Timeo anglos et dona ferentes (“adorata Spagna”…de che?)

PREMESSA

“La notizia è seria. Il premier spagnolo Mariano Rajoy ha scritto una lettera all’Unione Europea affinché questa si pronunci sulla possibile indipendenza della Catalogna. La parola “indipendenza” è sempre più sulle bocche dei catalani e qualcuno comincia a crederci davvero. Tra questi forse anche Rajoy, che altrimenti non si sarebbe premurato di chiedere a Bruxelles delucidazioni in merito. E Bruxelles ha risposto con una minaccia: se la Catalogna si dividerà dalla Spagna non sarà considerata membro dell’Unione e dovrà rinegoziare l’adesione.

http://www.eastjournal.net/catalogna-quando-lindipendentismo-distrae-dalla-crisi/22172

http://www.elperiodico.com/es/noticias/diada-2012/bruselas-avisa-que-catalunya-quedara-fuera-union-europea-independiza-2202243

Uscire dall’Unione Europea è come essere una gallina che si trova sbattuta fuori da un pollaio circondato da volpi (i mercati), in piena notte (va detto che il pollaio in questione è sotto il controllo di una volpe, ma almeno, assieme, le galline possono difendersi meglio).

Segue articolo di Ambrose Evans-Pritchard, intitolato “STAI MOLTO ATTENTA, ADORATA SPAGNA”

Ambrose Evans-Pritchard, figlio di un antropologo invischiato nella strategia del divide et impera dell’imperialismo britannico [cf. Jack Goody, The expansive moment: the rise of social anthropology in Britain and Africa 1918-1970, Cambridge [etc.]: Cambridge university press, 1995], scrive per il quotidiano simbolo dell’establishment inglese e preconizza la jugoslavizzazione/balcanizzazione della Spagna.

Molti internauti, senza informarsi, senza capire, hanno idolatrato AEP perché era contro l’euro, contro la troika e blablabla. Scrive per il quotidiano più neoliberista e promercati che esista nel Regno Unito ed è figlio di un emissario dell’imperialismo britannico: quanto ribelle ed anti-establishment potrà mai essere?

TESTO DELL’ARTICOLO

“Due settimane fa sono stato intervistato dal quotidiano catalano El Punt Avui (1). Ho detto la mia opinione secondo la quale sarebbe impensabile che lo Stato spagnolo intervenisse militarmente per fermare la secessione catalana.

Un gesto di questo tipo andrebbe a violare i trattati dell’Unione Europea e porterebbe alla sospensione della Spagna dall’Unione stessa. All’inizio del 21° secolo, queste cose non si fanno più.

“Non si può essere membri dell’ EU se si usa la forza” era il titolo.

Ma forse ho sottovalutato la solerzia dei responsabili dell’esercito spagnolo.

Infatti, è arrivato il commento da parte del Colonnello Francisco Alaman che ha fatto un parallelo storico con il 1936, garantendo la volontà di spazzar via i nazionalisti catalani, descritti come “avvoltoi”.

Il Colonnello ha proseguito: “L’indipendenza della Catalogna? Dovranno passare sul mio cadavere. La Spagna non è la Yugoslavia od il Belgio. Anche se il leone sta dormendo, non svegliatelo perché potrebbe tirar fuori una ferocia collaudata da secoli”.

In realtà non siamo minimamente come nel 1936. Ho passato parte del mio fine settimana a leggere nuovamente la magistrale biografia di Franco scritta da Paul Preston, un utile richiamo per tutti noi.

Nel 1936 il colpo di stato militare di Franco, era diretto contro il neoeletto Fronte Popolare, visto dai comandanti dell’esercito (ma non da tutti) come l’inizio di una conquista della Spagna da parte dei Bolscevichi. La rivolta di Franco era dunque una difesa della gerarchia cattolica contro il comunismo e la sovversione francese (nella loro mente).

Il governo spagnolo attualmente è un governo nazionalista di destra – Partido Popular – con collegamenti con l’Opus dei. Le parti sono completamente invertite.
In un certo senso il Colonnello Alaman ha ragione. La situazione sta diventando pericolosa.

E se pensate Alaman sia un caso isolato, il Tenente Generale Pedro Pitarch ha dichiarato che le parole di Alaman riflettono “il pensiero profondamente radicato in gran parte delle forze armate”.

Il generale Pedro Pitarch ha dichiarato che dell’indipendenza della Catalogna non c’è nemmeno da parlarne, aggiungendo che Madrid ha gestito la questione in modo disastroso, tanto da fargli affermare: “Abbiamo una Stato inetto?”

Inoltre c’è stata anche una minaccia da parte della Asociación de Militares Españoles (AME) – un’associazione di ufficiali in pensione – la quale mette in guardia chi ha intenzione di promuovere la “spaccatura della Spagna” che dovrà difendersi da accuse di tradimento davanti a tribunali militari.

Ecco cosa scrive El Mundo (2) :

Il comportamento del Governo catalano e dei membri del suo Parlamento è inammissibile.

In base all’articolo 8 della sua Costituzione, le Forze Armate sono i guardiani dello Stato spagnolo e dell’integrità del suo territorio e per difendere la sovranità e la Magna carta della nazione spagnola, eseguiranno il proprio compito “con scrupolo e in modo meticoloso”.

L’AME ha dichiarato che il minimo accenno di secessione “sarà represso”. I trasgressori devono avere bene in mente che “sotto la giurisdizione dei tribunali militari, dovranno rispondere rigorosamente alla pesante accusa di alto tradimento”.

Ma parlano a nome dell’esercito? Si dovrebbe presumere di no e ci si dovrebbe  aspettare un disconoscimento ufficiale – sull’ipotesi di intraprendere una tale linea – da parte del Re Juan Carlos, o dal premier Mariano Rajoy o dagli alti gradi delle Forze Armate.

Nelle democrazie l’uso di tribunali militari è proibito contro i civili (sorvoliamo su Guantanamo). I presunti cospiratori del presidente Abramo Lincoln furono portati davanti a tribunali militari USA e condannati all’impicccagione, dando il via ad una lunga battaglia legale alla fine della quale la Corte Suprema decretò che una simile procedura era anticostituzionale e che una cosa del genere non sarebbe mai più dovuta accadere.

Così alla luce di ciò, quello che sta succedendo in Spagna è un ribaltamento degli eventi molto pericoloso. Suggerire come una grande nazione quale la Spagna debba gestire le proprie questioni non è certo compito di un pirata inglese.

(Il mio problema poi consiste nell’essere un gallese supporter dell’unione con la Gran Bretagna che è un po’ come un supporter catalano a favore dell’unità con la Spagna… ma solo con mezzi democratici. L’uso della forza cambia tutte le cose).

In questo momento in Europa le cose si stanno muovendo molto velocemente. La settimana scorsa il Portogallo è stato sconvolto, mentre la Spagna è in uno stato di crisi maggiore. La maggior parte dell’Europa del sud è in una situazione imprevedibile.

È colpa dell’unione monetaria e dell’euro? Certo, naturalmente lo è [NO, NATURALMENTE NON LO È, È COLPA DI CHI HA CRIMINALMENTE GESTITO L’EURO E LA CRISI INCHINANDOSI AI DIKTAT DEI MERCATI E DELL’FMI E FAVORENDO GLI SPECULATORI PRO-DOLLARO, OSSIA PRO-NATO, NdR]. Mentre gran parte del mondo – inclusa la Gran Bretagna – sta pagando una profonda crisi economica, il danno concentrato con un’intensità letale in quegli stati vittime dell’Unione Monetaria Europea. Il tasso di disoccupazione spagnolo è al 25% e non si è ancora fatto sentire a pieno il morso dell’austerità.

E come se ancora non bastasse, le popolazioni hanno fatto la spiacevole scoperta che i loro Governi eletti non possono far nulla per liberarle dalla trappola e che hanno perso il controllo sul proprio destino.

Spagna e Portogallo sono intrappolate in un crollo cronico con le valute sopravvalutate. Pur avendo ripreso un po’ di competitività nel lavoro tagliando i salari, la cosa ha solo – ed obbligatoriamente – compensato il disastro dell’accoppiata debito-deflazione e li ha portati ancora di più vicino alla bancarotta.

Sicuramente il piano Draghi per l’acquisto di bond ha ritardato il giorno della resa dei conti. Ha abbassato il costo del rifinanziamento sovrano ed attutire la caduta, ma non è in grado di fermare la lenta asfissia di queste società.

Ci stiamo muovendo ora dalla fase finanziaria della crisi all’esplosione totale della crisi politica, il che davvero assomiglia agli anni ’30.

La gente mi domanda quando io sono diventato pessimista: la mia risposta è: “nel 1991, quando ho accompagnato le truppe Serbe nella città di Vukovar ed ho visto 300 prigionieri feriti portati via dall’ospedale, pensando che fossero finalmente al sicuro per poi venire a sapere che poco dopo erano stati falciati a colpi di mitra in una vicina fattoria, ecco, allora sono diventato pessimista”.

L’impensabile avveniva davanti ai miei occhi, ed era ancora nulla rispetto al massacro di 8.000 bosniaci musulmani – uomini e ragazzi – a Srebrenica, di cui poi ho riferito nel processo a l’Aia.

Quando le cose iniziano a prendere una brutta piega, vanno a finire ancora peggio. Stai molto attenta, adorata Spagna”.

Ambrose Evans-Pritchard

Fonte: http://blogs.telegraph.co.uk

Link: http://blogs.telegraph.co.uk/finance/ambroseevans-pritchard/100020330/be-very-careful-beloved-spain/

25.09.2012
Traduzione per http://www.comedonchisciotte.org a cura della redazione

Commento del lettore Bellerofon: “Come dimenticare i bombardamenti italiani in Serbia nel 1999 (D’Alema premier…), ed il riconoscimento del Kosovo indipendente da parte del nostro Paese nel febbraio 2008? Quella di Evans Pritchard non è una minaccia, bensì una “cronaca dal futuro”. Prossimo, già programmato, e che ci riguarderà MOLTO da vicino”.

http://fanuessays.blogspot.it/2011/10/un-po-di-chiarezza-sullintervento-in.html

Molto da vicino:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/07/17/il-corriere-della-sera-pubblica-un-inno-alla-jugoslavizzazione-dellitalia-perche/

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/07/20/bruno-luvera-tg1-rai-sulla-jugoslavizzazione-dellitalia-e-la-balcanizzazione-delleuropa/

Perché il lupo perde il pelo ma non il vizio:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/05/11/rivoluzioni-colorate-e-primavere-arabe-preludio-alla-terza-guerra-mondiale/

ed è ancora il lupo di sempre:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/31/il-terzo-impero-britannico-il-braccio-e-a-washington-la-mente-a-londra/

La guerra in corso tra Germania e USA – un’interpretazione della crisi (Gattei di UniBo)

Premetto il commento critico di un lettore
“Una buona sintesi del pensiero repubblichino, cioè una costruzione basata su articoli di Repubblica, che tende raggiungere gli obiettivi prefissati in partenza:
– la colpa è della Germania (da personalizzare come Merkel per avere un migliore effetto antropomorfo, il nemico deve essere un umano);
– non c’è alternativa a questo pensiero economico;
– la NATO non c’entra niente;
– Goldman Sachs poverina, cerca di aiutare questi europei disastrati;
– le agenzie di rating fanno del loro meglio per riportare onestamente il valore delle valute.
C’è una parte iniziale promettente sul partito della finanza (citazione inziale di Giannuli) ma serve solo per colpire l’attenzione, perchè poi si devono raggiungere le conclusioni prefissate.
In realtà siamo in un gioco dove tutti barano e la prima regola per ristabilire ordine al tavolo da gioco è cacciare i bari. Con le buone o con le cattive”.

Giudizio mio: Gattei aggira un po’ troppo facilonamente un paio di contraddizioni fondamentali nel suo ragionamento, attribuendo il comportamento dei politici tedeschi allo choc dell’iperinflazione di un secolo fa e ad un atteggiamento dottrinale in materia di politiche economiche. Mi pare francamente implausibile. C’è del buono in quest’analisi e c’è del meno buono, ossia buchi, segnalati dal lettore summenzionato che ha ragione da vendere nel sottolineare come lo studioso abbia preso per buona la lettura della crisi fatta dalla Repubblica, che non è certo imparziale. Tali buchi andrebbero riempiti con argomentazioni solide, che qui non ci sono. Non credo che Gattei sia in malafede. E’ che un economista tende a vedere solo alcuni aspetti di certe questioni e non altri, come tutti. Se, per di più, fa un eccessivo affidamento sul punto di vista di un quotidiano dell’establishment, difficilmente potrà procedere spediatamente sulla strada della ricerca della verità.
Comunque ecco l’analisi in questione.

“La Germania contro tutti”

di Giorgio Gattei, docente di Storia del pensiero economico presso la Facoltà di Economia di Bologna.

1. Se la Grande Germania ritorna.

Quando i giornali raccontano la speculazione finanziaria in atto come un attacco dei “mercati” contro l’Europa, non la dicono giusta. Innanzi tutto, cosa sono mai questi “mercati”? «Hanno fisionomia giuridica, un portavoce, un responsabile, un legale rappresentante, qualche nome e cognome al quale, all’occorrenza, presentare reclamo? Qualcuno ha mai votato per loro? Se sbagliano, si dimettono? Quando e dove è stato deciso che il loro giudizio (il famoso “giudizio dei mercati”) conta di più dell’intera classe politica mondiale?» (M. Serra, “La Repubblica”, 19.6.2012).

E poi, siamo proprio sicuri che essi si muovano contro l’Europa od il suo omologo monetario, l’euro, e non piuttosto contro qualcosa di ben più specifico e nazionale come la Germania? Per capirlo, bisogna partire da lontano.

Si è ormai costituito da tempo a livello planetario un vero e proprio partito della finanza che comprende tutti coloro che guadagnano dai movimenti dl capitale speculativo. Stimabile attorno ai 90 milioni di persone, questo vero e proprio “blocco sociale” opera sui mercati di Borsa «come un partito informale ma solidissimo, in grado di determinare l’andamento dell’economia e di condizionare in modo determinante la politica» (A. Giannuli, Uscire dalla crisi è possibile, Milano 2012, p. 43). È questo “partito della finanza” che agita i “mercati”, i quali però vanno declinati al plurale perché non hanno un comportamento univoco secondo a come si muovono nei confronti delle due valute monetarie che si contendono gli scambi internazionali: il dollaro e l’euro. Conseguentemente due sono i suoi poli geografici di riferimento: da un lato gli Stati Uniti e dall’altro la Germania, che è la vera custode della solidità di quella moneta unica europea decisa a fare concorrenza al dollaro.

È questa una contrapposizione recente. Gli accordi di Bretton Woods del 1944 avevano consegnato agli Stati Uniti il monopolio della emissione della moneta mondiale e nemmeno la fine della convertibilità del dollaro in oro nel 1971 era riuscita a scalfirne la supremazia valutaria. È solo con la ricomposizione delle due Germanie nel 1990 che le cose sono cambiate. La divisione della Germania in due unità separate e contrapposte era stata la conseguenza/punizione per i due disastrosi “assalti al potere mondiale” che aveva tentato manu militari nel 1914-1918 e nel 1939-1945. Per evitarne un terzo gli alleati vincitori l’avevano smilitarizzata e tagliata in due come una sogliola. Ma con la riunificazione successiva alla implosione dell’URSS, il problema geopolitico si è ripresentato: quale collocazione internazionale, adeguata alla sua potenza non più militare bensì economica, dare alla rinata Grande Germania?

 

2. Due visioni geopolitiche.

Secondo la dottrina geopolitica anglosassone, come è stata elaborata da Halford Mackinder e Nicholas Spykman, ci sarebbe nel mondo un luogo privilegiato, detto il “Cuore della terra” (Heartland), il cui controllo politico assicurerebbe il governo del pianeta [NOTA MIA: il famigerato ed in fluentissimo Zbigniew Brzezinski sottoscrive questa visione geopolitica]. Questo centro strategico della storia è posizionato nelle grande steppe euroasiatiche, così che soltanto la Russia può impadronirsene. Con una limitazione, però: che per esercitare nei fatti la supremazia geopolitica, essa deve traboccare su qualcuna delle “Terre di contorno” (Rimlands) che la circondano e che si affacciano sui mari caldi degli oceani Atlantico, Indiano e Pacifico. Da qui l’obiettivo permanente della Russia (zarista, sovietica o quant’altro) di muoversi verso l’Europa, il Medio Oriente, l’Afghanistan o la Corea, ma con la Gran Bretagna prima e gli Stati Uniti poi a contrapporle una accorta ed efficace (finora) azione di “contenimento-respingimento”.
Però la Germania ha dato alla geopolitica un proprio ed originale contributo per opera di Karl Haushofer (1869-1946). Secondo questa diversa “visione” del mondo non è più questione di “Cuore della terra” e “Terre di contorno” ad esso concentriche, bensì di Pan-Regioni che si estendono nel senso dei meridiani, da polo a polo, avendo ciascuna uno stato-guida dominante [NOTA MIA: Carl Schmitt, l’eminente giurista filo-nazista che tanto influenzò Leo Strauss, il padre dei neocon americani, apparteneva a questa stessa scuola di pensiero].

Esse sono quattro, e quindi Pan-America con a capo gli Stati Uniti, Pan-Asia guidata dal Giappone (ma oggi si dovrebbe dire meglio la Cina), Pan-Eurasia dominata dalla Russia e Pan-Europa a direzione tedesca. E siccome ogni Pan-Regione dovrebbe godere del proprio “spazio vitale geopolitico” in reciproco rispetto con quello di ogni altra, alla Germania, in rapporti di buon vicinato con la Russia (il capolavoro di Haushofer è stato il patto Ribbentrop-Molotov del 1939), il Giappone e pure gli Stati Uniti, avrebbe dovuto spettare la guida delle penisole mediterranee che allora era facilitata dalla somiglianza di regime fascista presente in Portogallo (Salazar), Italia (Mussolini), Grecia (Metaxas) e Spagna (Franco): quattro paesi che nell’insieme già facevano in sigla PIGS = “maiali”.

Restavano estranee a questo Nuovo Ordine Europeo con mire espansionistiche sul Medio Oriente ed il continente africano soltanto le democrazie di Francia e Gran Bretagna, che comunque sarebbero state ridotte all’obbedienza con la forza. Si sa però che, se con la Francia la sottomissione riuscì, non altrettanto avvenne con la più ostica Gran Bretagna, nonostante il volo conciliatore tentato nel 1941 da Rudolph Hess (il vice di Hitler che era anche il migliore allievo di Haushofer) per trovare un accomodamento spartitorio col governo britannico. Ma proprio in quello stesso anno Hitler, smentendo le buone regole della geopolitica tedesca, dichiarava guerra all’Unione Sovietica ed agli Stati Uniti (fu solo allora che la guerra “europea” divenne “mondiale”), votandosi a quella clamorosa sconfitta da cui dovevano nascere le due Germanie separate da una “cortina di ferro”, poi materializzatasi fisicamente nel Muro di Berlino, che doveva sancire la fine di una Pan-Europa autonoma dalle altre Pan-Regioni.

 

3. “Framania” e i suoi “maiali”.

Con la riunificazione del 1990 il gioco geopolitico tedesco si è però riaperto e ha trovato una esplicita manifestazione di volontà nel documento elaborato nel 1994 per conto della CDU/CSU da Wolfgang Schäuble (cfr. Bonn va avanti con pochi sponsor, “Il Sole-24 Ore”, 12.9.1994 – artefice del progetto dell’Europa a due velocità:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/06/14/che-fine-fara-litalia-dopo-leutanasia-dellunione-europea/

http://www.alternativaeuropea.org/documenti/aemag/Edit26.htm).

Vi si teorizzava che senza un consolidamento interno l’Unione Europea avrebbe rischiato «di crollare per tornare ad essere un debole raggruppamento di Stati incapaci di soddisfare il bisogno di stabilità della Germania,… che è in linea di principio identico a quello dell’Europa considerata nel suo insieme,… in quanto gli USA non possono più svolgere il loro ruolo tradizionale ora che il conflitto Est-Ovest è un ricordo del passato». Però questa volta a «nocciolo duro» della rinascente Pan-Europa doveva essere posta una alleanza organica con la Francia, che da De Gaulle in poi si era mostrata insofferente della stretta tutela americana sulle cose europee. Attorno a questa Framania avrebbero ovviamente gravitato nazioni “satelliti” come l’Olanda, mentre i paesi “maiali” del Mediterraneo, ad esempio Spagna ed Italia, e perfino la Gran Bretagna avrebbero dovuto essere «convinti» ad aderire al Nuovo-Nuovo Ordine Europeo non appena avessero «risolto alcuni dei loro attuali problemi». Ma quali?

Se nella sua nuova offensiva geopolitica la Grande Germania non avrebbe fatto questione di supremazia militare (lasciando alla Francia il compito di assicurare all’Europa unita la deterrenza nucleare) bensì soltanto di egemonia finanziaria, ad essa i paesi mediterranei e la Gran Bretagna si sottraevano, come doveva vedersi negli anni successivi, per ragioni differenti. Intanto la Gran Bretagna, che batteva una moneta propria come la sterlina, ad essa non avrebbe rinunciato quando è nato l’euro, la moneta unica europea esemplata sul marco tedesco. A loro volta i paesi “maiali” vi hanno aderito gravati da debiti sovrani esagerati che i c.d. “parametri di Maastricht” non sono arrivati nel tempo a ridimensionare.

C’è però da dire che questo indebitamento sovrano non è tanto l’effetto di governi eccessivamente spendaccioni (come di solito si giudica), bensì del mal riuscito amalgama, all’interno dell’Unione Monetaria Europea, di economie nazionali organicamente difformi per capacità di produzione e, soprattutto, di esportazione – e questo proprio quando la moneta unica toglieva ai paesi in deficit commerciale la possibilità di adottare “svalutazioni competitive” della propria moneta per pareggiare i conti con l’estero, come era stato il caso della svalutazione della lira nel 1992. All’ombra dell’euro si è così “cronicizzato” lo squilibrio tra i paesi esportatori netti di merci (il “nocciolo duro” con esportazioni maggiori delle importazioni) e quelli che invece importano più di quanto esportano (che è la vera causa del loro essere “maiali”). Ma ciò nemmeno basta perché, se lo scompenso della bilancia commerciale è stato pagato dai “maiali” in moneta comune, essi se la sono vista restituire dal “nocciolo duro” in cambio di titoli dei loro debiti sovrani così da lucrare interessi fino al loro rimborso. Se quindi il “nocciolo duro” ha finito per risultare esportatore netto di merci e creditore di capitali ed i paesi “maiali” importatori netti e debitori, tuttavia si riteneva che l’asimmetria si sarebbe sanata quando quei capitali ricevuti in prestito si fossero indirizzati alla produzione di merci per l’estero, riportando progressivamente la bilancia commerciale in pareggio. Nell’attesa di tanto risultato in Europa si pazientava, finché a mezzo 2011 non è successo qualcosa che ha fatto precipitare la situazione.

 

4. I “mercati” tra dollaro ed euro.

Nel pieno dell’estate del 2011, quale conseguenza del duro braccio di ferro dei “mercati” contro il governo di Washington che era necessitato a violare il limite di legge posto all’indebitamento pubblico, quel limite è stato sforato ma le agenzie di rating (longa manus dei “mercati”) hanno punito il debito sovrano americano togliendogli la valutazione massima di tripla A (cfr. G. Gattei, La grande guerra dei rating (2011-2011), Bologna, 2012). Siccome però il debito sovrano tedesco manteneva la valutazione AAA, si è creata una fastidiosa disparità di rating che avrebbe potuto portare i risparmiatori internazionali, nelle proprie scelte d’investimento, a preferire i Bund di Berlino ai Bond di Washington. Che i “mercati” avessero finito per fare gli interessi della Germania? A ciò bisognava porre urgentemente rimedio, ma senza rinnegare la punizione inflitta al governo di Obama.

I titoli pubblici tedeschi a tripla A sono espressi in euro. Ed è un paradosso che in euro siano espressi anche i debiti sovrani dei paesi “maiali” che costituiscono l’anello debole della Unione Monetaria Europea e che godono (si fa per dire…) di rating di bassa, se non di pessima qualità. Perché allora non approfittare del difficile momento congiunturale per deprezzare ulteriormente i loro rating, così da allontanare i risparmiatori dall’acquisto di titoli sempre più “maiali” ma più di tutto svalutando il portafoglio di quanti (siano Stati, banche o imprese) li detengono? È stata così innescata l’arma micidiale dello spread che paragona il prezzo d’acquisto dei titoli in euro dei paesi “maiali” con i migliori sul mercato quali sono, per l’appunto, i Bund tedeschi. Se i risparmiatori, a fronte di rating peggiorati, si fanno riluttanti ad acquistarli, per indurli a sottoscrivere bisognerà offrire loro migliori condizioni di rendimento, da cui consegue l’aumento dello spread. Ma a tassi d’interesse più alti peggiorano i bilanci pubblici dei paesi “maiali” che potrebbero finire per trovarsi addirittura costretti a ripudiare quei debiti diventati troppo onerosi per le loro finanze (qualcosa di simile non è forse successo in Argentina qualche tempo fa e non si è ripetuto in Islanda nel 2010?). In caso di default di Grecia, Portogallo, Spagna o Italia i possessori dei loro titoli si troverebbero con quella loro parte di portafoglio inesigibile e le agenzie di rating avrebbero tutte le buone ragioni per abbassare i rating delle imprese private e degli Stati “incagliati” in quei crediti a rischio. Sia uno di questi Stati la Germania: non si meriterebbe allora di perdere la tripla A equiparandosi al rating americano?

 

5. “Fiscal compact”.

Di fonte alla minaccia la Germania è corsa subito ai ripari. Ma come difendere la massima valutazione del proprio debito sovrano? Imponendo ai paesi “maiali” di non far scherzi e di obbligarsi a ripagare i loro creditori “senza se e senza ma”. Lo strumento è stato l’accordo di fiscal compact sottoscritto dai governi europei nel marzo 2012 (solo Gran Bretagna e Repubblica Ceca non hanno firmato) poi passato alla ratifica dei parlamenti nazionali. La “filosofia” del fiscal compact è presto detta: se lo spread peggiora la situazione finanziaria dei bilanci pubblici dei paesi “maiali” minacciandone il default, il rimedio sta nel rimborsare la più parte del debito sovrano esistente vincolandosi contemporaneamente a non accenderne più altro. È per questo che due sono i termini del patto a cui i governi si sono impegnati a dare esecuzione a partire dal 2013.

Il primo vincolo è l’obbligo del bilancio statale in pareggio, così che le spese pubbliche vengano interamente coperte dal gettito fiscale. Ma siccome tra le spese sono compresi pure gli interessi da pagare sul debito esistente, i governi firmatari si obbligano in verità a realizzare un avanzo di bilancio primario, che è il saldo positivo d’imposte e tasse sulle spese statali. Se così non verrebbero più contratti nuovi debiti, per quelli vecchi che fare? Qui interviene il secondo vincolo che prevede il rientro in vent’anni della parte di debito eccedente il 60% del PIL, che è la percentuale originariamente prevista dagli accordi di Maastricht. Allo scopo di capire l’entità dello sforzo finanziario richiesto ai paesi “maiali”, si consideri il caso dell’Italia: a fronte di un debito pubblico che sfiora i 2000 miliardi di euro (120% del PIL), in vent’anni lo si dovrebbe ridurre della metà a colpi di 50 miliardi all’anno (50×20 = 1000). Ma considerando che ci sono anche gli interessi dai pagare sul debito esistente (sebbene in diminuzione per la riduzione progressiva del suo ammontare), si stima la necessità di un avanzo primario di 65 miliardi di euro all’anno da coprirsi con l’imposizione fiscale anche in assenza di qualsiasi spesa pubblica!

Comunque tanta severità di manovra era giustificata dall’idea della c.d. austerità espansionistica: se gli investimenti privati oggi difettano perché il risparmio viene “spiazzato” dallo Stato che lo sequestra per i propri fini improduttivi, con il bilancio in pareggio ed il rientro (almeno parziale) del debito sovrano si rimetterebbero in circolo capitali che affluirebbero spontaneamente verso i migliori impieghi occupazionali. Per questo (come spiegato da Wolfgang Schäuble, l’autore del programma geopolitico del 1994 che adesso è ministro delle finanze) «i piani di austerità non creano recessione» (“La Repubblica”, 1.3.2012), bensì sviluppo. Ma chi garantisce che, restituito dallo Stato ai creditori il “maltolto”, essi lo rivolgano ad investimenti produttivi e non invece a speculazioni finanziarie senza ricaduta in termini di produzione e occupazione? E poi nello specifico dei paesi “maiali”, essendo buona parte dei creditori straniera (quasi il 50% per l’Italia), a rimborsarla il risparmio nazionale non andrebbe a finire all’estero rilanciando altrove, ad esempio in Germania, la produzione per l’esportazione? Ma per esportare dove (si replica) se non proprio verso quei paesi “maiali” penalizzati dalla fuoriuscita dei propri capitali? Non ci sarebbe quindi convenienza per la Germania ad un programma di austerità, a meno che non si trovassero altri mercati di sbocco al posto di quelli, ormai avviati ad estinzione, dell’Europa mediterranea. È giusto, ma non è un caso che la Cancelliera Merkel sia corsa più volte a Pechino per concordare contratti d’esportazione con la Cina, ferrovia transiberiana coadiuvando.

 

6. I “mercati” contro la Germania.

La prospettiva di un’alleanza, anche solo logistica, della Germania con la Russia (che nella geopolitica anglosassone resta pur sempre il “Cuore della Terra”) preoccupa il governo di Washington, educato alla visione di Spykman-Mackinder. Per questo oltre Atlantico si giudica pericolosa una repressione finanziaria che finisca per marginalizzare il Mediterraneo spostando gli interessi commerciali della Germania verso l’Eurasia. Da qui nasce il sostegno ad un diverso trattamento dei debiti sovrani “maiali” che non passi attraverso quel loro rimborso coatto imposto dalle regole del fiscal compact.
Il soggetto dell’alternativa dovrebbe essere la Banca Centrale Europea che, rinunciando al proprio “principio di nascita” di sola difesa della stabilità dei prezzi, dovrebbe stabilire un livello tollerabile dello spread e, qualora i “mercati” lo superassero, intervenire acquistando i titoli sovrani dei paesi in sofferenza, così da riportarlo a quel giusto livello. Con peso finanziario ridotto i paesi “maiali” non dovrebbero più ricercare avanzi primari di bilancio esagerati e potrebbero dedicare le maggiori risorse a disposizione se non proprio ad aumenti della spesa pubblica (sempre malvista di questi tempi), almeno a riduzioni della pressione fiscale ormai a livelli insopportabili. Con più denaro in tasca, i cittadini potrebbero aumentare la domanda trascinando nella sua scia la produzione e l’occupazione. E quindi sarebbe crescita invece di austerità.

Ma come dovrebbe finanziarsi la BCE? Anche con la stampa di più moneta, così che i prezzi interni della zona-euro in aumento incentivassero le imprese alla produzione. Ma su quali sbocchi piazzare le maggiori merci prodotte? Intanto sul mercato europeo dove la domanda sarebbe in aumento anche per la sola crescita dell’occupazione; ma poi sui mercati esteri perché la maggior moneta circolante porterebbe ad una svalutazione dell’euro sul mercato dei cambi favorendo le esportazioni, anche dei paesi “maiali”, fuori dalla zona-euro. E qualcuno ha provato a quantificare la svalutazione che sarebbe necessaria per far riprendere a correre l’Europa: secondo Nouriel Roubini la BCE dovrebbe «mettere in circolazione più moneta e abbassare ancora i tassi, se non altro per far svalutare l’euro fino alla parità col dollaro» (“La Repubblica”, 2.4.2012).

Ma accetterebbe mai spontaneamente la Germania che la BCE si facesse artefice di una inflazione che nell’immaginario tedesco è parola (e cosa) tabù? La Germania non si è mai ripresa dallo shock della Grande Inflazione degli anni 1919-1923, a cui si addebita la responsabilità della salita al potere di Hitler. Così ragionando essa però rimuove il fatto inequivocabile che da quella iperinflazione si è usciti con la stabilizzazione del marco della socialdemocratica Repubblica di Weimar (1923-1932) e che la catastrofe elettorale del 1933 è stata piuttosto provocata dalla sciagurata politica di austerità deflattiva adottata dal governo Brüning (è ricorrenza storica che le dittature escano politicamente dalle deflazioni monetarie, mentre l’inflazione sposta l’elettorato a sinistra!). Ma tant’è. E allora, per superare la resistenza tedesca non resta che far agire i “mercati” che dovrebbero porre l’aut-aut a Berlino: o impegnare la BCE al salvataggio dei paesi “maiali” caricandosi in parte di quei debiti sovrani anche al prezzo d’indebolire l’euro, oppure spingere i “maiali” verso il default, così che le agenzie di rating siano giustificate ad abbassare le valutazioni di tutte le istituzioni (statali e non) che ne posseggono i titoli. Insomma, delle due l’una: o l’euro si svaluta rispetto al dollaro oppure la Germania perderà la tripla A.

7. “La finanza è un’arma e la politica è sapere quando tirare il grilletto” (F. F. Coppola, Il padrino, parte III).

A mezzo del 2011 l’asse “framanico” tra Angela Merkel e Nicholas Sarkozy sembra veramente inossidabile. Ne fa le spese Silvio Berlusconi, vaso di coccio tra due vasi di ferro, che quando si vede intimare ai primi di agosto dalla BCE di Jean Claude Trichet e del suo successore subentrante Mario Draghi di «rafforzare la reputazione della sua firma sovrana» adottando misure d’austerità estrema (leggere per credere!) da prendersi «il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di settembre 2011» (cfr. “Corriere della Sera”, 29.9.2011), tergiversa e lascia passare la scadenza di settembre. Ma ci si può fidare di un governo così “maiale”? Secondo i retroscena giornalistici è stata la Cancelliera tedesca, il 20 ottobre, a chiedere la testa di Berlusconi (cfr. “La Repubblica, 31.12.2011), eppure occorrono ancora tre settimane di pressioni concentriche perché quelle «dimissioni volontarie» giungano finalmente il 12 novembre, lasciando il posto ad un più malleabile (così si spera) Mario Monti, appena nominato senatore a vita perché la sostituzione non sembri extra-parlamentare.

E Monti, sebbene in precedenza “uomo Goldman Sachs”, sul momento viene incontro ai suoi sponsor europei facendo approvare da una alleanza parlamentare tripartisan (PD-UDC-PdL) l’anticipo del pareggio di bilancio al 2013 e quindi una manovra Salva-Italia d’inusitata durezza: i partiti, commenta, «non avrebbero potuto permettersi di correre il rischio di diventare così impopolari. Noi non abbiamo questo problema, non dobbiamo presentarci alle prossime elezioni» (cit. in C. Bastasin, Tra Atene e Berlino, Milano, 2012, p. 45). Però Monti è come Badoglio: proclama che la guerra continua, mentre già tratta l’armistizio con gli alleati. Infatti gli basta appena un viaggio a Washington nel febbraio 2012 per rivelarsi il migliore “amico americano”, come dimostra il 20 febbraio firmando, insieme ad altri 11 capi di governo europei (quello inglese in testa), una lettera di «misure coraggiose» per ripensare alla «crescita oltre l’austerità». Ma è fatica sprecata perché Merkel e Sarkozy non recepiscono. Comunque ad aprile lui ci riprova, in compagnia del presidente della Commissione Europea, per chiedere almeno un ripensamento delle regole del fiscal compact, ma la Merkel gli risponde che «il fiscal compact non si tocca» (“La Repubblica”, 28.4.2012).

Siamo quindi allo stallo e solo le elezioni francesi, che sostituiscono Sarkozy con il “socialista” Hollande, possono venire a fare la differenza. Lo si capisce il 30 maggio quando, in una teleconferenza, Obama e Monti ed Hollande vanno per tre volte alla carica del rigore di Berlino e «per tre volte Angela Merkel dice di no. In inglese e, per non sbagliare, anche in tedesco» (“La Repubblica”, 1.6.2012). Ma la resa dei conti non può tardare perché, come Obama ha suggerito a Monti, «se la Merkel non cede va messa spalle al muro» (“La Repubblica”, 7.6.2012). E’ il 28 giugno, al summit europeo di Bruxelles, quando va in scena lo psico-dramma: alle 19,30, in coincidenza con la partita di calcio Italia-Germania, Monti pone il veto dell’Italia su qualsiasi decisione comunitaria se prima non si costituisce un Fondo salva-Stati “maiali”. Lo spalleggia subito il presidente spagnolo Rajoy e «nella sala scende il gelo». Per il momento si sospende la seduta e si va a cena, così da vedersi anche la partita che finisce con l’Italia che batte la Germania e passa alla finale… con la Spagna! «Congratulations, Italy played very well», ammette alle 22,30 Angela Merkel, ma ben più esplicito è il commento del premier irlandese Enda Kenny perché (dice) adesso il veto di Italia e Spagna è diventato «di tutto rispetto perché è stato posto dalle due finaliste». Eppure esso potrebbe ancora non bastare se non vi si aggiungesse a sorpresa quello ben più pesante della Francia. La Germania è isolata e «alle 4,20 del mattino, dopo 15 ore di negoziati, la Merkel capitola» (“La Repubblica”, 30.6.2012). Lo scudo anti-spread si farà e «Vaffanmerkel» è il titolo liberatorio, ma poco elegante, di un giornale italiano di quel dì (però l’Italia dovrà pagare lo scotto di perdere la finale di calcio a ringraziamento di quell’aiuto spagnolo ricevuto a Bruxelles…).

 

8. Tempi supplementari.

Alla sconfitta la risposta di Berlino è rabbiosa. Il giorno dopo parte un ricorso alla Corte Costituzionale per verificare se possa la Germania firmare una partecipazione al Fondo salva-Stati senza preventiva autorizzazione del Parlamento nazionale. Contemporaneamente un altro ricorso arriva sul tavolo della Corte. In simultanea con il summit di Bruxelles è stato approvato dal Parlamento tedesco, con voto bipartisan CDU/CSU e SPD, l’accordo di fiscal compact. Questa volta è die Linke a non starci, promuovendo il giudizio di costituzionalità su di una misura che dall’estero condizionerebbe la libertà di decidere la politica di bilancio nazionale. Però la Corte prende tempo, annunciando il 17 luglio che darà il proprio parere solo il 12 settembre e che nel frattempo ci si affidi alla buona sorte. Subito, il 24 luglio, l’agenzia Moody’s ammonisce che la Germania mantiene ancora la tripla A, ma che il suo outlook (la previsione) da positivo passa a negativo dipendendo dall’esito della sentenza che sarà emessa su fiscal compact e scudo anti-spread.

Per più di un mese Borsa e spread vanno sulle montagne russe e solo il 6 settembre il presidente della BCE Mario Draghi riesce a mettere le mani avanti strappando al suo Consiglio Direttivo, col solo voto contrario della Bundesbank, l’autorizzazione di principio ad acquistare quantità «illimitate» di titoli dei paesi aggrediti dalla speculazione, qualora questi ne facciano esplicita richiesta. Ma c’è un codicillo. L’intervento della BCE non dovrà essere inflazionistico perché per l’ammontare del suo intervento dovranno essere ritirati altrettanti titoli dal mercato. Tecnicamente funzionerebbe così: la BCE immette moneta per acquistare i titoli “maiali” con vita residua da 1 a 3 anni (l’autorizzazione concessa consente solo questo), ma in contropartita venderà titoli che già possiede, non necessariamente “maiali” ed anche con scadenze superiori, per recuperare la maggior liquidità che ha messo in circolazione. Insomma, non ci sarà nessun aumento dei prezzi, men che meno svalutazione dell’euro e solo la BCE pagherebbe il proprio intervento peggiorando la qualità e la scadenza del proprio portafoglio titoli.

Poi finalmente arriva, il 12 settembre, la sentenza della Corte Costituzionale tedesca. Il Fondo salva-Stati è dichiarato legittimo (e quindi il presidente della BCE potrà dare esecuzione effettiva alla decisione di principio del 6 settembre), ma la Germania vi parteciperà solo fino al massimo di 190 miliardi di euro, così che quell’intervento “illimitato” diventa, almeno per i tedeschi, limitato. Ma pure il fiscal compact è dichiarato costituzionale, così che la sua approvazione da parte di Berlino può far legge per tutti i Parlamenti degli altri governi firmatari (in Italia si è già provveduto approvandolo ai primi di luglio). Come già spiegato, gli Stati aderenti si impegnano a rientrare del proprio debito sovrano fino al limite del 60% del PIL. Ma naturalmente non saranno i governi a rimborsarne i creditori, bensì i cittadini tutti a colpi di avanzi primari di bilancio che siano l’effetto di meno spese pubbliche e più tasse.
Così per il prossimo ventennio, che è il tempo stabilito per il rientro dell’eccedenza di debito sovrano, non ci potrà essere denaro per la crescita in Europa. E’ come nel Nuovo Ordine Europeo di nazista memoria: allora il Terzo Reich aveva risucchiato, come una enorme idrovora, nelle proprie fabbriche (anche di morte) la manodopera dei paesi vicini, alleati o sottomessi; adesso, nel Nuovo-Nuovo Ordine Europeo la Grande Germania ci riprova, ma questa volta più pacificamente risucchiando il denaro degli altri.

Giorgio Gattei, docente di Storia del pensiero economico presso la Facoltà di Economia di Bologna

http://www.carmillaonline.com/archives/2012/09/004458.html

20.09.2012

Le semifinali degli Europei – 73 anni dopo, chi conquisterà l’Europa?

Mercoledì 27 giugno è il turno della sfida fra Spagna e Portogallo.

Salazar e Franco

Il giorno successivo è in programma la seconda semifinale.

A Varsavia, ore 20.45, faccia a faccia fra l’Italia e la Germania.

Qualcuno non ha capito il senso di questo post. Mi spiego: non c’è alcuna dietrologia. Sto solo constatando una curiosa coincidenza: in Polonia (e Ucraina), la prima vittima della seconda guerra mondiale, si affrontano le dittature che hanno reso possibile quella guerra. Tutto lì.
Passo e chiudo.

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