Il sale sulle ferite dell’umanità. L’imbarazzante vitalità di un’antropologia misantropica

Guru che odiano le donne (e gli uomini) – da Rachel Carson a Gore e Latouche

A cura di Stefano Fait

Web Caffè Bookique [Facebook]

La-scommessa-della-decrescita-di-Serge-Latouche-655x1024

Mi amareggia sapere che Serge Latouche goda in Italia di una popolarità sproporzionata rispetto a quella riservatagli nel resto d’Europa e dell’Occidente, dove è relativamente poco conosciuto. E per fortuna, dico io

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2013/03/04/perche-grillo-fa-bene-a-non-credere-nella-decrescita-felice/

Latouche è uno dei tanti frutti di una corrente reazionaria e misantropica dell’ambientalismo. Reazionaria perché rimuove il benessere umano dal centro del discorso politico e lo sostituisce con un distorto “amore” per il pianeta / terra / natura che, per qualche ragione, esclude l’umanità.
Se questa corrente non sarà sconfitta sul terreno delle idee e dei dati empirici finirà per pugnalare alle spalle il pensiero progressista e lo stesso ecologismo.

Infatti il suo principale effetto è quello di dirottare l’attivismo progressista in campagne contro il meteo (tra lo scetticismo di tutti gli esperti che cercano di far capire che clima e tempo meteorologico sono cose diverse) e contro il progresso economico, anche se ciò condanna a morte e alla miseria milioni di esseri umani.

Questi nostri fratelli dei paesi in via di sviluppo desiderano ardentemente energia elettrica abbondante e poco costosa, acqua pulita e servizi igienico-sanitari adeguati, non vogliono morire prematuramente di indigenza e indifferenza o guardare i loro figli morire o appassire. Vogliono sfuggire alla prigione della povertà. È un loro diritto, è una scelta perfettamente razionale e moralmente inappuntabile.

http://www.nytimes.com/2013/12/04/opinion/the-poor-need-cheap-fossil-fuels.html?_r=3&#h[]

Ma apparentemente non per Latouche o per Al Gore. Per loro crescita equivale a consumismo, mentre per il resto del mondo crescita significa speranza di diventare un po’ più liberi, un po’ meno discriminati, un po’ meno disuguali.
I dati reali danno ragione ai due miliardi di abitanti del pianeta privi di elettricità e torto ai guru dell”ecologismo reazionario:

gapminder_home_bg_3

http://www.ted.com/talks/lang/it/hans_rosling_shows_the_best_stats_you_ve_ever_seen.html

Non è una questione di dover fare un po’ meno shopping, è una questione di trovare finalmente la forza, la volontà e il modo di dimostrare che ce ne importa qualcosa dei nostri fratelli di colore più scuro.

I poveri del mondo non hanno solo bisogno di un po’ di luce elettrica e di alcuni gadget elettronici per condurre una vita dignitosa. Oltre all’energia necessaria per alimentare una moderna produzione industriale e agricola, prerequisito per una vita dignitosa per centinaia di milioni di poveri, c’è la questione di come cucinare il cibo. Al momento moltissimi di loro disboscano per poter cucinare e ogni anno decine di milioni di (per lo più) donne soccombono di malattie polmonari conseguenti ai sistemi di cottura a legna e carbone in ambienti chiusi. Queste persone devono poter essere in grado di cucinare su fornelli elettrici e avere frigoriferi, sia a casa che durante lo stoccaggio e il trasporto.

Non è normale che qualcuno ci venga a dire che questi sono privilegi e non diritti per i quali si sono battuti i nostri genitori, nonni e bisnonni. E’ il pensiero di persone dissociate dalla realtà o, come nel caso del multimiliardario Gore, in malafede.

Dovremo abituarci a vivere con meno, ci spiega James Cameron, regista di Avatar, proprietario di 3 ville a Malibù con 3 piscine riscaldate, un ranch di 100 acri, un elicottero privato, 3 Harley-Davidson, una Corvette, una Ducati, uno yacht, un Humvee, una Ford GT, una flotta di sottomarini (ne ha donato uno da 10 milioni di dollari alla Woods Hole Oceanographic Institution).

Non che Latouche se la cavi troppo male, nel centro di Parigi.

Tornando al cuore della questione, la decrescita e l’aumento dei costi energetici in un paese sviluppato non sono fatali (salvo che per quegli anziani che non si potranno permettere di riscaldare le case in inverno). Se lo stesso però succede in un paese in via di sviluppo, si avrà un enorme disastro umanitario che costerà la vita a milioni di persone e condannerà a languire in miseria un numero ancora maggiore di esseri umani.

Una cosa del genere non è altro che un moderno programma eugenetico, dove una parte dell’umanità viene sacrificata per far sentire meglio i privilegiati.

Per fortuna il resto del mondo non ascolta le prediche di Latouche e Gore. Non è infatti concepibile difendere la tesi che la gente dovrebbe volontariamente restare povera. Non succederà mai ed è meglio che i decrescisti/serristi se ne facciano una ragione.

Miliardi di esseri umani, chi più chi meno, vogliono la stessa cosa, ossia una ragionevole aspettativa di vita, una ragionevole prosperità materiale, un posto in cui vivere che sia ragionevolmente piacevole, energia abbondante e a costi ragionevoli, opportunità di viaggiare, educarsi, curarsi e migliorarsi, acqua potabile, igiene, ordine e sicurezza. Sono diritti fondamentali di ciascun essere umano, o comunque dovrebbero essere riconosciuti come tali.

In ogni caso nessun politico può pensare di rimanere a lungo al potere impedendo alle future generazioni di soddisfare queste legittime ambizioni.

162628126-0e10219d-91ea-4526-a517-9420c7ae54bdIntroduzione di Al Gore, appunto

È questo che alla fine ci salverà dal radicalismo chic, cioè da chi, come giustamente nota Laura Fedrizzi, firma appelli e parla ex indignata conscientia, e troppo poco ex informata conscientia.

Fedrizzi si riferisce alla vergogna dell’affaire Silent Spring.

http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/quanta-nostalgia-del-ddt

L’ondata di panico generata da “Silent Spring” (“Primavera silenziosa”, 1962) della biologa e ambientalista Rachel Carson, ha ucciso oltre 40 milioni di persone, tra le quali moltissimi bambini. Lo sta ancora facendo. Il libro ha contribuito in modo significativo alla decisione di bandire l’insetticida Ddt (1972 negli Stati Uniti, 1978 in Italia), un modo sicuro e molto efficace per frenare la malaria, la prima causa di morte nell’Africa sub-sahariana, e un’invenzione per la quale il chimico elvetico Paul Hermann Müller era stato insignito del Nobel per la Medicina nel 1948.

Ci sono voluti oltre 30 anni perché l’Organizzazione Mondiale della Sanità riconoscesse l’errore commesso e tornasse a raccomandare l’uso mirato del  Ddt.

Il Ddt comporta alcuni rischi per gli uccelli, ma vale la pena di salvare milioni di uccelli al costo di milioni di vite umane e, chi dovesse rispondere affermativamente, ha pensato che potrebbero essere i suoi figli (se le temperature mondiali dovessero riprendere a salire)?
È un libro che ha promosso un tipo di ambientalismo che prioritarizza l’ambiente sempre e comunque, anche a discapito del benessere umano ed è la ragione per cui ha successo anche e soprattutto negli ambienti reazionari – il conservazionismo è nato su iniziativa di quelli stessi magnati che predicavano l’austerità e la sterilizzazione eugenetica al tempo della Depressione e poi della crisi del 1973-1974 –, in cui il riscatto delle masse dalla miseria e dall’ignoranza non è visto come un obbligo ma come una minaccia per lo status quo.

Non sarò complice di questo abominio.

Sonmi-451 e Thomas Sankara – quando finzione e realtà riecheggiano

cloud-atlas

a cura di Stefano Fait, direttore di FuturAbles

La preghiera di Sonmi~451 (2144)

Archivista “Ricordati non è un interrogatorio, né un processo, la tua versione della verità è ciò che conta”

Sonmi~451 “La verità è singolare, le sue versioni sono non-verità”

Archivista “Qual è il primo catechismo?”

Sonmi~451 “Onora il tuo consumatore”

Yoona~939 “Io non sarò mai soggetta a maltrattamenti criminosi”

Sonmi~451 “La nostra vita non è nostra, da grembo a tomba, siamo legati ad altri, passati e presenti, e da ogni crimine e ogni gentilezza generiamo il nostro futuro”

Sonmi~451 “Puoi mantenere il potere sulle persone finché dai loro qualcosa, deruba un uomo di ogni cosa e quell’uomo non sarà più in tuo potere”

Hae-Joo Chang “Spesso la sopravvivenza richiede coraggio”

Sonmi~451 “Ma io sono solo la servente di una mangeria, non sono stata genomata per alterare la realtà”

Generale An-kor Apis “Nessun rivoluzionario lo è mai stato”

Sonmi~451 “Non importa se siamo nati in una vasca o in un grembo, siamo tutti purosangue. Dobbiamo tutti combattere, e se necessario morire, per insegnare alle persone la verità”

Sonmi~451 “Essere vuol dire essere percepiti, pertanto conoscere se stessi è possibile solo attraverso gli occhi degli altri. La natura della nostra vita immortale è nelle conseguenze delle nostre parole e azioni, che continuano a suddividersi nell’arco di tutto il tempo.

Archivista “Nella tua rivelazione hai parlato delle conseguenze della vita di un individuo che si spandono per tutta l’eternità. Questo vuol dire che credi in una vita nell’aldilà, nel paradiso e nell’inferno?”

Sonmi~451 “Io credo che la morte sia solo una porta, quando essa si chiude, un’altra si apre. Se tenessi a immaginare un paradiso, io immaginerei una porta che si apre e dietro di essa, lo troverei lì, ad attendermi”

Archivista “Se posso fare un’ultima domanda, dovevi sapere che la rivolta dell’unione sarebbe fallita”

Sonmi~451 “Si”

Archivista “E perché hai accettato di farlo?”

Sonmi~451 “E’ questo che il generale Apis mi aveva chiesto”

Archivista “Cosa, di essere giustiziata?”

Sonmi~451 “Se io fossi rimasta invisibile, la verità sarebbe stata nascosta, non lo potevo permettere.”

Archivista “E se nessuno credesse a questa verità?”

Sonmi~451 “Qualcuno ci crede già”

A Nuova Seoul (Nea So Copros), l’ingegneria genetica viene impiegata per produrre cloni inseriti in caste inferiori, con uno status morale inferiore. Possono essere oggetto di abuso senza che ciò sia sanzionato, ma sia i cloni sia i consumatori (“purosangue”) sono all’oscuro del destino di questi servitori: dopo un prematuro pensionamento dopo 12 anni di servaggio, sono uccisi e trasformati in cibo per cloni (sedato per intontire i servitori in modo che non si mettano in testa strane idee) e tessuti organici per fabbricare altri cloni.

Coesistono tre caste: la “razza padrona”, i servitori e i consumatori, che hanno il dovere costituzionale di consumare una certa somma, calcolata in funzione del loro status sociale, e di obbedire alle direttive della tirannia che li domina. I consumatori cercano solo apatia spirituale, comfort e gratificazioni fisiche. Sono distinguibili dai cloni che li servono per il fatto di possedere dalla nascita un microchip sull’indice, mentre i servitori hanno un collare che li può uccidere se disobbediscono.

Con il passare del tempo le distinzioni di classe e di casta hanno perso il loro carattere arbitrario, artificiale, fittizio per acquistare una vita propria, una certa naturalità e quindi ineluttabilità: “le cose stanno così perché è giusto e normale che sia così”.

Questo è il “progresso” che conduce alla Caduta e ad un mondo post-apocalittico.

Gattaca

Di sviluppi del genere se ne discute da anni negli ambienti della bioetica (si veda anche Gattaca):

http://fanuessays.blogspot.it/2011/10/leugenetica-e-un-complotto-scientista.html

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/05/06/ethical-aspects-of-genetic-engineering-and-biotechnology/

o “In Time”

In-Time

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/01/in-time-occupy-hollywood-e-la-lotta-di-classe-del-terzo-millennio/

È un avvelenamento progressivo dell’umanità e del mondo, che si perpetua a causa di una popolazione sedata dal consumismo, dalla propaganda che filtra l’informazione che può essere comunicata e dall’ignoranza che ne consegue. È l’oblio della realtà che conserva strutture di potere tossiche e, nel lungo periodo, autodistruttive. Un potere predatorio, cannibalistico, che si sostiene grazie alla sua capacità di definire una narrazione univocamente vantaggiosa, che colonizza le menti delle masse e razze subordinate, predicando una supposta superiore condizione esistenziale, naturale, intellettuale e morale della casta dirigente che giustifica lo status quo.

Questi colonialisti, veri e propri conquistadores, sono cannibali, consumano ciò che li circonda per sostentarsi ed espandere la loro fonte di reddito e potere. Il potere, in particolare, va mantenuto ed esteso, a spese di tutti gli altri ed a qualunque costo, in una frenetica scalata della piramide sociale e naturale che dovrebbe dare un senso ad esistenze ossessionate dalla bramosia insaziabile, una fame inestinguibile, e dalla paura di decadere, di trovarsi sempre più parassiti sul groppone e sempre meno vittime da vampirizzare. Una splendida illustrazione del circolo vizioso che rappresenta la condanna esistenziale degli psicopatici/sociopatici: così terribili eppure così tragicamente prigionieri della loro natura.

Vyvyan Ayrs, ultra-nietzscheano ode una sinfonia in un sogno di un mondo futuristico in cui tutte le cameriere di un locale sotterraneo sono identiche ed ogni giorno ripetono gli stessi gesti e le stesse frasi per accogliere i clienti. La vuole riprodurre per affermare la propria grandezza e come tributo al suo “prezioso Nietzsche”:

E sapete voi che cosa é per me il mondo? Devo mostrarvelo nel mio specchio? Questo mondo é un mostro di forza, senza principio, senza fine, una quantità di energia fissa e bronzea, che non diventa né più piccola né più grande, che non si consuma, ma solo si trasforma, che nella sua totalità é una grandezza invariabile […] Questo mio mondo dionisiaco che si crea eternamente, che distrugge eternamente se stesso, questo mondo misterioso di voluttà ancipiti, questo mio al di là del bene e del male, senza scopo, a meno che non ci sia uno scopo nella felicità del ciclo senza volontà, a meno che un anello non dimostri buona volontà verso di sé, per questo mondo volete un nome? Una soluzione per tutti i suoi enigmi? E una luce anche per voi, i più nascosti, i più forti, i più impavidi, o uomini della mezzanotte? Questo mondo è la volontà di potenza e nient’altro! E anche voi siete questa volontà di potenza e nient’altro! (F. Nietzsche, La volontà di potenza)

Non è il possesso del potere che produce piacere ma l’incessante ricerca di più potere. Non serve dire che questa brama senza fine è una prigionia. Se questo incremento di potenza non ce lo possiamo garantire da noi stessi, ci legheremo sempre più strettamente alla fazione più promettente. Il che spiega come, nel corso della loro vita, molti militanti di un colore politico sono passati a quello opposto: per loro l’ideologia è solo un pretesto, un mezzo per accumulare potenza. Se il partito o movimento che hanno abbandonato tornasse in auge si riavvicinerebbero in breve. Anche la lealtà o slealtà rispetto ad una particolare azienda o nazione segue le stesse logiche (es. si osservi la parabola del sionismo, una causa che era di “sinistra”/“progressista” solo un paio di generazioni addietro).

La ribellione di Sonmi-451 apparentemente fallisce. Viene catturata, interrogata, giustiziata. Migliaia, milioni di altri ribelli come lei sono stati inghiottiti dall’oblio, il loro eroismo si è dimostrato inutile: una goccia in un oceano, appunto. Però gli esseri umani sono tanti, sono come gli spermatozoi, se mi si passa il parallelo non particolarmente elegante. Basta che uno solo riesca a far arrivare il messaggio a destinazione che qualcosa di prodigioso si manifesta (la vita, la libertà).

Se ci pensiamo, è un po’ il fato di Thomas Sankara, martire della dignità e libertà africana, tornato improvvisamente in auge nell’Europa oppressa dai dogmi neoliberisti e dagli attacchi degli speculatori e delle agenzie di rating (chi l’avrebbe mai detto?):

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/12/05/thomas-sankara-e-il-terzo-mondo-europeo-piigs/

http://mauropoggi.wordpress.com/2013/01/20/thomas-sankara-un-documentario-e-un-appello/

o quello di Joel Olson, docente ed attivista morto prematuramente, poco dopo aver realizzato un’analisi che è stata poi fatta circolare viralmente sulla rete, specialmente tra gli indignati:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/11/16/la-democrazia-bianca-e-la-nostra-prigione/

Questi esempi valorizzano e comprovano il contenuto di verità di Cloud Atlas: un messaggio di valore universale resisterà al tempo e riaffiorerà carsicamente al momento giusto, anche in un altro luogo del mondo: laddove ci sia chi ne ha bisogno.

 thomas-sankara-2

Il messaggio di Sonmi-451 ce la fa a sopravvivere: è così autentico, vibrante, pregnante, universale, rivoluzionario, da lasciare scossi alcuni dei guardiani del sistema tirannico di Nuova Seoul (Nea So Copros). Non servirà a salvare la civiltà umana del ventiduesimo secolo, ma darà speranza ai superstiti nei secoli seguenti e la speranza è un bene di valore inestimabile quando si conduce un’esistenza miserabile.

Grazie ad un film di un’epoca precedente, ed in particolare ad una battuta – “Io non sarò mai soggetto a maltrattamenti criminosi!” – che ha il potere di scuotere dal torpore persino chi è nato per essere schiavo, Sonmi-451 comprende che esistono dei diritti universali e che occorre battersi per riaffermarli, perché questi possono essere sovvertiti esattamente come il granito può essere eroso, dato che l’ignoranza produce paura, la paura partorisce l’odio, l’odio genera violenza e la violenza prolifera fino a quando l’unico diritto riconosciuto è la volontà di chi è più forte e spietato in un dato momento.

I forti restano al comando grazie alle illusioni. Dunque la libertà vera è quella dalle illusioni (di separazione, differenza, gerarchia come parte di un “ordine naturale”) che vengono perpetrate da rapporti di forza iniqui ed artificiali. Il coraggio proviene dalla ferma volontà di combattere queste illusioni: “Sarai solo una goccia nell’oceano” – “Cos’è l’oceano se non una moltitudine di gocce?”. Di combatterle per sé e per tutti quanti, a nome di tutti quanti.

Cloud Atlas ci chiede di essere più empatici e più audaci nell’estensione verso il prossimo della nostra empatia, nel nostro riconoscimento della nostra comune condizione, comuni esigenze, comune destino. L’empatia, l’amore e la meraviglia sono le fondamenta della società. Il cinismo è ciò che la corrode e minaccia la nostra sopravvivenza come civiltà e come specie degna di esistere. La strada per l’ascensione, di Sonmi-451 e di tutti noi, passa per la disponibilità a trattare gli altri con decenza e rispetto, riconoscendone la dignità intrinseca, e per il rifiuto di accettare una società costruita intorno a convenzioni che discriminano gli uni ed avvantaggiano gli altri e che, se trasmesse di generazione in generazione, finiscono per apparire come un fatto naturale, un prodotto dell’evoluzione che l’uomo non ha il diritto di mettere in dubbio e cambiare.

La storia di Sonmi-451 ci insegna che, sebbene il mondo possa essere destinato ad una caduta – il che può certamente essere il nostro caso –, il percorso non è predeterminato. Le scelte dei singoli hanno la capacità di creare narrazioni diverse, con conclusioni diverse. Le scelte interrelate di molte persone hanno considerevoli ramificazioni (effetto del battito d’ali di una farfalla).

Per questo è indispensabile credere in un futuro alternativo (es. a quello deciso per noi dalle autorità monetarie e dalle oligarchie finanziarie) e plasmare un mondo nuovo. Il futuro è aperto e c’è sempre l’opportunità di considerare verità alternative e di scoprire una conoscenza insperata che può condurci verso altri futuri.

Se un numero sufficiente di persone, una massa critica, mette in discussione la narrazione egemonica che condiziona il comportamento di tutti, è possibile arrivare ad un cambiamento duraturo.

 tumblr_mcfdj16hBV1qf17zto1_500

Per un’analisi più generale:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2013/01/18/cloud-atlas-uno-studio-antropologico/

Il Marchese de Sade, paladino del neoliberismo

15380043

Nella Nouvelle Justine, Sade giustifica la dittatura dell’aristocrazia sulla plebaglia, vanta i meriti del cristianesimo e della monarchia, ai quali, secondo lui, si deve la grandezza e la prosperità della Francia. Adepto della “tirannia più sfrenata”, dà alcune ricette: costringere i poveri a uccidere i figli, praticare un brutale eugenismo su vasta scala, sopprimere gli “esseri meno importanti”, abolire l’assistenza pubblica, chiudere gli ospizi per i poveri, proibire la mendicità, sopprimere la carità, punire l’elemosina, tassare pesantemente i contadini, accelerare la pauperizzazione, proibire i matrimoni tra persone di condizione sociale differente, trasformare le esecuzioni capitali in spettacoli pubblici, organizzare immense carestie con malversazioni commerciali, impiccare e sciabolare i mendicanti, agire da despoti. La parola d’ordine? “Siamo disumani e barbari”. La formula di Sade, non “Libertà, Uguaglianza, Fraternità”, ma: “Fatalità, Disuguaglianza, Crudeltà”.

Michel Onfray, “Illuminismo estremo. Controstoria della filosofia IV”, p. 244

Comincio ad avere il terribile sospetto che, in effetti, il neoliberismo non sia di destra (né tantomeno di sinistra, ovviamente). La destra classica era attenta agli equilibri e si curava della comunità. Il neoliberismo è realmente sociopatico, odia la comunità, esalta l’interesse privato, è essenzialmente anti-politico (ed anti-umano, anti-ecologico, anti-tutto quel che non è egotistico o oligarchico). E’ di una radicalità normalmente aliena alla specie umana, proprio come lo è la psicopatia. Il neoliberismo conduce ai castelli di Sade e ad Auschwitz (industria dello sfruttamento finale al servizio della grande industria tedesca). La destra in quanto tale certamente no.

La perniciosa influenza planetaria delle fondazioni e think tank degli Stati Uniti

 

Le fondazioni…esercitano un’influenza corrosiva sulla società democratica; rappresentano concentrazioni di potere e ricchezza relativamente incontrollate e che non devono rispondere delle proprie azioni, che comprano i talenti, promuovono cause e, di fatto, determinano che cosa meriti l’attenzione della società…un sistema che…ha operato a svantaggio degli interessi delle minoranze, dei lavoratori e dei popoli del Terzo Mondo

Robert F. Arnove, “Philanthropy and Cultural Imperialism. The Foundations at Home and Abroad”.

Un enorme potere, senza paragoni è concentrato nelle mani di un gruppo di persone, perfettamente coordinato e con la tendenza a perpetuare se stesso. Diversamente dal potere nelle aziende, non è controllato dagli azionisti; diversamente dal potere del governo, non è sottoposto al controllo popolare; diversamente dal potere nelle chiese, non è controllato da alcun canone consolidato di valori.

Conclusioni di un’indagine conoscitiva sulle fondazioni statunitensi effettuata da un comitato del Congresso americano nel 1952

Non ci si dovrebbe aspettare che ingenti patrimoni privati siano donati in maniera tale da innescare nella società redistribuzioni delle ricchezze e trasformazioni politiche.

Ruth Crocker, in“Charity, Philanthropy, and Civility in American History”

Il miglior programma in assoluto di educazione alla democrazia si chiama “Esercito degli Stati Uniti”

Michael Ledeen, American Enterprise Institute for Public Policy Research (AEI), collaboratore di Matteo Renzi

 

I think tank, pensatoi che dovrebbero partorire soluzioni per i grandi problemi di una comunità, sono armi a doppio taglio, perché danno alla luce idee e simboli, che sono il cibo della mente umana, ma anche la sua droga ed il suo veleno. Come le api sono nate per fare il miele ed i castori per costruire dighe, gli esseri umani sono nati per trasmutare simbolicamente tutto ciò che li circonda. Sono fatti per attingere al sublime, ma anche per cadere nella trappola dei miti politicizzati (Fait/Fattor 2010).

La ragion d’essere delle principali fondazioni e think tank (pensatoi, gruppi di riflessione ed approfondimento, reti di esperti) è quella di migliorare il mondo in accordo con le preferenze di chi le crea e le finanzia, ossia, in genere, dei magnati o dei politici, cioè a dire di persone che esercitano già una considerevole influenza sulla società, ma intendono esercitarne ancora di più. Queste organizzazioni, in termini pratici, servono a giustificare la permanenza di rapporti di poteri vantaggiosi per chi è già economicamente e politicamente egemone, pensando al posto nostro. Dato il loro profilo così prominente nella contemporaneità, sono stati oggetto di innumerevoli studi sociologici. Usando un gioco di parole, possiamo dire che il think tank è un carro armato (tank, in inglese) nella guerra delle idee che mira al controllo delle menti di 7 miliardi di persone.
Stephen Boucher e Martine Royo (2006) definiscono i “think tank” degli organismi permanenti non pubblici che hanno l’incarico di formulare soluzioni su scala nazionale o internazionale che possano essere tradotte in politiche pubbliche. Quasi tutte le fondazioni si sono dotate di uno o più think tank, perciò è pressoché inutile cercare di separarli. La loro missione li rende inscindibili. La fondazione si occupa della parte strategica, il think tank di quella tattica. Alcune fondazioni esistono da oltre un secolo, come ad esempio il trittico Ford, Rockefeller e Carnegie, dai nomi dei magnati che hanno fatto la storia dell’economia e dell’industria americana moderna. Un altro gigante si è aggiunto di recente, la Gates Foundation di Bill Gates, il fondatore di Microsoft, e di sua moglie. In Germania, la Friedrich Ebert Stiftung è vicina ai socialdemocratici, la Konrad Adenauer Stiftung è nella sfera democristiana.

Anche se ufficialmente i loro think tank dovrebbero produrre ricerca seria e rigorosa, non conosco nessuno studio accademico (ossia non promosso da un qualche think tank e quindi apologetico) che non li consideri delle vere e proprie macchine ideologiche al servizio di un qualche specifico interesse e/o ideologia. Boucher e Royo parlano di “pensiero mercenario”, un eufemismo per quello che altri chiamerebbero, meno sottilmente, “prostituzione intellettuale”.

Con questo non si vuol dire che tutti i think tank e tutte le fondazioni siano da mettere sullo stesso piano e demonizzare. Ma è indubbio che all’intensificarsi dei legami con la politica ed il capitale l’indipendenza di giudizio e l’integrità morale dei componenti di un think tank subiscono un inevitabile processo involutivo e la loro attività finisce per rassomigliare sempre più al marketing ed al lobbismo, con un impatto mediatico rapido e massiccio nel mercato delle idee (Boucher/Royo, ibidem). Gli intellettuali e gli stessi scienziati sono degli esseri umani come gli altri, né peggiori né migliori degli altri, anche se loro, non-ufficialmente, sono inclini a ritenersi migliori ed esenti da certe influenze corruttrici. Non citerò la cospicua produzione di studi sociologici che smentiscono le loro più intime convinzioni. Per questo sarebbe meglio che le politiche pubbliche fossero formulate da commissioni pubbliche temporanee, allo stesso modo in cui si sottopongono periodicamente al voto i rappresentanti parlamentari che poi le vaglieranno. A meno che non si creda, con Mandeville, che i vizi privati sono alla base delle virtù pubbliche, uno slogan screditato da millenni di storia umana ma che piace molto ai neoliberisti.

L’influenza dei think tank è poderosa in una molteplicità di settori: dall’ecologismo alla bioetica ed alle biotecnologie, dagli studi sulla pace alla geopolitica, dalle risorse energetiche alle politiche socio-economiche, carcerarie e monetarie, dalla Guerra al Terrore alla globalizzazione, all’arte ed alla cultura, al razzismo, al federalismo ed alla tutela delle minoranze etno-linguistiche.

Gli esempi della loro egemonia culturale non si contano, ma due sono forse i più eclatanti. Il primo è quello delle politiche di sterilizzazione involontaria di decine di migliaia di donne nel mondo occidentale e di milioni di donne nel Terzo Mondo a fini eugenetici prima e di controllo della popolazione non-bianca (ad esempio i quechua ed aymara del Perù) poi (Connelly, 2008). L’altro è il “Progetto per un nuovo secolo americano”, una strategia neoconservatrice imperialista statunitense che risale alla fine degli anni Novanta e che ha condotto all’invasione dell’Iraq nel 2003. È notorio perché al centro delle teorie del complotto riguardo all’11 settembre 2001, in quanto un suo rapporto del settembre del 2000, intitolato “Rebuilding America’s Defenses: Strategies, Forces, and Resources for a New Century” (“Ricostruire le difese dell’America: strategie, forze e risorse per un nuovo secolo”), auspicava il verificarsi di un evento del tipo Pearl Harbor che autorizzasse gli Stati Uniti a prendere il controllo dell’Asia Centrale, considerata la chiave per mantenere in una posizione subalterna Russia, India e Cina e quindi per conservare lo status di unica superpotenza egemone. Altri casi degni di menzione sono l’amministrazione Reagan, che selezionò lo staff presidenziale (150 specialisti!) nel vivaio della Hoover Institution, della Heritage Foundation e dell’American Enterprise Institute, tutte fondazioni ultraconservatrici, con relativi think tank.

Tra gli studiosi che hanno approfondito il ruolo delle fondazioni e dei think tank nella formazione della percezione della realtà da parte dei cittadini delle democrazie occidentali figura anche il celebre Pierre Bourdieu, che anche dopo la morte, avvenuta nel 2002, resta il più influente sociologo francese. Nel 1998, assieme al collega francese (docente a Berkeley) Loïc Wacquant, riconosciuto specialista nel campo del razzismo e dei sistemi carcerari, pubblicò un saggio dagli effetti dirompenti, intitolato “Sulle astuzie della ragione imperialista” (“Sur les ruses de la raison impérialiste”), in cui si argomentava la tesi che le grandi fondazioni americane che si occupano di razzismo, in particolare la Rockefeller e la Ford, cerchino deliberatamente di incoraggiare i leader delle minoranze etno-razziali al di fuori degli Stati Uniti ad adottare le stesse tecniche di autoaffermazione identitaria, oggettivamente fallimentari, impiegate negli Stati Uniti. Tecniche, per intendersi, che sono state ripudiate dallo stesso Martin Luther King, un uomo dall’enorme perspicacia ed onestà, e che non sono mai state prese in seria considerazione da Aung San Suu Kyi o da qualunque attivista che rivendichi i diritti umani e civili per tutti e non solo per una fazione.

Bourdieu e Wacquant sono finiti al centro di una vigorosa polemica non tanto per aver denunciato il carattere fallimentare dell’identitarismo particolaristico e settario, ma per aver affermato che la contrapposizione tra neri e bianchi, che volutamente cancella l’esistenza dei meticci/mulatti, fa parte di una strategia globale neocolonialista all’insegna del divide et impera che, insistendo sulla componente somatica (il colore della pelle), conduce ad una guerra tra poveri che avvantaggia chi teme che le classi subordinate possano creare una piattaforma di rivendicazioni comuni che metta in difficoltà lo status quo. Le loro conclusioni sono in linea con quanto si apprende dalle ricerche di Anthony W. Marx (nessuna relazione con il più celebre Karl) su Stati Uniti, Sudafrica e Brasile, Livio Sansone sul Brasile (2002, 2003), Mark Clapson sul Regno Unito (2006), Donald E. Abelson (1996), Yves Dezalay & Brian G. Garth (2002), Noliwe Rooks (2006), Inderjeet Parmar (2012) e Thomas Medvetz (2012) sugli Stati Uniti e le loro relazioni interrazziali ed internazionali, Rafael Loayza Bueno ed Ajoy Datta sulla Bolivia (2011).

A dire il vero, Bourdieu e Wacquant non sono stati dei pionieri. Già negli anni Quaranta il giornalista e storico statunitense Joel A. Rogers lamentava il fatto che gli attivisti neri per i diritti civili fossero usati dai filantropi delle maggiori fondazioni per diffondere un’immagine omogenea, omologata, monolitica e caricaturale dei neri che sarebbe servita a “tenerli al loro posto” e a “mettere in cattiva luce quei pochi neri in grado di ragionare con la propria testa” (cit. in Plummer, 1996, p. 228). Uno dei più ammirati sociologi americani, C. Wright Mills, aveva gettato le basi per un’analisi scientifica di questo fenomeno già a cavallo degli Cinquanta e Sessanta, ma scomparve prematuramente prima di riuscire a portare al termine il suo ambiziosissimo progetto sociologico di studio delle élite e delle loro strategie. Solo negli anni Ottanta, grazie ad Edward Berman ed al suo magnifico e scrupoloso saggio (“The Ideology of Philanthropy”) e, più recentemente, Sally Covington (1998), Frances Stonor Saunders (1999, ed. it. 2004) e Joan Roelofs (2003) sono riusciti a mettere in luce i legami tra le fondazioni filantropiche, le militanze identitarie, gli architetti della politica estera americana e la CIA. Centinaia di milioni di dollari investiti in una guerra di idee e per il controllo dei media, di interi dipartimenti universitari e della lealtà di membri del Congresso (Saunders, op. cit., p. 122):

L’uso delle fondazioni filantropiche si rivelò il modo più efficace per far pervenire consistenti somme di denaro ai progetti della CIA, senza mettere in allarme i destinatari sulla loro origine…Nel 1976, una commissione d’inchiesta nominata per indagare le attività dell’intelligence statunitense riportò i seguenti dati relativi alla penetrazione della CIA nella fondazioni: durante il periodo 1963-1966, delle 700 donazioni superiori ai 10.000 dollari erogate da 164 fondazioni, almeno 108 furono totalmente o parzialmente fondi della CIA. Ancor più rilevante è che finanziamenti della CIA fossero presenti in quasi metà delle elargizioni, fatte da queste 164 fondazioni durante lo stesso periodo nel campo delle attività internazionali durante lo stesso periodo.

Sempre negli anni Ottanta, Robert Arnove, oggi professore emerito all’Università dell’Indiana, allora un insider con accesso ad informazioni riservate, curò la pubblicazione di un volume collettaneo (“Philantropy and cultural imperialism: the foundations at home and abroad”, 1980) in cui puntava il dito contro le fondazioni Ford, Rockefeller e Carnegie e la loro “corrosiva influenza sulla società democratica”, resa possibile da una concentrazione di potere e capitali non adeguatamente regolamentata, in grado letteralmente di comprare la lealtà degli esperti e di promuovere certe cause secondo certe modalità in modo tale da indirizzare l’attenzione dell’opinione pubblica in certe direzioni piuttosto che in altre. Lo stesso Arnove, in seguito, assieme alla collega sociologa Nadine Pinede (“Revisiting the Big Three Foundations”, 2003), ha potuto confermare la validità dei precedenti giudizi sulle politiche di deradicalizzazione (leggi: castrazione e frammentazione) del movimento per i diritti civili attuate dalle suddette fondazioni in nome dell’ideologia dell’identitarismo culturale che sottrasse al più vasto movimento le importanti energie di una larga porzione di attivisti afro-americani, non più disposti a condividere la lotta con esponenti di altre culture ed etnie (si veda anche Roelofs 2003).

Il povero Martin Luther King non poté sfuggire a questo gorgo e ne finì risucchiato, lui che contrastava ogni tentativo di spezzare il movimento dei diritti civili in fazioni concorrenti. Nel febbraio del 1967 prese la decisione di opporsi alla politica americana in Vietnam, pur sapendo che così facendo avrebbe causato l’interruzione del flusso di erogazioni da parte di varie fondazioni e in particolare della Ford Foundation. Aveva ben chiaro in mente che, com’era più che logico, le politiche di finanziamento delle maggiori fondazioni favorivano le valvole di sfogo, ossia quelle organizzazioni che davano voce alla protesta ma senza mai mettere in discussione l’establishment nel suo complesso (Walker, 1983).

Molte persone fanno fatica ad immaginare che delle fondazioni possano realmente cambiare il corso della storia di un’intera nazione. Ma si considerino le somme a loro disposizione. Nel 2011 il valore del patrimonio complessivo delle fondazioni americane ammontava a quasi 622 miliardi di dollari. Se fossero una nazione, sarebbero al ventesimo posto nella classifica del PIL, poco dietro la Svizzera. Nel 2010 decine di migliaia di fondazioni filantropiche hanno distribuito finanziamenti per un valore totale che eccede i 46 miliardi di dollari (valore raddoppiato rispetto al 1999). Ciò significa che, in questi anni, solo negli Stati Uniti, le fondazioni movimentano l’equivalente di una manovra finanziaria italiana importante o del PIL della Tunisia o dell’Uruguay. Nel 2000 il solo “Programma per la pace e la giustizia sociale” della Ford Foundation ha devoluto 26 milioni di dollari per i “diritti delle minoranze e la giustizia razziale”, su un totale di 80 milioni di dollari di finanziamenti a livello globale. La Bill e Melinda Gates Foundation distribuisce annualmente almeno 3 miliardi di dollari ad organizzazioni ed individui che ritiene meritevoli e dispone di un patrimonio del valore di oltre 33 miliardi di dollari (poco meno del PIL del Kenya, più di quello della Lettonia). Era a 37 miliardi nel 2010. Ford Foundation, Paul Getty Trust, Robert Wood Johnson Foundation dispongono tutte di circa 10 miliardi di dollari di beni: in termini di PIL, si collocherebbero davanti all’Armenia. In termini pratici, non devono rispondere del loro operato né ai mercati, né alla stampa, né tantomeno all’elettorato.

Con queste cifre e questo potere in ballo, non è sorprendente che i saggi dedicati a questo argomento così cruciale siano, globalmente, poche decine e tutti o quasi tutti ad opera di accademici non dipendenti da sovvenzioni private. Non sono molti i giovani ricercatori disposti a sputare nel piatto in cui sperano di mangiare e ancor meno quelli, più maturi, pronti a farlo in quello in cui stanno già mangiando. La falsa coscienza fa il resto: si razionalizza il proprio comportamento e quello di chi ci sovvenziona e ci si convince che l’utile giustifica i mezzi. D’altronde, stante il feroce antistatalismo americano, quasi tutte le organizzazioni per i diritti civili, la giustizia sociale e la difesa dell’ambiente, per poter restare in vita, sono costrette a rivolgersi alle fondazioni “filantropiche” ed alla loro per nulla disinteressata filantropia. Lo stato non è quindi in grado di assicurarsi che l’elaborazione e discussione delle questioni pubbliche non vengano monopolizzate da interessi privati. È un fenomeno che si sta verificando anche in Europa, specialmente ora che la crisi e l’austerità hanno prosciugato le casse degli stati europei.

Ora, limitatamente alle fondazioni maggiori, emanazioni del capitale finanziario-industriale, alla luce degli studi summenzionati, possiamo dire che quelle di destra sono anti-democratiche e non fanno molto per nasconderlo; quelle “progressiste” sembrano più orientate a provare a migliorare la situazione, ma solo per poter mantenere le cose come stanno. Queste ultime sono espressioni di centri di interesse che non disprezzano apertamente la democrazia, ma preferiscono gestirla in modo accentrato e tecnocratico, a causa della scarsa stima che nutrono nei confronti delle masse. Ciò che accomuna le fondazioni di destra (es. praticamente tutte quelle legate agli interessi delle multinazionali farmaceutiche e petrolifere, o il Pioneer Fund) e i think tank di destra da un lato (es. Freedom House, Council on Foreign Relations, Hudson Institute) e quelle di sinistra (es. Open Society di George Soros, Gates Foundation) con i rispettivi think tank (es. la New America Foundation vicina a Zbigniew Brzezinski, una delle figure più influenti nelle scelte di politica estera dell’amministrazione Obama) dall’altro è, a grandi linee, il rifiuto del principio della pari dignità e il trionfo dell’elitismo e dell’oligarchismo più o meno benevolo (o malevolo, a seconda dei punti di vista, naturalmente). Come documentano Robert Arnove e Nadine Pinede, tutte le grandi fondazioni “progressiste” sono ispirate ai principi del conservatorismo sofisticato ed appoggiano dei cambiamenti che assicurano una maggiore efficienza del sistema esistente ed una minore frizione con i privilegi già acquisiti. In questo modo, però, perpetuano le dinamiche che generano quelle disuguaglianze ed ingiustizie alle quali ufficialmente desiderano porre rimedio.

Michele Serra su Alex Schwazer (e sulla deriva eugenetica della nostra società)

 

Quest’analisi di Michele Serra mette in luce un certo genere di atteggiamento dominante nel nostro mondo che, a mio parere, ci porterà dritti nel gorgo dell’eugenetica (leggete con attenzione fino in fondo e capirete).

Se anche provassi a riscrivere 100 volte un post su questo argomento, non sarei mai all’altezza di Michele Serra. Lo invidio, ma se ci fosse una pillola che mi permettesse di diventare brillante come lui, sarebbe giusto prenderla? Che meriti avrei? La mia componente narcisista sarebbe realmente gratificata? Sarebbe giusto pianificare lo sviluppo di mio figlio dal concepimento alla maggiore età per poterne fare un nuovo Michele Serra?

Michele Serra, “I dopati della domenica”, da la Repubblica del 08/08/2012.

Il padre del povero Schwazer non riesce a darsi pace, «stava male e non ho saputo parlargli, non sono stato un buon genitore». Se la cosa può consolarlo, sappia che milioni di padri (e di madri, di fratelli, di sorelle, di figli, di innamorati) non trovano le parole per arginare la marcia trionfale delle dipendenze (dai farmaci, dagli stupefacenti, dagli eccitanti, dal gioco d’azzardo, dal computer, dal cibo, dall’alcol, da tutto) che sono la piaga più devastante della nostra epoca. Piaga di massa: perché non solamente gli eccellenti, i campioni, i molto sollecitati e molto osservati cedono al doping per reggere lo spasmo del primato, o più banalmente per sopportare meglio le fatiche dello sport e della vita. Dilettanti di ogni risma, anonimi di ogni età si impasticcano o si gonfiano i muscoli o alterano in qualche altro modo i propri connotati fisici e psichici per sentirsi più prestanti, più notati, più ammirati. Il mito antico della rana che voleva farsi bue trova ai nostri giorni la sua più compiuta realizzazione: gonfiarsi fino a esplodere. E se lo fa l’economia finanziaria, se l’idea stessa del limite viene abrogata pur di dare spazio all’illusione dell’illimitato, se perfino l’economia “pulita”, quella della produzione industriale e dei consumi, vive nel mito di una crescita senza fine, quali antidoti culturali possono darsi, i fantozzi delle palestre, delle tirate in bicicletta, dell’ossessione cronometrica? In una fiala, in una pillola, nel docile arrendersi al dominio di una sostanza, è contenuta una resa perfino più grande, e più grave: la resa all’applauso degli altri come sola misura del proprio valore. Il contraltare è il terrore panico che il giudizio degli altri non ti gratifichi, non ti assolva, non ti salvi. Dipendenza è il contrario di indipendenza. Gli indipendenti cercano, e a volte trovano, una maniera più appartata e più personale per misurarsi, per cercare di capire chi sono. Le legioni di dopati del sabato sera in discoteca o degli sport amatoriali sono dipendenti allo stato puro. Cercano di risalire la fila, di recuperare posizioni, di rendersi notevoli con qualunque mezzo: e nessuno che scarti di lato, decida di non voler fare più parte di quella fila. Schwazer, tra una Olimpiade e l’altra, la tentazione di lasciare la fila l’aveva avuta. Un momento difficile, una crisi salutare a patto di elaborarla fino in fondo, e decidere: resto anche se non sono più il numero uno, pazienza se non arrivo primo; oppure: lascio perché non sono più il numero uno. Non ha fatto né l’una né l’altra cosa: ha deciso di rimanere cercando di truccare le carte. Si suole dire, in questi casi, che il campione dovrebbe essere d’esempio, ed è perfettamente vero. Ma bastava, ieri, sentire le telefonate di molti ascoltatori a una popolare trasmissione radiofonica per capire che il doping di Schwazer ha milioni di mandanti, e milioni di alibi. Parecchi invitavano alla comprensione, indicavano la durezza della prova sportiva come giustificazione di un errore molto diffuso, e per questo, tutto sommato, non così grave. Accusavano i giornalisti di sciacallaggio, di accanirsi contro uno che, comunque, rischiava del suo. Rivangavano la tragedia di Pantani parlandone come di una vittima, un valoroso sputtanato dal moralismo della stampa. Quasi a nessuno veniva in mente che il doping, indipendentemente da ogni rischio per la salute, è un imbroglio. Una frode. Nello sport la più grave, la più imperdonabile nelle mancanze. Perché tanta indulgenza? Perché la storia di Schwazer è, qualunque sia il suo esito, la storia di un bravo ragazzo con la faccia da bravo ragazzo? Anche. Ma io credo che la voglia di assoluzione, di comprensione che spirava tra le parole di quei tifosi, di quegli italiani normali, né cinici né disonesti, derivasse da una complicità di fondo con le ragioni psicologiche del dopato. La debolezza del campione rispecchia, ai massimi livelli, la debolezza di tutti. La paura di non farcela non riguarda solo gli olimpionici. La paura di non farcela è l’ossessione di massa della società più competitiva mai vista sulla faccia della Terra; e tanto più competitiva quanto più disposta a reggersi l’anima con i denti, affilatissimi, delle droghe di ogni ordine e grado.

Il grande inganno della meritocrazia

Sono stato così sciocco Vassili. L’uomo sarà sempre l’uomo, non esiste l’uomo nuovo. Con tanta fatica abbiamo provato a creare una società che fosse giusta, dove non ci fosse niente da invidiare al tuo compagno. Ma ci sarà sempre qualcosa da invidiare: un sorriso, un’amicizia, qualcosa che non hai e di cui ti vuoi appropiare. In questo mondo, perfino nel mondo sovietico, ci saranno sempre i ricchi e i poveri. Ricchi di talento, poveri di talento. Ricchi di amore, poveri di amore. Danilov parlando a Vassili – da “Il nemico alle porte”, 2001

N.B. Ringrazio Igor Ghigo

L’inganno della meritocrazia

di Mauro Boarelli

La meritocrazia è sulla bocca di tutti, a destra come a sinistra. In una società come quella italiana, dove l’assenza di “merito” incancrenisce ogni articolazione della vita sociale e svilisce aspirazioni, competenze, passioni e idee, quale cittadino – indipendentemente dalle idee politiche professate – potrebbe essere pregiudizialmente ostile verso questo termine? Eppure è un termine ambiguo. Muta di senso a seconda di chi lo usa, ma al tempo stesso custodisce un insieme di significati non negoziabili che dovrebbero indurre a maneggiarlo con prudenza. Come ogni parola, anche questa non è neutrale. Va interrogata alla ricerca del senso profondo e delle sue implicazioni.

Il lavoro di decodificazione è facilitato dal fatto che, in questo caso, il vocabolo ha una paternità accertata. Fu Michael Young a utilizzarlo per primo nel 1958 nel suo libro The Rise of Meritocracy 1870-2033 (L’avvento della meritocrazia), tradotto in italiano nel 1962 dalle edizioni di Comunità di Adriano Olivetti. Sociologo e attivista politico inglese, autore del manifesto che nel 1945 portò al successo elettorale il partito laburista e aprì la strada al governo di Clement Attlee, Young scelse il filone della letteratura utopica (e in questo caso si tratta di un’utopia negativa) per raffigurare gli esiti nefasti provocati in modo solo apparentemente paradossale dalla volontà di abolire i privilegi della nascita e della ricchezza. La narrazione è affidata a un sociologo, entusiasta paladino della “meritocrazia” e critico ironico delle posizioni di coloro che si ostinano a frenare l’avvento definitivo del nuovo ordine. Dietro quell’ironia c’è Young, che insinua nel lettore una serie di dubbi attraverso le lenti deformanti del suo detrattore. Il racconto si snoda nel corso di un secolo e mezzo, il lungo periodo nel quale alcune riforme fondate sull’eguaglianza delle opportunità – in particolare nel campo dell’istruzione – promuovono una selezione basata esclusivamente sull’intelligenza. Uno degli assi portanti del cambiamento è rappresentato dalla misurazione precoce delle capacità, ispirata allo studio dei tempi e dei movimenti introdotto dai fautori dell’organizzazione scientifica del lavoro, a partire da Taylor. Questa metodologia selettiva trasforma gradualmente il sistema scolastico. L’istruzione non è più impartita a tutti allo stesso modo, ma viene differenziata. I bambini sono indirizzati verso scuole diverse, organizzate gerarchicamente sulla base delle capacità individuali. Gradualmente, l’aristocrazia di nascita viene sostituita dall’“aristocrazia dell’ingegno”, e la stratificazione sociale si fa ancora più netta, fino a che le tensioni create dal nuovo sistema sociale sfociano – nel 2033 – in una rivolta delle classi inferiori.

L’ordine meritocratico è fondato sulla crescita economica: “La capacità di aumentare la produzione, direttamente o indirettamente, si chiama ‘intelligenza’ (…)” (p. 173). La canalizzazione dei bambini nel sistema di istruzione è precoce e rigida, l’educazione delle intelligenze è sostituita dalla loro misurazione e classificazione: “Gli uomini (…) si distinguono non per l’eguaglianza, ma per l’ineguaglianza delle loro doti. (…) A che pro abolire le ineguaglianze nell’istruzione se non per rivelare e rendere più spiccate le ineluttabili ineguaglianze della natura?” (p. 122) E ancora: “L’assioma del pensiero moderno è che gli individui sono ineguali: e da esso discende il precetto morale che si debba dare a ciascuno una posizione nella vita proporzionata alla sua capacità” (p. 123). L’intelligenza che viene incoraggiata è un’intelligenza utilitaristica, pratica, misurabile, e questa misurazione riproduce l’organizzazione e le gerarchie del modello industriale.

Michael Young aveva scritto un libro contro la meritocrazia, si è ritrovato a essere considerato il suo teorico. Il termine da lui coniato è entrato nel vocabolario corrente e in quello politico con un’accezione positiva, ed è stato usato in modo acritico anche dalle forze politiche di sinistra. Poco prima di morire, Young affidò alle pagine di un giornale inglese una caustica lettera aperta a Tony Blair in cui accusava il leader laburista di averlo messo al centro dei suoi discorsi pubblici senza comprenderne i pericoli, e lo invitava a smettere di usarlo a sproposito (Down with Meritocracy, in “The Guardian”, 29 giugno 2001). Inutile dire che non fu ascoltato. Il progressivo capovolgimento di senso della parola da lui inventata è stato inarrestabile. Come spesso accade, questo slittamento è il risultato di una combinazione tra letture superficiali e stravolgimenti pianificati. Per cogliere questi meccanismi in azione è utile soffermarsi sul testo di Roger Abravanel intitolato Meritocrazia. Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto (Garzanti 2008). Il libro è interessante non tanto per la riflessione teorica (quasi inesistente) né per le proposte (davvero deboli), ma perché presenta una efficace sintesi di tutte le argomentazioni dei sostenitori del modello meritocratico.

Abravanel non comprende la struttura narrativa del libro di Young. Vi scorge due narratori, uno “giovane ed entusiasta, che illustra i vantaggi della meritocrazia”, l’altro – che coinciderebbe con l’autore – “più vecchio e più saggio, che di tanto in tanto lancia qualche ‘siluro’ ironico” (p. 54). Forse colto (sia pure fugacemente) dal dubbio che Young non abbia scritto esattamente ciò che a lui piacerebbe leggere, inventa una scissione narrativa inesistente per sterilizzare i dubbi che emergono anche dalla lettura più superficiale del libro e confinarli nella mente di un anziano e pedante osservatore che paventa pericoli immaginari e rischia con il suo allarmismo di offuscare lo splendore della meritocrazia. Partendo da questi presupposti, Abravanel capovolge completamente le tesi del sociologo inglese, e le trasforma nel primo manifesto dell’ideologia meritocratica. La selezione precoce in ambito scolastico fondata sulla misurazione – tra gli obiettivi principali della polemica di Young – diventa uno dei fondamenti positivi del nuovo modello sociale: “Sessant’anni di ricerche psicosometriche e sociologiche hanno portato a ritenere che (le) capacità intellettive e caratteriali siano prevedibili, senza che sia necessario attendere la ‘selezione naturale’ della società” (p. 65). Abravanel non si interroga sul fatto che la valutazione possiede una dimensione sociale e – di conseguenza – non è neutrale, come ha evidenziato Nadia Urbinati (Il merito e l’uguaglianza, in “la Repubblica”, 27 novembre 2008). Aggira il problema liquidando in poche righe – con lo stile apodittico che caratterizza il libro – l’intero patrimonio della riflessione pedagogica internazionale a favore di teorie pseudoscientifiche riassunte con approssimazione e delle quali non cita quasi mai la fonte, per indirizzarsi con sicurezza verso una conclusione estremamente chiara (e cinica) dal punto di vista ideologico: “(…) ricerche approfondite evidenziano come la performance di un bambino di sette anni in lettura/scrittura offra un’ottima previsione del suo reddito a trentasette anni” (p. 83). In fondo è questo il succo del ragionamento dei “meritocratici”: la crescita economica come unico metro di giudizio (senza alcun interrogativo sulle componenti immateriali di tale crescita e sulla necessità di altri parametri di valutazione del benessere sociale), e il premio economico alla classe dirigente, ovvero ai depositari del merito. Il collante è, inevitabilmente, il mercato: “La società meritocratica è profondamente basata sugli incentivi per gli individui a competere, che sono l’essenza del libero mercato” (p. 67). Inutile rimarcare che ancora una volta il “libero mercato” viene usato come feticcio senza riflettere sulla sua esistenza reale e sulle conseguenze sociali derivanti da questa costruzione ideologica. Su un punto, però, l’autore si esprime con candida sincerità, senza troppi giri di parole: “Nelle società meritocratiche la diseguaglianza è giustificata dall’ideologia della meritocrazia (…)” (p. 62). E ancora: “(…) nelle società meritocratiche la disuguaglianza sociale conta molto meno della mobilità sociale” (p. 109). Da qui a teorizzare la necessità di un sistema educativo diseguale il passo è breve: “In genere si ritiene che per assicurare eguaglianza di opportunità bisogna dare a tutti la stessa qualità di istruzione (…). Questo luogo comune è profondamente errato: dando a tutti la stessa educazione non si aumenta la mobilità sociale e il merito muore” (p. 256). Di conseguenza, “(…) è necessario passare dall’Istruzione all’Educazione, da ‘istruire tutti allo stesso modo’ a ‘educare secondo il potenziale di ciascuno’, dall’eguaglianza del livello di istruzione alle pari opportunità nel ricevere la migliore educazione” (p. 314).

I ragionamenti di Abravanel e quelli dell’anonimo narratore di Rise of Meritocracy si sovrappongono perfettamente. Young aveva visto giusto, le sue non erano solo fantasie. Soprattutto, aveva intuito che le argomentazioni dei fautori della meritocrazia puntano diritto al cuore della democrazia. “La meritocrazia è (…) l’esatta antitesi della democrazia”, scriveva Cesare Mannucci nella prefazione all’edizione italiana del libro di Young, perché la scuola gerarchica su cui è fondato quel modello non è immaginata per insegnare la pluralità di culture e valori, ma per anticipare e inculcare le stratificazioni del sistema produttivo e finalizzare il sapere allo sviluppo economico. è un nodo esplorato anche da Bruno Trentin, che in un denso e lucido articolo (A proposito di merito, in “l’Unità”, 13 luglio 2006) evidenziava come il concetto di merito sia sinonimo di obbedienza e dovere, perché presuppone una legittimazione discrezionale da parte di qualcuno che occupa una posizione gerarchica superiore, o esercita un potere politico. Criticando duramente la subalternità culturale della sinistra verso un concetto proprio del liberismo autoritario e la confusione dei linguaggi che ne discende, Trentin rivendicava il primato della conoscenza sul merito. Solo il sapere rappresenta un criterio equo di selezione del valore individuale, e quindi occorre renderlo disponibile per tutti. In questo modo ciascun individuo sarà in grado di governare il proprio lavoro. è una prospettiva che concilia libertà e conoscenza, e lo fa per tutti, non solo per una ristretta élite tecnocratica.

Eguaglianza e democrazia. Ecco cosa mette in gioco il concetto di meritocrazia. Non esprime il riscatto dall’ineguaglianza delle opportunità, ma il suo contrario. Non si tratta di una sterile disquisizione lessicale. Meritocrazia è una parola densa di implicazioni sociali, una parola che traccia un discrimine e impone di scegliere da che parte stare, senza giocare sulle ambiguità, senza camminare sul filo dei mille significati possibili laddove ce ne sono in realtà ben pochi, chiari, coerenti, connotati ideologicamente e perfettamente riconoscibili.

Mauro Boarelli

N.B. ringrazio Vinicio Dolfi

Potete tutti immaginare le implicazioni di questo dibattito a livello europeo: Nordisti vs Sudisti:
https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/17/le-presunte-virtu-della-mortificazione-lideologia-che-guida-gli-eurocrati-intenti-a-distruggere-lunione-europea/

Questa è blasfemia, questa è pazzia! Questa è Oxford! – Quando l’infanticidio diventa un diritto inalienabile

a cura di Stefano Fait

Se una malattia non è stata scoperta durante la gravidanza, se qualcosa è andato male durante il parto, o se le circostanze economiche, psicologiche o sociali sono cambiate e il prendersi cura della prole diventa un peso insostenibile per qualcuno, allora alle persone dovrebbe essere data la possibilità di non essere costrette a fare qualcosa che non sono in grado di sopportare.

Alberto Giubilini e Francesca Minerva perorano la causa dell’infanticidio (febbraio 2012)

Quando abbiamo deciso di scrivere questo articolo sull’aborto post-natale non avevamo idea che il nostro lavoro potesse sollevare un dibattito così acceso.

Francesca Minerva e Alberto Giubilini, lettera aperta

La mancata consapevolezza che ha un neonato è confrontabile con quella di una persona malata o anziana non in grado di comprendere, riconoscere e autogestirsi. Operando in modo estensivo come hanno fatto i due ricercatori, allora, potremmo eliminare tutti i disabili gravi, i malati di Alzheimer in stato avanzato, etc.

Rita Guma

Tempi davvero oscuri, i nostri.

Chi apprezza la libertà personale e l’autonomia/sovranità della propria comunità dovrebbe fare attenzione a quel che si dice nell’ambito bioetico, perché si comincia discutendo di natura umana e di ciò che è ammissibile in relazione ad essa e si finisce poi per discutere di società e di cosa è ammissibile in relazione ad essa.

Se l’infanticidio diventa lecito e addirittura doveroso, allora lo diventeranno anche la tortura, la pulizia etnica, la sospensione definitiva della democrazia. Questa è la direzione che ha preso la nostra civiltà e i conservatori britannici sembrano fungere da illustri apripista:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/18/la-soluzione-finale-alla-questione-dei-disabili-secondo-il-governo-inglese-cazzi-loro/

Ed è solo l’inizio:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/09/lavvento-di-gattaca-quando-i-complotti-sono-alla-luce-del-sole/

Il compito di un pensatore di buona volontà è quello di contrastare e riconsegnare all’oblio queste tesi, passando poi il testimone a chi le combatterà alla prossima riemersione.

Nel corso della Nuova Depressione, a meno di un secolo da quella precedente, succede di assistere al riemergere di argomentazioni condannate dalla storia e dal buon senso ma rese improvvisamente “trendy” dalle circostanze eccezionali in cui ci troviamo a vivere [cf. il magnifico Marco Paolini: http://www.ilfoglio.it/soloqui/7521]

È il caso del diritto all’infanticidio, che fa il paio con il dovere di suicidarsi o farsi sopprimere per ragioni di budget, un’altra brillante trovata della bioetica anglo-americana che sarà l’oggetto di un altro post.

Il diritto all’infanticidio è stato proposto da due bioetici italiani, Alberto Giubilini (Monash University a Melbourne) e Francesca Minerva (Università di Melbourne) in un articolo intitolato “After-birth abortion: Why should the baby live?” [“Aborto post-natale: perché il neonato dovrebbe vivere?], apparso sul Journal of Medical Ethics, la creatura del bioeticista australiano Julian Savulescu, noto per le sue posizioni controverse riguardo a moltissimi temi, quali l’eugenetica, l’eutanasia, la clonazione, il transumanesimo e la democrazia. Nel 2009, in un intervento intitolato “Unfit For Life: Genetically Enhance Humanity or Face Extinction”, Savulescu ha affermato che la nostra situazione è tale che o optiamo per uno stato totalitario che ci impedisca di farci del male (fino alla nostra estinzione), oppure dovremo alterare drasticamente il nostro corredo genetico per renderci inoffensivi.

Oltre che da Savulescu, questa tesi è stata difesa, tra gli altri, da Roberto Mordacci, docente di filosofia morale all’Università San Raffaele di Milano:

http://moraliaontheweb.com/2012/02/29/la-non-notizia-dellaborto-post-natale-infanticidio/#more-6051

Il tema è perciò rilevante e non confinato ad una combriccola di simil-pensanti con la passione per l’Australia.

Oggi Savulescu insegna a Oxford ed è direttore del Centro di bioetica applicata Uehiro. È una figura discussa, ma influente e riceve generosi finanziamente da chi ha interesse ad istruire l’opinione pubblica in quel senso fintamente progressista che maschera il desiderio di abbattere i principi costituzionali definendoli vacui tabù.

In questo articolo i suoi “discepoli” sostengono che i neonati non sono “persone reali” e non hanno un “diritto morale alla vita”. I due filosofi affermano che i genitori debbono poter uccidere il loro bambino, legalmente, nello scoprire che è disabile: “Lo status morale di un bambino è equivalente a quello di un feto, nel senso che entrambi non possiedono quelle proprietà che giustificano l’attribuzione ad un individuo di un diritto alla vita di un individuo”. Non essendo persone reali, i neonati sono solo “persone in potenza” e quindi non possono beneficiare del diritto morale alla vita.

Gli utilitaristi non riconoscono alcun diritto intrinseco a vivere, nessuna dignità inalienabile. Un bambino non è degno di vivere di per sé in quanto non è in grado di attribuire un significato e valore alla sua esistenza o alla privazione della medesima (omicidio legalizzato). Un bambino non può percepire la sua soppressione come una perdita, quindi non lo si può danneggiare uccidendolo, ossia impedendogli di sviluppare il suo potenziale di essere umano.

Questi ragionamenti sono contemporaneamente risibili e terribili e scaturiscono dalle menti di studiosi egotisti che non riconoscono l’esistenza di valori universali che non siano il piacere (edonismo) e l’utile (avidità), pilastri dell’egoismo individuale e collettivo.

Partendo da premesse riduzionistiche e materialistiche molto in voga ai tempi dei nazisti e ai nostri tempi, giungono, coerentemente, alle stesse conclusioni dei nazisti: esistono vite indegne di essere vissute e non è chi le vive a poter decidere da sé se la sua rientri in questa categoria. Sarà qualcun altro – genitori, famiglia, società, stato – a determinare il grado di accettabilità di un’esistenza, in accordo con parametri di normalità assolutamente arbitrari (non essendosi principi universali, non è neppure possibile stabilire cosa sia normale, utile e piacevole in senso assoluto). Se prevalesse questa logica, il diritto sarebbe plasmabile come argilla nelle mani di un vasaio e chi detiene il potere si vedrebbe conferito il potere di creare e ricreare l’umano, proprio come nel Terzo Reich, che aveva il suo “bravo” programma eugenetico di infanticidio, sterilizzazioni coatte e involontarie, eutanasia dei disabili, sterminio di massa degli indesiderabili e accoppiamenti selettivi per la promozione della supremazia ariana.

Questi campioni del libero ed audace pensiero non sono però sufficientemente coraggiosi da chiamare una cosa con il suo nome. Hanno coniato l’espressione “aborto post-natale” per evitare il termine “infanticidio”, proprio come al tempo dei nazisti l’omicidio selettivo era stata ribattezzato “eutanasia” e il genocidio era la “soluzione finale alla questione ebraica”.

I suddetti sono animati dalle migliori intenzioni, o almeno così ci assicurano. Infatti “allevare questi bambini potrebbe essere un fardello insopportabile per la famiglia e per la società nel suo complesso, che se ne dovrebbe far carico”. Meglio ucciderli subito, no? E che non se ne parli più. Morto un bimbo se ne fa un altro, come i papi.

Savulescu è paternamente molto orgoglioso dei suoi pupilli, che “presentano osservazioni motivate, basate su premesse largamente accettate”. È interessante notare come la megalomania del nostro lo spinga a proclamare che il suo punto di vista è una premessa largamente accettata, come se non esistessero pareri discordanti anche all’interno della scuola utilitaristica, solo una delle tante che costituiscono l’universo della filosofia morale e della bioetica. Sfortunatamente, come ha lucidamente intuito un internauta: “L’equivoco del mondo liberale anglosassone per cui tutto dovrebbe essere accettabile tranne la contestazione del proprio modo di impostare la discussione normativa sul reale è ormai in alcuni casi caratterizzata da tratti da pensiero unico, come se la forma e i contenitori del discorso pubblico razionale fosse univoci (cioè tendenzialmente i loro), e se all’interno di essi tutto è lecito e ragionevole, e al di fuori di essi tutto è barbarie e fondamentalismo”.

A me, personalmente, sfugge come si possa definire razionale un discorso che è completamente disgiunto da qualunque considerazione sociologica, antropologica, psicologica, giuridica, storica e persino filosofica non superficiale, ed insiste invece sull’ambito contabile. Ciò che è razionale per un computer o un’organizzazione non è necessariamente razionale per un essere umano e qui si tratta di applicare una razionalità umana all’ambito umano: una questione etica non si risolve con le procedure impiegate per risolvere un’equazione matematica.

Una logica così spoglia, dozzinale, rozza, asettica e non-umana assomiglia piuttosto alla modalità cognitiva standard degli psicopatici.

Non tutti gli utilitaristi sono psicopatici, ma tutti gli psicopatici sono utilitaristi. Più robusta è la propensione utilitaristica, più marcati sono i tratti di psicopatia:

http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0010027711001351

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/19/300-milioni-di-psicopatici-se-ne-fregano-della-nonviolenza-e-dei-diritti-ci-si-difende-informandosi/#axzz1pT9hf38H

Il che non implica certamente che gli utilitaristi à la Savulescu siano degli psicopatici, ma solo che, non essendolo, dovrebbero sentire un marcato disagio nel rendersi conto del degrado morale e cognitivo in cui sono sprofondati.

La soluzione finale alla questione dei disabili secondo il governo inglese: cazzi loro!

di Stefano Fait

Jude Law, “Gattaca”, 1997

L’atteggiamento del governo inglese nei confronti dei suoi cittadini disabili e poveri dovrebbe far suonare un campanello d’allarme. Che diavolo sta succedendo? Chi sono queste persone che esercitano il potere? È giusto continuare a fidarsi di loro?

I conservatori inglesi, dopo aver ostacolato l’adozione della Tobin Tax (la tassa sulle transazioni finanziarie che poteva sanare i debiti pubblici di molte nazioni, Regno Unito incluso), smantellato lo stato sociale, e deciso che i dipendenti pubblici delle aree più povere saranno pagati di meno (nonostante gli economisti avvertano che ciò causerà un aggravamento della recessione e del già ragguardevole divario nord-povero/sud-ricco):

http://www.guardian.co.uk/society/2012/mar/16/public-servants-poorer-regions-lower-pay#start-of-comments

ora riducono le tasse ai ricchi:

http://www.guardian.co.uk/politics/2012/mar/15/george-osborne-top-tax-rate#start-of-comments

Curioso, visto che loro stessi hanno affermato che non ci sono soldi in cassa per i sussidi destinati all’inserimento sociale dei portatori di handicap.

“Come testimonia minuziosamente un articolo del Guardian online, l’altroieri le strade di Londra non erano affollate di gente in festa come per il matrimonio di William e Kate, ma di migliaia di disabili che manifestavano agguerriti. Il motivo della protesta sono stati i tagli effettuati dal Primo Ministro David Cameron ai servizi dedicati ai disabili”:

http://d.repubblica.it/argomenti/2011/05/13/news/manifestazione_disabili_londra-330416/

“Nuovi guai per David Cameron, che stavolta hanno il volto di una ragazzina dai capelli rossi gravemente disabile. La madre della piccola Holly Vincent, che aveva incontrato in campagna elettorale il futuro premier conservatore in campagna elettorale, gli ha oggi dato del traditore: “Mi aveva promesso personalmente che la mia Holly sarebbe stata al sicuro se fosse stato eletto, ma ha chiaramente tradito la promessa”, ha detto Riven Vincent, che in aprile aveva ricevuto il futuro primo ministro a caccia di voti nella sua casa di Bristol”:

http://www.blitzquotidiano.it/cronaca-europa/gb-madre-cameron-traditore-disabili-719510/

Quel che i mezzi d’informazione italiani non hanno saputo convogliare al pubblico italiano è la ferocia dei tagli dei conservatori inglesi.

La drammaticità della condizione dei cittadini britannici affetti da disabilità merita una particolare attenzione perché rivela il carattere socialdarwinistico dell’attuale governo: 23 su 29 dei suoi membri sono milionari (in sterline); il premier è David Cameron, un aristocratico discendente diretto di re Guglielmo IV e figlio di un operatore di borsa. Non sorprende il loro atteggiamento da prescelti.

Per trent’anni il Regno Unito si era impegnato a fare in modo che i disabili fossero messi nelle condizioni di diventare sempre più autonomi ed attivi, protagonisti della vita della loro comunità. Ora, come denunciano associazioni, docenti, parlamentari, giornalisti e privati cittadini, l’austerità è diventata un pretesto per annullare quel percorso trentennale, tra l’altro in violazione della “Convenzione delle Nazioni Uniti sui diritti delle persone con disabilità”, che era stata ratificata dal Regno Unito nel 2009:

http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2012/mar/01/disabled-people-have-come-far?INTCMP=SRCH

http://www.dailymail.co.uk/debate/article-2094805/Why-does-David-Cameron-insist-disability-cuts-sickened-party.html#ixzz1pH0SImeO

Gli inglesi sono in balia di un governo che disprezza la debolezza e riduce o abolisce progressivamente ogni tipo di sussidio a disoccupati, famiglie povere, anziani e, naturalmente, disabili, superando perfino gli eccessi dei tempi di Reagan e Thatcher. L’assurdità di queste politiche è che i disabili non saranno più in grado di mantenere il loro posto di lavoro e quindi finiranno interamente a carico delle famiglie o degli istituti, con costi maggiorati per l’erario. Inoltre, il personale che in precedenza si prendeva cura di loro in quelle operazioni in cui non possono essere indipendenti, diventerà licenziabile, andando ad ingrossare ancora di più le file dei disoccupati.

Dunque neppure il criterio esclusivamente utilitaristico, per quanto discutibile, può giustificarle. I conservatori non sembrano curarsene, così come gli eurocrati non sembrano curarsi del fatto che l’austerità causa decrescita ed allontana il traguardo della riduzione del debito. Parlano ed agiscono come dei fanatici: è verosimile che lo siano. Che, per di più, sia proprio Cameron, che poco tempo fa piangeva la morte del figlio disabile, ad infierire sui disabili e le loro famiglie è un’indecenza che lascia sconcertati. Il profluvio di denari sprecati in Afghanistan, contro la volontà della stragran parte dei cittadini britannici (ed afghani), sarebbe sufficiente a mantenere intatto lo stato sociale, e la Tobin tax servirebbe a restituire alla società – con ragguardevoli interessi – quello che l’avidità dei banchieri le ha tolto attraverso la socializzazione delle perdite (cf. salvataggi pubblici di chi celebra il libero mercato e condanna lo Stato: si può essere più patetici e perdenti?) e la privatizzazione dei profitti (cf. sgravi fiscali, paradisi fiscali: si può essere più parassitari e ipocriti?).

Invece il messaggio che implicitamente si dà è che i disabili sono un fardello per la collettività e sarebbe opportuno che si togliessero di mezzo il più velocemente possibile. Com’è stato detto, un paese che “non può permettersi” di assistere i suoi disabili è certamente fallito, moralmente fallito. Il Regno Unito è diventata una presenza imbarazzante per l’Europa e si è avviato lungo una pessima china. Quel che il suo governo non pare aver capito è che le persone disperate che non hanno nulla da perdere compiono gesti disperati. Le manifestazioni di migliaia di disabili nelle strade inglesi in difesa dei propri diritti sono solo il primo passo. La gente non è felice di tirare la cinghia mentre i veri responsabili della crisi sono a piede libero e più ricchi di prima. La gente non è felice di vedere che la propria nazione ha perso l’anima.

Ciò che sta accadendo in Gran Bretagna potrebbe succedere anche in Italia?

Forse sì:

http://www.articolotre.com/2011/12/%C2%ABmonti-da-che-parte-sta%C2%BB-i-disabili-protestano-a-montecitorio/51831

Perciò è meglio dedicare del tempo ad alcune riflessioni in materia di disabilità.

Oggi in molte società, specialmente in quelle dove la popolazione sta invecchiando più rapidamente, i disabili costituiscono la minoranza più consistente. A seconda dei criteri utilizzati per definire cosa sia una disabilità e chi sia disabile, oggi ci sono fino a 50 milioni di statunitensi e 40 milioni di Europei occidentali che convivono con una qualche forma di disabilità. Nella metà dei casi si tratta di una menomazione grave. La disabilità è quindi un fenomeno piuttosto ordinario ed il confine tra abilità e disabilità è permeabile. È ragionevole presumere che, ad un certo punto della vita, ciascuno di noi si troverà ad affrontare personalmente una disabilità o dovrà prendersi cura di un disabile ed è quindi nell’interesse di tutti far sì che la società moderna si sforzi di venire incontro ai bisogni dei disabili invece di considerarli “beni deteriorati”, come sembra fare il governo conservatore. Questo diventa specialmente importante oggi che le biotecnologie sono in procinto di rendere ancora più poroso il confine tra abile e disabile e che la categoria “disabilità” si estenderà molto probabilmente a persone affette da alcolismo, obesità, predisposizione a malattie congenite, ecc.

Nella vita di ogni giorno resta la tendenza a valutare gli esseri umani non per quel che sono ma per quel che fanno.

La dipendenza delle persone disabili dal supporto di altre persone ed istituzioni è stato un costante promemoria delle imperfezioni e fragilità umane e dell’impotenza delle scienze mediche. Inoltre, nei periodio di austerità più o meno indotta, i disabili sono quasi sempre stati visti come un costo insostenibile. Negli anni Venti, quando l’economia tedesca era in pessime condizioni, ma comunque prima dell’ascesa di Hitler, un sondaggio di una clinica rivelò che la maggioranza dei genitori di bambini sofferenti di un ritardo mentale avrebbero acconsentito alla loro “eutanasia” se le autorità mediche li avessero consigliati in tal senso (Burleigh, 2002).

Purtroppo, un’eccessiva insistenza sul valore dell’autosufficienza (tipico degli egotisti e degli psicopatici) a discapito di quello dell’interdipendenza, assieme a considerazioni di ordine utilitaristico su come le persone possono meglio contribuire all’economia, tende a sminuire il valore di chi non può cavarsela da solo. Se le anormalità non possono essere curate, la diagnosi prenatale e l’aborto selettivo possono anche essere viste da alcuni come una soluzione rapida ed efficace ad un problema intrattabile come quello delle discriminazioni contro i disabili: “se non ci fossero i disabili non ci sarebbero discriminazioni”. Il messaggio che passa è che i disabili sono degli errori ai quali il progresso tecnologico prima o poi saprà rimediare: ma vanno comunque tollerati (!!!).

I due obiettivi paralleli di eliminare le disabilità e indirizzare la società verso un atteggiamento più indulgente e rispettoso nei confronti dei portatori di handicap sono inconciliabili.

Dobbiamo anche capire che i test genetici prenatali e, in futuro, la terapia fetale, cioè il trattamento medico dei bambini in grembo non garantiranno la nascita di un bambino “normale”. Anche lo screening sistematico dei feti non può evitare che alcuni bambini “difettosi” vengano al mondo. Ciò solleva il problema di come verranno trattati questi bambini inattesi in una società che tende a valorizzare competenza ed intelligenza sopra ogni altra cosa, cioè una società in cui sarebbe stato meglio che non fossero mai nati. Stiamo già assistendo alla collisione tra il diritto costituzionale all’uguaglianza e una realtà di disuguaglianza fisica, e questa è una situazione in cui i diritti delle donne si scontrano con quelli dei disabili e dei feti, mentre i diritti, valori ed interessi individuali configgono con quelli sociali.

È opportuno meditare sulla serie di effetti a breve o lungo termine dell’applicazione di nuove tecnologie nel campo della medicina genetica, anche se non possono essere previsti con certezza. A seguito dell’adozione della diagnostica genetica (quando esistono indicazioni che qualcuno potrebbe essere affetto da una qualche malattia genetica) e dei test genetici nello screening dei portatori sani (che non offrono indicazioni di sorta), potrebbe emergere una nuova classe di cittadini che includerebbe tutte le persone che sono state diagnosticate come malati asintomatici, cioè a maggior rischio di contrarre certe infermità. Promulgare una legislazione specifica a protezione di questi cittadini contro ogni tipo di discriminazione potrebbe paradossalmente farli sembrare più diversi dalla “norma” di quel che realmente sono. Così è stato detto che discriminazioni nel settore assicurativo, dell’impiego, e della sanità potrebbero essere la logica ed inevitabile conseguenza di un vicolo cieco in cui si verrà trattati in modo diverso sia che uno consenta a farsi testare geneticamente e a permettere che lo stesso venga fatto ai propri figli e l’esito sia positivo, sia che uno si rifiuti di farlo, perché in quel caso si sospetterà la presenza di una malattia ereditaria che si vuole nascondere. In ultima analisi il rischio è quello di assistere ad una deriva epistemologica che condurrebbe ad una società in cui una vita umana non conforme a standard qualitativi sempre più elevati sarà vista come una seria negligenza:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/09/lavvento-di-gattaca-quando-i-complotti-sono-alla-luce-del-sole/#axzz1pT9hf38H

« Older entries

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: