Agghiacciante – l’Ice Bucket Challenge come palestra di vanità e sfruttamento

10628300_10202139413480744_7760491436285403443_n

Quanto guadagnano i dirigenti dell’associazione americana (non profit!!!) per la ricerca sulla SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica), quella dei secchi di acqua ghiacciata?

Jane H. Gilbert – President and CEO – $339,475.00
Daniel M. Reznikov – Chief Financial Officer – $201,260.00
Steve Gibson – Chief Public Policy Officer – $182,862.00
Kimberly Maginnis – Chief of Care Services Officer – $160,646.00
Lance Slaughter – Chief Chapter Relations and Development Officer – $152,692.00
Michelle Keegan – Chief Development Officer – $178,744.00
John Applegate – Association Finance Officer – $118.726.00
David Moses – Director of Planned Giving – $112,509.00
Carrie Munk – Chief communications and Marketing Officer – $142,875.00
Patrick Wildman – Director of Public Policy – $112,358.00
Kathi Kromer – Director of State Advocacy – $110,661.00″

http://healthimpactnews.com/2014/als-ice-bucket-challenge-do-you-know-what-you-are-supporting/

1 milione di dollari ai dirigenti.
5 milioni di dollari a malati e famiglie.
6,6 milioni per la ricerca medica.
Mica pizza e fichi!
32% dei costi per sensibilizzare l’opinione pubblica, peccato che nessuno in pratica sapeva di quessta malattia finché alcuni atleti molto celebri non hanno scoperto di avere questa condizione.

Qui ci sono alcuni dati contabili forniti dall’associazione (pp. 13, 14 e 15) – sarebbe interessante vedere come si compongono le varie voci di spesa:
http://web.alsa.org/site/DocServer/annual_report_fye2013.pdf?docID=107222
Ciascuno decida se sono stati spesi bene oppure no (inizio attività 1985; cure = 0; visibilità della malattia = scarsa)

Sapete come finirà? I soldi andranno alle solite grandi case farmaceutiche che immetteranno sul mercato farmaci costosi e brevettati che non cureranno la malattia ma solo i sintomi. Così la gente pagherà due volte per una non-cura, mentre le possibili cure naturali (dieta chetogenica?) saranno ignorate, perché rovinerebbero il grande business.

Cerco di elencare tutte le altre cose che non mi piacciono dell’Ice Bucket Challenge (secchio d’acqua gelata filantropico):
– “essere vanitosi è cool, ragazzi, fatelo anche voi!”
ti versi addosso l’acqua ghiacciata per donare 10 dollari invece di 100 dollari. Non avrebbe più senso che lo sfidante si impegnasse a donare se lo sfidato completa la sfida? Al momento sembra un insulto ai malati, per come la vedo io;
– molte di queste persone NON pagano la loro parte di tasse (in mille modi), contribuendo a far espandere il debito di tutti, ma fanno filantropia esibizionisticamente;
– i 52 milioni di americani che sopravvivono grazie al welfare potrebbero chiedersi come mai in una nazione così ricca ci siano quelli come loro e quelli che si rovesciano addosso un catino d’acqua in un potlatch caritatevole;

10593084_1676229545935058_5825413288262842144_n– Superata quota 50 milioni di dollari non sarebbe ora meglio reindirizzare questa iniziativa verso, per esempio, la prevenzione della malaria, o vale di meno perché chi la subisce è scuro?
– adesso per raccogliere fondi per una causa dovremo sorbirci irritanti catene di sant’antonio delle celebrità?
– Quanti hanno capito cos’è la Sclerosi Laterale Amiotrofica grazie a questa iniziativa, dato che nessuno degli sfidanti si prende il tempo di spiegare perché lo fa (io l’ho capito solo ieri, pur avendo visto il video di Cristiano Ronaldo diversi giorni fa)? La Fornero e Monti?
– Com’è messa una società in cui i video di celebrità che vanno a trovare dei malati non andrebbe mai virale?
– Fatelo contro il fottuto Ebola, visto che gli scienziati si sono lamentati per anni che non riuscivano a trovare i fondi per la ricerca, in quanto malattia africana (e a nessuno gliene fregava niente), mentre SLA raccoglie comunque annualmente qualche milione di euro/dollari;

– Matteo 6,1-4: 1 Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli. 2 Quando dunque fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 3 Quando invece tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, 4 perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.

L'immancabile Lady Gaga

L’immancabile Lady Gaga

 Uno che ha capito e almeno usa questa cosa a fini didattici

10574384_10204125916044212_4510325667963238246_n“Matt Lauer’s challenge, along with that of Martha Stewart and many others, predated Frates’ involvement and had nothing to do with ALS. Rather, it came from a dare that was circulating among a group of pro athletes, including golfer Greg Norman and motorcycle racer Jeremy McGrath. Those who declined the ice bath were compelled to give $100 to charity of the challenger’s choice. (Lauer donated to the Hospice of Palm Beach County.)
[…]
Watch the golfers’ videos and you’ll see the stunt was really just about getting their friends to film themselves doing something dumb for no reason. The charity part was an afterthought.”
http://www.slate.com/blogs/future_tense/2014/08/12/icebucketchallenge_you_don_t_need_an_ice_bucket_to_donate_to_als_research.html

La perniciosa influenza planetaria delle fondazioni e think tank degli Stati Uniti

 

Le fondazioni…esercitano un’influenza corrosiva sulla società democratica; rappresentano concentrazioni di potere e ricchezza relativamente incontrollate e che non devono rispondere delle proprie azioni, che comprano i talenti, promuovono cause e, di fatto, determinano che cosa meriti l’attenzione della società…un sistema che…ha operato a svantaggio degli interessi delle minoranze, dei lavoratori e dei popoli del Terzo Mondo

Robert F. Arnove, “Philanthropy and Cultural Imperialism. The Foundations at Home and Abroad”.

Un enorme potere, senza paragoni è concentrato nelle mani di un gruppo di persone, perfettamente coordinato e con la tendenza a perpetuare se stesso. Diversamente dal potere nelle aziende, non è controllato dagli azionisti; diversamente dal potere del governo, non è sottoposto al controllo popolare; diversamente dal potere nelle chiese, non è controllato da alcun canone consolidato di valori.

Conclusioni di un’indagine conoscitiva sulle fondazioni statunitensi effettuata da un comitato del Congresso americano nel 1952

Non ci si dovrebbe aspettare che ingenti patrimoni privati siano donati in maniera tale da innescare nella società redistribuzioni delle ricchezze e trasformazioni politiche.

Ruth Crocker, in“Charity, Philanthropy, and Civility in American History”

Il miglior programma in assoluto di educazione alla democrazia si chiama “Esercito degli Stati Uniti”

Michael Ledeen, American Enterprise Institute for Public Policy Research (AEI), collaboratore di Matteo Renzi

 

I think tank, pensatoi che dovrebbero partorire soluzioni per i grandi problemi di una comunità, sono armi a doppio taglio, perché danno alla luce idee e simboli, che sono il cibo della mente umana, ma anche la sua droga ed il suo veleno. Come le api sono nate per fare il miele ed i castori per costruire dighe, gli esseri umani sono nati per trasmutare simbolicamente tutto ciò che li circonda. Sono fatti per attingere al sublime, ma anche per cadere nella trappola dei miti politicizzati (Fait/Fattor 2010).

La ragion d’essere delle principali fondazioni e think tank (pensatoi, gruppi di riflessione ed approfondimento, reti di esperti) è quella di migliorare il mondo in accordo con le preferenze di chi le crea e le finanzia, ossia, in genere, dei magnati o dei politici, cioè a dire di persone che esercitano già una considerevole influenza sulla società, ma intendono esercitarne ancora di più. Queste organizzazioni, in termini pratici, servono a giustificare la permanenza di rapporti di poteri vantaggiosi per chi è già economicamente e politicamente egemone, pensando al posto nostro. Dato il loro profilo così prominente nella contemporaneità, sono stati oggetto di innumerevoli studi sociologici. Usando un gioco di parole, possiamo dire che il think tank è un carro armato (tank, in inglese) nella guerra delle idee che mira al controllo delle menti di 7 miliardi di persone.
Stephen Boucher e Martine Royo (2006) definiscono i “think tank” degli organismi permanenti non pubblici che hanno l’incarico di formulare soluzioni su scala nazionale o internazionale che possano essere tradotte in politiche pubbliche. Quasi tutte le fondazioni si sono dotate di uno o più think tank, perciò è pressoché inutile cercare di separarli. La loro missione li rende inscindibili. La fondazione si occupa della parte strategica, il think tank di quella tattica. Alcune fondazioni esistono da oltre un secolo, come ad esempio il trittico Ford, Rockefeller e Carnegie, dai nomi dei magnati che hanno fatto la storia dell’economia e dell’industria americana moderna. Un altro gigante si è aggiunto di recente, la Gates Foundation di Bill Gates, il fondatore di Microsoft, e di sua moglie. In Germania, la Friedrich Ebert Stiftung è vicina ai socialdemocratici, la Konrad Adenauer Stiftung è nella sfera democristiana.

Anche se ufficialmente i loro think tank dovrebbero produrre ricerca seria e rigorosa, non conosco nessuno studio accademico (ossia non promosso da un qualche think tank e quindi apologetico) che non li consideri delle vere e proprie macchine ideologiche al servizio di un qualche specifico interesse e/o ideologia. Boucher e Royo parlano di “pensiero mercenario”, un eufemismo per quello che altri chiamerebbero, meno sottilmente, “prostituzione intellettuale”.

Con questo non si vuol dire che tutti i think tank e tutte le fondazioni siano da mettere sullo stesso piano e demonizzare. Ma è indubbio che all’intensificarsi dei legami con la politica ed il capitale l’indipendenza di giudizio e l’integrità morale dei componenti di un think tank subiscono un inevitabile processo involutivo e la loro attività finisce per rassomigliare sempre più al marketing ed al lobbismo, con un impatto mediatico rapido e massiccio nel mercato delle idee (Boucher/Royo, ibidem). Gli intellettuali e gli stessi scienziati sono degli esseri umani come gli altri, né peggiori né migliori degli altri, anche se loro, non-ufficialmente, sono inclini a ritenersi migliori ed esenti da certe influenze corruttrici. Non citerò la cospicua produzione di studi sociologici che smentiscono le loro più intime convinzioni. Per questo sarebbe meglio che le politiche pubbliche fossero formulate da commissioni pubbliche temporanee, allo stesso modo in cui si sottopongono periodicamente al voto i rappresentanti parlamentari che poi le vaglieranno. A meno che non si creda, con Mandeville, che i vizi privati sono alla base delle virtù pubbliche, uno slogan screditato da millenni di storia umana ma che piace molto ai neoliberisti.

L’influenza dei think tank è poderosa in una molteplicità di settori: dall’ecologismo alla bioetica ed alle biotecnologie, dagli studi sulla pace alla geopolitica, dalle risorse energetiche alle politiche socio-economiche, carcerarie e monetarie, dalla Guerra al Terrore alla globalizzazione, all’arte ed alla cultura, al razzismo, al federalismo ed alla tutela delle minoranze etno-linguistiche.

Gli esempi della loro egemonia culturale non si contano, ma due sono forse i più eclatanti. Il primo è quello delle politiche di sterilizzazione involontaria di decine di migliaia di donne nel mondo occidentale e di milioni di donne nel Terzo Mondo a fini eugenetici prima e di controllo della popolazione non-bianca (ad esempio i quechua ed aymara del Perù) poi (Connelly, 2008). L’altro è il “Progetto per un nuovo secolo americano”, una strategia neoconservatrice imperialista statunitense che risale alla fine degli anni Novanta e che ha condotto all’invasione dell’Iraq nel 2003. È notorio perché al centro delle teorie del complotto riguardo all’11 settembre 2001, in quanto un suo rapporto del settembre del 2000, intitolato “Rebuilding America’s Defenses: Strategies, Forces, and Resources for a New Century” (“Ricostruire le difese dell’America: strategie, forze e risorse per un nuovo secolo”), auspicava il verificarsi di un evento del tipo Pearl Harbor che autorizzasse gli Stati Uniti a prendere il controllo dell’Asia Centrale, considerata la chiave per mantenere in una posizione subalterna Russia, India e Cina e quindi per conservare lo status di unica superpotenza egemone. Altri casi degni di menzione sono l’amministrazione Reagan, che selezionò lo staff presidenziale (150 specialisti!) nel vivaio della Hoover Institution, della Heritage Foundation e dell’American Enterprise Institute, tutte fondazioni ultraconservatrici, con relativi think tank.

Tra gli studiosi che hanno approfondito il ruolo delle fondazioni e dei think tank nella formazione della percezione della realtà da parte dei cittadini delle democrazie occidentali figura anche il celebre Pierre Bourdieu, che anche dopo la morte, avvenuta nel 2002, resta il più influente sociologo francese. Nel 1998, assieme al collega francese (docente a Berkeley) Loïc Wacquant, riconosciuto specialista nel campo del razzismo e dei sistemi carcerari, pubblicò un saggio dagli effetti dirompenti, intitolato “Sulle astuzie della ragione imperialista” (“Sur les ruses de la raison impérialiste”), in cui si argomentava la tesi che le grandi fondazioni americane che si occupano di razzismo, in particolare la Rockefeller e la Ford, cerchino deliberatamente di incoraggiare i leader delle minoranze etno-razziali al di fuori degli Stati Uniti ad adottare le stesse tecniche di autoaffermazione identitaria, oggettivamente fallimentari, impiegate negli Stati Uniti. Tecniche, per intendersi, che sono state ripudiate dallo stesso Martin Luther King, un uomo dall’enorme perspicacia ed onestà, e che non sono mai state prese in seria considerazione da Aung San Suu Kyi o da qualunque attivista che rivendichi i diritti umani e civili per tutti e non solo per una fazione.

Bourdieu e Wacquant sono finiti al centro di una vigorosa polemica non tanto per aver denunciato il carattere fallimentare dell’identitarismo particolaristico e settario, ma per aver affermato che la contrapposizione tra neri e bianchi, che volutamente cancella l’esistenza dei meticci/mulatti, fa parte di una strategia globale neocolonialista all’insegna del divide et impera che, insistendo sulla componente somatica (il colore della pelle), conduce ad una guerra tra poveri che avvantaggia chi teme che le classi subordinate possano creare una piattaforma di rivendicazioni comuni che metta in difficoltà lo status quo. Le loro conclusioni sono in linea con quanto si apprende dalle ricerche di Anthony W. Marx (nessuna relazione con il più celebre Karl) su Stati Uniti, Sudafrica e Brasile, Livio Sansone sul Brasile (2002, 2003), Mark Clapson sul Regno Unito (2006), Donald E. Abelson (1996), Yves Dezalay & Brian G. Garth (2002), Noliwe Rooks (2006), Inderjeet Parmar (2012) e Thomas Medvetz (2012) sugli Stati Uniti e le loro relazioni interrazziali ed internazionali, Rafael Loayza Bueno ed Ajoy Datta sulla Bolivia (2011).

A dire il vero, Bourdieu e Wacquant non sono stati dei pionieri. Già negli anni Quaranta il giornalista e storico statunitense Joel A. Rogers lamentava il fatto che gli attivisti neri per i diritti civili fossero usati dai filantropi delle maggiori fondazioni per diffondere un’immagine omogenea, omologata, monolitica e caricaturale dei neri che sarebbe servita a “tenerli al loro posto” e a “mettere in cattiva luce quei pochi neri in grado di ragionare con la propria testa” (cit. in Plummer, 1996, p. 228). Uno dei più ammirati sociologi americani, C. Wright Mills, aveva gettato le basi per un’analisi scientifica di questo fenomeno già a cavallo degli Cinquanta e Sessanta, ma scomparve prematuramente prima di riuscire a portare al termine il suo ambiziosissimo progetto sociologico di studio delle élite e delle loro strategie. Solo negli anni Ottanta, grazie ad Edward Berman ed al suo magnifico e scrupoloso saggio (“The Ideology of Philanthropy”) e, più recentemente, Sally Covington (1998), Frances Stonor Saunders (1999, ed. it. 2004) e Joan Roelofs (2003) sono riusciti a mettere in luce i legami tra le fondazioni filantropiche, le militanze identitarie, gli architetti della politica estera americana e la CIA. Centinaia di milioni di dollari investiti in una guerra di idee e per il controllo dei media, di interi dipartimenti universitari e della lealtà di membri del Congresso (Saunders, op. cit., p. 122):

L’uso delle fondazioni filantropiche si rivelò il modo più efficace per far pervenire consistenti somme di denaro ai progetti della CIA, senza mettere in allarme i destinatari sulla loro origine…Nel 1976, una commissione d’inchiesta nominata per indagare le attività dell’intelligence statunitense riportò i seguenti dati relativi alla penetrazione della CIA nella fondazioni: durante il periodo 1963-1966, delle 700 donazioni superiori ai 10.000 dollari erogate da 164 fondazioni, almeno 108 furono totalmente o parzialmente fondi della CIA. Ancor più rilevante è che finanziamenti della CIA fossero presenti in quasi metà delle elargizioni, fatte da queste 164 fondazioni durante lo stesso periodo nel campo delle attività internazionali durante lo stesso periodo.

Sempre negli anni Ottanta, Robert Arnove, oggi professore emerito all’Università dell’Indiana, allora un insider con accesso ad informazioni riservate, curò la pubblicazione di un volume collettaneo (“Philantropy and cultural imperialism: the foundations at home and abroad”, 1980) in cui puntava il dito contro le fondazioni Ford, Rockefeller e Carnegie e la loro “corrosiva influenza sulla società democratica”, resa possibile da una concentrazione di potere e capitali non adeguatamente regolamentata, in grado letteralmente di comprare la lealtà degli esperti e di promuovere certe cause secondo certe modalità in modo tale da indirizzare l’attenzione dell’opinione pubblica in certe direzioni piuttosto che in altre. Lo stesso Arnove, in seguito, assieme alla collega sociologa Nadine Pinede (“Revisiting the Big Three Foundations”, 2003), ha potuto confermare la validità dei precedenti giudizi sulle politiche di deradicalizzazione (leggi: castrazione e frammentazione) del movimento per i diritti civili attuate dalle suddette fondazioni in nome dell’ideologia dell’identitarismo culturale che sottrasse al più vasto movimento le importanti energie di una larga porzione di attivisti afro-americani, non più disposti a condividere la lotta con esponenti di altre culture ed etnie (si veda anche Roelofs 2003).

Il povero Martin Luther King non poté sfuggire a questo gorgo e ne finì risucchiato, lui che contrastava ogni tentativo di spezzare il movimento dei diritti civili in fazioni concorrenti. Nel febbraio del 1967 prese la decisione di opporsi alla politica americana in Vietnam, pur sapendo che così facendo avrebbe causato l’interruzione del flusso di erogazioni da parte di varie fondazioni e in particolare della Ford Foundation. Aveva ben chiaro in mente che, com’era più che logico, le politiche di finanziamento delle maggiori fondazioni favorivano le valvole di sfogo, ossia quelle organizzazioni che davano voce alla protesta ma senza mai mettere in discussione l’establishment nel suo complesso (Walker, 1983).

Molte persone fanno fatica ad immaginare che delle fondazioni possano realmente cambiare il corso della storia di un’intera nazione. Ma si considerino le somme a loro disposizione. Nel 2011 il valore del patrimonio complessivo delle fondazioni americane ammontava a quasi 622 miliardi di dollari. Se fossero una nazione, sarebbero al ventesimo posto nella classifica del PIL, poco dietro la Svizzera. Nel 2010 decine di migliaia di fondazioni filantropiche hanno distribuito finanziamenti per un valore totale che eccede i 46 miliardi di dollari (valore raddoppiato rispetto al 1999). Ciò significa che, in questi anni, solo negli Stati Uniti, le fondazioni movimentano l’equivalente di una manovra finanziaria italiana importante o del PIL della Tunisia o dell’Uruguay. Nel 2000 il solo “Programma per la pace e la giustizia sociale” della Ford Foundation ha devoluto 26 milioni di dollari per i “diritti delle minoranze e la giustizia razziale”, su un totale di 80 milioni di dollari di finanziamenti a livello globale. La Bill e Melinda Gates Foundation distribuisce annualmente almeno 3 miliardi di dollari ad organizzazioni ed individui che ritiene meritevoli e dispone di un patrimonio del valore di oltre 33 miliardi di dollari (poco meno del PIL del Kenya, più di quello della Lettonia). Era a 37 miliardi nel 2010. Ford Foundation, Paul Getty Trust, Robert Wood Johnson Foundation dispongono tutte di circa 10 miliardi di dollari di beni: in termini di PIL, si collocherebbero davanti all’Armenia. In termini pratici, non devono rispondere del loro operato né ai mercati, né alla stampa, né tantomeno all’elettorato.

Con queste cifre e questo potere in ballo, non è sorprendente che i saggi dedicati a questo argomento così cruciale siano, globalmente, poche decine e tutti o quasi tutti ad opera di accademici non dipendenti da sovvenzioni private. Non sono molti i giovani ricercatori disposti a sputare nel piatto in cui sperano di mangiare e ancor meno quelli, più maturi, pronti a farlo in quello in cui stanno già mangiando. La falsa coscienza fa il resto: si razionalizza il proprio comportamento e quello di chi ci sovvenziona e ci si convince che l’utile giustifica i mezzi. D’altronde, stante il feroce antistatalismo americano, quasi tutte le organizzazioni per i diritti civili, la giustizia sociale e la difesa dell’ambiente, per poter restare in vita, sono costrette a rivolgersi alle fondazioni “filantropiche” ed alla loro per nulla disinteressata filantropia. Lo stato non è quindi in grado di assicurarsi che l’elaborazione e discussione delle questioni pubbliche non vengano monopolizzate da interessi privati. È un fenomeno che si sta verificando anche in Europa, specialmente ora che la crisi e l’austerità hanno prosciugato le casse degli stati europei.

Ora, limitatamente alle fondazioni maggiori, emanazioni del capitale finanziario-industriale, alla luce degli studi summenzionati, possiamo dire che quelle di destra sono anti-democratiche e non fanno molto per nasconderlo; quelle “progressiste” sembrano più orientate a provare a migliorare la situazione, ma solo per poter mantenere le cose come stanno. Queste ultime sono espressioni di centri di interesse che non disprezzano apertamente la democrazia, ma preferiscono gestirla in modo accentrato e tecnocratico, a causa della scarsa stima che nutrono nei confronti delle masse. Ciò che accomuna le fondazioni di destra (es. praticamente tutte quelle legate agli interessi delle multinazionali farmaceutiche e petrolifere, o il Pioneer Fund) e i think tank di destra da un lato (es. Freedom House, Council on Foreign Relations, Hudson Institute) e quelle di sinistra (es. Open Society di George Soros, Gates Foundation) con i rispettivi think tank (es. la New America Foundation vicina a Zbigniew Brzezinski, una delle figure più influenti nelle scelte di politica estera dell’amministrazione Obama) dall’altro è, a grandi linee, il rifiuto del principio della pari dignità e il trionfo dell’elitismo e dell’oligarchismo più o meno benevolo (o malevolo, a seconda dei punti di vista, naturalmente). Come documentano Robert Arnove e Nadine Pinede, tutte le grandi fondazioni “progressiste” sono ispirate ai principi del conservatorismo sofisticato ed appoggiano dei cambiamenti che assicurano una maggiore efficienza del sistema esistente ed una minore frizione con i privilegi già acquisiti. In questo modo, però, perpetuano le dinamiche che generano quelle disuguaglianze ed ingiustizie alle quali ufficialmente desiderano porre rimedio.

Batman, l’eroe della controrivoluzione

Il nuovo Frank Miller è diverso. Il nuovo Frank Miller è uno che, ad esempio, se la prende con il movimento Occupiamo Wall Street. Ora, qualsiasi persona sana di mente può magari discutere dei modi della protesta, ma sa che alla base gli Indignati d’America hanno ragione da vendere su una cosa: è una fottuta vergogna che l’economia reale, la vita di tutti i giorni di miliardi di persone, sia tenuta per gli zebedei da speculatori finanziari in maniche di camicia con la cravatta Zegna annodata male. Qualsiasi persona sana di mente tranne il nostro Frank, visto che SUL SUO SITO PERSONALE scriveva settimana scorsa di come il movimento Occupy non sia un’espressione del Primo Emendamento (la libertà di parola), ma solo, occhio che si quota, “UN BRANCO DI ZOTICI, LADRI E STUPRATORI, una massa indisciplinata spinta solo dalla nostalgia per i tempi di Woodstock e da un senso della giustizia schifosamente falso”. Rileggete un attimo, per piacere. Soprattutto la parte dei LADRI e degli STUPRATORI. Chi proprio se la sente, chi stamattina si fosse svegliato con il collo intorpidito e volesse scioglierselo un po’ agitando la testa da destra a sinistra in preda allo stupore e al disgusto, può anche andarsi a leggere il resto, tutto il “pensate piuttosto alla guerra in corso con al-Qaeda e l’Islamismo, perdenti pippaiuoli!”.
http://docmanhattan.blogspot.it/2011/11/perche-frank-miller-e-uno-stronzo.html

Recensione di The Dark Knight rises a cura di Duanne Ribeiro, São Paulo (Brasile), 14 agosto 2012

“Christopher Nolan completa la sua trilogia. Se Batman Begins era buono e Batman: The Dark Knight grande, Batman: The Dark Knight Rises è intermedio. È un film diverso, con meno attenzione per le scene d’azione e di più sullo sviluppo psicologico del protagonista. Il film si svolge otto anni dopo la fine del precedente, con Bruce Wayne stufo di agire come Batman, e il suo alter-ego è visto come un criminale dalla polizia locale. La città, molto violenta in precedenza, è quasi pacifica e un vendicatore non sembra necessario. Si manifesta però una nuova minaccia – Bane, il capo di una sorta di esercito-setta – e Wayne si sente spinto a tornare in azione. […].

L’opera ha delle virtù. La maggiore è la preoccupazione di Nolan per il realismo: oltre il lato personale di Batman, prendiamo visione dei problemi connessi alla dimensione di vendicatore della sua vita e le esigenze di esercizio costante. Anche gli altri personaggi possiedono delle caratterizzazioni plausibili. Il personaggio Bane è forte in virtù dell’incontro di una mancanza di espressione facciale (la maschera), un pensiero calcolatore e pianificazione ed una presenza fisica che intimidisce. […] Ci sono anche dei problemi: cadute di plausibilità ed ingegnosità della trama (un esempio è la battaglia finale Batman / Bane) e, soprattutto, un intenso contenuto ideologico, che ha condizionato il mio coinvolgimento nella narrazione.

Critico questa ideologia non per la sua tesi di fondo, ma per il modo insidioso in cui viene presentata: trasforma il film in un esempio di fallacia dell’uomo di paglia, distorcendo la posizione dei suoi avversari per renderli più facili da confutare.

[…].

È una lettura politico-culturale di “terrorismo”, “rivoluzione” e “liberismo”.

[…].

“Alcuni uomini vogliono solo vedere bruciare il mondo.” Ho commentato con un amico quella frase del secondo film della trilogia, affascinante per il suo elogio del disordine…Il mio amico ha replicato in modo penetrante: la tesi, proveniente dalla bocca del maggiordomo Alfred inglese, è sintomatica del pensiero del colonialismo britannico del passato (nel dialogo, Butler cita un’incursione in Birmania, ora Myanmar) e dipinge “il terrorismo” come un atteggiamento disconnesso dalla razionalità: non c’è bisogno di capire, basta combatterlo… The Dark Knight Rises è costruito su una visione altrettanto distorta e caricaturale dei problemi sociali, ed è quello che ho intenzione di dimostrare.

In un paese che ha visto nel 2011 l’espansione del movimento Occupy e dello slogan “Noi siamo il 99%” da Wall Street a circa 600 comunità del Nord America e 95 città di 82 paesi, Nolan fa una macchietta della critica della ricchezza e dello status quo. Catwoman dice: “C’è una tempesta in arrivo, signor Wayne, tu e i tuoi amici vi dovrete chiedere come abbiano potuto vivere con così tanto, lasciando così poco per il resto di noi”… alla fine Catwoman, come ci si poteva aspettare, si pentirà delle sue parole.

C’è anche il disprezzo per la borsa valori: quando Bane la invade qualcuno dice che non ci sono soldi lì, lui risponde: “Davvero? E allora cosa fate tutti qui?”…Bane, per un momento, è il risentimento per tutto questo. Un risentimento che è presentato come inappropriato, in due diverse maniere.

La prima è la visione liberista del mondo che vi è implicata. A un certo punto, Bruce Wayne – Batman – chiede al manager che gestisce la sua azienda, perché hanno smesso di finanziare un orfanotrofio. La risposta è che senza scopo di lucro non può farne a meno. Il miglioramento sociale qui è direttamente collegato alla crescita delle imprese private, che rientra nella cornice del finanziamento ai bambini bisognosi. Si noti l’assenza dello Stato, che d’altronde è sempre indicato come potenza inefficiente o corrotta, sul piano legislativo come su quello esecutivo…è l’industria e il suo modello amministrativo ideale (la Wayne Corporation sviluppa una fonte di energia più pulita di ogni altra, e un arsenale poderoso, ma con la saggezza di consegnare i prodotti solo nelle “mani giuste”).

[…].

La seconda è l’idea conservatrice di “rivoluzione”. Dopo vari attacchi terroristici a Gotham, Bane parla all’interno di uno stadio raso al suolo: “Non siamo venuti come conquistatori, ma come liberatori, per restituire il controllo di questa città al suo popolo”. Di seguito, libera i prigionieri da un carcere, chiamandoli “oppressi”. Il cattivo si arroga il diritto di iniziare una rivoluzione nel nome della libertà, della gente, degli oppressi. Queste parole, nel film, sono senza contenuto, come il negativo di qualcos’altro stabilito in precedenza…sono termini ideologicamente carichi, associati in genere alla sinistra, in particolare al comunismo….Di più, lo scienziato nucleare che modifica un reattore trasformandolo in un’arma atomica per Bane è di origine russa.

[…].
La rivoluzione di Bane è quasi vuota di forma e di contenuto. In primo luogo, lo spettatore non può prenderla sul serio nemmeno per un istante…ciò che instaurerà è solo barbarie. Come nella visione hobbesiana…il film ci mostra persone disorganizzate, passive, senza spirito di iniziativa, alla mercé delle bande; l’unica istituzione ancora in piedi è una parodia del potere giudiziario. Apolitica, la rivoluzione di Bane è un omaggio allo status quo precedente, l’opzione più solida di fronte a cambiamenti che sono irrazionali attacchi alla democrazia. Coniugando le due idee presentate, abbiamo una proposta sociale chiara, coronata dalla difesa della legge con mezzi coercitivi che vanno al di là della legge: “A volte, le regole diventano catene”, dice Gordon …

Come dice Mark Fisher, sul Guardian

“The Dark Knight Rises disegna linee nitide: i commenti anticapitalisti sono accettabili, ma qualsiasi azione diretta contro i ricchi, o azioni rivoluzionari per la redistribuzione delle risorse, condurranno ad un incubo distopico…[N.B. da qui passo direttamente all’articolo di Fisher citandolo più ampiamente rispetto alla recensione di Duanne Ribeiro]…Ci può essere la tentazione di leggere The Dark Knight Rises come un’allegoria dei tentativi da parte dell’élite di ricostruire il loro status dopo la crisi finanziaria – o almeno di difendere l’idea che ci siano ricchi buoni che, se opportunamente mortificati, potranno salvare il capitalismo dai suoi peggiori eccessi. La fantasia che attraversa i film di Batman di Nolan – che si armonizza con l’atteggiamento di Romney – è che gli eccessi del capitale finanziario possono essere moderati da una combinazione di filantropia, violenza non ammessa ufficialmente e simbolismi. Il cavaliere oscuro ha almeno esposto la doppiezza e la violenza necessaria a preservare le finzioni alle quali i conservatori vogliono farci credere. Ma il nuovo film demonizza l’azione collettiva contro il capitale, mentre ci chiede di confidare in un ricco reso umile dalla vita”.

Il razzismo di sinistra che fa il gioco della destra neoliberista (divide et impera)

Non esiste la guerra del bene contro il male. Esiste la guerra del bene assoluto e del male minore. Cioè, ormai dovrebbe essere chiaro, del male assoluto e del male minore. Non bisogna lottare per la verità, ma per l’incertezza. Per il tentativo. Per l’esperimento. Per l’avventura. Per la fallibilità. Dunque per la libertà, purché sia una libertà che non si realizza mai, e dunque che non è duratura in nessuna della sue singole forme. Non bisogna lottare per nulla che sia infinito ed eterno: queste armi lasciamole all’avversario. Non bisogna lottare per essere perfettamente buoni, ma per essere moderatamente, tollerabilmente, umanamente cattivi. Non c’è diritto più grande ed irrinunciabile di quello all’imperfezione: perché è il diritto alla perfettibilità.
Luigi Alfieri

Una giornalista dell’Espresso scrive: “Lega e nazisti, una faccia una razza”.

La suddetto giornalista dell’Espresso usa slogan razzisti per denunciare il razzismo, usa logiche razziste (qualche leghista ragiona come un nazista, ergo la Lega è un movimento neonazi) per evidenziare le logiche razziste, contribuisce a svuotare di ogni significato agli epiteti fascista e nazista, ormai inflazionati ed usati quasi immancabilmente a sproposito.

Esiste dunque un razzismo di sinistra?

L’intolleranza di tanti cittadini di sinistra verso i concittadini leghisti assume spesso tinte razziste ma, a sinistra, è più difficile accorgersene, perché inveire con stereotipi ed insulti contro i leghisti è politicamente corretto. È come se questi ultimi fossero collocati un gradino sotto gli esseri umani normali, assieme ai Neanderthal (e sotto gli immigrati). Il che fa tra l’altro il gioco del governo e dell’élite che lo appoggia, ben felice di vedere che l’indignazione si scarica contro l’opposizione (leghisti, grillini, no-Tav, anarchici, camionisti, ecc.).

Il razzismo di sinistra si scaglia contro chi critica gli immigrati e le politiche dell’immigrazione. Come tutti i fanatismi, osserva selettivamente la realtà, rimuovendo gli aspetti spiacevoli della medesima. Così i clandestini non sono un così grosso problema, le carceri ricolme di extracomunitari non sono un così grosso problema, le strade invase dalle prostitute non sono un così grosso problema, l’insicurezza non è un così grosso problema, la mentalità medievale di una parte degli immigrati non è un così grosso parte. Non è un così grosso problema che certe realtà siano state letteralmente invase dagli extracomunitari nel giro di pochissimi anni per fare un favore alle imprese e perché ci va bene di continuare a distruggere le economie del Terzo Mondo per poter esportare le nostre merci:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/04/23/lunione-europea-prima-distrugge-le-economie-del-terzo-mondo-poi-condanna-il-razzismo/

I leghisti hanno comunque torto, i critici dei leghisti hanno comunque ragione. I parlamentari leghisti sono comunque incompatibili con la democrazia. “Se i leghisti prendessero il potere in Italia chissà cosa succederebbe!”

Il razzismo di sinistra è persino più irritante di quello leghista perché è moralista. Molti leghisti, in fondo, sanno che essere razzisti è brutto e sbagliato (infatti lo nascondono finché non sono con altri razzisti). Invece temo non siano molti i legofobi che si interrogano sulla moralità del loro atteggiamento nei confronti di milioni di loro concittadini (di serie B). Infatti “razzismo di sinistra” è un ossimoro. Non si può essere razzisti/xenofobi e di sinistra. O sei l’uno o sei l’altro. Chi è razzista/xenofobo non è davvero di sinistra. A sinistra, va da sé, ci stanno “li mejo”. Si comincia così e si arriva ai centri di rieducazione ed ai gulag [“se la sinistra prendesse il potere in Italia chissà cosa succederebbe!”] – specialmente in seno ad un certo ambientalismo messianico .

A questo proposito, un’osservazione di Jacques Attali mi pare quanto mai azzeccata (Attali, “Domani chi governerà il mondo?” 2012, p. 289): “In risposta ai rischi sistemici mondiali, si vedrà in particolare crescere un’ideologia ecologica planetaria che raccomanda la riduzione della produzione per diminuire il consumo di energia ed attenuare i rischi d’inquinamento, imponendo restrizioni in tutti i settori in nome della frugalità e dei vantaggi a lungo termine. Dall’altra parte, un’ideologia religiosa – o più d’una – tenterà anch’essa di imporre regole conformi alle esigenze di un aldilà dove risiederà, secondo quanto sostiene, l’unica speranza di salvezza. Queste due ideologia fondamentaliste, ecologica e religiosa, convergeranno: l’una e l’altra affermeranno che il destino degli uomini è già scritto e che il vero padrone del mondo – la Natura o Dio – è altrove. L’una e l’altra, alla ricerca della purezza, denunceranno l’Occidente. L’una e l’altra sosterranno di pensare alla felicità degli uomini in termini di prospettiva. Potrebbe anche emergere un giorno un’ideologia che metta insieme le due dottrine: un fondamentalismo allo stesso tempo religioso ed ecologico. Un ossimoro, come lo fu il nazionalsocialismo. Già ha fatto la sua comparsa in Brasile, dove si sta sviluppando un fondamentalismo evangelico eminentemente interessato alla tutela dell’ambiente. Inoltre, nel 2002, Osama Bin Laden, nella sua “Lettera all’America”, accusò gli Stati Uniti di distruggere la natura più di qualsiasi altra nazione, con l’emissione di gas a effetto serra e la produzione di rifiuti industriali. Nel gennaio del 2010, sosteneva che “tutte le nazioni occidentali” sono colpevoli del cambiamento climatico. Nell’ottobre dello stesso anno, ribadiva che le vittime del cambiamento climatico sono più numerose di quelle delle guerre”.

Ho sempre detto che la prossima tirannia sarebbe stata umanitaria ed ecologista, ma non avevo pensato al tipo di connubio preconizzato da Attali. Vedremo chi ci andrà più vicino.

Tornando alla questione del razzismo di sinistra, mi pare che il film “Cose dell’altro mondo”, quello con Abatantuono imprenditore veneto razzista (a proposito: un attore credibilmente veneto non lo si poteva trovare?) lo esemplifichi mirabilmente.

Il messaggio centrale è che senza la forza lavoro immigrata l’Italia sarebbe finita (il neoliberismo ce la sta comunque mettendo tutta – a proposito: chi può essere così genio da chiedere ad un neoliberista sfegatato di risolvere problemi causati dal neoliberismo?).

Un messaggio così banale che persino quei subumani dei leghisti l’hanno capito.

Dunque un film inutile? No. Molto utile per capire i pregiudizi della sinistra.

Il film in questione è una predica rivolta ai credenti, fatta di caricature di leghisti ignoranti, italiani mammoni, immigrati per bene che devono restare qui perché sono bravi amanti e lavoratori instancabili.

Un film che fa star bene i benpensanti perché sorvola sul problema della criminalità, della clandestinità, del lavoro nero, della virtuale abolizione dei diritti dei lavoratori, della sostituzione della forza lavoro italiana con quella immigrata, delle politiche commerciali europee ed italiane che sbattono fuori dal mercato gli imprenditori dei paesi in via di sviluppo (dumping), della filantropia e dell’umanitarismo che mantengono miliardi di persone in una condizione di dipendenza, minorità e squallore, ecc.

È un film ipocrita e classista. Infatti fa svanire gli immigrati. Poteva farli mobilitare, organizzare in un movimento di protesta appoggiato dagli italiani, invece sceglie di perpetrare la dicotomia tra veneto razzista benestante (leghista cripto-nazi o proto-nazi) ed immigrato umile e passivo servo della gleba.

È un film che crede di essere pedagogico ma è paternalista e reazionario, manicheo e stracolmo di cliché, incluso l’uomo bianco con ansie di inadeguatezza sessuale e l’ultrarazzista ipocrita che assume quasi solo extracomunitari, va con le prostitute nere e perciò si merita il nipotino meticcio.

La questione sociale, la lotta di classe, viene esclusa in favore dell’ennesima riproposizione del volemosebbène e del rassicurante ordine che vede i bianchi benevoli e magnanimi in alto e i rispettosi, disciplinati colorati in basso.

Nel film non c’è nessun protagonista immigrato che non sia un amante (alla fine la protagonista si consola molto presto tornando con l’ex italiano: alla faccia del grande amore!) o un lavoratore (amici? Parenti? Dirigenti? Negozianti? Liberi professionisti? Amministratori comunali? Docenti? Delinquenti professionisti?). Non si pone un’alternativa tra immigrato al suo posto ed immigrato assente (desaparecido).

Cosa sarebbe cambiato se alla fine del film gli immigrati fossero ricomparsi magicamente come magicamente erano svaniti?

Ci sarebbe stato meno razzismo esplicito in una società ugualmente iniqua, ugualmente ipocrita, ugualmente disumana. Si sarebbe radunato qualche milione di indigeni pronti a sostituire gli immigrati scomparsi – umilmente, docilmente, disciplinatamente (perché nel capitalismo, come nel socialismo, ogni essere umano è un’unità rimpiazzabile).

Il film assegna agli Italiani la parte dell’ebete superficiale incapace di adattarsi alla nuova situazione, troppo viziato e bamboccione per darsi da fare, a dispetto degli allarmanti tassi di disoccupazione giovanile.

È una forma di disumanizzazione – verso immigrati ed autoctoni – paragonabile a quella leghista, ma va bene perché è politicamente corretta. Non può essere razzismo, anche se è tanto deplorevole quanto quello leghista, anzi più viscido e manipolativo, perché moralista, perché offre una corsia preferenziale agli immigrati, trattandoli come minori o minorati, dispensati da alcuni degli obblighi spettanti a tutti gli altri in quanto sfortunati o comunque non ancora pienamente integrati, non ancora pienamente maturi, non ancora pienamente adulti.

Il razzismo anti-leghista, non solo disumanizza i leghisti ma non fa nulla per aiutare gli italiani a sentire, a capire che gli immigrati sono esseri umani esattamente come loro.

Se una maggioranza di persone comincia, per esempio, a pensare, come fece Jean-Paul Sartre, che “l’antisemita è l’uomo che vuole essere roccia spietata, un torrente furioso, fulmine devastatore: tutto fuorché un uomo” (“Réflexions sur la question juive”), non c’è limite a cosa sarà possibile fare a chi non pensa in modo conforme alla norma. E’ necessario ripeterci continuamente che chi non la pensa come noi ha pari dignità rispetto a noi, è un essere umano come noi, anche se la cosa ci dispiace.

In conclusione, un film troppo compiaciuto dei suoi cliché per poter confessare il proprio razzismo. Un film manipolativo, diseducativo e squallido. Consigliatissimo per chi vuole capire la mentalità di certa sinistra.

La tirannia umanitaria e i falsi profeti – cosa ci ha insegnato Kony 2012?

Antologia di testi a cura di Stefano Fait

Guardatevi dai falsi profeti, i quali vengono a voi sotto le spoglie di pecore, ma dentro sono lupi rapaci.

Li riconoscerete dai loro propri frutti

Matteo 7, 15-16.

GUSTAVO ZAGREBELSKY, “Sulla lingua del tempo presente”, 2010, pp. 27-28

Se le posizioni sociali sono squilibrate, al punto che da una parte sta la libertà illimitata di concedere o non concedere un beneficio e, dall’altra, la necessità riaccettarlo; se c’è libertà contro necessità; se l’uno può tutto, l’altro niente, si può parlare, in questi casi, di dono? Il dono che si fa con la mano del potere è davvero un dono? Sì, ma solo se rimane in superficie. In realtà si tratta dell’esercizio d’una supremazia che approfitta d’una condizione di bisogno per manifestarsi. Quel “dono”, al quale non si ha diritto ma che è frutto d’una concessione graziosa e, pertanto, può essere in ogni momento revocato, sta nell’essenza d’un rapporto servile. È violenza che si esercita tramite mezzi non maligni, ma benigni. Anche con i doni si può far del male. È sfruttamento di uno stato di necessità in cui altri versano; cioè è violenza di natura morale: una violenza da cui ci si aspetta un tornaconto la cui materia è il sentimento di obbligazione verso il donante. Non è vera gratitudine, perché la gratitudine dettata dalla necessità è finta, malata. Se poi il “dono” è reso pubblico, pubblicizzato, diventa violenza usata a fini pubblicitari.

FERNANDO SAVATER, Discorso di accettazione del Premio Van Praag 1997

L’umanesimo non è la stessa cosa dell’umanitarismo. Non nego l’importanza delle imprese umanitarie nel loro assistere gli affamati, feriti, malati ed emarginati del mondo orribile in cui viviamo. Ma penso che il destino migliore di questo pianeta non sia quello di convertirsi in un ospedale o in un ricovero: deve diventare la città degli uomini, la casa e l’impresa di tutti. A tal fine, è imprescindibile recuperare il respiro umanista, combattendo non solo per proteggere le vite, ma anche per istituire le libertà, educare ai valori universali, gestire gli affari umani in maniera non-tribale, ma sovranazionale.

ALBERT CAMUS, introduzione a “L’uomo in rivolta”

Siamo nel tempo della premeditazione e del delitto perfetto. I nostri criminali non sono più quei bimbi inermi che adducevano la scusa dell’amore. Sono adulti, al contrario, e il loro alibi è irrefutabile: è la filosofia, che può servire a tutto, fino a tramutare in giudici gli assassini…Ai tempi ingenui in cui il tiranno radeva al suolo qualche città a propria maggior gloria, in cui lo schiavo aggiogato al carro del vincitore sfilava per le città festanti, e il nemico veniva gettato alle belve davanti al popolo adunato, di fronte a delitti così candidi, la coscienza poteva essere salda, e chiaro il giudizio. Ma i campi di schiavi sotto il vessillo della libertà, i massacri giustificati dall’amore per l’uomo o dal sogno di una super-umanità, disarmano, in certo senso, il giudizio. Il giorno in cui il delitto si adorna delle spoglie dell’innocenza, quella cui viene intimato di fornire le proprie giustificazioni, per una strana inversione propria al nostro tempo, è l’innocenza stessa.

LUIGI ALFIERI, “La stanchezza di Marte. Variazioni sul tema della guerra”, 2008, pp. 185-190

L’Italia non è mai stata, in tutta la sua storia, talmente impegnata in operazioni militari all’estero come in questi ultimi decenni; con pochi uomini e mezzi, di solito, ma tenendo conto del gran numero di operazioni a cui si è voluta o dovuta decidere una partecipazione almeno simbolica, il livello complessivo di proiezione militare oltre i confini è paragonabile se non superiore a quello delle guerre coloniali: un precedente che dovrebbe far riflettere. La presentazione di queste attività come iniziative umanitarie è in molti casi del tutto risibile, e in almeno tre casi – la prima guerra del Golfo sicuramente, e malgrado grossolane ipocrisie anche l’infelicissima spedizione in Somalia e il coinvolgimento nei bombardamenti della Serbia durante la crisi del Kosovo – si è trattato di guerra esplicita e aperta, anche con aspetti specie nel caso somalo – di vergognosa brutalità. […]. È difficilissimo, ormai, ricordarle tutte: non dovrebbe farci paura questo dato così elementare? […]. Anche le legioni romane eseguivano una politica di pace, a modo loro. E dove finisce la politica di pace e comincia una politica di potenza?

MICHELANGELO BOVERO, “L’ideologia capovolta. Dalla pace attraverso i diritti ai diritti attraverso la guerra”, 2006, p. 134

La barbarie ritornata che ci troviamo a fronteggiare è duplice: quella di chi viola i diritti fondamentali e quella di chi li viola due volte con la pretesa di difenderli, o addirittura di instaurare manu militari il regno universale del diritto e dei diritti.

TEJU COLE, “The White Savior Industrial Complex”

Il salvatore bianco appoggia politiche brutali al mattino, fa beneficenza al pomeriggio e riceve onorificenze la sera.

La banalità del male si trasmuta nella banalità del sentimentalismo. Il mondo non è altro che un problema da risolvere con entusiasmo.

Questo mondo esiste semplicemente per soddisfare le esigenze – specialmente i bisogni sentimentali – dei bianchi.

L’Industria del Salvatore Bianco non ha nulla a che vedere con la giustizia. Si tratta di avere una grande esperienza emotiva che giustifica il privilegio.

Una febbrile preoccupazione per un terribile signore della guerra africano [cf. Kony], mentre fino a 1 milione e mezzo di iracheni sono morti per una guerra americana che poteva essere evitata. Sarebbe bene preoccuparsi di questo.

È giusto rispettare il sentimentalismo americano, proprio come si rispetta un ippopotamo ferito. È necessario tenerlo d’occhio, perché sai che è mortale.
è lecito parlare di peccati, ma è politicamente scorretto fare i nomi dei peccatori. Perciò c’è il razzismo ma è sconveniente dare del razzista a qualcuno, c’è la misoginia, ma non ci sono misogini, nessuno è omofobo ma gli omosessuali sono vittime di omofobia. Se uno osa puntare il dito su qualcosa di così manifesto come il privilegio bianco, è bollato come provocatorio. Così gli emarginati hanno sempre meno possibilità di parlare di ciò che li fa soffrire, a causa di questo “decoro coatto”.

Non è che tutti gli operatori umanitari sono razzisti. Alcuni lo sono inconsapevolmente, altri no. In genere sono persone di buon cuore, ma è proprio il sentimentalismo che semplifica ingiustificatamente la loro visione del mondo. Così vedono solo bocche affamate che devono essere sfamate al più presto. Tutto quel che vedono è bisogno, ma non le cause ultime di questo bisogno.

Fare un buon lavoro umanitario comporta qualcosa di più di “fare la differenza”. Prima di tutto viene il dovere di non nuocere e di conseguenza il diritto di chi viene aiutato di essere consultato in merito alle questioni che lo riguardano.

L’Africa è un luogo in cui le regole sono diverse: un signor nessuno americano o europeo può andare in Africa e diventare un salvatore semidivino o, quantomeno, soddisfare i suoi bisogni emotivi.

I problemi africani sono strutturali, sono intricati, sono locali e non si risolvono con gli slogan. Per dare un aiuto concreto, occorre una certa umiltà verso le persone che vivono in quelle aree, il rispetto per la loro capacità di essere protagoniste delle loro vite e di risolvere i loro problemi. Gli Ugandesi hanno fatto e continuano a fare moltissimo per migliorare il proprio paese e commenti ignoranti come “dobbiamo salvarli noi perché non possono salvarsi da soli”, non può alterare questo fatto. I Nigeriani hanno recentemente protestato, molto civilmente, contro il governo, la corruzione e l’inflazione. Uomini e donne, di tutte le classi ed età, si sono mobilitati per quello che sentivano era giusto, hanno marciato pacificamente, si sono scambiati cibo e bevande e protetti l’un l’altro; i cristiani montavano la guardia mentre i musulmani pregavano e vice versa, parlavano senza timore ai loro leader circa il tipo di paese in cui volevano vivere. Tutto questo è avvenuto senza l’intervento di un qualche giovane supereroe americano.

Joseph Kony non è più in Uganda e non è più la minaccia che è stato, ma è un cattivo molto utile per chi ne ha bisogno. Non sono queste denunce che servono all’Africa, ma una società civile più equa, una democrazia più robusta, un sistema giudiziario più giusto. È su queste fondamenta che si possono costruire infrastrutture, sicurezza, sanità ed educazione.

Se gli Americani vogliono davvero prendersi cura dell’Africa, dovrebbero valutare la politica estera americana, per votare con cognizione di causa, prima di imporre il loro volere agli Africani. I manifestanti nigeriani sono stati virtualmente ignorati dall’amministrazione americana, il sostentamento dei coltivatori di mais in Messico è stato distrutto dal NAFTA, i coltivatori di riso haitiani hanno subito perdite spaventose a causa del riso sovvenzionato americano. Poi si può citare il colpo di stato in Honduras, appoggiato dagli Americani, che ha causato la morte di centinaia di attivisti e giornalisti, la giunta militare filoamericana che opprime l’Egitto post-Mubarak e riceve annualmente 1 miliardo e 300 milioni di sussidi dagli Stati Uniti.

Quel che gli innocenti eroi dell’umanitarismo devono capire è che fanno spesso il gioco di chi è guidato da motivazioni molto più ciniche.

La sindrome del Salvatore Bianco è una valvola di sfogo in un sistema fondato sulla rapina e sul saccheggio. Per anni gli Americani hanno partecipato alla distruzione economica di Haiti, ma dopo il terremoto si sono sentiti in obbligo di donare 10 dollari per la ricostruzione. Quando si interferisce nelle vite degli altri bisogna sapere che cosa questo comporta. Il sostegno alla campagna Kony 2012 implica una crescente militarizzazione del governo antidemocratico di Yoweri Museveni, al potere dal 1986, uno dei principali responsabili della guerra in Congo ed una pedina americana nei conflitti in Sudan e in Somalia.

Tutto questo ci porta molto lontano dall’idealismo dei giovani americani che vogliono impiegare la forza di YouTube e Facebook per cambiare il mondo.

Se vogliamo davvero fare la differenza dobbiamo andare oltre il sentimentalismo e sfidare le strutture ed i sistemi che perpetuano la disuguaglianza in tutto il pianeta. La disobbedienza civile serve, appunto, a salvare noi stessi e consentire ad altri di fare lo stesso.

http://www.theatlantic.com/international/archive/2012/03/the-white-savior-industrial-complex/254843/

RONY BRAUMAN, «Humanitaire, diplomatie et droits de l’homme», 2009

Il Terzo Mondo è visto come un territorio desolato, popolato da eterne vittime bisognose di incessante soccorso.

Occorre evitare che al potere vadano persone affetta da cinismo amorale (Machiavelli) e da idealismo intransigente (Robespierre): non c’è nulla di più sanguinario di queste due patologie della coscienza, che hanno una radice comune nel narcisismo, nell’esaltazione del proprio ego e della propria prospettiva sul mondo.

L’umanitarismo obbedisce alla legge dei gas perfetti: un’espansione infinita se non ci sono forze che lo limitano.

La violenza è sempre quella altrui, perché noi siamo democratici, civili ed umanitari. La nostra violenza è meno violenta di quella degli altri. È un male minore che in fondo è un bene e quindi si giustifica da sé. Ma il diritto non coincide sempre con la giustizia.

L’umanitarismo è la degradazione dell’umanitario, allo stesso modo in cui il moralismo è una perversione della morale.

L’umanitarismo elimina i dubbi e gli scrupoli, scredita le critiche e divide il mondo gerarchicamente tra vittime e soccorritori – non è più una moda, ma un modo di leggere il mondo.

È lecito parlare di cannibalismo umanitario – l’orco filantropico, l’ha chiamato Octavio Paz (Premio Nobel per la Letteratura nel 1990): fornire il nostro aiuto, rimediare ai misfatti, diventa una dipendenza. Abbiamo bisogno di un contingente di vittime per continuare a sentirci dei salvatori. L’ingerenza umanitaria diventa un dovere (dobbiamo farlo), un diritto (possiamo farlo) ed un vizio (non possiamo non farlo).

L’umanitarismo è un’industria, con le sue logiche ed i suoi metodi interni, è inquadrata, normativizzata, tecnicizzata, tecnocratizzata, arida e gelida: c’è un ingente budget disponibile, serve una crisi che lo giustifichi.

In Cambogia, in Etiopia, in Ruanda e nel Congo-Zaire l’umanitarismo è rimasto implicato in politiche criminali.

ALBERT CAMUS, La Caduta (La Chute) (1956)

http://fanuessays.blogspot.it/2011/11/il-narcisista-umanitario-parte-prima_14.html

MARCO DERIU, “Dietro aiuti e cooperazione sta una visione del mondo”, Solidarietà Internazionale, nov./dic. 2005

Negli ultimi decenni, secondo i dati dell’UNDP si è registrato un aumento degli indici di povertà in 37 dei 67 paesi di cui si disponeva di dati. A questo punto una domanda è d’obbligo: come spiegare la diffusione della miseria e di condizioni di esistenza sempre più drammatiche proprio nei decenni in cui si sono registrate i maggiori tassi di produzione, di consumo, di crescita? Il mondo non è mai stato così ricco, eppure sono milioni le persone che continuano a morire di stenti. Non ci deve venire forse il dubbio che le tradizionali categorie interpretative – legate all’idea di sviluppo, di crescita, di lotta alla povertà, di emergenza umanitaria – non riescono a spiegare quello che è successo, non permettono di dar conto di ciò che ci troviamo di fronte?
Le condizioni di miseria in cui vive una gran parte della popolazione mondiale non sono il risultato di una condizione di sottosviluppo, ma il risultato stesso delle strategie di sviluppo.

Le politiche di sviluppo concretamente hanno determinato in molti paesi del sud del mondo la distruzione sistematica delle forme di povertà conviviale praticate dalle comunità locali svalutando e soppiantando le forme di produzione per la sussistenza e delle forme di scambio locale per imporre l’imperativo della crescita. Hanno quindi gettato le basi di un’economia di mercato orientata alla crescita, che significa un’economicizzazione della società, una moltiplicazione dei bisogni, una maggiore dipendenza individuale e sociale dalla produzione, dal reddito monetario e dal consumo in una competizione di tutti contro tutti che alza le chance di arricchimento per alcuni, mentre condanna alla miseria tutti gli altri.

Man mano che si afferma l’economicizzazione della società non è più l’economia a dover corrispondere ai bisogni delle persone, ma piuttosto questi ultimi a dover corrispondere ai bisogni dell’economia. La produzione, l’induzione e la moltiplicazione dei bisogni è addirittura indispensabile al buon funzionamento dell’economia di mercato.

Le Ong e le agenzie internazionali hanno impiantato il verbo della crescita e dello sviluppo quasi in ogni angolo del pianeta. Assieme agli aiuti materiali ed economici hanno riversato sulle altre società soprattutto una visione del mondo. I cooperanti sono stati solerti spacciatori di illusioni: lo sviluppo, la crescita, la globalizzazione, la ricchezza.

Il giudizio di arretratezza che abbiamo imposto alle nostre alterità e la mentalità che ci porta a guardare noi stessi come rappresentanti di una civiltà più evoluta ci spingono a credere che gli altri popoli debbano in fondo imitarci per diventare come noi e accedere al nostro mondo di benessere. L’idea dell’aiuto, del dono, dunque non è altro che lo strumento attraverso cui il cooperante occidentale pensa si possa colmare questo gap “temporale” tra “noi” e “gli altri”. In altre parole, attraverso il dono si cerca di rendere gli altri simili a noi. Gli aiuti non sono semplicemente oggetti o beni, ma sono segni, simboli, strumenti performativi, agenti attivi di colonizzazione culturale.

L’unico imperativo morale che abbiamo non è quello di salvare il mondo per renderlo uguale a noi, ma quello di costruire relazioni rispettose e generose con le nostre alterità.

http://www.solidarietainternazionale.it/anno-xvi/n-06-novdic-2005/848-la-faccia-piu-subdola-della-colonizzazione.html

MARCO DERIU et al. (a cura di), “L’illusione umanitaria. La trappola degli aiuti e le prospettive della solidarietà internazionale”, 2001.

L’aiuto umanitario si rivolge non alla persona nella sua umanità complessiva, ma al solo “essere sofferente”. Mentre cerca di lenire o estirpare il dolore, contribuisce in realtà alla trasformazione ed alla riduzione simbolica dell’essere vivente a puro essere bisognoso. L’ascolto, l’aiuto, non riguarda più le persone ma solamente coloro che sono riconosciuti come vittime sofferenti. In altre parole si riconosce l’altro solo nella forma estrema della vittima. Si assiste dunque alla creazione di un ordine vittimale. […]. L’aiuto umanitario contribuisce alla riduzione dell’essere umano a nuda vita, cancellando ogni forma di alterità. La relazione che viene messa in gioco nell’assistenza umanitaria è in realtà un rapporto di tipo funzionale e non una relazione umana vera e propria. I soggetti cui dovrebbe essere rivolta l’azione umanitaria non hanno voce in capitolo. Non è previsto l’ascolto, il confronto, il conflitto, lo scambio, ovvero tutto ciò che può rendere accettabile e dignitoso per una persona il ricevere aiuto da un’altra persona. […]. Questa ignoranza è sintomo di un’implicita presunzione degli occidentali nei rapporti con le alterità (p. 25).

I paesi autosufficienti o esportatori di cibo divengono dipendenti dalle importazioni di prodotti occidentali (Somalia, Haiti, Bangladesh).

Nel 1995 Care, una delle più grandi agenzie di aiuto statunitensi affermava nel suo rapporto annuale: “i paesi che sono stati beneficiari di aiuto umanitario oggi acquistano il 31% delle esportazioni agricole degli Stati Uniti”.

È molto difficile convincere le persone che mentre credono di stare aiutando qualcuno in realtà gli stanno facendo del male. Che mentre pensano di migliorare la loro condizione in realtà la peggiorano. Spesso la gente non vuole saperne nulla. È incatenata a quello che sta facendo. È prigioniera delle sue buone azioni. Preferisce non interrogarsi sulle conseguenze delle proprie azioni (p. 90).

Il fatto di donare ci fa credere automaticamente di dover avere una qualche forma di potere sul nostro beneficiario (p. 92).

Se davvero – come abbiamo cercato di mostrare – l’umanitario serve a coprire, allora sarebbe meglio far esplodere i conflitti. È fondamentale infatti mettere la gente di fronte a quei problemi, a quelle contraddizioni e a quelle ingiustizie che l’umanitario cerca in tutti i modi di nascondere: la violenza del mercato e del totalitarismo economico, l’ingiustizia e il carattere egemonico delle attuali relazioni nord-sud, la riduzione della politica a un gioco di potere, l’utilizzo della retorica dei diritti umani e dei buoni sentimenti per coprire una strategia di dominio e gli interessi economici dei paesi ricchi (p. 176).

L’imperativo “dare!”, deve essere sostituito da “conoscere” e “ascoltare”. La conoscenza e l’incontro sono l’unica garanzia possibile per una reale amicizia e per un sostegno reciproco rispettoso, quando si rende necessario. […]. Inoltre instaurare un’ottica di reciprocità significa riconoscere che la cultura e le società occidentali hanno molto da apprendere dalle culture e dalle società del sud del mondo, e che parte di questo sapere può essere fondamentale per affrontare in maniera più saggia i problemi che tormentano le nostre società (pp. 186-187).

Kony 2012 – La stucchevole pornografia umanitaria (I bambini! Pensate ai bambini!)

a cura di Stefano Fait, direttore di FuturAbles

Web Caffè Bookique [Facebook]

KONY 2012 (decine di milioni di visualizzazioni) è la consueta trappola “filantropico-umanitaria” in cui cadono fin troppi internauti.

Qui potere trovate il video, tediosamente manicheo, ipersemplificatore, manipolatore, razzista, ingannevole, omertoso:

http://www.informarexresistere.fr/2012/03/10/kony-2012-make-him-visible-rendiamolo-visibile/#axzz1od3sL7a5

Le critiche più superficiali a questa organizzazione umanitaria si concentrano sui ricchi emolumenti che si riservano i dirigenti di Invisible Children, sul fatto che solo un terzo del denaro delle donazioni finisce in Uganda (e, anche lì, siamo sicuri che arrivino alle persone giuste?), che la sua contabilità non è per nulla trasparente, che tende ad esagerare i fatti e le cifre per ragioni di autopromozione. Infine, che il video-documentario in questione contiene pochissime informazioni e moltissime esche emotive per spettatori dal cuore tenero e dallo spirito critico assopito, che manco si rendono conto che Kony (pronuncia: “Koon”) non è più in Uganda dal 2006 e che nell’Uganda del Nord la situazione è relativamente tranquilla da diversi anni, a dispetto delle immagini strazianti che ci vengono propinate:

http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/africaandindianocean/uganda/9131469/Joseph-Kony-2012-growing-outrage-in-Uganda-over-film.html

Ci sono però ragioni molto più stringenti, profonde ed inquietanti.

Farsi fotografare imbracciando armi automatiche dei ribelli del Sud Sudan, non è solo una pessima idea, è anche molto rivelatore. Infatti “Invisible Children” è ben vista dal presidente ugandese, al potere da 26 anni grazie all’appoggio degli Stati Uniti:

http://www.peacelink.it/conflitti/a/34895.html

Si dimostra utile anche per gli interessi industriali anglo-americani, specialmente quelli nel settore petrolifero e in quello del legname, ai danni delle popolazioni locali:

http://www.peacelink.it/ecologia/a/34854.html

http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2012/mar/08/kony-2012-campaign-oprah-and-bracelets?INTCMP=SRCH

“Un altro elemento degno di nota è che in Kony 2012 si sostenga l’invio di militari statunitensi in Uganda, deciso da Obama. Il proseguimento del sostegno militare alle forze armate ugandese è anzi il principale obiettivo dell’intera campagna: si vuole proprio evitare che il Congresso possa scegliere un disimpegno dal paese africano. La scelta del presidente Obama è dipinta come il risultato delle pressioni dal basso esercitate negli anni passati dalla Invisible Children, Inc., e come una missione militare decisa semplicemente perché è la cosa giusta.

http://www.geopolitica-rivista.org/16839/dietro-kony-2012-cosa-succede-davvero-in-uganda/

Incredibile a dirsi, questi attivisti umanitari chiedono agli Stati Uniti di armare l’esercito ugandese, che è uno dei principali colpevoli del peggior genocidio della storia dopo quello nazista, ossia quello dei Congolesi, che hanno la sfortuna (!!!) di vivere in uno dei paesi più ricchi di risorse naturali del mondo, un boccone delizioso per le potenze occidentali:

http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=print&sid=4546

Yoweri Museveni, presidente ugandese paladino delle privatizzazioni e del rigore fiscale, accusato di essere restato ininterrottamente al potere dal 1986 solo grazie ai brogli, responsabile della morte di più Ugandesi di quelli uccisi da Kony, è anche implicato nel genocidio ruandese:

http://www.percorsidipace.net/conflitti/conflitto-ruanda

La campagna per un intervento militare in Uganda ed in tutta l’Africa centro-orientale è promossa non soltanto da Invisible Children, ma anche da figure terribilmente sinistre come il senatore statunitense Jim Inhofe, nemico giurato di Joseph Kony.

http://inhofe.senate.gov/public/index.cfm?FuseAction=PressRoom.PressReleases&ContentRecord_id=039016be-bef0-0770-4f0e-3bcacdd69097

Inhofe, grande amico di Yoweri Museveni, è uno dei pezzi grossi di “The Family”, l’organizzazione cristiano-fascista che esercita un’enorme influenza sulla politica americana, nazionale ed estera:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/09/quando-il-fascismo-giungera-in-america-sara-avvolto-nella-bandiera-e-brandira-una-croce-sinclair-lewis/#axzz1od3sL7a5

Tanto intensa è l’influenza di questi fanatici cristianisti, che in Uganda si continua a ventilare l’ipotesi di promulgare leggi che autorizzino la condanna a morte degli omosessuali:

http://it.globalvoicesonline.org/2012/02/uganda-torna-la-proposta-di-legge-anti-gay/

Museveni è un paladino dell’unificazione dell’Africa orientale, ufficialmente per “sviluppare un programma spaziale africano” (sic!), in realtà per favorire gli interessi anglo-americani a discapito di quelli cinesi:

http://www.zimbio.com/President+Yoweri+Museveni/articles/70/Africans+must+travel+moon+Uganda+president

Questa vicenda può essere uno spunto per comprendere meglio la maniera in cui gli psicopatici che governano il mondo (solo degli psicopatici potrebbero sacrificare le esistenze di milioni di persone per il loro profitto e status) manipolano le masse.

Il video incriminato esemplifica al meglio le tecniche messe in atto per strumentalizzare le emozioni della gente.

C’è il nauseante e paternalistico motivo del fardello dell’uomo bianco che deve ripetutamente farsi carico della sorte dei suoi fratelli neri, un po’ sfigati, un po’ sub-umani, incapaci di autogestirsi. Perfino un criminale di guerra in pre-pensionamento, circondato da poche centinaia di miliziani, e non più in Uganda, può essere un pretesto per “risolvere” certe questioni con l’uso della forza.

Presumo che nessuno abbia visto il video integralmente. Pochi minuti sono sufficienti per capire che l’obiettivo non è quello di aiutare a capire la situazione, ma di oscurarla, contando sul fatto che nessuno si interessa degli Africani. Non si sa nulla del contesto, dei protagonisti, delle loro motivazioni, delle relazioni di potere, dei coinvolgimenti stranieri, del punto di vista degli Ugandesi. Il tutto si riduce ad uno scontro tra esseri umani bestiali ed esseri umani inermi. Un clic, un twitter e possiamo sentirci angeli salvatori: eliminato il Grande Mostro tutto si risolverà. Il fatto che ciò autorizzi un intervento militare americano in una regione che è sostanzialmente pacifica da almeno 4 anni è un dettaglio di poco conto.

La democrazia diretta dell’era digitale è guidata dai buoni sentimenti, non dall’intelletto,  dalla curiosità, dal desiderio di approfondire, dall’umiltà di chi accetta che è necessario informarsi prima di trarre delle conclusioni.

Quante delle persone che hanno condiviso il video sanno anche solo dov’è l’Uganda (“sono neri, saranno da qualche parte in Africa”)? Quanti si sono chiesti se le immagini sono recenti o risalgono per caso ad una decina di anni fa e se l’accostamento di Kony e Hitler sia legittimo? Quanti si sono domandati la ragione di tutto questo scalpore per una guerra che è durata 20 anni (1986-2006), nell’indifferenza del mondo, proprio ora che le acque sono relativamente calme? Quanti hanno idea della guerra commerciale ed economica che si svolge tra Stati Uniti e Cina nel teatro dell’Africa orientale? Quanti hanno messo in discussione la contrapposizione tra assistenza occidentale allo sviluppo buona / colonialismo cinese cattivo? Quanti sono rimasti sconcertati dal linguaggio emotivo, pontificatore, vuoto di contenuti di questa campagna?

Un linguaggio che fa appello al nostro senso di colpa e razzismo inconsapevole (“gli Africani sono così, c’è poco da fare se non mettersi in mezzo e farli rigar dritti, questi selvaggi”) ed ignora il contesto, i conflitti di potere, l’occultamento dei moventi, la rimozione del boom economico dell’Uganda settentrionale dall’orizzonte degli eventi, ecc. C’è un uomo cattivo, ci sono delle vittime e c’è una soluzione: un “mi piace”, una condivisione, un sms e ci mettiamo il cuore in pace. Come vincere una guerra in un videogioco. Una mobilitazione istantanea ed asettica per la guerra (“guerra giusta”), una guerra che comporterebbe l’uccisione di centinaia di ragazzini-soldato che sono stati “reclutati” contro la loro volontà e di migliaia civili, quelli che incolpano non solo Kony ma anche il governo/regime ugandese.

30 minuti di propaganda melliflua sono sufficienti per mandarci il cervello in pappa, per farci credere di essere diventati sufficientemente competenti riguardo ad un tema che prima ignoravamo completamente da sapere cosa sia giusto fare, per spingerci ad attaccare chiunque critichi il video, a comprare le nostre brave t-shirt filantropiche, come dei bravi soldatini?

Goebbels sfruttava precisamente questi meccanismi di adesione spontanea, irriflessa, semi-consapevole.

Le guerre umanitarie sono state “autorizzate” dall’opinione pubblica internazionale in questa stessa maniera (cf. i neonati kuwaitiani infilzati dai soldati iracheni nelle incubatrici, i soldati di Gheddafi che usano viagra per stuprare meglio le donne libiche, Assad che fa saltare in aria le proprie forze dell’ordine per poter dare la colpa ad Al-Qaeda).

Useranno le stesse tecniche per farci accettare la prossima guerra mondiale e tutto ciò che seguirà.

In definitiva, Jason Russell, Bobby Bailey e Laren Poole, i giovani fondatori di “Invisibile Children”, sono forsi animati dalle migliori intenzioni, sono forse gli utili idioti di turno, ma è lecito chiedersi cosa li abbia spinti a scegliere di usare Kevin, il figlio di Jason Russell, per spiegare al mondo la bontà della causa, come se gli spettatori avessero l’età mentale di un bambino e non potessero gestire informazioni più complesse di quelle inserite nel documentario. Paternalistico è anche il nome della stessa organizzazione, che allude al fatto che siano stati loro a rendere visibili bambini che prima non lo erano, come se proprio il fatto di autoproclamarsene portavoce, senza farli parlare, non equivalesse a renderli muti ed invisibili.

Gli Ugandesi non hanno bisogno di questa carità pelosa e noi abbiamo invece bisogno di darci una svegliata, prima che sia troppo tardi.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: