La tirannia umanitaria e i falsi profeti – cosa ci ha insegnato Kony 2012?

Antologia di testi a cura di Stefano Fait

Guardatevi dai falsi profeti, i quali vengono a voi sotto le spoglie di pecore, ma dentro sono lupi rapaci.

Li riconoscerete dai loro propri frutti

Matteo 7, 15-16.

GUSTAVO ZAGREBELSKY, “Sulla lingua del tempo presente”, 2010, pp. 27-28

Se le posizioni sociali sono squilibrate, al punto che da una parte sta la libertà illimitata di concedere o non concedere un beneficio e, dall’altra, la necessità riaccettarlo; se c’è libertà contro necessità; se l’uno può tutto, l’altro niente, si può parlare, in questi casi, di dono? Il dono che si fa con la mano del potere è davvero un dono? Sì, ma solo se rimane in superficie. In realtà si tratta dell’esercizio d’una supremazia che approfitta d’una condizione di bisogno per manifestarsi. Quel “dono”, al quale non si ha diritto ma che è frutto d’una concessione graziosa e, pertanto, può essere in ogni momento revocato, sta nell’essenza d’un rapporto servile. È violenza che si esercita tramite mezzi non maligni, ma benigni. Anche con i doni si può far del male. È sfruttamento di uno stato di necessità in cui altri versano; cioè è violenza di natura morale: una violenza da cui ci si aspetta un tornaconto la cui materia è il sentimento di obbligazione verso il donante. Non è vera gratitudine, perché la gratitudine dettata dalla necessità è finta, malata. Se poi il “dono” è reso pubblico, pubblicizzato, diventa violenza usata a fini pubblicitari.

FERNANDO SAVATER, Discorso di accettazione del Premio Van Praag 1997

L’umanesimo non è la stessa cosa dell’umanitarismo. Non nego l’importanza delle imprese umanitarie nel loro assistere gli affamati, feriti, malati ed emarginati del mondo orribile in cui viviamo. Ma penso che il destino migliore di questo pianeta non sia quello di convertirsi in un ospedale o in un ricovero: deve diventare la città degli uomini, la casa e l’impresa di tutti. A tal fine, è imprescindibile recuperare il respiro umanista, combattendo non solo per proteggere le vite, ma anche per istituire le libertà, educare ai valori universali, gestire gli affari umani in maniera non-tribale, ma sovranazionale.

ALBERT CAMUS, introduzione a “L’uomo in rivolta”

Siamo nel tempo della premeditazione e del delitto perfetto. I nostri criminali non sono più quei bimbi inermi che adducevano la scusa dell’amore. Sono adulti, al contrario, e il loro alibi è irrefutabile: è la filosofia, che può servire a tutto, fino a tramutare in giudici gli assassini…Ai tempi ingenui in cui il tiranno radeva al suolo qualche città a propria maggior gloria, in cui lo schiavo aggiogato al carro del vincitore sfilava per le città festanti, e il nemico veniva gettato alle belve davanti al popolo adunato, di fronte a delitti così candidi, la coscienza poteva essere salda, e chiaro il giudizio. Ma i campi di schiavi sotto il vessillo della libertà, i massacri giustificati dall’amore per l’uomo o dal sogno di una super-umanità, disarmano, in certo senso, il giudizio. Il giorno in cui il delitto si adorna delle spoglie dell’innocenza, quella cui viene intimato di fornire le proprie giustificazioni, per una strana inversione propria al nostro tempo, è l’innocenza stessa.

LUIGI ALFIERI, “La stanchezza di Marte. Variazioni sul tema della guerra”, 2008, pp. 185-190

L’Italia non è mai stata, in tutta la sua storia, talmente impegnata in operazioni militari all’estero come in questi ultimi decenni; con pochi uomini e mezzi, di solito, ma tenendo conto del gran numero di operazioni a cui si è voluta o dovuta decidere una partecipazione almeno simbolica, il livello complessivo di proiezione militare oltre i confini è paragonabile se non superiore a quello delle guerre coloniali: un precedente che dovrebbe far riflettere. La presentazione di queste attività come iniziative umanitarie è in molti casi del tutto risibile, e in almeno tre casi – la prima guerra del Golfo sicuramente, e malgrado grossolane ipocrisie anche l’infelicissima spedizione in Somalia e il coinvolgimento nei bombardamenti della Serbia durante la crisi del Kosovo – si è trattato di guerra esplicita e aperta, anche con aspetti specie nel caso somalo – di vergognosa brutalità. […]. È difficilissimo, ormai, ricordarle tutte: non dovrebbe farci paura questo dato così elementare? […]. Anche le legioni romane eseguivano una politica di pace, a modo loro. E dove finisce la politica di pace e comincia una politica di potenza?

MICHELANGELO BOVERO, “L’ideologia capovolta. Dalla pace attraverso i diritti ai diritti attraverso la guerra”, 2006, p. 134

La barbarie ritornata che ci troviamo a fronteggiare è duplice: quella di chi viola i diritti fondamentali e quella di chi li viola due volte con la pretesa di difenderli, o addirittura di instaurare manu militari il regno universale del diritto e dei diritti.

TEJU COLE, “The White Savior Industrial Complex”

Il salvatore bianco appoggia politiche brutali al mattino, fa beneficenza al pomeriggio e riceve onorificenze la sera.

La banalità del male si trasmuta nella banalità del sentimentalismo. Il mondo non è altro che un problema da risolvere con entusiasmo.

Questo mondo esiste semplicemente per soddisfare le esigenze – specialmente i bisogni sentimentali – dei bianchi.

L’Industria del Salvatore Bianco non ha nulla a che vedere con la giustizia. Si tratta di avere una grande esperienza emotiva che giustifica il privilegio.

Una febbrile preoccupazione per un terribile signore della guerra africano [cf. Kony], mentre fino a 1 milione e mezzo di iracheni sono morti per una guerra americana che poteva essere evitata. Sarebbe bene preoccuparsi di questo.

È giusto rispettare il sentimentalismo americano, proprio come si rispetta un ippopotamo ferito. È necessario tenerlo d’occhio, perché sai che è mortale.
è lecito parlare di peccati, ma è politicamente scorretto fare i nomi dei peccatori. Perciò c’è il razzismo ma è sconveniente dare del razzista a qualcuno, c’è la misoginia, ma non ci sono misogini, nessuno è omofobo ma gli omosessuali sono vittime di omofobia. Se uno osa puntare il dito su qualcosa di così manifesto come il privilegio bianco, è bollato come provocatorio. Così gli emarginati hanno sempre meno possibilità di parlare di ciò che li fa soffrire, a causa di questo “decoro coatto”.

Non è che tutti gli operatori umanitari sono razzisti. Alcuni lo sono inconsapevolmente, altri no. In genere sono persone di buon cuore, ma è proprio il sentimentalismo che semplifica ingiustificatamente la loro visione del mondo. Così vedono solo bocche affamate che devono essere sfamate al più presto. Tutto quel che vedono è bisogno, ma non le cause ultime di questo bisogno.

Fare un buon lavoro umanitario comporta qualcosa di più di “fare la differenza”. Prima di tutto viene il dovere di non nuocere e di conseguenza il diritto di chi viene aiutato di essere consultato in merito alle questioni che lo riguardano.

L’Africa è un luogo in cui le regole sono diverse: un signor nessuno americano o europeo può andare in Africa e diventare un salvatore semidivino o, quantomeno, soddisfare i suoi bisogni emotivi.

I problemi africani sono strutturali, sono intricati, sono locali e non si risolvono con gli slogan. Per dare un aiuto concreto, occorre una certa umiltà verso le persone che vivono in quelle aree, il rispetto per la loro capacità di essere protagoniste delle loro vite e di risolvere i loro problemi. Gli Ugandesi hanno fatto e continuano a fare moltissimo per migliorare il proprio paese e commenti ignoranti come “dobbiamo salvarli noi perché non possono salvarsi da soli”, non può alterare questo fatto. I Nigeriani hanno recentemente protestato, molto civilmente, contro il governo, la corruzione e l’inflazione. Uomini e donne, di tutte le classi ed età, si sono mobilitati per quello che sentivano era giusto, hanno marciato pacificamente, si sono scambiati cibo e bevande e protetti l’un l’altro; i cristiani montavano la guardia mentre i musulmani pregavano e vice versa, parlavano senza timore ai loro leader circa il tipo di paese in cui volevano vivere. Tutto questo è avvenuto senza l’intervento di un qualche giovane supereroe americano.

Joseph Kony non è più in Uganda e non è più la minaccia che è stato, ma è un cattivo molto utile per chi ne ha bisogno. Non sono queste denunce che servono all’Africa, ma una società civile più equa, una democrazia più robusta, un sistema giudiziario più giusto. È su queste fondamenta che si possono costruire infrastrutture, sicurezza, sanità ed educazione.

Se gli Americani vogliono davvero prendersi cura dell’Africa, dovrebbero valutare la politica estera americana, per votare con cognizione di causa, prima di imporre il loro volere agli Africani. I manifestanti nigeriani sono stati virtualmente ignorati dall’amministrazione americana, il sostentamento dei coltivatori di mais in Messico è stato distrutto dal NAFTA, i coltivatori di riso haitiani hanno subito perdite spaventose a causa del riso sovvenzionato americano. Poi si può citare il colpo di stato in Honduras, appoggiato dagli Americani, che ha causato la morte di centinaia di attivisti e giornalisti, la giunta militare filoamericana che opprime l’Egitto post-Mubarak e riceve annualmente 1 miliardo e 300 milioni di sussidi dagli Stati Uniti.

Quel che gli innocenti eroi dell’umanitarismo devono capire è che fanno spesso il gioco di chi è guidato da motivazioni molto più ciniche.

La sindrome del Salvatore Bianco è una valvola di sfogo in un sistema fondato sulla rapina e sul saccheggio. Per anni gli Americani hanno partecipato alla distruzione economica di Haiti, ma dopo il terremoto si sono sentiti in obbligo di donare 10 dollari per la ricostruzione. Quando si interferisce nelle vite degli altri bisogna sapere che cosa questo comporta. Il sostegno alla campagna Kony 2012 implica una crescente militarizzazione del governo antidemocratico di Yoweri Museveni, al potere dal 1986, uno dei principali responsabili della guerra in Congo ed una pedina americana nei conflitti in Sudan e in Somalia.

Tutto questo ci porta molto lontano dall’idealismo dei giovani americani che vogliono impiegare la forza di YouTube e Facebook per cambiare il mondo.

Se vogliamo davvero fare la differenza dobbiamo andare oltre il sentimentalismo e sfidare le strutture ed i sistemi che perpetuano la disuguaglianza in tutto il pianeta. La disobbedienza civile serve, appunto, a salvare noi stessi e consentire ad altri di fare lo stesso.

http://www.theatlantic.com/international/archive/2012/03/the-white-savior-industrial-complex/254843/

RONY BRAUMAN, «Humanitaire, diplomatie et droits de l’homme», 2009

Il Terzo Mondo è visto come un territorio desolato, popolato da eterne vittime bisognose di incessante soccorso.

Occorre evitare che al potere vadano persone affetta da cinismo amorale (Machiavelli) e da idealismo intransigente (Robespierre): non c’è nulla di più sanguinario di queste due patologie della coscienza, che hanno una radice comune nel narcisismo, nell’esaltazione del proprio ego e della propria prospettiva sul mondo.

L’umanitarismo obbedisce alla legge dei gas perfetti: un’espansione infinita se non ci sono forze che lo limitano.

La violenza è sempre quella altrui, perché noi siamo democratici, civili ed umanitari. La nostra violenza è meno violenta di quella degli altri. È un male minore che in fondo è un bene e quindi si giustifica da sé. Ma il diritto non coincide sempre con la giustizia.

L’umanitarismo è la degradazione dell’umanitario, allo stesso modo in cui il moralismo è una perversione della morale.

L’umanitarismo elimina i dubbi e gli scrupoli, scredita le critiche e divide il mondo gerarchicamente tra vittime e soccorritori – non è più una moda, ma un modo di leggere il mondo.

È lecito parlare di cannibalismo umanitario – l’orco filantropico, l’ha chiamato Octavio Paz (Premio Nobel per la Letteratura nel 1990): fornire il nostro aiuto, rimediare ai misfatti, diventa una dipendenza. Abbiamo bisogno di un contingente di vittime per continuare a sentirci dei salvatori. L’ingerenza umanitaria diventa un dovere (dobbiamo farlo), un diritto (possiamo farlo) ed un vizio (non possiamo non farlo).

L’umanitarismo è un’industria, con le sue logiche ed i suoi metodi interni, è inquadrata, normativizzata, tecnicizzata, tecnocratizzata, arida e gelida: c’è un ingente budget disponibile, serve una crisi che lo giustifichi.

In Cambogia, in Etiopia, in Ruanda e nel Congo-Zaire l’umanitarismo è rimasto implicato in politiche criminali.

ALBERT CAMUS, La Caduta (La Chute) (1956)

http://fanuessays.blogspot.it/2011/11/il-narcisista-umanitario-parte-prima_14.html

MARCO DERIU, “Dietro aiuti e cooperazione sta una visione del mondo”, Solidarietà Internazionale, nov./dic. 2005

Negli ultimi decenni, secondo i dati dell’UNDP si è registrato un aumento degli indici di povertà in 37 dei 67 paesi di cui si disponeva di dati. A questo punto una domanda è d’obbligo: come spiegare la diffusione della miseria e di condizioni di esistenza sempre più drammatiche proprio nei decenni in cui si sono registrate i maggiori tassi di produzione, di consumo, di crescita? Il mondo non è mai stato così ricco, eppure sono milioni le persone che continuano a morire di stenti. Non ci deve venire forse il dubbio che le tradizionali categorie interpretative – legate all’idea di sviluppo, di crescita, di lotta alla povertà, di emergenza umanitaria – non riescono a spiegare quello che è successo, non permettono di dar conto di ciò che ci troviamo di fronte?
Le condizioni di miseria in cui vive una gran parte della popolazione mondiale non sono il risultato di una condizione di sottosviluppo, ma il risultato stesso delle strategie di sviluppo.

Le politiche di sviluppo concretamente hanno determinato in molti paesi del sud del mondo la distruzione sistematica delle forme di povertà conviviale praticate dalle comunità locali svalutando e soppiantando le forme di produzione per la sussistenza e delle forme di scambio locale per imporre l’imperativo della crescita. Hanno quindi gettato le basi di un’economia di mercato orientata alla crescita, che significa un’economicizzazione della società, una moltiplicazione dei bisogni, una maggiore dipendenza individuale e sociale dalla produzione, dal reddito monetario e dal consumo in una competizione di tutti contro tutti che alza le chance di arricchimento per alcuni, mentre condanna alla miseria tutti gli altri.

Man mano che si afferma l’economicizzazione della società non è più l’economia a dover corrispondere ai bisogni delle persone, ma piuttosto questi ultimi a dover corrispondere ai bisogni dell’economia. La produzione, l’induzione e la moltiplicazione dei bisogni è addirittura indispensabile al buon funzionamento dell’economia di mercato.

Le Ong e le agenzie internazionali hanno impiantato il verbo della crescita e dello sviluppo quasi in ogni angolo del pianeta. Assieme agli aiuti materiali ed economici hanno riversato sulle altre società soprattutto una visione del mondo. I cooperanti sono stati solerti spacciatori di illusioni: lo sviluppo, la crescita, la globalizzazione, la ricchezza.

Il giudizio di arretratezza che abbiamo imposto alle nostre alterità e la mentalità che ci porta a guardare noi stessi come rappresentanti di una civiltà più evoluta ci spingono a credere che gli altri popoli debbano in fondo imitarci per diventare come noi e accedere al nostro mondo di benessere. L’idea dell’aiuto, del dono, dunque non è altro che lo strumento attraverso cui il cooperante occidentale pensa si possa colmare questo gap “temporale” tra “noi” e “gli altri”. In altre parole, attraverso il dono si cerca di rendere gli altri simili a noi. Gli aiuti non sono semplicemente oggetti o beni, ma sono segni, simboli, strumenti performativi, agenti attivi di colonizzazione culturale.

L’unico imperativo morale che abbiamo non è quello di salvare il mondo per renderlo uguale a noi, ma quello di costruire relazioni rispettose e generose con le nostre alterità.

http://www.solidarietainternazionale.it/anno-xvi/n-06-novdic-2005/848-la-faccia-piu-subdola-della-colonizzazione.html

MARCO DERIU et al. (a cura di), “L’illusione umanitaria. La trappola degli aiuti e le prospettive della solidarietà internazionale”, 2001.

L’aiuto umanitario si rivolge non alla persona nella sua umanità complessiva, ma al solo “essere sofferente”. Mentre cerca di lenire o estirpare il dolore, contribuisce in realtà alla trasformazione ed alla riduzione simbolica dell’essere vivente a puro essere bisognoso. L’ascolto, l’aiuto, non riguarda più le persone ma solamente coloro che sono riconosciuti come vittime sofferenti. In altre parole si riconosce l’altro solo nella forma estrema della vittima. Si assiste dunque alla creazione di un ordine vittimale. […]. L’aiuto umanitario contribuisce alla riduzione dell’essere umano a nuda vita, cancellando ogni forma di alterità. La relazione che viene messa in gioco nell’assistenza umanitaria è in realtà un rapporto di tipo funzionale e non una relazione umana vera e propria. I soggetti cui dovrebbe essere rivolta l’azione umanitaria non hanno voce in capitolo. Non è previsto l’ascolto, il confronto, il conflitto, lo scambio, ovvero tutto ciò che può rendere accettabile e dignitoso per una persona il ricevere aiuto da un’altra persona. […]. Questa ignoranza è sintomo di un’implicita presunzione degli occidentali nei rapporti con le alterità (p. 25).

I paesi autosufficienti o esportatori di cibo divengono dipendenti dalle importazioni di prodotti occidentali (Somalia, Haiti, Bangladesh).

Nel 1995 Care, una delle più grandi agenzie di aiuto statunitensi affermava nel suo rapporto annuale: “i paesi che sono stati beneficiari di aiuto umanitario oggi acquistano il 31% delle esportazioni agricole degli Stati Uniti”.

È molto difficile convincere le persone che mentre credono di stare aiutando qualcuno in realtà gli stanno facendo del male. Che mentre pensano di migliorare la loro condizione in realtà la peggiorano. Spesso la gente non vuole saperne nulla. È incatenata a quello che sta facendo. È prigioniera delle sue buone azioni. Preferisce non interrogarsi sulle conseguenze delle proprie azioni (p. 90).

Il fatto di donare ci fa credere automaticamente di dover avere una qualche forma di potere sul nostro beneficiario (p. 92).

Se davvero – come abbiamo cercato di mostrare – l’umanitario serve a coprire, allora sarebbe meglio far esplodere i conflitti. È fondamentale infatti mettere la gente di fronte a quei problemi, a quelle contraddizioni e a quelle ingiustizie che l’umanitario cerca in tutti i modi di nascondere: la violenza del mercato e del totalitarismo economico, l’ingiustizia e il carattere egemonico delle attuali relazioni nord-sud, la riduzione della politica a un gioco di potere, l’utilizzo della retorica dei diritti umani e dei buoni sentimenti per coprire una strategia di dominio e gli interessi economici dei paesi ricchi (p. 176).

L’imperativo “dare!”, deve essere sostituito da “conoscere” e “ascoltare”. La conoscenza e l’incontro sono l’unica garanzia possibile per una reale amicizia e per un sostegno reciproco rispettoso, quando si rende necessario. […]. Inoltre instaurare un’ottica di reciprocità significa riconoscere che la cultura e le società occidentali hanno molto da apprendere dalle culture e dalle società del sud del mondo, e che parte di questo sapere può essere fondamentale per affrontare in maniera più saggia i problemi che tormentano le nostre società (pp. 186-187).

Utah 2013 – dal Grande Fratello all’Immenso Fratello

Lo Utah è noto per essere la sede dei Mormoni (N.B. Mitt Romney è un mormone) e dell’Archivio dei Mormoni, una biblioteca genealogica situata in un deposito blindatissimo all’interno di una montagna a qualche decina di miglia a sud di Salt Lake City. Dovrebbe idealmente contenere gli alberi genealogici e i dati anagrafici (inclusa razza e censo) di tutti gli esseri umani. Nel 2007 Marco D’Eramo scriveva sul Manifesto: “Nel 1959 l’immagazzinamento cominciò a diventare un problema. Si iniziarono a scavare 6 enormi gallerie nel granito delle montagne del Little Cottonwood Canyon, a 40 km da Salt Lake City, e nel 1963 furono inaugurati i Granite Mountain Record Vaults, abbastanza spaziosi da poter contenere l’equivalente di 25 milioni di volumi. Secondo il sito della Family History Library, la biblioteca include 2,4 milioni di registrazioni genealogiche, 742.000 microfiches, 310.000 libri, 4.500 periodici. Il database Ancestral File contiene più di 36 milioni di nomi collegati in famiglie. L’Indice genealogico internazionale registra 725 milioni di nomi. Complessivamente il database contiene più di 2 miliardi di nomi, la maggior parte vissuta prima del 1930. In questo momento 200 macchine fotografiche in 45 paesi stanno microfilmando archivi”:

http://www.feltrinellieditore.it/FattiLibriInterna?id_fatto=9176

È evidente che, in certe epoche di crisi della democrazia, questa colossale mole di informazioni sarebbe pericolosissima, nelle mani sbagliate. Faccio fatica ad immaginare che le mani fondamentaliste dei Mormoni siano delle mani giuste.

Ad ogni modo, ora lo Utah sta per diventare famoso per un’altra minaccia ai diritti civili degli abitanti del pianeta:

Nello Utah la National Security Agency sta costruendo un enorme punto di calcolo e gestione dei dati che setaccerà la Rete, dalle mail alle ricerche Google, fino alla telefonate. La sorveglianza capillare potrebbe partire nel 2013.

In confronto Echelon [rete di spionaggio globale anglo-americana che consente di ascoltare le conversazioni che avvengono a fianco di un cellulare SPENTO, NdR] era un gioco da ragazzi, arnese analogico da Guerra Fredda, che serviva per intercettare le comunicazioni telefoniche oltre la Cortina di Ferro. Quello che la National Security Agency (NSA) sta costruendo a Camp Williams, nello Utah, è l’apoteosi dello spionaggio digitale e l’incubo per la privacy dei cittadini.

Un super computer mai visto, in grado di custodire ed elaborare yottabyte (quadrilioni di byte) di dati. La NSA riuscirà così a intercettare ogni dispositivo collegato a Internet, compresi gli elettrodomestici di nuova generazione (frigoriferi, forni, sistemi d’illuminazione). In pratica nessuno al mondo potrà sfuggire alla nuova sorveglianza capillare [a parte i poveri del mondo e chi vive in aree tagliate fuori dal resto del mondo, NdR]. È la storia di copertina di Wired USA, un esclusivo reportage di James Bamford, giornalista investigativo e scrittore, esperto d’intelligence, autore del best seller “The Shadow Factory: The Ultra-Secret NSA from 9/11 to the Eavesdropping on America”.

Lo Utah Data Center della NSA sarà completato nel 2013, con un investimento di due miliardi di dollari. Occuperà un milione di metri quadrati e consumerà energia elettrica quanto una città. Scrive James Bamford che lo scopo di questo “Immenso Fratello” sarà intercettare, decifrare, analizzare e memorizzare vaste aree della comunicazione mondiale. Satelliti, cavi sotterranei e sottomarini, reti senza fili, reti cablate e reti domestiche. Cioè mail, telefonate, attività su Internet, comprese le ricerche su Google e pagamenti digitali.

Il centro – aggiunge Bamford – gestirà informazioni finanziarie, transazioni di borsa, affari, segreti militari e diplomatici, documenti legali. La NSA avrebbe fatto enormi passi avanti nella capacità di decrittazione e sarebbe in grado di penetrare anche i sistemi di cifratura più complessi. L’agenzia vuole spiare anche il deep web, cioè quei settori della rete invisibili agli utenti “normali”.

La NSA avrebbe piazzato i suoi rilevatori negli snodi strategici di tutti i sistemi di telecomunicazione, facendo largo uso di software molto potenti per il Deep Packet Inspection, l’analisi capillare di tutto il traffico Internet. Un bottino sterminato ma difficile da esaminare. Ecco perché si sta costruendo l’Immenso Fratello. Non potremo parlare più neanche in cucina, perché potremmo essere spiati dal frigorifero o dal forno. Il reportage di James Bamford è lungo, dettagliato e fa venire i brividi. Lo trovate a questo indirizzo.

http://www.tomshw.it/cont/news/l-nsa-spiera-il-web-il-grande-fratello-era-un-principiante/36472/1.html

Kony 2012 – La stucchevole pornografia umanitaria (I bambini! Pensate ai bambini!)

a cura di Stefano Fait, direttore di FuturAbles

Web Caffè Bookique [Facebook]

KONY 2012 (decine di milioni di visualizzazioni) è la consueta trappola “filantropico-umanitaria” in cui cadono fin troppi internauti.

Qui potere trovate il video, tediosamente manicheo, ipersemplificatore, manipolatore, razzista, ingannevole, omertoso:

http://www.informarexresistere.fr/2012/03/10/kony-2012-make-him-visible-rendiamolo-visibile/#axzz1od3sL7a5

Le critiche più superficiali a questa organizzazione umanitaria si concentrano sui ricchi emolumenti che si riservano i dirigenti di Invisible Children, sul fatto che solo un terzo del denaro delle donazioni finisce in Uganda (e, anche lì, siamo sicuri che arrivino alle persone giuste?), che la sua contabilità non è per nulla trasparente, che tende ad esagerare i fatti e le cifre per ragioni di autopromozione. Infine, che il video-documentario in questione contiene pochissime informazioni e moltissime esche emotive per spettatori dal cuore tenero e dallo spirito critico assopito, che manco si rendono conto che Kony (pronuncia: “Koon”) non è più in Uganda dal 2006 e che nell’Uganda del Nord la situazione è relativamente tranquilla da diversi anni, a dispetto delle immagini strazianti che ci vengono propinate:

http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/africaandindianocean/uganda/9131469/Joseph-Kony-2012-growing-outrage-in-Uganda-over-film.html

Ci sono però ragioni molto più stringenti, profonde ed inquietanti.

Farsi fotografare imbracciando armi automatiche dei ribelli del Sud Sudan, non è solo una pessima idea, è anche molto rivelatore. Infatti “Invisible Children” è ben vista dal presidente ugandese, al potere da 26 anni grazie all’appoggio degli Stati Uniti:

http://www.peacelink.it/conflitti/a/34895.html

Si dimostra utile anche per gli interessi industriali anglo-americani, specialmente quelli nel settore petrolifero e in quello del legname, ai danni delle popolazioni locali:

http://www.peacelink.it/ecologia/a/34854.html

http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2012/mar/08/kony-2012-campaign-oprah-and-bracelets?INTCMP=SRCH

“Un altro elemento degno di nota è che in Kony 2012 si sostenga l’invio di militari statunitensi in Uganda, deciso da Obama. Il proseguimento del sostegno militare alle forze armate ugandese è anzi il principale obiettivo dell’intera campagna: si vuole proprio evitare che il Congresso possa scegliere un disimpegno dal paese africano. La scelta del presidente Obama è dipinta come il risultato delle pressioni dal basso esercitate negli anni passati dalla Invisible Children, Inc., e come una missione militare decisa semplicemente perché è la cosa giusta.

http://www.geopolitica-rivista.org/16839/dietro-kony-2012-cosa-succede-davvero-in-uganda/

Incredibile a dirsi, questi attivisti umanitari chiedono agli Stati Uniti di armare l’esercito ugandese, che è uno dei principali colpevoli del peggior genocidio della storia dopo quello nazista, ossia quello dei Congolesi, che hanno la sfortuna (!!!) di vivere in uno dei paesi più ricchi di risorse naturali del mondo, un boccone delizioso per le potenze occidentali:

http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=print&sid=4546

Yoweri Museveni, presidente ugandese paladino delle privatizzazioni e del rigore fiscale, accusato di essere restato ininterrottamente al potere dal 1986 solo grazie ai brogli, responsabile della morte di più Ugandesi di quelli uccisi da Kony, è anche implicato nel genocidio ruandese:

http://www.percorsidipace.net/conflitti/conflitto-ruanda

La campagna per un intervento militare in Uganda ed in tutta l’Africa centro-orientale è promossa non soltanto da Invisible Children, ma anche da figure terribilmente sinistre come il senatore statunitense Jim Inhofe, nemico giurato di Joseph Kony.

http://inhofe.senate.gov/public/index.cfm?FuseAction=PressRoom.PressReleases&ContentRecord_id=039016be-bef0-0770-4f0e-3bcacdd69097

Inhofe, grande amico di Yoweri Museveni, è uno dei pezzi grossi di “The Family”, l’organizzazione cristiano-fascista che esercita un’enorme influenza sulla politica americana, nazionale ed estera:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/09/quando-il-fascismo-giungera-in-america-sara-avvolto-nella-bandiera-e-brandira-una-croce-sinclair-lewis/#axzz1od3sL7a5

Tanto intensa è l’influenza di questi fanatici cristianisti, che in Uganda si continua a ventilare l’ipotesi di promulgare leggi che autorizzino la condanna a morte degli omosessuali:

http://it.globalvoicesonline.org/2012/02/uganda-torna-la-proposta-di-legge-anti-gay/

Museveni è un paladino dell’unificazione dell’Africa orientale, ufficialmente per “sviluppare un programma spaziale africano” (sic!), in realtà per favorire gli interessi anglo-americani a discapito di quelli cinesi:

http://www.zimbio.com/President+Yoweri+Museveni/articles/70/Africans+must+travel+moon+Uganda+president

Questa vicenda può essere uno spunto per comprendere meglio la maniera in cui gli psicopatici che governano il mondo (solo degli psicopatici potrebbero sacrificare le esistenze di milioni di persone per il loro profitto e status) manipolano le masse.

Il video incriminato esemplifica al meglio le tecniche messe in atto per strumentalizzare le emozioni della gente.

C’è il nauseante e paternalistico motivo del fardello dell’uomo bianco che deve ripetutamente farsi carico della sorte dei suoi fratelli neri, un po’ sfigati, un po’ sub-umani, incapaci di autogestirsi. Perfino un criminale di guerra in pre-pensionamento, circondato da poche centinaia di miliziani, e non più in Uganda, può essere un pretesto per “risolvere” certe questioni con l’uso della forza.

Presumo che nessuno abbia visto il video integralmente. Pochi minuti sono sufficienti per capire che l’obiettivo non è quello di aiutare a capire la situazione, ma di oscurarla, contando sul fatto che nessuno si interessa degli Africani. Non si sa nulla del contesto, dei protagonisti, delle loro motivazioni, delle relazioni di potere, dei coinvolgimenti stranieri, del punto di vista degli Ugandesi. Il tutto si riduce ad uno scontro tra esseri umani bestiali ed esseri umani inermi. Un clic, un twitter e possiamo sentirci angeli salvatori: eliminato il Grande Mostro tutto si risolverà. Il fatto che ciò autorizzi un intervento militare americano in una regione che è sostanzialmente pacifica da almeno 4 anni è un dettaglio di poco conto.

La democrazia diretta dell’era digitale è guidata dai buoni sentimenti, non dall’intelletto,  dalla curiosità, dal desiderio di approfondire, dall’umiltà di chi accetta che è necessario informarsi prima di trarre delle conclusioni.

Quante delle persone che hanno condiviso il video sanno anche solo dov’è l’Uganda (“sono neri, saranno da qualche parte in Africa”)? Quanti si sono chiesti se le immagini sono recenti o risalgono per caso ad una decina di anni fa e se l’accostamento di Kony e Hitler sia legittimo? Quanti si sono domandati la ragione di tutto questo scalpore per una guerra che è durata 20 anni (1986-2006), nell’indifferenza del mondo, proprio ora che le acque sono relativamente calme? Quanti hanno idea della guerra commerciale ed economica che si svolge tra Stati Uniti e Cina nel teatro dell’Africa orientale? Quanti hanno messo in discussione la contrapposizione tra assistenza occidentale allo sviluppo buona / colonialismo cinese cattivo? Quanti sono rimasti sconcertati dal linguaggio emotivo, pontificatore, vuoto di contenuti di questa campagna?

Un linguaggio che fa appello al nostro senso di colpa e razzismo inconsapevole (“gli Africani sono così, c’è poco da fare se non mettersi in mezzo e farli rigar dritti, questi selvaggi”) ed ignora il contesto, i conflitti di potere, l’occultamento dei moventi, la rimozione del boom economico dell’Uganda settentrionale dall’orizzonte degli eventi, ecc. C’è un uomo cattivo, ci sono delle vittime e c’è una soluzione: un “mi piace”, una condivisione, un sms e ci mettiamo il cuore in pace. Come vincere una guerra in un videogioco. Una mobilitazione istantanea ed asettica per la guerra (“guerra giusta”), una guerra che comporterebbe l’uccisione di centinaia di ragazzini-soldato che sono stati “reclutati” contro la loro volontà e di migliaia civili, quelli che incolpano non solo Kony ma anche il governo/regime ugandese.

30 minuti di propaganda melliflua sono sufficienti per mandarci il cervello in pappa, per farci credere di essere diventati sufficientemente competenti riguardo ad un tema che prima ignoravamo completamente da sapere cosa sia giusto fare, per spingerci ad attaccare chiunque critichi il video, a comprare le nostre brave t-shirt filantropiche, come dei bravi soldatini?

Goebbels sfruttava precisamente questi meccanismi di adesione spontanea, irriflessa, semi-consapevole.

Le guerre umanitarie sono state “autorizzate” dall’opinione pubblica internazionale in questa stessa maniera (cf. i neonati kuwaitiani infilzati dai soldati iracheni nelle incubatrici, i soldati di Gheddafi che usano viagra per stuprare meglio le donne libiche, Assad che fa saltare in aria le proprie forze dell’ordine per poter dare la colpa ad Al-Qaeda).

Useranno le stesse tecniche per farci accettare la prossima guerra mondiale e tutto ciò che seguirà.

In definitiva, Jason Russell, Bobby Bailey e Laren Poole, i giovani fondatori di “Invisibile Children”, sono forsi animati dalle migliori intenzioni, sono forse gli utili idioti di turno, ma è lecito chiedersi cosa li abbia spinti a scegliere di usare Kevin, il figlio di Jason Russell, per spiegare al mondo la bontà della causa, come se gli spettatori avessero l’età mentale di un bambino e non potessero gestire informazioni più complesse di quelle inserite nel documentario. Paternalistico è anche il nome della stessa organizzazione, che allude al fatto che siano stati loro a rendere visibili bambini che prima non lo erano, come se proprio il fatto di autoproclamarsene portavoce, senza farli parlare, non equivalesse a renderli muti ed invisibili.

Gli Ugandesi non hanno bisogno di questa carità pelosa e noi abbiamo invece bisogno di darci una svegliata, prima che sia troppo tardi.

Prontuario per difendersi e difendere gli altri dal bullismo in rete

a cura di Stefano Fait

In ciascuno di noi alligna un manipolatore, un ricattatore psicologico e morale. In qualcuno è più forte che in altri.
Su FaceBook questa brutta bestia si scatena. Il problema è che qualcuno ne è consapevole, altri lo sono meno, altri ancora si sentono invece perennemente vittime di manipolatori arroganti e sfrontati e, in quanto vittime, si percepiscono come inoppugnabilmente innocenti, pur essendo maestri della manipolazione. Non è necessariamente detto che ne siano consapevoli, anzi. Nessuno è mai pienamente consapevole di quel che pensa, dice e fa.
Cerco di identificare i tratti distintivi di questa brutta bestia che alberga in noi, nella speranza che ciò serva a tenerla sotto controllo e riconoscerla negli altri.
I manipolatori sono aggressivi ma fingono di essere equanimi ed assertivi. Possono esserlo scopertamente o dissimulando l’aggressività.
La tattica è quella della vittimizzazione: affermano di essere stati feriti, di essere pieni di sollecitudine per gli altri, di essere attaccati. Non attaccano mai, secondo loro, sono gli altri ad attaccarli, quindi sono sempre innocenti.
Ci tengono sotto costante pressione, sfruttando il ricatto psicologico, il senso di colpa, le nostre debolezze ed insicurezze, tra queste anche la nostra riluttanza ad esprimere giudizi severi su una persona e a non concedere altre chance.
Il manipolatore ha una personalità aggressiva ed impiega ogni mezzo per ottenere il controllo dell’altro e della discussione. L’aggressore si rifiuterà di ammettere di aver fatto qualcosa di sbagliato o di aver ferito qualcuno. Mente a se stesso ed agli altri. “Chi…io?”: fare l’innocente serve a far credere all’aggredito che le sue accuse sono ingiustificate, a farlo sentire in colpa, a farlo vergognare in pubblico (sfrutta la coscienza della vittima come arma contro la vittima stessa: sei indifferente, aggressivo, egoista, mi stai ferendo, ecc. – lui/lei è immune da questo tipo di reazione colpevole/empatica).
L’aggressore si rifiuta di prestare attenzione a quel che l’aggredito sta dicendo: ha un obiettivo e rimuove ogni ostacolo sul suo percorso. Sfrutta la razionalizzazione, ossia una spiegazione vagamente sensata di un certo atteggiamento che serve a placare le ansie dell’aggredito e a giustificare l’aggressore: se riesce a convincere la vittima, allora sarà in grado di fare tutto quel che vuole.
Il manipolatore è abile nel cambiare discorso, rimanere costantemente in movimento, sgusciante, in modo da impedire all’aggredito di focalizzare. Usa distrazioni e diversivi per far deragliare la discussione e fuorviare la vittima. Usa menzogne, inganni e mezze verità. Di nuovo, non è detto che ne sia consapevole. Quasi nessuno di noi lo è, quando si comporta così.
Spesso il manipolatore si avvale della mimesi: finge di lavorare per una nobile causa (servire Dio, proteggere la natura, venire incontro alla volontà del popolo, servire la vocazione artistica, ecc.), ma lo scopo è quello di raggiungere una posizione di dominio sugli altri. Lusinga la vittima per sedurla e farle abbassare le difese. Poi minimizza: il suo comportamento non è davvero così aggressivo o irresponsabile come la vittima vuol far credere; la montagna ha partorito il topolino.
I manipolatori – incluso il manipolatore che è in noi – sono deleteri per tutti, non solo per la vittima di turno.
Quando qualcuno dice quello che pensa, pubblicamente, senza paura della disapprovazione della folla, deve avere un gran coraggio, ma i benefici sono immensi. L’esito è che qualcuno avrà le idee più chiare, qualcun altro, che già la pensava a quel modo, troverà la forza di prendere esempio: “ehi, non pensavo che certe cose si potessero dire, che si potesse dire pane al pane e vino al vino senza paura che qualcuno se la prendesse”.
Purtroppo la dittatura del Politicamente Corretto ha consentito che circolassero imperativi come quello di procedere sempre come se fossimo in un campo minato, per tema di dire qualcosa che possa offendere qualcuno, indipendentemente dalla ragionevolezza di quel che occorre dire e dell’immatura permalosità di questo qualcuno: “meglio stare attenti a quel che diciamo”, “la cosa importante non è la verità ma non offendere nessuno, non spiacere a nessuno”.
Questo è il viatico per il dispotismo: una società passiva, disumanizzata, soggiogata da un potere che sopprimere ogni dissidio, ogni dissenso, ogni conflitto. Dire la verità diventa un tabù, un’offesa, quando il branco ammira il vestito del re, che è nudo. Finché qualcuno, innocentemente o scaltramente, grida: il re è nudo. Questo non per far imbestialire la gente, ma perché sa che la verità è un valore che trascende il bisogno di essere accettati, di approvazione sociale, specialmente se questa approvazione si sostiene su di una menzogna, su di un inganno.
Perciò la semplice azione di dire quello che si pensa, con argomentazioni solide e sostanziate e non con chiacchiere da bar, può avere ripercussioni imprevedibili, come nell’immagine del battito di una farfalla che produce un ciclone all’altro capo del globo. Così facendo si socchiude una porta e qualcuno ha la possibilità di entrare, mentre prima quell’opzione era preclusa. A questo punto, però, non è giusto trascinare dentro le persone, ognuno deve agire autonomamente, non si può scegliere per gli altri, una volta che questi sono adulti.
Detto questo, di fronte alle idee false, alla pseudoinformazione, al sentito dire, alle contraddizioni mascherate da profondità intellettuale, al relativismo morale spacciato per suprema tolleranza, all’aggressione verbale di chi non sa che argomenti opporre, l’unico comportamento adeguato è quello della lotta senza quartiere. Non si fanno compromessi sulla verità (con la v minuscola, ma ci sono opinioni più pesanti di altre – alle opinioni degli ignoranti si dà giustamente poco peso, come a quelle di chi non entra mai nel merito delle questioni):
http://fanuessays.blogspot.com/2011/11/io-credo-nella-verita.html
http://fanuessays.blogspot.com/2011/11/contro-il-relativismo-morale.html
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Spesso una devozione infantile è un’indicazione particolarmente limpida del livello di intelligenza e di ragionamento necessario a sostenere entusiasticamente certe tesi.
Da dove nasce questo cultismo? Se certe idee sono davvero così grandiose, com’è che le argomentazioni dei loro sostenitori sono così carenti?
Ci si aspetta che crediamo a tutto quello che ci dicono i nostri governanti-genitori, come dei bravi bimbi, senza mai neppure tentare di guardare oltre lo schermo, di scrutare sotto la superficie delle cose, in profondità, convincendoci che in effetti non c’è alcuna profondità e non c’è nulla dietro lo schermo? È un modo di pensare da adulti questo?
È giusto essere lieti – come Socrate – se ci se ci sono obiezioni e critiche, ma se in risposta non arrivano ragionamento intelligenti ed informati che entrano nel merito delle cose ma si fissano su dei dettagli, cosa dovrebbe significare? Che non c’è vera riflessione ma solo fervore, che manca un’autentica dedizione alla ricerca della verità.
Queste persone, quando aprono la bocca e mettono le dita su una tastiera, possono fare un ottimo lavoro nello screditare la tesi che difendono. Si tratta di avere pazienza. Prima o poi se ne escono con frecciatine, allusioni, giudizi impressionistici assestati sotto la cintura che mettono in luce difetti caratteriali, compromettendo la propria credibilità. Chiunque tenga alla propria credibilità ed onorabilità non dovrebbe abbassarsi a tanto.
La classica mossa del manipolatore è quella di insinuare che l’interlocutore è sulla difensiva. È quello che rivela che è più interessato alla competizione che alla ricerca della verità. Seguono altre insinuazioni sulle reali motivazioni della vittima (fatte da perfetti sconosciuti). La verità o la falsità di un’argomentazione è irrilevante per lui o per lei. Il manipolatore semina dubbi in merito alle reali intenzioni e valori dell’altro dibattente, alla sua disponibilità ad esaminare la questione in modo costruttivo (c’è qualcuno che non l’ha mai fatto? Impossibile!)
Bisogna tenere a mente che l’integrità intellettuale non dovrebbe essere compromessa dalle diversioni, essa fiorisce nel terreno di una prospettiva solidamente informata e critica.
Le repliche del manipolatore non rispondono a nessuna delle questioni che si mettono sul tavolo. Molto di quel che scrive o dice ha poco a che vedere con quanto avete detto o scritto voi e molto con il tentativo di aggirare degli ostacoli che evidentemente trova insormontabili. Sarebbe meglio navigare in internet ed attrezzarsi per superarli invece di agire d’astuzia, ma la cosa richiede una certa dose di umiltà, che non sempre è presente.
Meglio far perdere tempo sviscerando quel che è già ovvio ai più, toccando temi che nessuno ha proposto o ritenuto rilevanti, come se invece lo avessero fatto, senza saper spiegare perché l’avrebbero dovuto fare. È un modo di aggirare il merito della questione, di allontanare la discussione dai nodi critici, invece di affrontarli, di parlarsi senza ascoltarsi, mentre per discutere bisogna rimanere all’interno di una conversazione, non andare per il seminato. Chiarire o intorpidire? Dialogare o deragliare?  Buona fede o mala fede?
La persona intellettualmente integra (e nessuno di noi lo è veramente, purtroppo) ha come obiettivo quello di cercar di capire e di far capire questioni anche estremamente complicate. A questa persona interessa poco convertire qualcuno al suo punto di vista se ciò non avviene in virtù del valore delle cose che dice. Cosa se ne fa di tifosi, se cerca collaboratori e compagni di viaggio?
Ciascuno di noi, posto di fronte ad un manipolatore, constata che i suoi sforzi sono ignorati e le sue domande non ottengono risposta, mentre invece si pretende da lui/lei che risponda a tutte le obiezioni.
La virtù di FB è che è un forum che non è stato pensato per raggiungere un consenso, ma per offrire lo spazio per un dibattito, anche animato, visto che alcune questioni sono delicatissime e ci coinvolgono emotivamente in misura profonda.
La democrazia ricerca un consenso maggioritario, ma si nutre di voci dissonanti, altrimenti sarebbe una monarchia, un’oligarchia, una tirannia o un totalitarismo. Per questo è richiesto il rispetto dell’interlocutore ma non quello delle sue idee, che vanno anzi esaminate criticamente e respinte con vigore se ritenute infondate. In una discussione non è opportuno cercare di convertire qualcuno, intromettersi tra una persona e le sue convinzioni. Il rapporto tra una persona e le sue convinzioni è una cosa privata. Nessuno può parlare a nome mio. Quel che si dovrebbe fare, invece, è esporre le proprie idee e le informazioni in possesso e vagliare le altrui idee ed informazioni. Il modello è quello del bambino che grida: “il re è nudo!” Non sta cercando di evangelizzare nessuno, sta solo notando una cosa pubblicamente, sta mostrando quello che dovrebbe essere evidente a tutti.
Nei dibattiti, però, non ci si conosce personalmente e ci possono essere fraintendimenti e pregiudizi in gioco. Questo  è più facile quando i punti di vista sono molto diversi.
Il manipolatore,  quello pugnace, si sveglia ogni mattina cercando un’opportunità di sentirsi offeso. Sguazza nelle questioni che creano automaticamente frizioni, attriti e poi si dimostra ipersensibile. Scende subito su un piano personale o proietta sull’interlocutore la sua tendenza a mettere tutto su un piano personale. Non si può dibattere con queste persone, perché si uccide qualunque confronto quando ci si deve irragionevolmente preoccupare di non dare un dispiacere a qualcuno per una cosa che si dice o il modo in cui la si dice (se questo rimane comunque civile).  Non si va da nessuna parte. In un forum l’unica regola è quella di non cincischiare facendo perdere tempo a chi vi prende parte. Non si risponde a qualcuno senza aver letto la sua replica ad una nostra domanda o sollecitazione. Non si risponde rimanendo nel vago, girando intorno alla questione, senza dire qualcosa di concreto, definito e coerente. Bisogna mostrare rispetto per l’interlocutore. Se si contestano le sue idee è opportuno farlo dati alla mano, non con dei sentito dire, generalizzazioni ed impressioni.
Quando è il manipolatore a prevalere, non c’è verso. Si deve concludere che non è neppure remotamente interessato al potenziale insito in un dibattito ragionato, informato, critico. Va benissimo, non è obbligatorio esserlo, ma questo esclude qualunque margine di conversazione degna di questo nome: se ci sono delle repliche supportate da dati di fatto, sentiamole, altrimenti ognuno per la sua strada.

In particolare, è meglio sganciarsi immediatamente da un confronto con chi, implicitamente, ridicolizza ogni tentativo di fare chiarezza su una questione molto più oscura di quel che ci è dato ad intendere: sorprendendosi, magari, del fatto che qualcuno debba comunque perdere tempo con noi (buona fede? mala fede?)

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