La volontà di dominio sugli altri – riflessioni sull’attivismo, l’eutanasia e l’aborto

Io non sono un opportunista! Io cerco di dimostrare agli opportunisti quanto siano patetici i loro tentativi di controllare le cose!
The Joker, “Il Cavaliere Oscuro”

Mi è successo un fatto strano. Invece di ricevere una critica direttamente sul blog ho ricevuto l’invito a cliccare su un link che mi ha portato in un forum in cui una mia posizione veniva travisata o volutamente contraffatta ed il mio impegno per la soluzione di una problematica veniva schernito. Ho sempre avuto una vita pugnace e la cosa non mi ha particolarmente scosso. Quel che mi ha invece colpito è stata l’esigenza che questa persona ha sentito di invitarmi a “casa sua” per mostrarmi la misura del suo disprezzo per quel che faccio. Perché scomodarsi? Perché non dedicare il proprio tempo ad attività più gratificanti? All’inizio ho pensato a “carenze affettive”, poi mi è invece venuto il sospetto che, per questa persona, tanta ostinazione (accanimento?) sia di per sé gratificante. Ha una missione da espletare ed io, ai suoi occhi, non devo essere libero di trascurarla. Sono colpevole di indifferenza.

Ora, tralasciando la singolare vicenda occorsami, che è di poco conto, vorrei cogliere quest’opportunità per condividere una riflessione sul controllo.

La necessità che sentiamo di controllare tutto ciò che ci circonda, è la radice di gran parte del male che commettiamo.

Se ci comportiamo come bulli (contro il nostro prossimo, contro altri popoli, contro animali e piante, contro la Madre Terra, ecc.), in attesa che un bullo più forte di noi ci metta in riga (e prima o poi arriva), è perché siamo maniaci del controllo, ci terrorizza l’idea di perderlo. Le incertezze ed indeterminazioni della vita ci spaventano e ci spaventa anche la morte, che pure secondo alcuni pone fine a tutte le nostre traversie: e allora ci troviamo a manipolare, sfruttare, tormentare, aggredire il prossimo per sentirci vivi ed illuderci che “è tutto sotto controllo”.  Vita, morte e controllo, una trittico che ritroviamo nel dibattito sull’eutanasia e sull’aborto. Chi controlla la mia vita? La società, un medico obiettore, o io? Come posso usare responsabilmente il poco controllo che ho su me stessa (donna incinta) o su me stesso (malato terminale)? Il tema non è per nulla scontato: il medico che assiste il suicidio del malato terminale potrebbe non farlo per ragioni umanitarie, ma per soddisfare un suo bisogno di controllare la vita, la vita di qualcun altro. Parimenti, la donna incinta esercita il suo dominio sul feto. C’è persino chi, nella bioetica, pretende di poter giustificare il diritto-dovere all’infanticidio ed all’eutanasia nell’interesse collettivo.

In generale sono dell’idea che controllare le altre persone (adulte) sia sbagliato e che questo sia un miglior discrimine di quel che è accettabile ed inaccettabile rispetto alla dicotomia bene/male. Anche se posso immaginare che questo mondo è così complicato che non ci possono essere degli assoluti categorici, ritengo comunque che il nostro compito sia quello di evitare che un Male Estremo venga riconfigurato come Male Minore per poi diventare Bene Necessario e infine Routine.

Esaminiamo meglio la questione addentrandoci nel dibattito sul suicidio assistito.

La Chiesa, contraddicendo Gesù il Cristo, ha stabilito che la vita organica sia di centrale importanza. Ha trasformato una fede trascendentalista in una fede materialista, inventando un culto magico ed idolatra della vita, che le consente di esimersi dal prendersi cura di quel che veramente importa: i singoli viventi; viventi che non possono essere omologati nella generica categoria: “vita”. C’è vita e vita. La vita di un virus (un cristallo macromolecolare dotato di un codice RNA) ha poco a che vedere con la vita umana. La persona, non la vita deve essere il centro di attenzione di un cristiano e di un cittadino democratico, ma enfatizzando la vita la Chiesa è riuscita ad esercitare un controllo ingiustificato e blasfemo sulle persone, anche sui non-credenti. Pur credendo, a parole, nella trascendenza, hanno deciso che la vita è sacra in quanto biologica, non solo quando è vissuta da qualcuno. Hanno stabilito che è la vita a vivere e non le persone (e gli animali e piante). Tuttavia una persona non è un aspetto particolare del fenomeno “vita”: è un racconto in corso e senza un finale predeterminato, una singolarità in costante trasformazione, il prodotto vivo della morte di milioni di cellule e di un qualcosa – la coscienza – che la scienza non sa spiegare. La sua dignità deriva proprio dal suo non essere “mera vita”, “nuda vita”, come gli internati di Auschwitz.

La cultura della vita dei progressisti valorizza il reticolo di significati, azioni, pensieri e conversazioni di esistenze impregnate di scelte, desideri, afflizioni, disabilità, azioni, anche minute. La cultura della vita dei bioconservatori è in realtà una cultura di morte (la vita biologica è un insieme di processi fisico-chimici che definiamo romanticamente e magicamente “vita”). Violano il consenso in nome del principio che si deve sbagliare per eccesso di vita. Si fanno portavoce delle “non-persone”, non-ancora-persone o non-più-persone che non possono prendere la parola, avendo la pretesa di sapere cosa direbbero se potessero parlare. In questo modo moltiplicano le voci di chi la pensa come loro in un mondo in cui rappresentano una minoranza.

Subordinano l’esistenza dei vivi ai non-ancora-nati ed ai non-più-vivi mentre i loro oppositori, con le leggi sull’aborto, internazionalmente, hanno cercato di conciliare il diritto di una quasi-persona di svilupparsi in una persona ed il diritto della donna di non essere trattata come uno strumento di perpetuazione della specie e di non essere punita, senza darlo a vedere, per il suo comportamento sessuale.

*****

Una parte della Chiesa ci dice che essere testimoni delle agonie umane ci rende più compassionevoli. Ma a me pare evidente che chi ha bisogno di questo tipo di esperienza deve probabilmente avere un deficit nelle funzioni cognitive superiori. Per le persone normali (non psicopatiche) una tale esperienza sarebbe estremamente spiacevole, non didattica. È una logica bizzarra e perversa che potrebbe essere impiegata per giustificare qualunque azione, inclusa la tortura, ossia il culmine del controllo sul prossimo, il culmine della barbarie umana. Un dio che chiedesse un tale comportamento non sarebbe certo un dio d’amore, ma un angelo caduto, un parassita della creazione che nega assistenza a chi lo supplica perché per lui il dolore altrui è nutrimento. Se si rifiuta che Dio sia il punto di convergenza di tutto ciò che esiste, piacevole o spiacevole che sia, si finisce per credere che il dolore nel mondo sia un’occasione di martirio edificante voluta da “Dio” e quindi si legittima il controllo narcisistico e patologico sull’altro.

Se invece si crede nella libertà della coscienza e la sua immortalità (in quanto anima), non ha alcun senso prolungarne la permanenza in un corpo afflitto da atroci tormenti ed incurabile. È puro sadismo, il fanatismo di chi costringe qualcuno ad essere sepolto vivo, uno zombie, in nome delle proprie credenze e assicura tutti gli altri che è una dimostrazione di compassione e bontà e non di bancarotta morale. Che senso ha affinare l’empatia se poi non le esercitiamo impiegandole nell’alleviare le sofferenze altrui?

Si afferma che la sofferenza fa maturare, ma quella è una scelta personale: la sofferenza che aiuta a crescere dev’essere giudicata personalmente. Nessuno può imporla egoisticamente ed autoritariamente. Ed è questa la ragione per cui si deve consentire il suicidio assistito, perché non siamo semplici animali ma persone in grado di determinare autonomamente il valore delle nostre esistenze, senza necessariamente pervenire alle medesime conclusioni. Qualcuno può tollerare un certo livello di sofferenza, altri no. Non è che questa persona stia tradendo il resto dell’umanità o la vita stessa se sceglie diversamente. Sarebbe difficile imbattersi in un malato terminale disposto a moralizzare sulle scelte di vita e morte altrui. Questo lo fanno i malati del controllo, quelli che osano trattare i corpi altrui come se fossero una loro proprietà? Persone che dicono di credere nella sopravvivenza dell’anima ma preferiscono starsene qui e sperare nella risurrezione dei corpi (ennesima blasfemia della Chiesa: tra l’altro la vicenda di Lazzaro è un’invenzione di Giovanni).

La via del Grande Inquisitore di Dostoevskij è la via del potere, la via del dominio sulla natura, per circoscrivere l’area di potere della paura e dell’indeterminatezza. Il fatto è che non è la paura che ci domina, siamo noi che ci lasciamo dominare da essa, schiavi dell’illusione di potere e volere avere tutto sotto controllo.

Le presunte virtù della mortificazione – l’ideologia che guida gli eurocrati intenti a distruggere l’Unione Europea

[Kendell Geers T.W. (I.N.R.I.), 1995-2002. Crocifisso in legno, nastro stradale, 205 x 118 x 28 cm. San Gimignano – Beijing]

“Le presunte virtù della mortificazione” di Mona Chollet – Le Monde Diplomatique – (traduzione dal francese di José F. Padova) – 13 marzo 2012

Il 21 febbraio l’Unione Europea ha acconsentito ad accordare un nuovo aiuto finanziario alla Grecia, a condizione che questa accetti una «sorveglianza rafforzata» sulla sua gestione del bilancio. Questo piano aggraverebbe ancor più la recessione in un Paese esangue. L’ostinazione nell’esortare al rigore non si spiegherebbe forse con certezze morali più forti della ragione?

Rigore, austerità, sforzi, sacrifici, disciplina, regole restrittive, misure dolorose… A forza di assediare le nostre orecchie con le sue forti connotazioni moralizzatrici, il vocabolario della crisi finisce per intrigare. Lo scorso gennaio, alla vigilia del Forum economico di Davos, il suo presidente, Klaus Schwab, parlava addirittura di «peccato»: «Noi paghiamo i peccati di questi ultimi dieci anni», diagnosticava, prima di chiedersi «se i Paesi che hanno peccato, in particolare quelli del Sud, hanno la volontà politica di intraprendere le necessarie riforme» (1). Su Le Point, per la penna di Franz Olivier Giesbert, il conteggio dei nostri sfrenati baccanali è più ampio: l’editorialista deplora «trent’anni di stupidaggini, di follie e d’imprevidenza, quando si è vissuto al di sopra dei nostri mezzi (2)».

Dirigenti e commentatori ripetono in continuazione il medesimo racconto fantasmatico: mostrando di essere pigri, spensierati, spendaccioni, i popoli europei avrebbero attirato su sé, come giusta punizione, il flagello biblico della crisi. Adesso essi devono espiare. Occorre «stringere la cinghia», rimettere al primo posto le buone vecchie abitudini di risparmio e di frugalità. Le Monde (17 gennaio 2012) cita come esempio la Danimarca, Paese modello al quale una «dieta forzata» ha permesso di ritornare a godere i favori delle agenzie di rating. E nel suo discorso d’insediamento, nel dicembre 2011, il presidente del governo spagnolo, Mariano Rajoy, arringava così i suoi compatrioti: «Siamo messi davanti a un compito ingrato, come quello dei genitori che devono cavarsela per nutrire quattro persone con i soldi per due».

Numerose voci si levano a sottolineare l’impostura di questo ragionamento che pretende di uniformare il comportamento di uno Stato a quello di una famiglia. Esso elude la questione della responsabilità della crisi, come peso insopportabile che l’austerità fa pesare su popolazioni, la cui sola colpa è di aver voluto curarsi o pagare gli insegnanti dei loro figli. Per un comune cittadino il rigore del bilancio può essere fonte di fierezza e soddisfazione; per uno Stato significa la rovina di centinaia di migliaia di cittadini, quando non arriva, come nel caso della Grecia, a un suicidio sociale puro e semplice. In Danimarca, precisava Le Monde, la «cura dimagrante» si è esplicata in una esplosione della disoccupazione e in una drastica riduzione dei programmi sociali; «sessantamila famiglie hanno perduto la loro abitazione». Così questo falso buon senso non soltanto cancella magicamente le disuguaglianze sociali e occulta le devastazioni dell’austerità, ma raccomanda caldamente, di fronte alla crisi, una politica economica che finisce per aggravarla, impedendo qualsiasi ripresa mediante i consumi. «Risparmiare e investire sono virtù per le famiglie, è difficile per la gente immaginare che, a livello delle nazioni, troppa frugalità può causare problemi», osserva l’editorialista di Bloomberg Businessweek Peter Coy (26 dicembre 2011).

Irrazionali, assolutamente deliranti, i richiami alla contrizione non hanno alcun rapporto con la realtà. Come spiegare allora il fatto che essi continuano a risuonare da un capo all’altro dello spazio europeo? Perché servono gli interessi dominanti, si risponderà. E nei fatti essi offrono l’occasione per completare, con il pretesto del debito, la distruzione, avviata una trentina di anni fa, delle conquiste sociali del dopoguerra. Prima di tutto ciò essi avevano già permesso, nella Francia di Vichy, di sotterrare il funesto ricordo del Fronte popolare. Il processo di Riom, che si tenne nel 1942 in quella cittadina del Puy-de-Dôme, mirava a dimostrare che i dirigenti «rivoluzionari», come Léon Blum e Edouard Daladier, erano responsabili della disfatta del giugno 1940 inferta dall’esercito tedesco. Il passaggio alle quaranta ore [settimanali] nell’industria degli armamenti e non le decisioni degli Stati maggiori sarebbero stati fatali alle truppe francesi… In vista del «raddrizzamento nazionale» il maresciallo Pétain aveva l’intenzione di sostituire, già allora, con lo «spirito di sacrificio» lo «spirito di godimento». All’apertura del processo il quotidiano Le Matin indicava Blum come «l’uomo che ha inoculato il virus della pigrizia nel sangue di un popolo (3)». I francesi settant’anni prima dei greci…e i portoghesi, che il loro primo ministro Pedro Passos Coelho ammonisce in questi termini: «Vi ricordate certamente di quell’episodio grottesco, quando, mentre la “troika” europea lavorava a Lisbona per elaborare un programma d’aiuti al Portogallo (nel 2011), tutto nel Paese era chiuso, perché tutti approfittavano di qualche giorno di ferie per fare il ponte. La “troika”, che prestava denaro al Portogallo, lavorava, il Paese sfruttava i ponti. Per fortuna ciò che è accaduto in seguito è avvenuto contrariamente a questa immagine, molto brutta (4)» .

Una promessa di rigenerazione

Ma l’invito alla fatica, alla mortificazione e all’abnegazione non è un trucco per fare accettare a più gente possibile la loro spogliazione? I suoi accenti sinceri, appassionati, danno a pensare che essa non è totalmente debitrice al cinismo e che si radica su un solido retroterra culturale. «Questo umore “sacrificale”, che partecipa dell’ethos altrettanto che del ragionamento, suscita da parte di numerosi commentatori una specie di esultanza morbosa, come se la sofferenza popolare avesse anche una dimensione “purificatrice”», constata il sociologo Frédéric Lebaron a proposito dell’attuale situazione (5). Pétain voleva ricordare ai francesi che, «da Adamo in poi, il castigo è una chiamata al raddrizzamento, una promessa di rigenerazione (6)». Più vicino a noi, Rajoy profetizza: «Lo sforzo non sarà inutile. I nuvoloni scompariranno, noi risolleveremo la testa e verrà il giorno in cui si parlerà bene della Spagna, il giorno in cui guarderemo indietro e non ci ricorderemo più dei sacrifici».

La rivendicazione da parte del popolo di condizioni di vita decenti non fa altro che mettere in allarme coloro gli interessi dei quali essa ostacola: ispira loro una specie di terrore superstizioso, come se rappresentasse una trasgressione impensabile. Al tempo della disfatta del 1940, riferiva lo storico e membro della Resistenza Marc Bloch, i quadri militari, provenienti dall’alta società, avevano accettato il disastro perché vi trovavano queste atroci consolazioni: schiacciare sotto le rovine della Francia un regime vilipeso; piegare le ginocchia davanti alla punizione che il destino aveva inviato a una nazione colpevole (7)».

Coloro i quali, per la loro posizione nella società, non hanno alcun interesse obiettivo a sottoscrivere questa lettura degli eventi, sono tuttavia numerosi nel mostrarsene recettivi. Riguardo ai danni inflitti alla collettività, i movimenti degli «indignati» possono perfino apparire come una risposta molto timida, lasciando subodorare che la retorica della necessaria espiazione trova, malgrado tutto, un terreno favorevole. Nel maggio 2011 un funzionario greco, che aveva già visto il proprio salario passare da 1.200 a 1.050 euro per un periodo di lavoro settimanale passato da trentasette ore e mezza a quaranta ore, dichiarava, per esempio, di essere «pronto a sforzi supplementari (8)».

Qualcuno non ha mancato di fare rilevare che un substrato culturale, addirittura religioso, determina gli atteggiamenti dei protagonisti della crisi dell’euro. «Esperti e politici trascurano un fattore: Dio. Insomma, la religione e, nella fattispecie, il protestantesimo luterano. Figlia di pastori, [la cancelliera tedesca] Angela Merkel ha il senso del peccato, come molti dei suoi compatrioti. Vi è un modo tedesco di parlare dell’euro che emana il buon odore dell’influsso del Tempio. E che evidentemente non è senza conseguenze sulle soluzioni proposte per soccorrere l’unione monetaria europea», così scrive Alain Frachon su Le Monde (23 dicembre 2011).

Eppure si può dubitare che l’influsso del protestantesimo si limiti all’area geografica nella quale prese l’avvio nel XVI secolo. Il sociologo tedesco Max Weber ha dimostrato in un celebre saggio, nel 1905, come l’etica protestante aveva contribuito a mettere in sella il capitalismo, modellando uno «spirito» che gli era favorevole (9). In seguito e fino ai nostri giorni questo spirito è perdurato e prosperato in modo autonomo, al di fuori di qualsiasi referente religioso. Ed è finito per diventare tanto onnipresente e invisibile quanto l’aria che respiriamo. La storica Jeanine Garrisson cita l’esempio di Jean-Paul Sartre, che ironizzava sulla fede protestante di suo nonno materno, pur essendo egli stesso «molto più vicino di lui al suo puritanesimo e al suo gusto della conoscenza di quanto non volesse ammettere. Non è forse lo stesso Sartre che proclama alto e chiaro che un intellettuale il quale non lavori almeno sei ore al giorno non può rivendicare questo prestigioso titolo (10)?».

In effetti la tesi di Weber sostiene che il protestantesimo ha «fatto uscire l’ascesi dai conventi» dove il cattolicesimo l’aveva confinata. La dottrina calvinista della predestinazione, secondo la quale ogni essere umano è eletto o condannato da Dio per l’eternità, senza che alcuno dei suoi atti sia suscettibile di cambiare alcunché, avrebbe potuto condurre a una forma di fatalismo. Produsse invece l’effetto contrario: sottomettendo ogni aspetto della loro vita a una stretta disciplina, i fedeli investirono tutta la loro energia nel lavoro, accattando nel successo economico un segno della loro salvezza. La fortuna cessò allora di essere condannabile – anzi, al contrario. Solamente il fatto di goderne era reprensibile. Weber ricorda il caso di un ricco fabbricante al quale il medico aveva consigliato di mangiare ogni giorno, per la sua salute, qualche ostrica, ma che non poteva risolversi a una simile sontuosità, non per avarizia, ma per scrupolo morale.

«L’idea del dovere professionale», scrive il sociologo, «vaga nella nostra vita come un fantasma delle credenze religiose di una volta». Perché la mano d’opera, anch’essa, dovette imparare a «eseguire il lavoro come se fosse un fine assoluto – una “vocazione”». Questa mentalità, oggi dominante, non s’impose se non al prezzo di una «pesante lotta contro un mondo di poteri ostili» e in particolare con l’aiuto di una politica di bassi salari: Calvino stimava che la massa degli operai e artigiani «doveva essere tenuta nello stato di povertà, per restare obbediente a Dio». Il protestantesimo scavò fra eletti e dannati un fossato a priori più insuperabile e più inquietante di quello che separava dal mondo il monaco del Medio Evo – un fossato che impresse un’orma profonda in tutti i sentimenti sociali». Il puritanesimo inglese forgiò ugualmente «una legislazione sulla povertà la cui durezza era in radicale contrasto con le norme anteriori».

Ricchi o poveri che si fosse, ormai riposarsi, approfittare della vita, «perdere il proprio tempo» non si poteva più fare senza cattiva coscienza. Si misura ciò che il mondo attuale deve a questo concetto quando si legge che il pastore luterano Philippe Jacob Spener, fondatore del pietismo, denunciava come moralmente condannabile «la tentazione di andare in pensione prematuramente»…

Insomma, come l’aveva già intuito fin dal XVI secolo l’umanista tedesco Sebastian Franck – citato da Weber – la Riforma ha imposto a ogni persona di essere un monaco durante tutta la sua vita». L’ascendente del cristianesimo e della sua squalifica dell’esistenza terrena se ne ritrovò fortemente potenziato. Si può presumere che questa eredità spirituale e culturale non agisca senza inibire le risposte possibili agli attacchi portati contro le società [civili]. Dopo la laicizzazione degli Stati, che dire della laicizzazione degli spiriti?

(1) Interview à L’Hebdo, Lausanne, 18 janvier 2012.

(2) Le Point, Paris, 23 novembre 2011. Cf Mathias Reymond, «Les éditocrates sonnent le clairon de la rigueur», Acrimed.org, 12 décembre 2011.

(3) Cité par Frédéric Pottecher, Le Procès de la défaite. Riom, février-avril 1942, Fayard, Paris, 1989.

(4) Expresso.pt, 6 février 2012.

(5) Frédéric Lebaron, «Un parfum d’années trente… ». Savoir/Agir. n° 18. Bellecombe-en-Bauues.

(6) Cité par Gérard Miller, Les Pousse-au-jouir du maréchal Pétain, Seuil, coll. «Points Essais», Paris, 2004.

(7) Marc Bloch, L’Etrange Défaite, Gallimard, coll. «Folio Histoire », Paris, 1990.

(8) « Comment les Grecs se sont mis au régime sec», La Croix, Paris, 8 mai 2011.

(9) Max Weber, L’Ethique protestante «(l’esprit du capitalisme, traduit et présenté par Isabelle Kalinowski, Flammarion, coll.« Champs classiques», Paris, 2000. De même pour les citations suivantes de cet auteur.

(10) Janine Garrisson, L’Homme protestant, Complexe, Bruxelles, 2000.

http://www.liberacittadinanza.it/articoli/le-presunte-virtu-della-mortificazione

Per una mia analisi integrativa del fanatismo puritano che impregna di sé le dinamiche capitaliste e della società contemporanea, in combutta con uno sfrenato edonismo (la classica trappola del Giano bifronte – sfuggi ad uno per cadere nell’altro):

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/11/ma-chi-ce-lo-fa-fare-terry-gilliam-max-weber-marx-e-la-fuga-dallincubo/#axzz1pGlBdQGa

per un’analisi delle tecniche impositive di questa ideologia:
https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/13/il-mito-del-consenso-unanime-e-la-crisi-del-patto-civile-con-lo-stato/

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: