia da sola sarebbe sufficiente a distruggerli. Ma ecco alcune proposte – alcuni miei pensieri “prerivoluzionari” – su cui possiamo riflettere insieme.

Noi vogliamo mettere un freno a questo sistema che fabbrica ineguaglianza. Vogliamo mettere un limite alla smisurata accumulazione di ricchezza da parte di alcuni individui e alcune società. Ecco le nostre richieste.

Primo. Mettere fine alle proprietà incrociate nel mondo degli affari. I produttori di armamenti, per esempio, non possono controllare reti televisive, le società minerarie non possono gestire i giornali, le aziende non possono finanziare le università, i gruppi farmaceutici non possono controllare i fondi per la sanità pubblica.

Secondo. Le risorse naturali e i servizi essenziali – acqua, elettricità, sanità e istruzione – non possono essere privatizzati.

Terzo. Tutti hanno diritto a una casa, all’istruzione e all’assistenza sanitaria.

Quarto. I figli dei ricchi non possono ereditare la ricchezza dei genitori.

Questa lotta ha risvegliato la nostra immaginazione. Da qualche parte, nel suo cammino, il capitalismo ha ridotto l’idea di giustizia al solo significato di “diritti umani”, e l’idea di sognare l’uguaglianza è diventata blasfema. Non stiamo combattendo per giocherellare con la riforma del sistema. Questo sistema deve essere sostituito. Da militante, rendo omaggio alla vostra lotta.

Salaam e zindabad.

Traduzione di Giuseppina Cavallo.

Internazionale, numero 929, 23 dicembre 2011

Arundhati Roy è una scrittrice indiana. Il suo libro più famoso è Il dio delle piccole cose (Guanda 1997).

http://www.internazionale.it/news/arundhati-roy/2011/12/27/lo-chiamano-progresso/

L’alternativa alla nonviolenza ipocrita e disfattista di Gandhi è la libertà, quella vera:

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/30/la-liberta-quella-vera/#axzz1nNrT1Utx


è l’autodifesa (in stile aikido), l’uso della forza e della violenza difensiva temperata da onestà intellettuale, equità, rispetto per i diritti e la dignità altrui e per i principi democratici, rifiuto di vedere nel prossimo una propria appendice o unicamente uno strumento per il proprio tornaconto, rifiuto di trasformarsi da vittime in aggressori:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/02/la-collera-dei-miti-sullimmoralita-di-pacifismo-e-nonviolenza/#axzz1nNrT1Utx

L’indignato dei nostri giorni può essere un vero Kshatriya:
http://www.informarexresistere.fr/2011/12/21/vendetta-e-rivoluzione-globale-leroe-indignato-in-omero-e-in-shakespeare/#axzz1nNrT1Utx

 

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: