Bersani o Renzi? Ma anche no!

I DISPERATI – Senza Soste

“Il grandissimo Elias Canetti [uno che cita Canetti per parlare di Renzi e Bersani è già indiscutibilmente un grande, NdR] parlava della disperazione come dell’unica forma disinteressata di esistenza. Insomma, un sentimento così profondo da superare, in importanza, l’interesse e il potere. Si trattava di un modo di esistenzializzare la disperazione. Come se fosse esclusivamente legata alla viva percezione della mortalità e al deperimento, alla caducità del senso del proprio agire. Nell’Italia della politica istituzionale la disperazione è invece legata al mantenimento, ad ogni costo, di ciò che si pensa essere interesse e potere. Persino a prescindere dal fatto che, una volta portato a compimento un piano, interesse e potere ci siano davvero. La disperazione rappresenta così i tratti complessivi di una antropologia del declino della ragione strumentale della politica mainstream, sedimentatasi nell’Italia dell’ultimo trentennio, quella dove le forme di soggettivazione si riproducono solo in tattiche di potere senza visione e senza uscita. Infatti, come non definire un disperato Mario Monti che parla di uscita dalla crisi entro pochi mesi?

Le revisioni delle stime del Fmi sull’Italia, che si presume conosca, proiettano al ribasso sia la recessione del 2012 che quella del 2013. Non solo: almeno due fattori globali, il rallentamento della “crescita” cinese (ai tassi più bassi dall’inizio degli anni ’90) e il fiscal cliff americano (la fine delle agevolazioni fiscali alla “crescita”, pari al 4% del Pil, entro il 2012) fanno capire che, a differenza di altri periodi anche recenti, la stagnazione non è solo italiana ma riguarda le locomotive economiche globali. Inoltre lo stato delle banche europee, se si segue la recente inchiesta del Wall Street Journal, è persino peggiore di quelle americane. I titoli tossici, spazzatura, inesigibili, speculativi affollano disordinatamente i portafogli delle banche del continente, se si sta all’inchiesta del WSJ, maggiormente rispetto a quelli delle consorelle americane. Dove siano le condizioni strutturali della ripresa, specie quando la governance continentale delle banche resterà ufficialmente in pieno caos per tutto il 2013 (come da compromesso recente nel vertice eurozona), lo sa solo Monti.

Ma in fondo lo sappiamo anche noi: le ragioni della ripresa stanno nella propaganda della disperazione. Di quel genere di disperazione di chi sa che ha un ruolo solo reiterando all’estremo l’unica politica che conosce. Mario Monti è l’Heinrich Brüning dei nostri tempi: similmente al cancelliere del Reich dal ’30 al ’32 attua una politica di tagli di bilancio e di deflazione salariale a prescindere dalla dinamica centrifuga che queste politiche provocano nel cuore della società. Brüning, a capo di un governo di centristi appoggiato dalla sinistra “responsabile”, sfuggì a stento da Hitler, il prodotto sociale maturo di quella stagione di austerità e rigore da lui promossa. Vedremo cosa accadrà a Mario Monti. [qualcuno potrebbe insinuare che Monti sia stato messo al potere proprio per generare quel tipo di clima – Monti è troppo intelligente per fare tutto questo in buona fede, NdR].

Comportamento simile lo troviamo in altri due disperati della politica italiana: Pierluigi Bersani e Matteo Renzi. Il primo ha sostenuto, nelle scorse settimane, con la copertura della discrezione di Repubblica e Unità, uno dei più robusti e silenziosi, almeno a livello di opinione pubblica, tentativi di salvataggio di banche tossiche della storia d’Italia. Stiamo parlando di una iniezione di liquidità superiore ai tagli delle pensioni della recente riforma Fornero a favore di uno dei feudi piddini: il Monte dei Paschi.  Allo stesso tempo, a differenza della Gran Bretagna (che è IL paese liberista) la decisiva immissione di liquidità non ha comportato che la banca passasse sotto controllo pubblico. Insomma, la società italiana ha compiuto uno sforzo immenso per pagare le avventure di MPS, e di riflesso del Pd, nel mondo della speculazione finanziaria.  Di fatto ha dovuto pagare anche il disastro MPS dell’acquisizione di Antonveneta (costata 9 miliardi), ma il controllo del Monte, a differenza di quanto accaduto in Gran Bretagna per casi analoghi, resta privato. Nonostante questo Moody’s ha declassato nei giorni scorsi i titoli MPS a spazzatura. Un’operazione da serio, serissimo dibattito politico. Lusi, Penati e lo scandalo Enac, di un altro collaboratore stretto di Bersani, rispetto a quanto è costato alla società italiana  MPS, e a fondo perduto, a confronto sono questioni da ricettazione di un camion trafugato pieno di salumi.

Non fosse che i titoli dei giornali di area centrosinistra sono tutti sulle regole delle primarie. E nel frattempo, con la defiscalizzazione dei crediti inesigibili delle banche (crediti inesigibili dove, già indirettamente, ci sono molte avventure di borsa) la società italiana paga un’altra cifra pari alla riforma Fornero. Già, e in questo scenario che ti tira fuori Bersani? La polemica con Renzi per le cene elettorali organizzate da un finanziere. Perché qui siamo su un altro piano di realtà: il campo di forza della creazione di consenso. E in quel campo di forza tornano utili, per vincere alle primarie, i servizi di Repubblica, ad uso dell’elettorato di centrosinistra quindi sterilizzati dalla realtà, su Occupy come il malcontento nei confronti dell’austerità genere Ballarò o Piazzapulita. Ecco quindi che, per estrarre il consenso necessario, Bersani il timoniere politico del crack MPS, già nella sala di comando ai tempi dell’operazione BNL-Unipol (quella della telefonata Fassino-Consorte “abbiamo una banca”), fautore della rapacità delle multiutility sui territori attacca Renzi perchè fa le cene promozionali con i finanzieri proprietari di società off-shore. Quando si dice la disperazione di Bersani: per vincere le primarie usando il tema delle banche bisogna tentare di tenere separato il campo della polemica da quello della realtà. Ridurre la questione a comportamenti che fanno effetto sugli spettatori di un televoto, dove si votano i personaggi meglio riusciti, e far evaporare il resto. Quello che paghiamo noi, tutti i giorni.

Su Renzi, il cui programma politico esporrebbe il paese ad una fine simile a quella dell’Argentina sotto Domingo Cavallo, bisogna dire che i tratti antropologici della disperazione del potere italiano sono di una particolare profondità che si agita  giusto sotto la superficie del non detto. La disperazione di Renzi, e di chi lo segue, che traspare da interviste sempre meno lucide, è quella di un potere anni ’90, blairiano che non ha mai avuto cittadinanza in Italia e che percepisce nervosamente di non avere futuro, qualsiasi sia l’esito delle primarie, viste le ristrutturazioni politiche ed economiche che abbiamo di fronte.

E qui, sotto le affermazioni renziane di disprezzo del fascismo e di desiderio di una vera democrazia, vediamo agitarsi dei tratti di disperazione che appartengono alle stagioni originarie delle squadracce fiorentine che riunivano futuristi e reduci della prima guerra mondiale. Basta guardare il pubblico di Renzi in sala e sentire le loro interviste, a volte ben fatte: l’adrenalina sale quando si parla di “decisione”, concetto sulla cui appartenenza a destra ci sono pochi dubbi in antropologia politica specie se, come qui, declinato con la consapevolezza di mandare a mare pezzi interi di società dopo un processo decisionale. L’eccitazione raggiunge l’acme nel modo con cui, Renzi dal palco e i fan nelle interviste, si coniuga il concetto di “merito”: come cavallo di Troia per farne passare uno nuovo di gerarchia.

Molto simile a quello espresso nella propaganda aziendale più autoritaria. Possiamo dirlo senza problemi: nel tentativo ansioso di riproporre schemi blairiani, applicabili fuori tempo massimo, alla società italiana il renzismo rielabora, nella forma della democrazia delle primarie, i trattici archetipici presenti nel fascismo della squadraccia della “Disperata” di Firenze: disprezzo per il lento sedimentarsi della vita sociale, selezione gerarchica degli appartenenti, mistica futuristica verso il nuovo. Allora quella tipologia comportamentale si nutriva del pensiero, comunque originale, di Marinetti. Oggi la sua sottile riedizione passa attraverso un pensiero importato e rimasticato, espresso da uno slang spaghetti marketing della politica pure cognitivamente povero. Renzi della squadraccia fiorentina ha rielaborato la disperazione politica ma non la sinistra originalità: il brand più importante di un raduno alla Leopolda era di Apple, gli slogan sono vintage fine anni ’90, l’organizzazione potrebbe indifferentemente essere applicata per una raccolta fondi fatta di titoli tossici o per il casting di un reality. L’immaginario della camicia, reiterato da Renzi con un bianco troppo acceso, rivela poi inavvertitamente l’antico eco della Disperata. In questo senso, il nero, il bruno e questo genere di bianco sono politicamente colori più vicini di quanto si osi pubblicamente dire. E questo in un paese che sembra più vicino all’Italia de Il Conformista di Bertolucci, una nazione apparentemente inerte in mano ad una propaganda ossessiva e a musica banale, che a qualsiasi altro periodo precedente.

[…].

Non guardiamo i dettagli, come lo spessore anonimo dei personaggi in scena o la formale fedeltà alla democrazia, piuttosto cerchiamo di capire quanto, e come, questo passato oscuro riesce a tornare sulla scena. In questo senso i briefing per la stampa dopo i vertici a Bruxelles, le conferenze della politica indoor fatti ad uso delle telecamere, i rapidi commenti a cascata su twitter su questi eventi, i blog dei giornalisti tipo “non ci sono alternative al rigore” che si richiamano a vicenda, la stampa intrisa di scandali da furto nella canonica rappresentano qualcosa di diverso dall’esercizio democratico della sfera dell’opinione pubblica. Perché c’è un modo disperato, un tratto antropologico dell’esercizio di questa democrazia che rischia di portarci direttamente frutti, materiali e sociali, prodotti da altri regimi”.

per Senza Soste, nique la police

21 ottobre 2012
http://senzasoste.it/internazionale/i-disperati

Presidenti americani schiettamente complottisti

I poteri del capitalismo finanziario avevano un obiettivo più ampio, niente meno che la creazione di un sistema globale di controllo finanziario in mani private in grado di dominare il sistema politico di ciascuna nazione e l’economia mondiale nel suo complesso. Questo sistema andava controllato in stile feudale dalle banche centrali di tutto il mondo, agendo di concerto, per mezzo di accordi segreti raggiunti in frequenti incontri privati e conferenze. Al culmine della piramide ci doveva essere l’elvetica Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) di Basilea, una banca privata posseduta e controllata dalle banche centrali mondiali che a loro volta erano imprese private…non bisogna immaginare che questi dirigenti della principali banche centrali del mondo fossero loro stessi dei ragguardevoli potenti nel mondo della finanza. Non lo erano. Erano piuttosto dei tecnici e gli agenti dei massimi banchieri commerciali delle loro rispettive nazioni, che li avevano allevati ed erano perfettamente capaci di liberarsene…e che rimanevano in gran parte dietro le quinte…Questi costituivano un sistema di cooperazione internazionale e di egemonia nazionale più privato, più potente e più segreto di quello dei loro agenti nelle banche centrali. Il dominio dei banchieri commerciali era fondato sul controllo dei flussi di credito e dei fondi di investimento nelle loro nazioni e nel mondo….potevano dominare i governi attraverso il controllo dei debiti nazionali e dei cambi. Quasi tutto questo potere era esercitato dall’influenza personale e dal prestigio di uomini che in passato avevano dimostrato la capacità di portare a compimento con successo dei golpe finanziari, di mantenere la parola data, di mantenere la mente fredda nelle crisi e di condividere le loro opportunità più vantaggiose con i loro associati.

Carroll Quigley, docente di storia, scienze politiche e geopolitica a Princeton, Harvard e Georgetown e mentore del giovane Bill Clinton, da “Tragedy and Hope: A History of the World in Our Time” (New York: Macmillan, 1966).

Molte persone non tengono in nessun conto l’ovvia constatazione che il potere corrompe ed il potere assoluto corrompe assolutamente. Queste persone vivono serenamente, godendo del tacito appoggio della massa (e dei media), spinta a farlo dai naturali meccanismi di difesa della psiche: nessuno vuole scoprire che la sua esistenza è precaria; che esercita solo un minimo controllo su di essa; che la realtà rischia di essere davvero così inquietante come in certi momenti ci troviamo a sospettare; che esistono forze economiche, politiche che lo considerano una cifra, una pedina; che la sua noncuranza, la sua beata innocenza rappresentano i migliori alleati di queste forze.

Tre presidenti americani – F.D. Roosevelt, D.D. Eisenhower e J.F. Kennedy – hanno dimostrato di non essere così sprovveduti. Nel 1936, Franklin D.  Roosevelt, nel suo discorso di accettazione della ricandidatura (Philadelphia, 27 giugno 1936) avvertiva i suoi concittadini che il superamento del feudalesimo e l’abolizione della schiavitù non aveva esaurito la necessità di combattere per la libertà e contro i potentati:

Perché da questa civiltà moderna gli aristocratici dell’economia hanno ricavato per sé nuove dinastie. Nuovi regni sono stati edificati sulla concentrazione del controllo dei beni materiali. Attraverso nuovi utilizzi di aziende, banche e titoli, nuovi macchinari industriali ed agricoli, nuovi usi del lavoro e dei capitali – il tutto inimmaginabile per i nostri avi – l’intera struttura della vita moderna è stata posta al servizio di questa nuova sovranità.

Non c’era posto in mezzo a questa regalità per le nostre molte migliaia di piccoli imprenditori e commercianti che hanno cercato di fare un uso degno e dignitoso del sistema americano di iniziativa e profitto. Non erano più liberi di quanto lo fossero operai e contadini. Anche i ricchi onesti e di vedute progressiste, consapevoli di quanto il loro successo fosse dovuto ad una miriade di fattori, non avrebbero mai potuto sapere dove inserirsi in questo schema dinastico.

È stato naturale e forse umano che i principi privilegiati di queste nuove dinastie economiche, assetati di potere, allungassero le mani per il controllo del governo stesso. Hanno creato un nuovo dispotismo e lo hanno avvolto nelle vesti delle beneplaciti giuridici. Al servizio di questo sistema, nuovi mercenari hanno cercato di irreggimentare la popolazione, il loro lavoro, le loro proprietà. E come risultato l’uomo comune si trova ancora una volta ad affrontare gli stessi problemi dei Minute Man (patrioti che dovevano essere pronti a combattere gli inglesi nel giro di un minuto, NdT).

Le ore di lavoro, i salari ricevuti, le condizioni di lavoro, tutto questo era passato al di là del controllo delle persone e veniva imposto da questa nuova dittatura industriale. I risparmi della famiglia media, il capitale del piccolo uomo d’affari, gli investimenti messi da parte per la vecchiaia – insomma il denaro altrui – sono stati lo strumento che la nuova regalità economica ha impiegato per trincerarsi.

Coloro che lavoravano la terra non raccoglievano più i frutti che spettavano loro di diritto. I loro modici guadagni erano decretati da uomini che vivevano in città lontane.

In tutta la nazione, le opportunità erano limitate dai monopoli. L’iniziativa personale è stata schiacciata dagli ingranaggi di questa grande macchina. Lo spazio per la libera intrapresa era sempre più ristretto. L’impresa privata, infatti, è diventata troppo privata. È diventata un’impresa privilegiata, non libera.

Un venerando giudice inglese una volta ha detto: “Gli uomini bisognosi non sono uomini liberi”. La libertà richiede la possibilità di farsi una vita decente in accordo con gli standard del proprio tempo, una vita che dia all’uomo non solo quanto basta per vivere, ma qualcosa per cui vivere.

Per troppi di noi l’uguaglianza politica che avevamo conquistato era priva di significato di fronte alla disuguaglianza economica. Un piccolo gruppo aveva concentrato nelle proprie mani il controllo pressoché completo sulle proprietà altrui, il denaro altri, il lavoro altrui, le altrui vite. Per troppi di noi la vita non era più libera, la libertà non era più reale, gli uomini non potevano più perseguire la ricerca della felicità.

Dwight D. Eisenhower, nel suo discorso di addio alla nazione, il 17 gennaio 1961, più allarmato ancora:

Nei concili di governo, dobbiamo guardarci le spalle contro l’acquisizione di influenze che non danno garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà o processi democratici. Non dobbiamo presumere che nessun diritto sia dato per garantito. Soltanto un popolo di cittadini allerta e consapevole può esercitare un adeguato compromesso tra l’enorme macchina industriale e militare di difesa ed i nostri metodi pacifici ed obiettivi a lungo termine in modo che sia la sicurezza che la libertà possano prosperare assieme.

Infine John F. Kennedy, in un discorso tenuto all’hotel Waldorf-Astoria di New York, il 27 aprile 1961, poco più di due anni prima del suo assassinio:

Signore e signori, la parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta e noi, come popolo, ci siamo opposti, intrinsecamente e storicamente, alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle riunioni segrete. Siamo di fronte, in tutto il mondo, ad una cospirazione monolitica e spietata, basata soprattutto su mezzi segreti per espandere la sua sfera d’influenza, sull’infiltrazione anziché sull’invasione, sulla sovversione anziché sulle elezioni, sull’intimidazione anziché sulla libera scelta. È un sistema che ha reclutato ampie risorse umane e materiali nella costruzione di una macchina affiatata, altamente efficiente, che combina operazioni militari, diplomatiche, di intelligence, economiche, scientifiche e politiche. Le sue azioni non vengono diffuse, ma tenute segrete. I suoi errori non vengono messi in evidenza, ma vengono nascosti. I suoi dissidenti non sono elogiati, ma ridotti al silenzio. Nessuna spesa viene contestata. Nessun segreto viene rivelato. Ecco perché il legislatore ateniese Solone decretò che evitare le controversie fosse un crimine per ogni cittadino. Sto chiedendo il vostro aiuto nel difficilissimo compito di informare e allertare il popolo americano. Sono convinto che con il vostro aiuto l’uomo diventerà ciò che per cui è nato: un essere libero e indipendente.

Poi i due Kennedy sono stati uccisi e le cose sono cambiate. Ora c’è più cautela.

Consideriamo tre dichiarazioni pubbliche risalenti al 2008, in piena campagna elettorale per le presidenziali americane che hanno portato alla vittoria Obama.

La prima è di Joe Biden, candidato alla vice-presidenza: “non passeranno sei mesi prima che il mondo metta alla prova Barack Obama come fece con John Kennedy (riferimento alla crisi dei missili di Cuba, NdR)… Ricordate quel che vi ho detto ora, se anche non ricorderete nessun’altra delle cose che ho detto. Badate, stiamo per avere una crisi internazionale, una crisi provocata (generated), per mettere alla prova la stoffa di quest’uomo…vi assicuro che succederà…e non sarà chiaro fin da subito che abbiamo ragione (20 ottobre, 2008).

La seconda è di Colin Powell, segretario di stato nella prima amministrazione Bush (20 ottobre, 2008): “I problemi resteranno sul tavolo e ci sarà una crisi, una crisi che arriverà il 21, 22 gennaio, la cui natura non ci è ancora chiara. Quindi penso che quello che il Presidente dovrà fare è iniziare a utilizzare il potere presidenziale e la forza della sua personalità per convincere il popolo americano e convincere il mondo che l’America è solida, che l’America andrà avanti, che risolveremo i nostri problemi economici e che rispetteremo i nostri obblighi con le altre nazioni”.

La terza arriva in serata, è di Madeleine Albright, segretaria di stato nella seconda amministrazione Clinton, alla quale si domanda di commentare quanto detto da Biden: “beh, penso sia una constatazione dei fatti, francamente…”.

Qui i videoclip che documentano queste dichiarazioni:

http://www.staticbrain.com/archive/prophecies-of-impending-disaster-powell-biden-albright/

Alcuni giorni dopo Zbigniew Brzezinski, uno dei pezzi grossi della politica internazionale americana, conferma questa linea: “Penso che quello che sta succedendo in questo momento – che non è altro che una crisi globale della leadership americana, niente di meno che questo – penso che il presidente eletto, chiunque sarà – e ho le mie preferenze [Obama, NdT] – dovrà iniziare subito ad inviare segnali, e dovrà prepararsi ad affrontare alcuni problemi imminenti

http://transcripts.cnn.com/TRANSCRIPTS/0811/02/fzgps.01.html

Dal caimano al caymanino

Davide Serra io lo conosco bene: una persona di grandissima qualità non solo professionale ma anche personale.
Corrado Passera, ministro dello sviluppo economico di un governo tecnico, imparziale, neutrale e, se proprio proprio, dalla parte dei cittadini comuni (e che bello sviluppo economico nell’Italia di Monti!)

Dal Corriere della Sera: “…Resta però il fatto che la holding proprietaria del gruppo di Serra, la Algebris Investments (Cayman) Ltd, sia stata costituita a suo tempo nelle Cayman Islands, riconosciuto e intoccabile paradiso fiscale. Luogo che non spicca per trasparenza… … Dalla holding delle Cayman sono stati versati nel 2011 alla società londinese di Serra (dati di bilancio) 6,94 milioni di sterline di commissioni. Nel 2010 erano 9,68 milioni. …”

Commento di Gaetano, lettore di Repubblica: “Va a pranzare ad Arcore, non si sa chi partecipa, di che parlano: e che c’è di male, sono andato a pranzo mica a cena. Non espone alcun simbolo del PD sul camper e nei comizi: e che c’è di male, sanno tutti che il PD è il mio partito. Cambiano lo statuto per lui: coerentemente, dice che le regole non si cambiano! Riunione a porta chiusa con banchieri-finanzieri-manager e frequentatori di paradisi fiscali: e che c’è di male, pecunia non olet! E risponde con stupide battute alla giornalista. Renzi può fare tutto: offendere persone e PD, riunioni segrete con tutti. Gli altri no: subito fa la vittima, invoca la trasparenza per gli altri. Dice che se perde resta a dare una mano a Bersani, se vince manda a casa tutti, compreso Bersani. Un fuoriclasse, non c’è che dire!”

«Oltre alla faccia di Renzi sui camper ci saranno simboli evocativi: sarà una campagna comunicativa rivoluzionaria» assicurano dal suo entourage. La decisione di rinunciare al simbolo del Pd, a meno di un improvviso cambio di rotta per evitare ulteriori attacchi da parte dei compagni di partito, muove da un presupposto: «Le primarie sono di tutto il centrosinistra, non solo del Pd — riflettono i consiglieri per la comunicazione — e quindi non vediamo perché Matteo debba esibire un simbolo che potrebbe allontanare una parte dei suoi potenziali elettori».

http://corrierefiorentino.corriere.it/firenze/notizie/politica/2012/31-agosto-2012/idea-renzi-niente-pd-camper-2111634610748.shtml

Secondo voi che candidato appoggia l’establishment? Romney o Obama?

 

PRINCIPALI FINANZIATORI DI OBAMA

University of California $491,868

Microsoft Corp $443,748

Google Inc $357,382

DLA Piper $331,715

Harvard University $317,516

US Government $299,923

Deloitte LLP $283,606

Sidley Austin LLP $283,269

Stanford University $238,803

 

PRINCIPALI FINANZIATORI DI ROMNEY

Goldman Sachs $676,080 [Banca]

JPMorgan Chase & Co $520,299 [Banca]

Morgan Stanley $513,647 [Banca]

Bank of America $510,728 [Banca]

Credit Suisse Group $427,560 [Banca]

Citigroup Inc $363,015 [Banca]

Barclays $349,400 [Banca]

Wells Fargo $320,025 [Banca]

http://www.opensecrets.org/pres12/contrib.php?id=N00000286

La rabbia e l’amore – sulla violenza in Grecia

 

di John Holloway [docente all’Istituto per le Scienze Umane e Sociali dell’Università Autonoma di Puebla]

Non mi piace la violenza. Non penso che ci sia molto di guadagnato nel bruciare le banche e rompere le vetrine. E tuttavia mi sento bene quando vedo la reazione ad Atene ed in altre città della Grecia all’approvazione da parte del parlamento greco delle misure imposte dall’Unione Europea. Di più: se non ci fosse stata un’esplosione di rabbia, mi sarei sentito sprofondare in un mare di depressione. Questa gioia è quella che si prova a vedere il poveraccio sempre bistrattato, ribellarsi e ruggire.  La gioia di vedere quelli che hanno preso mille schiaffi, ridarli indietro.
Come possiamo chiedere alla gente che accetti con calma i feroci tagli al tenore di vita che implicano queste misure di austerità? Possiamo immaginarci che siano d’accordo sul fatto che il massiccio pontenziale creativo di così tanti giovani venga semplicemente eliminato, i loro talenti intrappolati in una vita di disoccupazione di lunga durata? E tutto ciò solamente per ripagare le banche e far diventare più ricchi i ricchi?
Tutto ciò solamente per mantenere un sistema capitalista che ha oltrepassato da molto tempo la sua data di scadenza, e che adesso offre al mondo soltanto distruzione. Per i greci, accettare queste misure con moderazione significherebbe moltiplicare la depressione con la depressione, depressione per un sistema fallito con l’aggiunta della depressione per la dignità perduta. La violenza della reazione in Grecia è un grido che si rivolge al mondo. Per quanto ancora staremo seduti a guardare mentre il mondo viene fatto a pezzi dai barbari cioè dai ricchi e dalle banche? Per quanto ancora staremo a guardare le ingiustizie che aumentano, il sistema sanitario smantellato, l’educazione ridotta ad un non-senso acritico, le risorse di acqua del mondo privatizzate, le comunità spazzate via e la terra devastata per i profitti delle compagnie minerarie?
L’attacco che si mostra così acuto in Grecia sta avvenendo ovunque nel mondo. Da tutte le parti il denaro sta assoggettando l’umano e la vita non umana alla sua logica, la logica del profitto. Ciò non è qualcosa di nuovo, ma l’intensità e l’ampiezza dell’attacco sono nuove, ed è nuova anche la generale consapevolezza che la dinamica attuale sia una dinamica di morte, che è verosimile che tutti ci stiamo dirigendo verso la scomparsa della vita umana sulla terra. Quando i commentatori esperti spiegano i dettagli delle ultime negoziazioni tra i governi sul futuro dell’eurozona, si dimenticano di menzionare che ciò che viene negoziato così biecamente è il futuro dell’umanità.
Siamo tutti Greci. Siamo tutti dei soggetti la cui soggettività è stata schiacciata dal rullo compressore di una storia determinata dal movimento dei mercati finanziari. O così sembra e così avrebbero voluto. Milioni di italiani hanno protestato a più riprese contro Silvio Berlusconi ma sono stati i mercati a farlo cadere. Lo stesso in Grecia: manifestazioni una dopo l’altra contro George Papandreou ma alla fine sono stati i mercati che l’hanno allontanato. In entrambi i casi, sono stati nominati dei servitori leali e fedeli per prendere il posto dei politici caduti, senza neanche uno straccio di consultazione popolare. Questa non è nemmeno la storia condotta dai ricchi e dai potenti, sebbene alcuni ne traggano vantaggi: è una storia fatta da una dinamica che nessuno controlla, una dinamica che sta distruggendo il mondo se la lasciamo fare.
Le fiamme di Atene sono fiamme di rabbia, e ci fanno gioire. E tuttavia la rabbia è pericolosa. Se viene personalizzata o si rivolge contro un gruppo di persone specifico (i tedeschi in questo caso) può facilmente diventare puramente distruttiva. Non è una coincidenza il fatto che il primo ministro a dare le dimissioni in segno di protesta contro l’ultima serie di misure di austerità in Grecia sia stato un leader del partito di estrema destra Laos. La rabbia può diventare facilmente una rabbia nazionalista, addirittura fascista; una rabbia che non fa niente per rendere il mondo migliore.
È importante dunque essere chiari sul fatto che la nostra rabbia non è contro i tedeschi, nemmeno contro Angela Merkel o David Cameron o Nicolas Sarkozy. Questi politici sono soltanto dei penosi ed arroganti simboli del vero oggetto della nostra rabbia – il potere del denaro, l’assoggettamento della vita intera alla logica del profitto.
Amore e rabbia, rabbia e amore. L’amore è stato un argomento importante nelle lotte che hanno ridefinito il significato della politica durante l’ultimo anno, un tema costante durante i movimenti Occupy, un sentimento profondo persino nel cuore dei violenti scontri avvenuti in molte parti del mondo. Dunque l’amore cammina mano nella mano con la rabbia, la rabbia del «come osano portarci via le nostre vite, come osano trattarci come oggetti». La rabbia di un mondo diverso che si sta facendo faticosamente strada attraverso l’oscenità del mondo che ci circonda. Forse.
Il farsi strada di un mondo diverso non è soltanto una questione di rabbia, anche se la rabbia ne fa parte. Riguarda necessariamente la costruzione paziente di un modo diverso di fare le cose, la creazione di forme diverse di coesione sociale e di mutuo soccorso. Dietro lo spettacolo delle banche che bruciano in Grecia c’è un processo più profondo, un movimento più calmo di persone che rifiutano di pagare i biglietti degli autobus, le bollette dell’elettricità, i pedaggi autostradali, i debiti con le banche; un movimento, nato dalla necessità e dalla convinzione, di persone che organizzano le proprie vite in un modo diverso, che creano comunità di mutuo soccorso e reti per l’alimentazione, che occupano edifici e terreni abbandonati, che creano orti comunitari, che ritornano nelle campagne, che girano le spalle ai politici (che adesso hanno paura farsi vedere per strada) e che creano direttamente forme democratiche di decisione sociale. Forse è ancora qualcosa di insufficiente e sperimentale ma di cruciale importanza. Dietro le fiamme spettacolari, è questa ricerca per la creazione di un modo diverso di vivere che determinerà il futuro della Grecia, e del mondo.

La caccia ai falsi invalidi e la caccia ai signori dell’alta finanza

a cura di Stefano Fait

I falsi invalidi sono una categoria di cittadini infame ed indifendibile. Parassiti della peggior specie.

L’errore che facciamo, però, è quello di concentrarci principalmente su di loro, o sugli evasori, o sui detentori di piccoli privilegi, perdendo di vista i veri responsabili del disastro in cui ci troviamo: i signori dell’alta finanza.

Un ordinario di statistica alla Sapienza, Paolo Palazzi [“La finanza e l’economia reale. Un rapporto perverso?”, 2010], ci spiega perché non si possano paragonare gli 8 miliardi annuali che ci costano i falsi invalidi al parassitismo letale (e per il momento legale) degli speculatori:

“Se analizziamo i dati relativi ai movimenti internazionali di capitali ci appare subito come i movimenti internazionali di moneta causati da effettivo scambio di merci siano una minima parte di tutti i movimenti di capitali finanziari che avvengono nel mondo. Non solo, ma i tassi di crescita di questo fenomeno tendono continuamente ad ampliarlo. Ad esempio negli anni ’90, il commercio internazionale è cresciuto del 63%, mentre il movimento di capitali è cresciuto del 300%, senza nessun rapporto di riferimento con l’aumento di ricchezza reale (il PIL è cresciuto nello stesso periodo del 26%)”.

[…]

“Si può scommettere sull’andamento dei prezzi delle materie prime o di altri beni, sull’andamento delle varie borse, sulla dinamica dei tassi di cambio, ecc., ci sarà chi vince e chi perde, quello che è certo che non tutti possono alla lunga vincere. Un difetto di questo sistema è che non ha possibilità di sosta, non si può scommettere una volta sola, bisogna scommettere e giocare continuamente e questo comporta lo spostamento di enormi quantità di capitali in ogni istante in ogni parte del mondo. Capitali che si muovono “virtualmente” attraverso le reti informatiche con ritmi frenetici alla disperata e incessante ricerca di vincite speculative”.

“Per un lungo periodo di tempo, con la complicità di governi ed economisti, tutto ciò non solo è stato permesso e tutelato, ma anche incentivato nella presunzione, in buona o cattiva fede (cosa difficile da determinare), che tutto questo potesse avere un effetto benefico non solo per i risparmiatori, ma anche per il sistema economico mondiale nel suo complesso. Purtroppo, prevedibilmente e previsto (anche se da pochi economisti e nessun governo) l’ipotesi si è mostrata drammaticamente falsa, perché si basava sulla capacità del mercato di autoregolamentarsi, selezionando ed espellendo le pratiche finanziarie più pericolose e inaffidabili. Cosa è successo è ormai noto: la ricerca di rendimenti aveva portato a un allargamento enorme di impieghi del risparmio in prestiti sempre meno solvibili, cosa che non sarebbe grave se avesse colpito solamente gli investitori più imprudenti. Ma grazie a complessi meccanismi di spartizione del rischio, questi prestiti inaffidabili erano stati distribuiti in tutto il mondo tra i più differenti operatori finanziari, con meccanismi che di fatto, invece di ridurre il rischio, lo hanno moltiplicato paurosamente. È bastata una crisi nel settore delle abitazioni negli Stati Uniti per innescare un processo di reazione a catena che ha investito il sistema finanziario di tutti i paesi del mondo”.

[…].

Il problema chiave è che, se è vero che la speculazione finanziaria è un gioco a somma zero per i contendenti, è però altrettanto vero che investe, quasi sempre con effetti negativi, il sistema economico mondiale nel suo complesso. La ragione sta nel fatto che oggetto di speculazione sono titoli di credito, azioni e merci che alle loro spalle hanno reali processi produttivi, pubblici nel caso di titoli di debito pubblico e privati nel caso di merci, azioni e obbligazioni private. Gli speculatori hanno la possibilità e capacità di spostare una gran massa di capìtali che in molti casi autoalimentano, accelerano o nel peggiore dei casi creano·aspettative di difficoltà di stati o imprese…L’euro era ed è una moneta molto forte rispetto al dollaro, la sterlina e lo yen, anzi la più forte come solidità e garanzie. Speculare contro l’euro, puntando a una sua svalutazione era una prospettiva irrealistica. Gli speculatori alla ricerca disperata di una “rivincita” rispetto alle sconfitte recenti, hanno però individuato un piccolo e, dal punto di vista quantitativo, insignificante anello debole nell’Europa dell’euro: il debito pubblico greco. Con mosse coordinate, tanto da far pensare a un’operazione preordinata, hanno cominciato a speculare al ribasso sul debito pubblico greco, cosa che ha effettivamente provocato un forte deprezzamento del debito greco. Il grave ritardo nell’intervento e le divisioni politiche europee hanno facilitato e accelerato questo processo e portato addirittura a una svalutazione dell’euro che ha trasformato l’attacco speculativo al debito greco in un attacco speculativo contro l’euro che a tutt’oggi ancora continua. È chiaro che gli effetti negativi dell’operazione non si sono limitati a danneggiare le agenzie finanziarie che non avevano previsto e sfruttato questo tipo di operazione, ma investono e investiranno in modo drammatico i cittadini greci e a catena i cittadini europei. Il danno si avrà attraverso l’introduzione di politiche fiscali e di spesa pubblica restrittive, e i più colpiti saranno i ceti medio bassi della popolazione. Questo è solo un esempio recente di come la speculazione finanziaria riesca a danneggiare anche, direi soprattutto, coloro che sono ben lontani dal parteciparvi: infatti la storia recente è piena di veri e propri drammi causati dalla speculazione contro alcuni paesi sottosviluppati.

Una politica legislativa e regolatoria sul movimento di capitali e sulla finanza in genere che ribaltasse l’ubriacatura liberista avrebbe senza dubbio una certa efficacia, che però sarebbe fortemente amplificata se accompagnata da misure di aumento del costo della speculazione attraverso l’imposizione di un sistema di tassazione delle transazioni finanziarie inçernazionali. In modo particolare, come abbiamo visto, le speculazioni hanno bisogno di veloci e continui spostamenti finanziari da un paese all’altro, da una valuta all’altra: quindi, anche un’aliquota non elevata su ogni transazione, avrebbe un effetto rilevante sul costo dei movimenti speculativi e debole o nullo sulle transazioni di beni.

La ricetta non è nuova e se ne parla da molti anni (la Tobin Tax) ma anche in un periodo come questo, in cui gli effetti negativi della speculazione sono sotto gli occhi di tutti, sembra una cosa difficile da realizzare. Difficoltà tecniche esistono, ma non sono insormontabili, ostacoli maggiori sono politici ed ideologici, molto più difficili da superare.

Ma continuare a parlarne, a spingere perché vengano attuate queste misure non è inutile, se non altro perché possono aiutare i cittadini a valutare il proprio sistema economico, quello politico e i propri politici alla luce della loro capacità, se non altro, di difesa e prevenzione dai danni provocati dalla rapacità della speculazione finanziaria”.

http://w3.uniroma1.it/paolopalazzi/Articoli/Finanza%20Focsiv.pdf

Alcune citazioni utili su banche e denaro:
http://fanuessays.blogspot.com/2011/12/il-denaro-il-debito-le-banche-raccolta.html

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