L’insana idea dello Stato Libero del Sudtirolo e le mafie transnazionali

ACCALARENTIA+copia
Nel Terzo Millennio, il solito, volgare refrain; il solito manicheismo

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Volendo preservare l’unità spirituale e culturale del Tirolo ed il suo patrimonio storico…

Proposta di Costituzione per lo Stato Libero del Sudtirolo, a cura dei Freiheitlichen

Tra sfide e rancori in India nasce un nuovo stato, il Telangana…la scelta del Congresso sta già ottenendo un effetto boomerang negli altri territori dove ci si batte per l’indipendenza. A Kokrajhar gli animi sono surriscaldati…per una protesta dei separatisti del Bodoland, Karbi e Anglong che vogliono divorziare dall’Assam. Incidenti anche nel Darjeeling per i sostenitori del Gorkhaland, mentre in Uttar Pradesh la ex premier Mayawati Kumari ha rilanciato la sua idea di dividere in quattro il più popoloso stato indiano.
Raimondo Bultrini, il Venerdì, 16 agosto 2013

L’offensiva filo-separatista della stampa angloamericana ha raggiunto il suo culmine nella seconda metà del 2012. Il 12 luglio 2012 Marcia Christoff Kurapovna, neoliberista sloveno-americana residente a Vienna, pubblica sul Wall Street Journal un peana in favore della dissoluzione di Grecia e Italia in piccole città-stato. Ambrose Evans-Pritchard, figlio di un antropologo invischiato nella strategia del divide et impera dell’imperialismo britannico, preconizza la jugoslavizzazione della Spagna (Telegraph 25 settembre 2012). Il New York Times pubblica un articolo di due indipendentisti catalani dal titolo “prigionieri della Spagna” (2 ottobre 2012). Il blog Charlemagne dell’Economist prevede rivolte tra i giovani catalani se i loro sogni indipendentisti non saranno soddisfatti (26 novembre 2012). Quello stesso giorno, sulle colonne del Wall Street Journal, Raymond Zhong esorta i catalani a creare un loro stato più snello, più generoso verso le imprese, più pragmatico, più parsimonioso (leggi: meno welfare, più precariato, licenziamento dipendenti pubblici e congelamento dei salari).

François Thual, expert en géopolitique , qui présenté son dernier ouvrage “Géostratégie du crime” (éd. Odile Jacob), co-écrit avec Jean-François Gayraud, commissaire divisionnaire en poste au Conseil supérieur de la formation et de la recherche stratégique: « Nous ne sommes plus dans la série noire d’après-guerre ; désormais, sous l’action de puissances criminelles, les États eux-mêmes se trouvent contestés dans leur existence et doivent parfois battre en retraite. C’est la survie de nos démocraties qui est en jeu » : pour Jean-François Gayraud et François Thual, les phénomènes criminels sont bien loin d’échapper aux effets de la mondialisation, on le voit.
Pourquoi la grande criminalité internationale a augmenté de façon exponentielle ; comment la lutte contre le terrorisme et le recul de l’État un peu partout l’ont favorisée ; quelles sont les luttes de territoires entre organisations ; comment des empires criminels se constituent, menaçant l’équilibre des États ; comment l’argent sale pèse sur l’économie mondiale ; pourquoi les élites sont fragilisées : deux spécialistes croisent criminologie et géopolitique pour nous révéler les vrais dangers de demain et peut-être déjà d’aujourd’hui !
Conseiller du président du Sénat pour les affaires stratégiques, François Thual est professeur au Collège interarmées de défense (ex-Ecole de guerre). Il est l’auteur de nombreux ouvrages sur la géopolitique dont certains ont connu un succès mondial.

La sovranità è onerosa, per questo si cerca di condividerla. La fascinazione quasi maniacale e consumistica per la sovranità particolaristica sovraccarica i contribuenti; frammenta l’umanità depotenziandola e intensificando screzi, frizioni, timori, risentimenti; moltiplica la già abnorme pletora di staterelli a sovranità limitata; condanna le entità politiche minori a una pressoché istantanea ed irrevocabile subordinazione clientelare nei confronti degli stati maggiori: rafforza chi è già forte e indebolisce chi è già debole (divide et impera). In primo luogo le oligarchie mafiose transnazionali – ufficiali e non ufficiali – come spiega François Thual.

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federalismo sì

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separatismo no

La cultura è il grimaldello usato per abbattere lo stato di diritto (da parte di certi interessi criminali) e ogni progetto federalista (da parte di certi interessi geostrategici), facendo leva su sentimenti originariamente innocenti e positivi, ma che vengono pervertiti, esasperati.

Non esiste una cultura padana, trentina, italiana, o una cultura americana, cinese, ebrea, indiana, bantù. Gli esseri umani non sono automi che eseguono un programma culturale (software) caricato nel loro cervello (hardware) alla nascita. Non esistono due italiani che usano la lingua italiana allo stesso modo e non esistono due sudtirolesi che saprebbero mettersi d’accorso su cosa si debba intendere per cultura sudtirolese e Heimat. Ogni cultura è una narrazione e ogni individuo è un narratore che la interpreta, la racconta a modo suo, declinandola secondo le sue sensibilità, aggiungendo qualcosa qui e lì, e togliendo qualcos’altro altrove. La cultura è un prodotto dell’immaginazione umana ed ogni mente, essendo diversa, contribuisce a renderla porosa, flessibile, incessantemente mutevole, eterogenea. Ogni persona narra la “sua” cultura ponendosi in relazione con altre persone che narrano la loro e solo Dio potrebbe cogliere la narrazione complessiva nella sua interezza, senza sacrificarne la complessità. La cultura non è un’essenza o un oggetto, le culture non si scontrano tra loro, non si confrontano, non conversano, non agiscono: non sono degli esseri viventi che operano per nostro conto.

La cultura è una relazione dinamica tra soggetti che non hanno come priorità la conservazione della medesima, ma il vivere pienamente, al meglio delle proprie possibilità. Per farlo, tutti noi usiamo la cultura come uno strumento e apprendiamo ad adoperare altri strumenti, perché lo troviamo utile e piacevole, e talvolta ci inganniamo e trasformiamo la narrazione in una tavola delle leggi, in un fine e non un mezzo.

Ci inchiniamo alla lettera delle presunte “leggi culturali” anche quando esse sono interpretate in modo tale da tradirne lo spirito. Chiunque rilevi un’eventuale discrepanza è accusato di tradimento. È una degenerazione patologica dell’idolatria, una dipendenza che ci vincola a degli idoli al posto dei significati che sono chiamati a rappresentare. Si chiama razzismo culturalista e non è diverso o migliore del razzismo su basi biologiche. È una patologia della coscienza che sclerotizza e mortifica (rende morto) ciò che è vivo, imbalsama ciò che è mutevole e variabile, reifica un parto della fantasia umana. Una patologia che dissemina superstizione, paura e violenza ed ostacola la naturale disposizione dei singoli a fiorire, maturare, emergere, trascendere le proprie circostanze, eccellere, ciascuno secondo le proprie inclinazioni.

Come la lettera delle leggi subisce un processo di decadimento (entropia), mentre il suo spirito resta immortale, perché si basa su ciò che è giusto, così le culture possono decadere, se si allontanano dal loro spirito, che è quello di riflettere la comune, universale esperienza umana.

Brzezinski, Atlantide e la Supernova

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Il “brillante” piano di Brzezinski per gli Stati Uniti del ventunesimo secolo: scimmiottare le strategie dell’impero britannico (e/o di Atlantide?)

http://it.wikipedia.org/wiki/Zbigniew_Brzezinski

Premessa: occorre capire che senza un impero gli Stati Uniti non hanno alcuna chance di sopravvivere. Sono nelle stesse condizioni del Regno Unito: la loro industria è moribonda, la loro economia è tenuta in vita a botte di stimoli dalle rispettive banche centrali (che prima o poi si pagano, con gli interessi – disastrose bolle speculative + inflazione), il loro settore bancario-finanziario è una metastasi, il loro tasso di disoccupazione reale è a livelli record, così come il loro indebitamento reale. Le loro rispettive valute non sono crollate solo grazie al predominio militare americano.

Anglo-America (Nuova Atlantide = City di Londra + Pentagono) è come una stella diventata troppo grande che è in procinto di esplodere per esaurimento di combustibile:

“L’esplosione di Supernova rappresenta l’ultimo atto, distruttivo e spettacolare, del ciclo evolutivo di stelle molto massive. Durante l’esplosione viene liberata un’energia enorme e la stella diventa così luminosa da splendere più di una intera galassia. La luce emessa dalla stella in seguito all’esplosione dura qualche mese ed è paragonabile a quella che il nostro Sole è in grado di emettere in un miliardo di anni!… Ogni volta che il combustibile nucleare al centro della stella finisce perché si è trasformato in un altro elemento, il nucleo si contrae sotto l’azione della gravità e riesce ad innalzare la temperatura fino ad innescare il bruciamento del nuovo elemento chimico. Sfortunatamente (per la stella) il ferro non può essere ulteriormente fuso per produrre energia e questa volta la contrazione del nucleo prosegue in maniera irreversibile. Quando la temperatura e la densità della materia all’interno del nucleo raggiungono un valore limite, i protoni e gli elettroni degli atomi si fondono a formare neutroni. In ognuna di queste reazioni di “neutronizzazione” viene prodotto un neutrino. In poche decine di secondi il diametro del nucleo si contrae da circa metà del raggio terrestre (3000 km) a poco più di 10 km. L’onda d’urto prodotta si propaga in circa due ore attraverso gli strati esterni della stella e, quando raggiunge la superficie, la stella esplode. Tutto il materiale di cui è composta la parte esterna della stella viene proiettato nello spazio circostante con una velocità approssimativa di 15000 km/s, lasciando come residuo il nucleo di neutroni che, a seconda della massa, può rimanere una stella di neutroni (pulsar) o diventare un buco nero

http://www.lngs.infn.it/lngs_infn/index.htm?mainRecord=http://www.lngs.infn.it/lngs_infn/contents/lngs_it/public/educational/physics/supernova/

Succederà. Uno choc petrolifero (crisi nel Golfo Persico), la morte di una banca zombie troppo grande per essere salvata (con effetto domino sulle altre), il tentativo di riprendere il controllo delle armi automatiche, pogrom antisemiti, una nuova recessione, un crack di Wall Street, prolungate proteste di massa con repressione e reazioni violente di una popolazione armata fino ai denti, un attentato terroristico, il collasso dell’eurozona: ormai le concause possono essere numerose.

Brzezinski queste cose le sa.

È un uomo straordinariamente intelligente, è spiritoso, è un padre amorevole. Ha fatto tutto quel che era in suo potere per scongiurare una terza guerra mondiale (conseguenza di un attacco all’Iran); ha condannato le politiche inique ed austeriste del Nord Europa, consigliando ad Obama di contrastarle in ogni modo negli Stati Uniti; ha promosso la nascita di una Palestina indipendente ed un serio processo di pace nel Medio Oriente. Per questo è diventato il bersaglio del livore dei neocon statunitensi e dei nazionalisti israeliani.

Brzezinski è troppo lucido e disciplinato per essere un neocon: sa che senza la carota il bastone può produrre un effetto boomerang.

È uno scacchista e il mondo per lui è una scacchiera. Ci sono giocatori e ci sono pedine. Qualcuno vince, qualcuno perde, qualcuno è sacrificato. Così è sempre stato e sempre sarà.

Brzezinski non tollera l’idea di un pianeta in cui non esista una potenza leader (o un direttorio) che stabilizzi i rapporti internazionali, l’idea di una governance globale DEMOCRATICA in cui il Terzo Mondo possa avere lo stesso peso delle potenze maggiori e in cui si possano mettere a tacere le oligarchie finanziarie.

Sa che l’America è stata quasi incessantemente una forza destabilizzante, anche laddove – conflitto arabo-israeliano – era nel suo interesse evitare che Israele facesse il passo più lungo della gamba (per non parlare di Iran, Pachistan, America Latina, Sud Est asiatico, Mediterraneo, ecc.).

La proliferazione di basi americane in tutto il mondo, anche a poche centinaia di chilometri dai confini russi e cinesi non è un fattore di stabilizzazione.

Sa perfettamente che, come l’impero britannico, anche quello NATO si pone come “indispensabile mediatore” solo per interferire negli affari interni di altri stati ed è perciò nel suo interesse impedire in ogni modo che nel mondo prevalga la diplomazia, la cooperazione, la concordia (divide et impera).

Obama non è meno imperialista di Bush, è solo molto più “smart”.

Di questo occorre tener conto quando si leggono i numerosi pareri condivisibili di Brzezinski.

Fa tutto parte di un calcolo costi-benefici che ha come obiettivo quello di fare in modo che Obama impari dagli errori di Gorbaciov nel gestire il declino del modello statunitense (soft landing). La parola-chiave è coordinamento (controllo indiretto): un Nobel per la Pace usa i droni, non i bombardieri; usa le truppe dei vassalli, non le sue (es. Libia, Mali, Siria, Somalia).

Si sfruttano come vassalli le ex potenze coloniali ora inserite nella NATO per conservare il predominio (low cost): Regno Unito, Francia e Turchia in Africa e Medio Oriente [Sarkozy ha inaugurato una base aeronavale francese negli Emirati Arabi Uniti, a poche decine di chilometri dall’Iran, nel 2009, lo stesso anno in cui ha imposto alla Francia l’adesione alla NATO], Polonia nell’Europa orientale (nella speranza che la Russia imploda).

Però le cose non vanno sempre per il verso giusto. Israele è ormai una mina vagante.

La Germania in Europa, il Giappone nell’Estremo Oriente e l’Italia nel Mediterraneo hanno occasionalmente lasciato intendere che sono più che pronti ad operare in una prospettiva post-NATO (es. http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-09-06/putin-inaugura-gasdotto-north-165827.shtml?uuid=AaKyb31D).

La Francia pre-Sarkozy era una nazione sovrana e quasi certamente tornerà ad esserlo negli anni a venire.

I BRICS hanno sfidato la volontà di Washington senza subire alcuna conseguenza significativa.

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https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/06/12/atlantide-contro-eurasia-la-principale-causa-della-terza-guerra-mondiale/

Il Pachistan non desidera altro che liberarsi dalla presenza americana e dalla costante minaccia di una sua disgregazione (con il nord che se ne va per conto suo e finisce nell’orbita americana).

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/08/05/il-voto-sulla-siria-spacca-lonu-e-contrappone-nato-e-brics-nigeria-e-pakistan/

Insomma, le cose volgono al peggio, per i nemici dell’America come doveva essere.

Ecco la reazione di Brzezinski, al crepuscolo dell’impero.

Zbignew Brzezinski, primavera 2012

0:50 – il ventunesimo secolo sarà o il secolo più di successo su scala globale, oppure il peggior secolo nella storia umana

2:30 – la NATO è ancora importante e ancora necessaria ma deve dotarsi di una visione di politica globale.

5:00 – la storia del mondo si snoda nel continente eurasiatico. Là, oggigiorno, ogni conflitto regionale ha una portata globale.

6:30 – non è da escludere che l’Asia del ventunesimo secolo possa replicare la tragica storia dell’Europa del ventesimo secolo.

8:50 – gli Stati Uniti non devono lasciarsi coinvolgere in nessun conflitto asiatico sul continente (Giappone, Corea e Taiwan restano però strategici). Gli USA devono limitarsi a fare quel che ha fatto il Regno Unito nel diciottesimo secolo con l’Europa: fungere da equilibratori, mediatori.

9:30 – USA devono impegnarsi in un’opera di riconciliazione tra Giappone e Cina

10 – la Cina può essere un junior partner degli USA nella stabilizzazione del mondo: un conflitto tra le due potenze le distruggerebbe entrambe

11 – Gli USA sono i guardiani d’Europa, ma l’Europa deve svolgere un ruolo attivo nella stabilizzazione dell’Oriente (perché è nell’interesse di tutti)

13:44 – Perché ciò avvenga è indispensabile che Turchia e Russia entrino a far parte dell’Occidente

15 – Ataturk ha avuto successo laddove Lenin ha fallito

18 – la Turchia è un modello per il futuro sviluppo dell’Iran

21 – l’Unione Europea evolverà, sviluppando verosimilmente un nucleo centrale federale circondato da una periferia meno vincolata e da satelliti collegati in qualche forma all’UE, tra i quali certamente la Turchia, il tutto all’interno della comunità euro-atlantica (leggi: Europa vassallo del Nordamerica)

22 – L’Unione Europea era più “unione” quando era una comunità (CEE): ora è attraversata da fratture (chissà come mai!?)

26 – la Turchia può essere un modello di sviluppo per la Russia (arriva a dire che i turisti russi in Turchia si domanderanno perché il loro paese non possa essere più simile alla Turchia!)

31 – non è che gli Stati Uniti sono in declino, è che altre potenze si sviluppano più rapidamente, ma non è detto che possano conservare quel tasso di crescita

32 – gli USA possono migliorare la propria situazione solo risolvendo alcuni problemi strutturali e questo può accadere solo con un élite più lucida di quella attuale (segue allusione al fatto che una vittoria di Romney sarebbe disastrosa)

34 – l’Europa non sta decadendo. È significativo che sempre più statisti dicano che serve maggiore integrazione e una crescita che sia socialmente responsabile e non finalizzata unicamente alla massimizzazione del profitto

36 – se fossi un turco e vedessi da una parte l’Iran ed un Medio Oriente in subbuglio, dall’altra la Russia e da un’altra parte ancora l’Europa e gli Stati Uniti, vorrei avere questi ultimi come amici

46 – se la Turchia decidesse di intervenire in Siria, non sarebbe lasciata sola. Francia e Regno Unito (non li nomina ma vi allude) la assisterebbero (ma non gli USA, non direttamente). MA, data la sensitività e complessità della situazione, sarebbe meglio evitare di farsi coinvolgere in un’escalation voluta da forze esterne all’alleanza NATO (Arabia Saudita+Qatar? Israele?) in modo da evitare un coinvolgimento dell’Iran

55 – South Stream (progetto italo-russo) ignorato, Nabucco (progetto americano) strada giusta

http://temi.repubblica.it/limes/nabucco-vs-south-stream/6899

1:03 – il cambiamento climatico può essere realmente catastrofico per l’umanità ma non ci sono ancora risposte definitive. Altre minacce del ventunesimo secolo potrebbero essere la diffusione di malattie sconosciute, sommosse, guerre che impieghino armi di distruzione di massa. Queste sono minacce che non possono essere affrontate con il voto alle Nazioni Unite (B. odia le Nazioni Unite ma anche l’Unione Europea: altrimenti non ci sarebbero in giro molluschi come Van Rompuy e Ban Ki-Moon), ma solo attraverso la collaborazione delle grandi potenze.

https://www.youtube.com/watch?v=tTku4KZff3Q

Zbignew Brzezinski, estate 2012

La Russia si democratizzerà, ma solo dopo una parentesi nefasta (12:43)

Qualunque guerra nell’Estremo Oriente sarebbe disastrosa per gli Stati Uniti

Non ci sarà alcuna egemonia cinese fino alla metà del secolo (perché culturalmente gli USA hanno un appeal che i cinesi non possono avere)

Le disparità sociali negli Stati Uniti sono una gravissima minaccia

È necessario un ritiro delle forze americane dall’Afghanistan ma senza lasciare un paese destabilizzato

La questione siriana va risolta diplomaticamente, coinvolgendo l’Iran

L’invasione dell’Afghanistan era necessaria per distruggere Al-Qaeda

Se gli USA si fanno coinvolgere in una guerra in Iran tutte le crisi del Medio Oriente confluiranno in un’unica gigantesca crisi dal Mediterraneo all’India (15-16) – la strategia giusta è la stessa impiegata contro l’Unione Sovietica ed in ogni caso è evidente che una scelta tra strangolamento economico e umiliante capitolazione sarebbe irricevibile. L’Iran può continuare il suo legittimo programma atomico se monitorato seriamente. In ogni caso l’acquisizione da parte dell’Iran di una testata atomica non sarebbe la fine del mondo (19). La Corea del Nord ha testate atomiche, ma né la Corea del Sud né il Giappone strepitano perché gli Stati Uniti entrino in guerra contro il regime nordcoreano: si sentono ragionevolmente sicuri (21:30).

Un attacco israeliano all’Iran avrebbe effetti deleteri per i nostri soldati in Afghanistan, per i paesi del Golfo, per il prezzo del petrolio e quindi della benzina che è già fin troppo costosa per via della “tassa Netanyahu”, ossia il sovrapprezzo che le sue esternazioni hanno prodotto con la crescita dei premi di assicurazione sulle forniture petrolifere (23)

I palestinesi e gli israeliani non possono fare pace. I palestinesi sono troppo deboli e divisi e gli israeliani sono troppo forti, fiduciosi e politicamente frammentati. Solo gli Stati Uniti possono trovare e far accettare un compromesso ragionevole tra entrambe le parti che integri Israele nel Medio Oriente e trasformi Palestina e Israele, nel giro di una generazione, nella Singapore di quell’area: una fonte di innovazione (25).

Una guerra mondiale che coinvolga Cina e Stati Uniti per il controllo del mondo sarebbe troppo costosa per entrambe le parti, quindi è altamente improbabile che si verifichi. È necessario che gli uni non demonizzino gli altri e che si trovi una formula che permetta alle potenze di coesistere (32).

L’opinione pubblica è troppo ignorante di storia e geografia per rispondere intelligentemente alle sollecitazioni del presidente e spiana la strada ai demagoghi (34). La responsabilità è sia del sistema educativo, che non insegna la geografia e la storia mondiale, sia dei media che sono troppo superficiali.

La Siria non è la Libia, Assad non è Gheddafi: la situazione è molto più complicata di come l’hanno presentata i media (40).

Nel breve periodo le nostre relazioni con la Russia si deterioreranno per colpa di Putin, nel lungo periodo il suo regime è condannato e si protrarrà a lungo La stagnazione e decadenza saranno intollerabili per i Russi. La società civile cosmopolita è più ricettiva ed è il nostro obiettivo, se vogliamo costruire una comunità euro atlantica che sappia gestire i più vasti conflitti globali.

Nella società iraniana le donne hanno un ruolo molto più importante di quel che si tende a credere e sono loro che riusciranno a scindere il nazionalismo dal fondamentalismo. Ma una politica di contrapposizione con il governo iraniano può solo rafforzare quel legame.

L’America Latina è di importanza relativa nelle questioni internazionali del nostro tempo (43).

L’India è estremamente a rischio a causa dell’alto tasso di analfabetismo, del carattere aristocratico della sua pseudo-democrazia e dell’eterogeneità della sua popolazione (45).

L’intelligence statunitense non ha saputo prevedere la primavera araba come non l’ha saputa prevedere Mubarak, che era sul posto. Certi eventi sono il prodotto di incontrollabili concatenazioni di variabili (50)

COMMISSIONE TRILATERALE: è diventata sempre meno efficace. È prestigiosa, ma poco influente (54).

È una vergogna che nessun dirigente del mondo finanziario sia stato punito per delle azioni che possono essere definite delle truffe. È stata una grave mancanza da parte di Obama (59).

Il prossimo presidente dovrà occuparsi della giustizia sociale, perché non c’è democrazia con certi livelli di sperequazione

https://www.youtube.com/watch?v=Z7GDu1hqLPw

Zbigniew Brzezinski “The Role of the West in the Complex Post-Hegemonic World, autunno 2012

13:00 – crescente distanza tra burocrati cinesi e forze armate nazionaliste, ma anche tra dirigenza e giovane borghesia rampante

14:30 – la Russia di Putin è imperialista e vuole assorbire l’Ucraina ma il declino demografico la rende vulnerabile in oriente (minaccia cinese: Brzezinski ha sempre cercato di mettere Russia e Cina l’una contro l’altra, fin dai tempi della Guerra Fredda – la cosa sta diventando alquanto patetica). Le violenze caucasiche faranno fallire i giochi olimpici invernali di Sochi e il fondamentalismo islamico rischia di destabilizzare le sue regioni meridionali (Brzezinski è polacco, non ama la Russia, per usare un eufemismo – qui si rivolge ad un pubblico polacco, a Danzica)

16:00 – sostiene che la CEE (più piccola) era più coesa dell’UE (molto più grande) – il che è certamente vero – ma, “curiosamente”, consiglia all’UE di espandersi ulteriormente fino all’Ucraina

17:00 – il Giappone dovrebbe farsi valere di più con la Russia nella disputa sull’isola di Sakhalin

23:00 – la Germania deve guidare l’Europa (il ruolo storico della Francia è solo quello di aver portato a questo risultato!)

27:00 – l’UE deve includere la Turchia perché solo così Georgia e Ucraina saranno difese dalle mire espansionistiche russe

28:00 – L’Unione Eurasiatica promossa da Mosca è solo un trucco per ristabilire l’impero sovietico

http://it.wikipedia.org/wiki/Unione_eurasiatica

28:30 – una Russia inserita nell’Unione Europea sarebbe percepita come meno minacciosa per i suoi vicini, ma solo se subordinata alla NATO

https://www.youtube.com/watch?v=kO8eja6HSlo

Succinto trattatello sull’oligarchia

 

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L’oligarchia si fonda su un rapporto del genere “padrone-servo”.

L’oligarchia è sempre minacciata dalle masse per la semplice ragione che rappresenta una costante minaccia per la popolazione.

Gli oligarchi sono in lotta perpetua con chi sta sopra di loro e vuole depredarli, con chi sta al loro livello e vuole depredarli, con chi sta sotto di loro e vuole depredarli. Hanno sempre molto da perdere e quindi sono sempre sul chi vive.

Per questa ragione tendono a far fronte comune per minimizzare le minacce interne e concentrarsi su quelle esterne (il popolo).

Per sopravvivere, l’oligarchia cerca di dividere la popolazione in fazioni. L’unione fa la forza e le masse organizzate sarebbero invincibili. Per questo gli oligarchi disseminano entusiasticamente miti, arbitrarie divisioni sociali ed –ismi di ogni sorta, e con essi zizzania, rancori, sospetti, sfiducia, apatia.

Pertanto, gli oligarchi sono sempre all’offensiva: la miglior difesa è l’attacco. Sono inestinguibilmente avidi ed insicuri: per questo tendono, auto-distruttivamente, ad aggravare le disparità, fino a quando il sistema collassa. Quanto maggiore è la concentrazione di psicopatici tra i loro ranghi, tanto più rapida e disastrosa sarà la caduta.

L’oligarchia è un arbitrio che non dipende dalla prosperità di una società. Esiste nelle società povere ed in quelle ricche.

Non è interessata allo sviluppo tecnologico e scientifico se non ne può trarre vantaggio e addirittura lo ostacola se può mettere a repentaglio lo status quo.

L’oligarchia favorisce la scarsità (anche di informazione) e la crea laddove non c’è, perché in un regime di abbondanza (es. energia illimitata e virtualmente gratuita) perderebbe la sua rendita di posizione ed il suo semi-monopolio del potere: lo status quo sarebbe sovvertito. Austerità e decrescita sono quindi una panacea per gli oligarchi.

Lo 0,1% degli oligarchi necessita dell’appoggio del 5% dei ricchi non sufficientemente facoltosi da potere essere inclusi nella classe oligarchica. L’alleanza è facilitata dal comune interesse a difendere le proprie risorse e possibilmente accrescerle a spese del resto della società (ci sono comunque ricchi di buona volontà che non sono interessati a questo tipo di cospirazione e che perciò non accederanno mai ai piani alti delle oligarchie). Lo 0,1% difende gli interessi del 5% e il 5% incensa i membri dello 0,1% e li copre.

Due forze possono ostacolare i piani delle oligarchie: il potere esecutivo e l’insubordinazione delle masse. I governi godono di una legittimità che gli oligarchi non possiedono e possono promulgare leggi che riducono il loro arbitrio (es. Washington ed Hamilton, Lincoln, Roosevelt, de Gaulle, Olof Palme, Bruno Kreisky, Willy Brandt, Aldo Moro ed Enrico Berlinguer).

La disobbedienza civile deve perciò sempre venire DOPO un serio tentativo di conquistare il governo di una nazione. Per serio intendo una proposta di governo chiara, con proposte solide, pragmatiche e radicate nella tradizione riformista dei summenzionati statisti, non fumose visioni palingenetiche senza capo né coda che fanno affidamento sulla forza redentrice della democrazia diretta e della rete e glissano sulle questioni del lavoro, dell’economia e dei rapporti internazionali (chi ha orecchie per intendere…).

La secessione dal genere umano

Padania

La vita è essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione di tutto quanto è estraneo e più debole, oppressione, durezza, imposizione di forme proprie, un incorporare o per lo meno, nel più temperato dei casi, uno sfruttare. […]. Lo “sfruttamento” non compete a una società guasta oppure imperfetta e primitiva: esso concerne l’essenza del vivente, in quanto fondamentale funzione organica, è una conseguenza di quella caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita

F. Nietzsche, “Al di là del bene e del male”

Non potete servire a Dio e a Mammona

Matteo 6, 24; Luca 16, 13

“Divided We Stand: Why Inequality Keeps Rising” (OECD, 2010) indica che le disuguaglianze stanno accrescendosi rapidamente e drammaticamente. Mentre nei paesi BRICS è stabile o diminuisce grazie all’impetuosa crescita economica, in Occidente la tendenza è inversa, con aumenti registrati in 17 paesi OECD su 22, per almeno un 4% nel giro di una generazione in Finlandia, Germania, Israele, Lussemburgo, Nuova Zelanda, Svezia e Stati Uniti. Uno studio di ricercatori delle università di Warwick, Belfast ed Exeter (“British Economic Growth, 1270-1870”, 2010) ha mostrato che gli abitanti delle isole britanniche nell’epoca medievale se la passavano molto meglio dei cittadini dello Zaire, Burundi, Niger, Togo, Guinea e Guinea Bissau, Haiti, Sierra Leone, Ciad, Zimbabwe, Afghanistan. Un’altra ricerca (Santos et al. 2007) rivela che nell’Ungheria medievale c’erano minori disparità sociali che nel Regno Unito pre-crisi (figuriamoci ora!). Oggi i super-ricchi hanno a disposizione i paradisi fiscali per evitare di condividere la loro abbondanza e, stando alle statistiche fiscali statunitensi, meno del 4% dei super-ricchi americani è un imprenditore, ossia contribuisce in modo sostanziale all’economia reale. Quel che sta avvenendo è la progressiva secessione di una minuscola porzione del genere umano dal resto della specie: in luogo dei castelli di un tempo gli “eletti” risiedono in quartieri residenziali fortificati e video sorvegliati da vigilanti armati, oppure persino su isole di loro proprietà.

Con una fulminante intuizione, Gustavo Zagrebelsky (Zagrebelsky, Mauro 2011) domanda al direttore della Repubblica:

“Non ti pare che si stia creando una distanza persino nella conformazione fisica esteriore tra una super e una infra-umanità? Non è razzismo, perché attraversa tutte le popolazioni d’ogni colore. Ha invece qualcosa di nietzscheano. La ricchezza e la povertà, con l’accesso o l’esclusione a cure, trapianti, trattamenti d’ogni genere, mai forse come ora – o comunque mai visibilmente come ora – si trasformano in differenze di corpi e di prospettive di vita- […]. Possiamo parlare ancora di “umanità”, al singolare? Un orrore che non ha nemmeno lontanamente a che vedere con la differenza di vita esistente un tempo tra un proletario e un borghese nelle nostre società. La stirpe umana si sta dividendo tra un sopra e un sotto biologico, come conseguenza d’un sopra-sotto sociale, e questa divisione è a tutti evidente. […]. E vuoi che prima o poi questa tensione, una volta che l’ideologia si congiunga con la tecnologia della violenza in una dimensione mondiale, non possa raggiungere un punto di rottura in grado di provocare la catastrofe?” (p. 42)

Contemporaneamente i social network e i forum dei quotidiani cominciano ad essere frequentati da persone che invece di usare la lingua come un ponte verso il mondo, la usano come un muro, con un portoncino blindato che si apre solo per i loro “simili”. Così ci sono veneti che nei forum italiani scrivono esclusivamente in veneto quando si parla di questioni venete, specialmente se sono legate alle spinte separatiste. Certi sudtirolesi usano il loro dialetto anche se alla discussione partecipano persone che capiscono solo il tedesco. I separatisti catalani usano la loro lingua sui forum dei quotidiani inglesi (mentre i loro critici spagnoli si sforzano di scrivere in inglese). Trovo tutto questo desolante e la ritengo una condotta di una piccineria spaventosa. Pare che sia sommamente difficile per alcuni capire che bisogna stare uniti per resistere ad un sistema che sta usando l’indebitamento per privatizzare i beni comuni e minare alle fondamenta le tutele dei diritti civili e fondamentali, avvalendosi della classica strategia del divide et impera. Questa stolidità ed ignoranza rischia di portarci a fondo.

L’errore che si commette è quello di considerare l’autodeterminazione di un gruppo umano come un valore assoluto e positivo. Ma l’autodeterminazione delle oligarchie finanziarie (deregulation – la chiamano “semplificazione” ma tra i ricchi e i poveri, tra i forti e i deboli la legge dovrebbe proteggere i secondi, l’anarchia avvantaggia sempre i primi) non è certo un passo in avanti per la civiltà umana, l’autodeterminazione dei ricchi che optano per i paradisi fiscali e le cosiddette “gated communities” (quartieri fortificati) perché non vogliono contribuire ad una vita decorosa per i meno abbienti né vogliono subire le conseguenze del loro egoismo non è una cosa buona. L’autodeterminazione della Germania e del Nord Europa dal resto del continente, come se la distruzione del potere d’acquisto degli altri europei non comportasse devastanti conseguenze per le loro economie è suicida, come lo è l’autodeterminazione di una regione del nord dalle altre perché si ritiene depauperata, non rendendosi conto che il sistema economico vigente la trasformerà nel giro di una generazione nel sud sfruttato di qualcun altro. La chiamano autodeterminazione ma è egoismo individualista e collettivista. Non siamo monadi autarchiche, ma esseri viventi interdipendenti, interconnessi che viaggiano sulla stessa barca: gettare fuori bordo la “zavorra” rende la scialuppa stessa indegna di restare a galla.

L’autodeterminazione delle persone che si continuano a considerare interdipendenti (autonomia, individualità democratica) è invece un approccio più saggio. È l’individuazione come salutare processo di maturazione spirituale e civile.

Alto Adige, Baviera, Catalogna, Veneto, Parco della Vittoria, Viale dei Giardini – il Vaso di Pandora dei separatismi

Le qualifiche necessarie per sedere al tavolo globale e attrarre soluzioni globali finiranno progressivamente per coincidere non più con i confini politici che separano artificiosamente i Paesi, ma con unità geografiche più focalizzate […], in pratica le aree dove si svolge il vero lavoro e dove fioriscono i veri mercati. Ho chiamato queste unità “Stati-regione”…eccellenti porti d’entrata per l’economia globale, poiché tendono a formarsi proprio in base ai criteri dettati da quell’economia…debbono essere abbastanza piccoli da consentire ai loro abitanti di condividere gli stessi interessi in quanto consumatori e, nello stesso tempo, sufficientemente estesi da giustificare non tanto economie di scala (ottenibili a partire da una base di qualunque entità, tramite esportazioni verso il resto del mondo) quanto economie di servizio – ossia, le infrastrutture rappresentate dalle comunicazioni, dai trasporti e dai servizi professionali indispensabili per partecipare all’economia globale.

Kenichi Ohmae, economista neoliberista [“lasciate fare ai mercati e tutto si sistemerà”], “La fine dello Stato-nazione”, 1996

Ma come si è mai potuto pensare che l’ideale di una vita riuscita fosse l’indipendenza totale, ossia l’assenza di ogni obbligo e di ogni attaccamento, non soltanto verso Dio ma anche verso gli uomini? La libertà illimitata, infatti, non può essere un ideale dell’esistenza umana – del resto, non ne è nemmeno il punto di partenza.

Tzvetan Todorov, I nemici intimi della democrazia, 2012, pp. 132-133

L’indipendenza è una via percorribile e seria per un paese europeo nel XXI secolo? E poi con che fine e con che programma? Uscire dalla Spagna per rientrare come paese indipendente nell’UE migliorerebbe la situazione economica del popolo catalano? Il rebus, come si diceva all’inizio, non è di facile soluzione. E la classe politica catalana, al pari di quella spagnola, sta dimostrando di non averla trovata e nemmeno pensata questa soluzione, se non con le solite risposte unilaterali, semplicistiche e di corte vedute, fautrici, come la storia ci ha dimostrato, solo di più grandi sciagure. In una crisi senza precedenti come quella attuale, la soluzione si deve trovare insieme, non con la secessione, ma con la solidarietà reciproca

Steven Forti, Catalogna: nuovo Stato d’Europa?

http://www.politicaresponsabile.it/pensiero/853/catalogna-nuovo-stato-deuropa.html

Fino a qualche mese fa i sondaggi gli promettevano al leader di Convergenza e Unione (CiU) e presidente in carica, Artur Mas, almeno 68 seggi su 135, invece è sceso a 50 (contro i 62 conquistati nel 2010). Il presidente della regione catalana conferma che il referendum si farà “nei tempi previsti”, ma è difficile pensare che CiU riuscirà a governare in modo stabile con le formazioni indipendentiste di sinistra ed ecologiste che si sono opposte nel biennio precedente alle politiche economiche dell’attuale leadership.

http://www.ilfoglio.it/soloqui/15910

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Il congresso della Südtiroler Freiheit, il movimento politico di Eva Klotz, ha votato ieri all’unanimità la proposta di referendum per separare la minoranza sudtirolese dall’Italia. L’intenzione emersa dall’assemblea del partito che si è tenuta ad Appiano è quella di votare due mesi prima delle prossime elezioni provinciali, nell’autunno del 2013. Tre i quesiti: rimanere in Italia, ritornare in Austria o autodeterminarsi come stato libero del Sudtirolo. Il referendum, è stato spiegato, sarà aperto «a tutti i cittadini con diritto al voto in Alto Adige». Circa trecento le persone presenti al congresso, tra cui anche esponenti di minoranze europee. La Südtiroler Freiheit aderisce infatti ad una raccolta di firme a livello europeo per ottenere il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Intanto il portavoce della commissione del Parlamento austriaco per le questioni altoatesine, Hermann Gahr, ha respinto nel modo più assoluto l’istanza di uno Stato libero del Sudtirolo, come riportato dal giornale Tiroler Tageszeitung.

Via dall’Italia, sì al referendum, Alto Adige, 25 novembre 2012

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Convocato un consiglio straordinario il 28 novembre per votare sul referendum per l’indipendenza veneta. La mozione del consigliere di Unione Nordest, Mariangelo Foggiato verrà discussa e sta già raccogliendo consensi, anche tra “insospettabili”.

Oltre ai pareri favorevoli di Lega e Pdl, il consigliere vicentino, Stefano Fracasso, è l’unico del Pd ad aver sottoscritto la richiesta di convocazione. “E’ proprio nei momenti di crisi che lo sguardo va lanciato un po’ lontano” ha dichiarato a Il Gazzettino. Con lui il rappresentante di Rifondazione Comunista, Pietrangelo Pettenò: “Con le opportune modiche si può approvare, anche il referendum si può fare purché non sia demagogia: lasciare l’Italia è fuori discussione, insistere sull’autodeterminazione del popolo veneto è doveroso – ha dichiarato, aggiungendo una frecciata ai colleghi di Fracasso – Quelli del Pd sono i più statalisti. Devono occupare lo stato per governarlo anche a costo di restringere spazi di democrazia: il governo Monti è il governo di Napolitano e del Pd, mica di Berlusconi”.

Resta solo da vedere se l’iniziativa sarà dichiarata inammissibile per motivi di incostituzionalità. La parola al consiglio veneto.

http://www.vicenzatoday.it/politica/indipendenza-veneto-referendum-stefano-fracasso.html

Referendum sull’indipendenza veneta, Zaia: “Voterei sì”

Domani in Consiglio regionale si discute sul referendum per l’indipendenza veneta proposto da Unione Nord Est e sostenuto trasversalmente.

„Se il voto fosse legale, come auspico, sulla scheda io segnerei si”’ anticipa Luca Zaia, presidente della giunta regionale, a proposito della discussione, domani, in Consiglio regionale, sulla proposta di un referendum sull’autonomia veneta, proposto da Mariangelo Foggiato di Unione Nordest“

”Sono per l’indipendenza perché il Veneto – spiega Zaia – ha determinati valori da tutelare e da promuovere e si sente senza dubbio piu’ vicino alla Baviera che alla Calabria”. Oltre ai pareri favorevoli di Lega e Pdl, il consigliere vicentino, Stefano Fracasso, è l’unico del Pd ad aver sottoscritto la richiesta di convocazione, mentre è entusiasta il consigliere di Rifondazione comunista, Pietrangelo Pettenò.“

http://www.vicenzatoday.it/politica/indipendenza-veneto-referendum-luca-zaia.html

‘L’autodeterminazione è il passaggio fondamentale per arrivare alla richiesta legittima di referendum per l’indipendenza. Referendum che si deve tenere rispettando le regole. Oggi non ci sono”. Lo ha detto il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, intervenendo all’assemblea regionale dove si sta discutendo del possibile referendum per l’indipendenza del Veneto. Zaia ha proposto la costituzione di un tavolo di ”autorevoli giuristi” per definire ”in maniera chiara” il percorso referendario ”affinché’ sia inquadrabile giuridicamente”. Un tavolo, ha precisato Zaia, a costi zero. ”Dopodiché’ ognuno deciderà secondo la propria coscienza”.

http://www.asca.it/newsregioni-Veneto__Zaia__prima_autodeterminazione__poi_referendum_indipendenza-1223785-.html

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La Baviera può farcela da sola … Der Spiegel ironizza, la FAZ prende la cosa sul serio, per la Merkel è un’altra grana, che si aggiunge alle tante che affliggono la sua coalizione. La Baviera vuole andarsene, o, almeno, c’è qualcuno – sempre di più –  che in Baviera vuole andarsene dalla Repubblica Federale Tedesca. La Germania è uno stato federale e in questo sistema la Baviera gode di particolari autonomie: Freistaat Bayern, libero stato di Baviera. Ha una sua costituzione e una lunga tradizione di autonomismo.  Ha un suo partito – la CSU – che è nella coalizione di governo ed è il più importante in Baviera. Ma oggi ai Bavaresi non basta più. Dal basso fioriscono le iniziative in cui si chiede di farla finita coi “Prussiani” e con un governo federale che sta svendendo il benessere bavarese ai poteri finanziari eurocratici. Così, anche nella CSU, che non vuole perdere il suo ruolo di rappresentanza territoriale, crescono le voci che invocano maggiore incisività nei rapporti con Berlino. Anche perché, in Baviera, guadagna sempre più consensi la Bayernpartei, partito politico apertamente separatista. Questo spiega perché sta diventando un best seller il libro pubblicato nello scorso mese di agosto dal giornalista Wilfried Schnargl: Bayern kann es auch allein, «La Baviera può farcela da sola», in cui il tema dell’indipendenza e della secessione sono trattati con toni che suonano di sfida aperta al sistema federale e al socialismo di stato della Merkel. Scharnagl ha avuto ruoli importanti nella CSU, come amico e consigliere di Franz Josef Strauss e come caporedattore del Bayernkurier. Il suo libro inizia con un appello ai suoi compatrioti: «è tempo ormai che la Baviera si sollevi!».

http://giuseppereguzzoni.blogspot.it/2012/09/se-la-baviera-se-ne-va.html

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La mia previsione? Scozia, Baviera e Corsica resteranno dove sono. La Scozia è solo uno specchietto per le allodole: gli Scozzesi vogliono più autonomia, non l’indipendenza; per questo Cameron ha approvato il referendum separatista al posto di quello sulla devolution. Sa di avere la vittoria in tasca.

Inoltre Alex Salmond, il leader dei nazionalisti scozzesi, è un ex consulente della Royal Bank of Scotland (famiglia Rothschild) per il settore petrolifero.

Germania, Regno Unito e Francia resteranno integri. I PIGS, invece, potrebbero essere fatti a pezzettini, per poi essere “privatizzati”. Il Belgio si spezzerà in 3 tronconi, con la parte germanofona e quella francofona assorbite da Germania e Francia e le Fiandre federate ai Paesi Bassi.

Qualcuno ha fatto notare che i movimenti separatisti europei – inclusi quelli in Jugoslavia e Cecoslovacchia hanno fatto il “salto di qualità” dopo l’unificazione tedesca. Il Movimento Lega Nord è nato il 4 dicembre 1989, poche settimane dopo la caduta del Muro di Berlino (forse con capitali bavaresi, cf. Saverio Vertone, “Padania e altre padanie: L’oro dal Reno? Finanza tedesca e Lega Nord”, Limes, (4), 1997, pp. 221-224)

Per approfondire:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/07/27/lucio-caracciolo-leuropa-e-finita-considerazioni-di-immenso-buon-senso-sulleuropa-sullitalia-e-su-altro-ancora/

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/07/20/bruno-luvera-tg1-rai-sulla-jugoslavizzazione-dellitalia-e-la-balcanizzazione-delleuropa/

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/07/17/il-corriere-della-sera-pubblica-un-inno-alla-jugoslavizzazione-dellitalia-perche/

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/10/23/la-geopolitica-dei-miti-etnici-la-morte-delleurozona-e-lavvento-dellimpero/

Se Romney vince siamo tutti nel guano

Anche se arriveranno con carta e penna [uno strano esercito, che non ha armi, ma solo carta e penna!] e avranno l’aspetto serio e pulito dei chierici, da questo segno li riconoscerete, dalla rovina e dal buio che portano; da masse di uomini devoti al Nulla, diventati schiavi senza un padrone.

“La ballata del cavallo bianco” di G.K. Chesterton (1911)

La Siria è strategica perché consente all’Iran l’accesso al mare

Mitt Romney, ottobre 2012

 Arriverà un momento in cui le banche falliranno e il destino della nazione e della Costituzione sarà appeso a un filo, allora un Cavallo Bianco – un mormone – apparirà per guidare l’America verso la grandezza.

Profezia di Joseph Smith, fondatore del Mormonismo (1843)

Sono convinto che arriverà una fase in cui ci dovremo interrogare sul nostro agire in base alla Costituzione e credo che saranno i seguaci dei Santi degli ultimi giorni ad offrire una risposta.

George Wilcken Romney, imprenditore e politico repubblicano, padre di Mitt Romney

Lo Utah è noto per essere la sede dei Mormoni e dell’Archivio dei Mormoni, una biblioteca genealogica situata in un deposito blindatissimo all’interno di una montagna a qualche decina di miglia a sud di Salt Lake City. Dovrebbe idealmente contenere gli alberi genealogici e i dati anagrafici (inclusa razza e censo) di tutti gli esseri umani. Nel 2007 Marco D’Eramo scriveva sul Manifesto (“Mormoni. Una caccia fino all’ultimo antenato”): “Nel 1959 l’immagazzinamento cominciò a diventare un problema. Si iniziarono a scavare 6 enormi gallerie nel granito delle montagne del Little Cottonwood Canyon, a 40 km da Salt Lake City, e nel 1963 furono inaugurati i Granite Mountain Record Vaults, abbastanza spaziosi da poter contenere l’equivalente di 25 milioni di volumi. Secondo il sito della Family History Library, la biblioteca include 2,4 milioni di registrazioni genealogiche, 742.000 microfiches, 310.000 libri, 4.500 periodici. Il database Ancestral File contiene più di 36 milioni di nomi collegati in famiglie. L’Indice genealogico internazionale registra 725 milioni di nomi. Complessivamente il database contiene più di 2 miliardi di nomi, la maggior parte vissuta prima del 1930. In questo momento 200 macchine fotografiche in 45 paesi stanno microfilmando archivi”

http://www.feltrinellieditore.it/FattiLibriInterna?id_fatto=9176

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/21/utah-2013-dal-grande-fratello-allimmenso-fratello/

C’è un 47 per cento di persone che voteranno per il presidente in qualsiasi caso. C’è un 47 per cento di persone che stanno dalla sua parte perché dipendono dal governo, perché si ritengono delle vittime, perché credono che il governo abbia la responsabilità di occuparsi di loro, che credono di avere il diritto a copertura sanitaria, cibo, casa, qualsiasi cosa. Che sia un diritto e che il governo dovrebbe fornirgli tutto. E loro voteranno questo presidente in qualsiasi caso… questa è gente che non paga le imposte sul reddito da lavoro. […] Quello che io devo fare è non preoccuparmi di queste persone. Non le convincerò mai che dovrebbero prendersi la responsabilità di pensare alle proprie vite.

Mitt Romney

http://www.ilpost.it/2012/09/18/video-segreti-romney/

Se avessi genitori messicani, avrei più possibilità di vincere. […]. Stiamo avendo problemi con il sostegno degli elettori ispanici, e se gli ispanici votano in blocco i democratici come avviene già con gli afroamericani, siamo nei guai come partito e come nazione.

http://www.ilpost.it/2012/09/18/video-segreti-romney/

Qualche anno fa con l’auto carica di bagagli e pargoli ha legato il cane Seamus sul tetto della macchina e ha guidato da Boston al Canada senza battere ciglio, neppure quando il povero Seamus non si è sentito bene [dissenteria da trauma, NdR]. Si è semplicemente fermato a una stazione di servizio, lo ha aiutato [lo ha sciacquato con una pompa] e dopo averlo risistemato sul portapacchi è tornato al volante, come hanno raccontato i giornalisti Michael Kranish e Scott Helman nel loro recente libro: “The Real Mitt”.

http://www.linkiesta.it/romney-primarie-michigan#ixzz2B4ZZwuRK

Il tema dei redditi e delle finanze di Romney è delicato: Obama gli ha chiesto di fare chiarezza sul suo ruolo nel fondo Bain Capital, dopo un’inchiesta pubblicata dal Boston Globe. Secondo il quotidiano americano ci sarebbero dei documenti della Commissione Titoli e Scambi (SEC) conservati dalla Bain Capital e una dichiarazione dei redditi (la FDS, una dichiarazione dei redditi obbligatoria per chi ricopre incarichi pubblici) firmati da Mitt Romney nel 2002. Questo confermerebbe che «all’epoca risultava ancora azionista unico, presidente e CEO della Bain Capital». Se Romney dopo il 1999 era ancora proprietario del 100% di Bain Capital (lui sostiene che ne sia uscito allora), Obama ipotizza che sia stato quindi lui a ordinare l’acquisto di una serie di aziende americane in difficoltà e averle portate in bancarotta e vendendone dei pezzi per fare profitti, licenziando tantissime persone.

http://www.ilpost.it/2012/07/18/le-tasse-di-romney/

 

In Michigan, uno Stato in cui nonostante la ripresa dell’industria automobilistica il 9.3% della popolazione è ancora disoccupata, una casa su 354 è pignorata e il 14.4% della gente sopravvive sotto il livello di povertà, venerdì scorso Romney in un comizio ha dichiarato: «Mi fa piacere constatare che la maggior parte della macchine che vedo i giro sono prodotte a Detroit. Io ho una Mustang e un Chevrolet pick-up. Mia moglie Ann guida un paio di Cadillac». Poi in un successivo intervento sulla Cnn a chi gli chiedeva se non si era pentito di quel commento a fronte di una situazione economica difficile per molti americani, Romney ha chiarito: «Certo, non sono perfetto, sono quello che sono, e riguardo alle macchine (le Cadillac), di cui si è già discusso lo scorso settembre, beh ne abbiamo una in California e una a Boston. Chi pensa sia sbagliato avere successo, voti qualcun altro, io sono uno che ha fatto fortuna».

http://www.linkiesta.it/romney-primarie-michigan#ixzz2B4ZE9C00

I Repubblicani negli Stati Uniti sono un partito che, in Italia, sarebbe alla destra della Lega Nord e in Grecia appena più a sinistra di Alba Dorata.

Mitt Romney è poco meno incompetente di Sarah Palin, disprezza gli animali, le donne

http://www.gqitalia.it/viral-news/articles/2012/ottobre/le-gaffe-di-romney-e-dei-repubblicani-contro-donne-fascicoli-sesso-e-stupro

http://video.corriere.it/gaffe-romney-donne-/af6e2132-1847-11e2-a20d-0e1ab53dafde

i poveri, i non-bianchi.

Ha dichiarato che considera la Russia il nemico principale (da bravo Mormone: si veda sotto al profezia del Cavallo Bianco) e che contro questo avversario dimostrerà di avere più spina dorsale di Obama:

http://www.washingtonpost.com/world/europe/romney-at-least-hes-direct-says-putin/2012/09/17/99435c2c-0188-11e2-9367-4e1bafb958db_story.html

È amico personale di Netanyahu, col quale è stato collega di lavoro (consulenti finanziari) alla Boston Consulting Group negli anni Settanta

http://www.nytimes.com/2012/04/08/us/politics/mitt-romney-and-benjamin-netanyahu-are-old-friends.html?pagewanted=all

È nemico di tutto ciò per cui ci siamo battuti nei secoli: costituzionalismo e diritti universali, laicità, stato sociale, pace, giustizia sociale, diritto internazionale, ecc.

Paul Ryan è il beniamino dei fondamentalisti cristiani ma anche di molti militanti del Tea Party, in quanto grande ammiratore di Ayn Rand

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/06/10/tea-party-il-totalitarismo-anarchico-alla-conquista-degli-stati-uniti/

I Mormoni sono in degna compagnia.

Senatore Pryor: “Gesù non è venuto per prendere le parti di qualcuno, ma per prendersi tutto”.
Consiglio di Doug Coe (leader): “più invisibile è l’organizzazione, più influenza eserciterà”.

http://fanuessays.blogspot.it/2011/10/fascismo-cristianista-il-quarto-reich.html

The Family è lo sponsor di Kony 2012

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/12/kony-2012-la-stucchevole-pornografia-umanitaria-i-bambini-pensate-ai-bambini/

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/25/la-tirannia-umanitaria-e-i-falsi-profeti-cosa-ci-ha-insegnato-kony-2012/

E poi, naturalmente ci sono i Dominionisti, con le loro migliaia di mercenari

http://fanuessays.blogspot.it/2011/11/dominio-mercenario.html

I MORMONI E I NERI, LE DONNE, LA PRIVACY

Molte sue teorie, nonostante fossero state presentate come cardini del credo mormone, furono soggette a variazioni dai successori del profeta.

Nel 1843, infatti, Joseph Smith aveva dichiarato che la poligamia era “nuova ed eterna alleanza”, vincolante per tutti coloro che desideravano una benedizione da parte di Dio. Del resto Orson Pratt proclamò che Gesù Cristo stesso era poligamo, che si era sposato a Cana di Galilea, che Maria e Marta erano sue mogli, e che da questi rapporti egli aveva avuto anche dei bambini. Nonostante questo avvertimento, il quarto presidente mormone Wilford Woodruff abolì questo comandamento.

Un cambiamento si verificò anche per quanto riguarda il problema razziale. I Mormoni infatti asserendo che l’oscuramento del colore della pelle sarebbe il risultato di una condanna divina, hanno permesso solo dal 1978 agli uomini di colore di accedere ai gradi del sacerdozio.

Intanto quella dei mormoni è una delle religioni che si espande più velocemente sul pianeta. Sono in possesso dei più sofisticati computer con i quali registrano tutti i morti della Terra che un giorno, dopo la resurrezione, dovranno evangelizzare e mentre continuano la diffusione del loro singolare messaggio, attendono il ritorno del Cristo in una particolare zona del Sinai che dicono hanno addirittura acquistato in occasione di un tale storico evento.

https://sites.google.com/site/illinguaggiodeglidei/religioni-nel-mondo/mormoni/i-mormoni

L’ORIGINE DELL’UMANITÀ SECONDO I MORMONI (SPIRITUALISMO MATERIALISTA)

Uno degli insegnamenti illuminanti, caratteristici del credo mormone, è quello dell’universalità della materia: tutto ciò che esiste è materia, anche se questa si presenta in diversi stadi che vanno dai più solidi ai più sottili.

Per cui, ogni volta che essi parlano di “spiriti”, non si riferiscono ad esseri assolutamente privi di materia, ma ad entità costituite di una materia più sottile che sfugge ai nostri sensi terrestri. Gli spiriti, infatti, secondo i Mormoni, abitano su dei pianeti con caratteristiche simili a quelle terrestri, lo stesso è per Dio.

In un testo canonico è detto, in maniera molto esplicita: “Il Padre ha un corpo in carne e ossa, altrettanto tangibile quanto quello dell’uomo“. Nel “Libro di Abrahamo” scritto dal “Profeta” troviamo addirittura delle indicazioni relative al pianeta sul quale Dio sembra risiedere. Esso si troverebbe nelle vicinanze di una stella chiamata Kolob.

Il Signore avrebbe spiegato ad Abrahamo che sul “pianeta” Kolob, il più grande dopo la “Creazione Celeste”, dimora di Dio, il tempo non scorrerebbe come sulla Terra, (esso sarebbe, infatti, relativo alla massa dei pianeti) e che un giorno, sul pianeta Kolob, equivarrebbe invece a mille anni terrestri.

Secondo la dottrina mormone la nostra esistenza prevede vari periodi che non iniziano con la vita sulla Terra. Infatti essi credono che tutte le cose, compresi gli uomini, siano state create prima in forma spirituale e poi trasformate in materia. È importante anche sottolineare che la parola “creazione” ha per i mormoni un significato ben diverso da quello che noi comunemente conosciamo. Infatti insegnano che tale termine indichi un atto di trasformazione, di organizzazione di una materia preesistente e non un “produrre dal nulla”.

Per quanto riguarda gli uomini, essi sarebbero stati generati da un rapporto avvenuto tra una coppia divina composta da Dio Padre e Sua moglie. Essi insegnano che tale credenza sarebbe il risultato di una deduzione logica, in quanto Dio non potrebbe essere definito vero Padre se non esistesse anche una Madre, e visto che le Scritture ci parlano di un Dio Padre, si può avere il diritto di sostenere che questo Padre abbia una moglie con la quale ha procreato gli uomini in forma spirituale.

https://sites.google.com/site/illinguaggiodeglidei/religioni-nel-mondo/mormoni/i-mormoni

LA PROFEZIA DEL CAVALLO BIANCO (maggio 1843)

[N.B. certe profezie sono importanti proprio perché certi uomini le vogliono far avverare]

SINTESI: Verrà il tempo in cui le banche di ogni nazione falliranno e solo due luoghi saranno sicuri per chi vorrà depositare il suo oro e tesori: il Cavallo Bianco e i forzieri inglesi. In America scoppierà una terribile rivoluzione, come non si è mai vista prima, il paese resterà senza governo ed accadrà ogni genere di atrocità. L’unico luogo che resterà pacifico saranno le Montagne Rocciose. È lì che si recheranno migliaia di persone in cerca di rifugio, da voi Mormoni. Sarete ammirati per la vostra organizzazione, ordine, unità.

L’Impero Turco sarà una delle prime nazioni a disgregarsi perché solo così il Verbo penetrerà nella Terra Santa.

Dio ha concentrato il sangue migliore in Gran Bretagna ed è lì che continuerà a risiedere il potere globale, perché solo così si impedirà alla Russia di usurparlo. L’Inghilterra e la Francia saranno unite contro la Russia.

Nel corso della rivoluzione l’Inghilterra resterà neutrale, finché questa non degenererà a tal punto che si sentirà in dovere di intervenire per porre fine al bagno di sangue. Assieme alla Francia, cercherà di assoggettare le altre nazioni, che saranno già frazionate (broken up) e gettate nel caos, prive di un governo responsabile.

I neri saranno alleati dell’Inghilterra, perché fu tra le prime nazioni ad abolire la schiavitù: equipaggiati con armi inglesi, le azioni del Cavallo Nero saranno terribili.

Nel frattempo il Cavallo Bianco avrà raccolto le sue forze e si ergerà a difesa della Costituzione, che è un dono di Dio. In quei giorni Dio instaurerà un regno che non sarà mai abbattuto e gli altri regni che non accettano il Vangelo saranno umiliati finché non lo faranno.

Inghilterra, Germania, Norvegia, Danimarca, Svezia, Paesi Bassi e Belgio possiedono una considerevole proporzione del sangue di Israele (= degli eletti, di Sion), sangue che dovrà essere riunito in sottomissione al regno di Dio. L’Inghilterra sarà l’ultimo dei regni a volersi arrendere, ma alla fine lo farà senza tentennamenti. I potenti si inchineranno a loro volta quando vedranno che potere esercita il Vangelo. Il Messia ritornerà tra il suo popolo e porterà le leggi di Sion, governando il suo popolo.

Le terre ad ovest delle Montagne Rocciose saranno invase dai Cinesi pagani se non si avrà l’accortezza di difenderle.

Ma la battaglia finale di Sion si avrà quando le Americhe riunite si scontreranno con i loro nemici, che saranno chiamati Gog e Magog e saranno guidati dallo zar della Russia. Il potere degli avversari sarà grande ma alla fine Sion trionferà.

http://beforeitsnews.com/prophecy/2012/07/mitt-romney-and-the-white-horse-prophecy-bank-failure-and-revolution-foreseen-2337835.html

 

IL DESTINO DELL’UMANITÀ SECONDO I MORMONI (GESÙ COME LEADER POLITICO)

I Mormoni attendono in questo periodo della storia dell’umanità il ritorno di Gesù Cristo sulla Terra. Oltre a diversi segni catastrofici ce ne saranno anche di quelli che invece porteranno gioia nel mondo. Uno di essi è la restaurazione del Vangelo avvenuta attraverso l’angelo Moroni quando diede le tavole a Joseph Smith. Interpretando un passo biblico (Ezechiele 37: 16-20) in maniera molto arbitraria, essi indicano la venuta alla luce del Libro di Mormon come un ulteriore segno del tempo che si è avvicinato.

La venuta del Cristo introdurrà un periodo di mille anni durante il quale egli regnerà sulla Terra. All’inizio di questo periodo di tempo, i giusti saranno portati ad incontrare Gesù alla Sua venuta che darà inizio al Regno millenario. Soltanto loro continueranno a vivere sulla Terra durante questo periodo. Durante il millennio i membri della Chiesa saranno incaricati di compiere due grandi opere: il lavoro di tempio e il lavoro missionario. Durante tale periodo la Terra tornerà come al tempo di Adamo ed Eva, Satana sarà legato e quindi regnerà la pace ovunque. Gesù Cristo si preoccuperà di guidare il governo politico del nostro pianeta utilizzando la collaborazione dei membri della Chiesa.

Sorgeranno quindi due capitali, una a Gerusalemme e l’altra in America (i Mormoni sostengono che l’Eden, il paradiso terrestre, in realtà si trovava nel Nord America). Le malattie e la morte spariranno, nuove rivelazioni saranno svelate e gli animali cominceranno a vivere in armonia con la natura e con gli uomini.

Con lo scadere del millennio e con il giudizio finale, avrà anche termine definitivamente la condizione di separazione dl corpo che gli spiriti hanno dovuto subire con la morte. Infatti alla fine del millennio sarà terminata la prima resurrezione, quella dei giusti, e avrà luogo anche la seconda resurrezione e così tutti i figli di Dio avranno di nuovo un corpo in carne e ossa.

NOTA BENE: lo spirititualismo materialista è antitetico al messaggio di Gesù il Cristo.

Gesù disse, “I cieli e la terra si apriranno al vostro cospetto, e chiunque è vivo per colui che vive non vedrà la morte.” Non dice Gesù, “Di quelli che hanno trovato se stessi, il mondo non è degno?” [Tommaso, 111 – nel vangelo c’è spesso l’espressione “colui che vive”]. “Stretta invece è la porta ed angusta la via che mena alla vita, e pochi son quelli che la trovano” [Matteo 7:14] / “Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la sua vita per amor mio, la troverà” [Matteo 16: 25] / “E se la tua mano ti fa intoppare, mozzala; meglio è per te entrar monco nella vita, che aver due mani e andartene nella geenna, nel fuoco inestinguibile” [Marco 9:43] / “In lei (la Parola, il Logos) era la vita; e la vita era la luce degli uomini” [Giovanni 1:4] / “In verità, in verità io vi dico: Chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha vita eterna; e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” [Giovanni 5:24] / eppure non volete venire a me per aver la vita! [Giovanni 5:40] / “E’ lo spirito quel che vivifica; la carne non giova nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita” [Giovanni 6, 63] / Il ladro non viene se non per rubare e ammazzare e distruggere; io son venuto perché abbian la vita e l’abbiano in abbondanza” [Giovanni 10, 10]/ Gesù le disse: Io son la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muoia, vivrà [Giovanni 11: 25] / “Chi ama la sua vita, la perde; e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà in vita eterna” [Giovanni 12: 25]/ “Perché ciò a cui la carne ha l’animo è morte, ma ciò a cui lo spirito ha l’animo, è vita e pace” [Romani 8:6].

http://fanuessays.blogspot.it/2011/10/idee-e-virtu-di-gesu-il-cristo-un.html

La geopolitica dei miti etnici – l’assassinio dell’Unione Europea e l’avvento dell’Impero

Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.

Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno.

PROLUSIONE

Sean Gervasi, La NATO in Jugoslavia. Perché? Praga, 13-14 gennaio 1996

Sean Gervasi, già consulente economico nell’amministrazione Kennedy – rassegnò le sue dimissioni come segno di protesta per la disastrosa tentata invasione di Cuba nel 1961, docente alla London School of Economics ed all’Università di Parigi- Vincennes, Consulente del Comitato delle Nazioni Unite sull’Apartheid

Nella visione tedesca, l’Europa in futuro sarà organizzata in cerchi concentrici intorno a un centro costituito dalla Germania [Europa a due o più velocità, NdR]. Il centro sarà la regione più sviluppata da tutti i punti di vista: sarà la più avanzata tecnologicamente e la più ricca; avrà i livelli salariali più alti e i redditi pro capite maggiori; si dedicherà esclusivamente alle attività economiche più profittevoli, quelle che la pongono in posizione di comando del sistema. La Germania si occuperà perciò di pianificazione industriale, progettazione, sviluppo tecnologico, ecc., di tutte le attività insomma di programmazione e coordinamento dell’economia delle altre regioni.

Via via che ci si allontana dal centro, i vari cerchi concentrici avranno livelli di sviluppo, ricchezza e redditi più bassi. L’anello immediatamente adiacente la Germania dovrebbe essere caratterizzato da molteplici attività produttive e di servizio ad elevato profitto e comprenderebbe parte della Gran Bretagna, la Francia, il Belgio, l’Olanda e l’Italia settentrionale. Il livello generale del reddito vi sarebbe alto, ma inferiore a quello tedesco. L’anello successivo comprenderebbe le parti più povera e dell’Europa occidentale e parti dell’Europa orientale, con alcune produzioni, assemblaggio, produzioni alimentari. I livelli stipendiali e salariali vi sarebbero considerevolmente più bassi che al centro.

Inutile dire che in questo schema la maggior parte delle regioni dell’Europa orientale apparterrebbero a un anello periferico. L’Europa orientale sarebbe tributaria del centro. Produrrebbe alcuni generi di merci, ma non primariamente per il proprio consumo. Una parte considerevole della produzione, con el materie prime e anche i generi alimentari, verrebbe destinata all’estero. Anche l’industria pagherebbe inoltre stipendi e salari bassi e il livello generale di stipendi e salari, e dunque dei redditi, sarebbe più basso che in passato.

Insomma, nel nuovo sistema integrato la maggior parte dell’Europa orientale sarà più povera di quanto non sarebbe stata se i paesi dell’Europa orientale avessero potuto decidere autonomamente quale tipo di sviluppo perseguire. Il solo sviluppo perseguibile in società esposte alla potente penetrazione del capitale estero e bloccate dalle regole del Fondo Monetario Internazionale è lo sviluppo dipendente.

Ciò vale anche per la Russia e gli altri paesi della Comunità degli Stati Indipendenti. Anch’essi diverrebbero tributari del centro e la Russia non avrebbe nessuna possibilità di perseguire una via di sviluppo indipendente. In Russia rimarranno beninteso alcune produzioni industriali, ma senza la minima possibilità di uno sviluppo industriale equilibrato, perché le priorità dello sviluppo saranno dettate sempre più dall’esterno. Le società occidentali, come dimostrano i dati sugli investimenti esteri, non hanno nessun interesse a promuovere lo sviluppo industriale della Russia.

La Germania dunque, coll’appoggio degli Stati Uniti, punta a una razionalizzazione capitalista di tutta l’economia europea intorno a un potente nucleo tedesco. La crescita e gli alti livelli di ricchezza del nucleo devono essere sostenuti dalle attività subordinate della periferia. La periferia deve produrre generi alimentari, materie prime e prodotti industriali per l’esportazione verso il nucleo e i mercati d’oltremare. L’Europa del futuro, se la si paragona all’Europa, tanto occidentale che orientale, degli anni ’80, dovrà essere ristrutturata da cima a fondo, con livelli di sviluppo sempre più bassi via via che ci si allontana dal centro tedesco.

Gran parte dell’Europa orientale e dell’ex Unione Sovietica è dunque destinata a rimanere un’area permanentemente arretrata o relativamente sottosviluppata. Realizzare la nuova divisione del lavoro in Europa significa vincolare per sempre queste regioni a una condizione di arretratezza economica”.

Questa è una lettura più realistica di quella di Giorgo Gattei, storico del pensiero economico all’Università di Bologna, che vede Germania e USA contrapposti (pur essendo parte della NATO):
https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/09/23/la-guerra-in-corso-tra-germania-e-usa-uninterpretazione-della-crisi-gattei-di-unibo/

Qui alcune conferme esterne alla lettura di Gervasi

http://fanuessays.blogspot.it/2011/11/si-puo-evitare-una-terza-guerra-civile.html

http://www.vanderbiltuniversitypress.com/books/333/first-do-no-harm

PREMESSA

La seguente interpretazione (che risale alla fine degli anni Novanta ma è utile a capire le dinamiche in corso) a mio avviso sconta il limite di non tenere nel giusto conto la necessità di precisare che, se questi scenari fossero anche solo in parte reali, contrastarli sarebbe prima di tutto nell’interesse della popolazione tedesca, che rischia seriamente di essere pugnalata alle spalle una terza volta da UNA PARTE della sua élite. Se si tralascia questo nodo cruciale, si finisce per scadere nella più vieta teutonofobia del popolo tedesco congenitamente afflitto da pulsioni espansionistiche ed egemoniche. Nell’ultima guerra sono morti più tedeschi che ebrei, perciò è importante aiutare i tedeschi a sabotare qualunque progetto di questo genere, per il loro e per il nostro bene. Lo stesso discorso si applica ai sudtirolesi che, abbagliati da certa retorica etnopopulista separatista, rischiano a loro volta, come ai tempi di Andreas Hofer, di diventare carne da cannone per finalità che neppure intravedono. Il libro “Contro i miti etnici. Alla ricerca di un Alto Adige diverso” è nato con quello spirito, con buona pace delle miopie di alcuni critici e della malafede di altri. Sarà, come sempre, la storia a stabilire chi sia stato dalla parte della maturazione civile, morale e spirituale delle persone e chi, più o meno consapevolmente, l’abbia ostacolata.

Articoli precedenti sul tema dell’etnofederalismo e della geopolitica delle identità.

Articoli precedenti sulla questione dell’Europa a due velocità, o a cerchi concentrici, il cavallo di battaglia di Wolfgang Schäuble, ministro delle Finanze della Germania e vero regista della deliberata malagestione della crisi dell’eurozona, nonché politico implicato in uno scandalo per un grosso finanziamento al partito da da parte di un industriale degli armamenti (di cui peraltro la sua pagina italiana di wikipedia non fa menzione).

TESTO

“In questi anni c’è stata una grave difficoltà nella comprensione della guerra nella vicina Jugoslavia [qui una mia rivisitazione di alcuni miti riguardanti quella guerra e qui sul Kosovo]. A sinistra si è spesso tralasciata l’analisi critica dei rapporti economici, per sostituirla con tematiche identitarie o con improbabili intellettualismi. Questa vicenda (non ancora terminata) ha dimostrato come la sinistra ed il pensiero democratico possano sfasciarsi completamente di fronte alla “questione nazionale”.

Appassionarsi ai “piccoli popoli oppressi” prescindendo completamente dai rapporti di classe, ad esempio la lotta tra le varie borghesie nazionali e quella detentrice del capitale monopolistico transnazionale, prescindendo dai cambiamenti macroeconomici, dalla storia, oppure richiamandosi ad episodi antichi o marginali a scapito di quelli attuali e significativi, spesso con lo scopo di inventare “radici di plastica” e motivi di identificazione per realtà “etniche” pompate artificialmente: si e’ visto che tutto questo non può che causare la completa deriva della teoria e della prassi.

[…]
Facciamo un esempio concreto: la “Gesellschaft für Bedrohte Völker” (GfBV, in Italia “Associazione per i Popoli Minacciati” – APM) è una “transnazionale” con centro in Germania, che si occupa della salvaguardia delle minoranze. Apparentemente si tratta di una organizzazione di sinistra. Dal suo sito WEB apprendiamo che essa ha una sezione in Bosnia, e che lavora con particolare zelo sui problemi del Kosovo e del Sangiaccato. La sezione sudtirolese, ad esempio – che è ovviamente distinta da quella italiana – ha gestito per anni la “cattedra di Germanistica” della “università parallela” di Pristina.
Non solo: essa si interessa anche ai popoli dei dintorni del Caucaso, compresi ceceni, tartari della Crimea, ed altri che a noi restano ancora pressoché sconosciuti, ma di cui gli storici specialisti conoscono l’appoggio fornito durante la II G. M. al progetto nazista di “Nuovo Ordine Europeo”.
Dulcis in fundo la GfBV è molto preoccupata per la maniera in cui vengono accolti in Germania gli “Aussiedler”, cioè gli appartenenti alle minoranze germaniche dell’Europa centro-orientale, e chiede che il governo faccia di più per la loro salvaguardia nei rispettivi paesi – che fino a 5-6 anni fa erano l’URSS, la Jugoslavia, eccetera, ed oggi sono insignificanti fantocci dell’imperialismo come Ucraina o Repubblica Ceca… D’altronde Tilman Zülch, fondatore e Presidente della GfBV, “è nato il 2 settembre 1939 a Deutsch-Libau (Sudeti)”, come è scritto nella sua biografia WEB: i Sudeti sono i territori
occidentali della Cecoslovacchia, al centro allora come oggi della disputa tra tedeschi e cechi. Il cerchio dunque si chiude.
In Italia il Comitato dei Garanti della APM annovera al suo interno il noto medievalista Franco Cardini, dichiaratamente di destra, ed un tale Sergio Salvi che ha recentemente pubblicato un libro dal titolo “L’Italia non esiste” (Camunia, Firenze 1996), nel quale viene dunque superata la celebre affermazione di Metternich (“L’Italia è soltanto un’espressione geografica”). L’APM ha rapporti con le riviste della “nuova” destra comunitarista-internazionalista (es. “Frontiere”) e, guarda caso, con i croati attraverso Sandro Damiani, giornalista fiumano, che gestisce la “Associazione Culturale Italia-Croazia”. La APM sottoscrive proclami per la “autodeterminazione del Kosovo” insieme a gruppi nonviolenti cattolici trovando spazio su pubblicazioni come “Il Manifesto” e “AlternativeEuropa”… Perché?
In effetti è almeno dagli anni ’80 che si è affermata una corrente di “antiimperialismo ingenuo”, a cavallo tra destra e sinistra. Inizialmente il discorso legava con la critica al socialismo reale (es: Afghanistan), oggi però gli “imperialismi” da scardinare sono un po’ tutti gli Stati che si vogliono prendere di mira.

Con la richiesta di una “Europa delle regioni” da parte di settori che con la sinistra non hanno mai avuto niente a che spartire è divenuto infine chiaro che la colorazione libertaria-ecologica-sociale di questi movimenti serve talvolta solamente come facciata. Tra danze bretoni ed amuleti celtici l’effettivo essere sociale degli individui si svilisce in comunità di stampo folkloristico: “Noi non vogliamo un’Europa d’un grigiore indistinto, ma bensì come un insieme di specificità nazionali e regionali” (Helmut Kohl):  si intende la parcellizzazione in frammenti territoriali al di sopra dei quali si erga il dominio unificatore del più forte.

UN PO’ DI STORIA

Sul numero 2/1995 del mensile marxista tedesco KONKRET appariva il primo di una serie di contributi di Walter von Goldenbach e Hans-Ruediger Minow, autori del libro “Deutschtum erwache!” (“Germanita’, sveglia! Spaccati di pangermanesimo visti dall’interno” – Dietz, Berlino). L’articolo, dal titolo “Saluti da Grosny”, esordiva nella seguente maniera:

«Al novero delle organizzazioni statali mascherate che fanno la politica estera tedesca pare appartenere una associazione particolarmente raffinata: La Unione Federalista dei Gruppi Etnici Europei>> [FUEV, vedi riquadro dopo la bibliografia]. La sua costituzione negli anni Venti avvenne ad opera di personaggi a cavallo tra ambienti governativi, fondazioni, mondo accademico e associazioni di tutela dei “tedeschi orientali”, le popolazioni di origine germanica stanziate nell’Europa Orientale, fino al Volga ed oltre. Secondo l’allora ministro degli Esteri Stresemann le necessità vitali della Germania erano “in contraddizione flagrante con la oggi ancora dominante tendenza (…) allo sviluppo degli Stati nazionali”:  << “Non esiste altra via d’uscita se non la rottura con le residue concezioni di Stato e di popolo“, affermarono gli emissari di Stresemann.  L’idea nata con le rivoluzioni americana e francese dello Stato nazionale sovrano, osservante i diritti umani, con i cittadini più diversi, apparterrebbe al passato (…) Il “popolo” [nel senso della nazionalità] sarebbe di valore più alto dello “Stato”: quello bretone, fiammingo o croato, il cui “diritto di natura” dovrebbe evertere lo Stato nazionale… ». Non è una idea originale: già su “Nazione e Stato – giornale tedesco per il problema delle minoranze in Europa”, nazionalsocialisti bellicosi sviluppavano la teoria del “Volk” che si erge al di sopra dello Stato. “Il Volk”, si leggeva nel 1932, “è una unità di sangue e di cultura”. Il “concetto di nazione [nel senso dello Stato nazionale moderno] è una conseguenza necessaria del mondo concettuale della democrazia, della conta meccanica nella moltitudine degli uguali, dell’individualismo e della rinunzia alla suddivisione dell’umanità per razza e per etnia. Tutto questo fa il servizio dell’ebraismo, che vuole uguaglianza dei diritti, sfruttamento e dominio“… >>
Nel 1936 il “Congresso delle Nazionalità” di Ginevra, riunione annuale della FUEV e di altre organizzazioni affini, si pronunciò per una “suddivisione” dell’Europa: “Il riconoscimento di una soggettività del “Volk” come base fondante dello sviluppo europeo non significa altro che tracciare i contorni di una nuova Europa”. Il serissimo relatore era uomo di fiducia dei servizi segreti nazionalsocialisti, impegnato proprio in quell’epoca contro lo Stato cecoslovacco. Mentre Adolf Hitler pianificava la creazione di uno “Stato” bretone, laddove la Borgogna sarebbe stata annessa al “Reich”, i “Congressi delle Nazionalità Europee” venivano sospesi: la trappola della politica estera tedesca si chiudeva di scatto.

L’idea di fondo però veniva portata avanti dall’apparato nazionalsocialista impegnato nella guerra di aggressione: in un documento riservato del 15/5/1940 il capo delle SS Himmler esprimeva la convinzione che “nel trattamento delle etnie straniere dell’Oriente dobbiamo vedere di riconoscere e di badare quanto più possibile alle singole popolazioni, vale a dire oltre ai Polacchi e gli Ebrei gli Ucraini, i Russi Bianchi, i Gorali, i Lemchi ed i Casciubi. Ed ovunque si trovino pure solo frammenti etnici, ebbene anche a quelli. Con questo voglio dire che noi non solo abbiamo il più grande interesse acché le popolazioni dell’Oriente non siano unite, ma che al contrario siano suddivise nel numero maggiore possibile di parti e di frammenti. Ma anche all’interno delle stesse popolazioni non abbiamo alcun interesse a portarle all’unità ed alla grandezza, a trasmettere loro forse pian piano una coscienza nazionale ed una cultura nazionale, bensì piuttosto a scioglierle in innumerevoli piccoli frammenti e particelle…” (1)

Già nell’introduzione di una “proposta di convenzione” che la FUEV fa oggi alle competenti istituzioni internazionali, si riconosce che “il Nuovo Ordine Europeo” si sarebbe realizzato già “dal 1990”, cosicché “la protezione dei gruppi etnici” ed una “regolamentazione valida in generale per le questioni relative alle etnie” mostrano di essere “una necessità imprescindibile”. Secondo la FUEV, nel novero delle “minoranze” e delle “nazionalità”  si può rientrare in base ad una “decisione soggettiva”, “liberamente riconoscendosi” in quanto “gruppo etnico”, riconoscimento che non può “essere contestato né tantomeno sottoposto a prova dimostrativa”… Sembra scritto apposta per la “nazione padana”!  Il vertice di tali concezioni è tuttavia il “diritto a contatti indisturbati”. In base a tale “diritto” formulato dalla FUEV, ai territori in parte già separati ed autogestiti bisogna lasciare espressamente la possibilità di curare “contatti in maniera indisturbata con organi statali o altri organi pubblici di altri Stati, soprattutto con quelli degli Stati co-nazionali” cioè rappresentanti lo stesso “Volk”, come la Germania per il Sudtirolo, ad esempio, o l’Albania per il Kosovo.
La FUEV «ha finanziato nel 1994 una conferenza internazionale che ha avuto luogo in Ungheria, ed è servita come estensione verso gli ambiti territori dell’Est delle fantasie di egemonia pangermanica: per la FUEV il 1994 è stato l’anno dell'”impegno per le minoranze in tutta Europa fino al Caucaso”. Secondo un comunicato stampa della FUEV (…) l’Europa si scompone in sei “regioni”, dove le “comunità di popolo” possono aspirare ad autonomia territoriale. La lista può anche essere letta come istruzioni per la dissezione degli Stati confinanti con la Germania. Nello spazio “NORD” i “tedeschi dello
Schleswig settentrionale” sono posti contro la Danimarca, i “frisoni” contro l’Olanda così come i “sami” ed i “finlandesi di Svezia” contro Stoccolma. Nello spazio “OVEST” la FUEV incoraggia tra l’altro le rivendicazioni territoriali dei “bretoni” e degli “alsaziano-loreni” contro Parigi, dei “tedeschi del Belgio” e dei “fiamminghi” contro Bruxelles così come dei “gallesi” e “cornovallesi” contro Londra. Nello spazio “SUD” contro Roma emergono i “sudtirolesi retoromanzi”, gli “aostani” ed i “ladini”. La sezione “CENTRO” è dominata dalle tendenze autonomiste che, a detta della FUEV, animerebbero i
“tedeschi nella Polonia settentrionale”, i “tedeschi dell’alta Slesia”, i “tedeschi sudeti in Cechia” ed anche i “tedeschi della Slovacchia”.
Infine, il ginepraio etnico si infittisce nelle zone “SUDEST” ed “EST”. “Ungheresi in Romania” e “rumeni in Ungheria”, “sassoni di Siebenbuerger”, “svevi del Banato” [tra Ungheria, Romania e Jugoslavia], “tedeschi, italiani ed ungheresi in Slovenia”, “tedeschi in Georgia”, “tedeschi nel Kazachistan”, “tedeschi in Kirghisia”, così come i tartari di Crimea, già varie volte arruolati dal Comando militare tedesco, tutti questi aspirano al “diritto di natura” dei “gruppi etnici”. >> Silenziosamente e sotto la copertura di alti rappresentanti dello Stato, tra i quali il Primo Ministro dello Schleswig-Holstein ed il Presidente del Parlamento del Land del Brandeburgo, ma anche come consulente per il Consiglio d’Europa, la CSCE, l’ONU ed il Parlamento Europeo la FUEV lavora alacremente alla costruzione del “Nuovo Ordine Europeo”…

L’ESTREMA DESTRA EUROREGIONALISTA

Bisogna a questo punto sottolineare la convergenza esistente tra codesti difensori delle minoranze d’ogni nazionalità ed organizzazioni di ispirazione direttamente pangermanica e per la tutela degli “Aussiedler”. Il problema degli “Aussiedler” viene sollevato costantemente in Germania sin dagli anni della annessione della Germania Est da parte della Repubblica Federale, come motivo di propaganda interna ma anche di pressione verso molti paesi. Quando alla fine del 1997 scoppiò un grosso scandalo internazionale in seguito alla conferenza tenuta alla Scuola Ufficiali di Amburgo dal leader neonazista Roeder, una cosa che rimase pressoché sconosciuta fu l’argomento trattato da questo personaggio nella sua “lezione”:  ebbene si trattava di come accrescere l’influenza tedesca nella zona di Kaliningrad – ovvero la Koenisberg capitale di quella che era la “Prussia Orientale”, tra Polonia e Lituania, oggi ancora territorio russo – attraverso la immigrazione massiccia di “tedeschi del Volga” in quell’area [se teniamo presente che si tratta di un’enclave russa di importanza strategica si può capire la follia di una tale proposta, NdR].
Tra le organizzazioni per gli “Aussiedler” sono note il “Verein fuer das Deutschtum im Ausland” (VDA, ovvero Associazione per la Germanità all’Estero) ed il “Verband der deutschen Volksgruppen in Europa” (Lega dei gruppi etnici tedeschi in Europa). La prima delle due è oggi assai attiva, e come la FUEV gode di autorevoli appoggi:  « Non diversamente dai suoi predecessori, [la FUEV] è legata al Ministero degli Esteri, a quello degli Interni ed alla Cancelleria Federale attraverso la VDA, agenzia sovversiva dalla storia secolare al servizio dello Stato tedesco. Il legame è assicurato dal membro del Consiglio Amministrativo [CA] della VDA Karl Mitterdorfer [ex-senatore della “italiana” Südtiroler Volkspartei – SVP], presidente per anni della FUEV (…) avente contatti di lavoro con rappresentanti dell’estremismo di destra e del razzismo europei. Questa cooperazione della FUEV avviene all’ombra di membri del CA della VDA del calibro di Hans Klein (Vicepresidente del Bundestag tedesco) ed Eberhard Diepgen (sindaco di Berlino in carica)». Il VDA all’inizio degli anni Novanta era presieduto da Hartmut Koschyk, pochi mesi prima della “riunificazione tedesca” autore, presso la ultrareazionaria casa editrice MUT (“Coraggio”), di un libro dal significativo titolo “Tutta la Germania deve essere unita”. Costui, esule dell’Alta Slesia (Polonia), afferma nel libro che “la fissazione dell’Oder-Neisse quale linea del confine tedesco-polacco non può essere considerata una soluzione valida per il futuro dei rapporti tedesco-polacchi”. Negli anni successivi Koschyk si fa personalmente promotore di iniziative di sostegno ai “Circoli per l’Amicizia con la Germania” nella Polonia occidentale, mettendo a disposizione dozzine di antenne satellitari e fotocopiatrici.

Ricordiamo che la “riunificazione” è stata possibile grazie ad una serie di accordi e trattati, tra i quali quello sui confini tedesco-polacchi del 14/11/1990 che in questi ambienti è ancora considerato vergognoso ma che ha rappresentato una necessaria concessione alla “Realpolitik” da parte di Kohl.
È da questi ambienti federalisti e pangermanici insieme che è nata una idea-guida della odierna Unione Europea, quella delle “Euroregioni“. Nel 1988 l’Intereg [vedi riquadro] crea il progetto di “Regio Egrensis”, a cavallo tra Baviera e Cecoslovacchia, che interessa quindi proprio i Sudeti. È sempre da questo istituto che emerge l’idea della Euroregione Tirolo, comprendente Alto Adige e Tirolo austriaco [il Trentino dev’essere escluso perché il gruppo etnolinguistico tedesco deve essere chiaramente dominante – per questo ogni sforzo del Tirolo e del Trentino di creare un’euregio che comprenda anche il Trentino sono visti come il fumo negli occhi, NdR].
[…]

Infine, nel dicembre 1996, con il sostegno del Ministero dell’Interno della Germania nasce l'”Europaeisches Zentrum fuer Minderheitenfragen” (EZM ovvero: Centro europeo per le questioni delle minoranze).

Su KONKRET 3/1997 Goldenbach e Minow precisano: «Nel grande mercato sotto dominio tedesco di nome “Europa” i confini statali nazionali disturbano. La loro distruzione è lo scopo della “etnopolitica” tedesca, che ora passa all’attacco con l’EZM (…). L’Ufficio Esteri [“Auswaertiges Amt”, AA] ed il Ministero degli Interni di Bonn [BMI] hanno impiegato cinque lunghi anni (…) ma ora ci siamo: da dicembre 1996 specialisti tedeschi lavorano affinché “si dia finalmente spazio ad una politica d’attacco sulle questioni dei gruppi etnici e delle minoranze, spazio che le è dovuto già da tempo”, nelle parole della Presidentessa del Landtag [il Parlamento del Land] Lianne Paulina-Muerl ad un Forum sulle minoranze del Landtag dello Schleswig-Holstein il 7 giugno 1991. Per i loro propositi in tema di minoranze hanno sistemato a Flensburg una scenografia europea, hanno incassato i contributi della UE ed hanno coinvolto nel nuovo “Centro per le questioni delle minoranze” anche gli ignari danesi. Che l’offensiva non riguardi quelli che in Germania sono socialmente svantaggiati, ossia i milioni di immigrati dalla Turchia o i lavoratori dal Vietnam e dall’Europa orientale, si capisce da sé. Si tratta delle minoranze e dei cosiddetti gruppi etnici ALL’ESTERNO della Repubblica Federale… Come spiegava il direttore dell’EZM Stefan Troebst a Flensburg, in occasione dell’inaugurazione dell’Istituto (…) “il settore geografico di lavoro della nuova istituzione è l’Europa ed in certi casi anche i territori limitrofi come (…) il Mar Nero o il Caucaso”. Chi a causa di queste indicazioni ritenga che la politica tedesca sia alla ricerca di minoranze che possano aprirle la strada verso aree di intervento ricche di risorse, beh costui ha la vista corta: “Una particolare attenzione verrà prestata all’Europa orientale” concede l’esperto in tema di minoranze Troebst; “ma se ci ricordiamo dei titoloni dedicati in questi anni all’Irlanda del Nord, ai Paesi Baschi, alla Corsica e a Cipro è allora chiaro che pesanti conflitti etnici non covano solamente nella regione al di là della ex-cortina di ferro. Se si tratta dei diritti delle minoranze, bisogna aggiungere anche alcuni paesi occidentali (…)  Se, tanto per fare un esempio (…) gli occitani del sud della Francia propongono un programma nazionale, organizzano un movimento nazionale e rivendicano infine la creazione di un proprio Stato nazionale, e si mettono a lottare per ottenerlo, oppure no… queste sono domande difficili, in certi casi persino urgenti“…>> “Nessuna minoranza può essere lasciata in balia di un governo centralista repressivo” – dice ancora Troebst.  “A tal proposito, anche Stati sovrani devono contemplare l’intervento della comunità internazionale. In casi come quello del Kosovo (!) l’acuirsi delle tensioni tra gruppi etnici può essere evitato solo in questa maniera”. Secondo un calcolo ufficiale della FUEV, che è tra le componenti del consiglio amministrativo dell’EZM, in Europa 101.412.000 persone appartengono al potenziale delle “minoranze”, per un totale di 282 “gruppi etnici” in 36 Stati europei.… Questi numeri chiariscono che la politica estera tedesca non è solamente radicale, ma vuole anche andare fino in fondo. Ciò che ha avuto inizio con successo in Jugoslavia – la disgregazione “etnica” del continente in un grande mercato costituito da regioni marginalizzate – deve proseguire con gli albanesi del Kosovo (non a caso l’UCK è addestrato ed armato dai servizi segreti tedeschi), e forse anche con gli  “occitani”.
Sul numero 3/1997 di LIMES, a pagina 293, appariva un documento dal titolo “Dichiarazione per una carta Gentium et Regionum – Programma di
Brno”, portante in calce la firma di sette autori appartenenti alla GfBV, all’INTEREG, al Centre International de Formation Européenne, alla FUEV e all’Istituto di Ricerche sul Federalismo di Innsbruck. Nel documento si dice apertamente che :  «non è più possibile congelare le strutture attualmente dominanti e la sovranità nazionale come se esse fossero sacrosante… è sempre più necessario promuovere la diversità e l’autonomia delle piccole comunità vicine ai cittadini… è indispensabile per un nuovo ordine europeo [sic!] il superamento di vecchie concezioni relative al carattere illimitato della sovranità e del centralismo stato-nazionale, nel senso di un’unione europea da un lato e della maggiore autonomia possibile delle piccole comunità dall’altro… la cooperazione transfrontaliera regionale quale viene praticata in Europa (euro-regioni) costituisce un’innovazione che deve essere ulteriormente sviluppata… l’Europa può divenire un esempio per il resto del mondo se essa riesce a progredire dal modello di uno Stato nazionale più o meno centralistico verso un modello di diversità nell’unità fondato sul principio dei diritti dei gruppi etnici, dell’autonomia e dell’autodeterminazione…» Il documento prosegue declinando ad ogni pié sospinto ed in tutte le maniere l’aggettivo “etnico”, dichiarandosi a favore di “Stati regionali autonomi” che “dovranno essere istituiti anche là dove lo Stato centrale nel suo complesso non è organizzato in forma federale”, sentenziando infine: “le divisioni e le frontiere che non siano state fondate sull’autodeterminazione mascherano, dietro ad un federalismo di facciata, una dominazione straniera”, come a dire: non tutti i federalismi ci vanno bene – quello jugoslavo, ad esempio, a loro non piaceva.
Dunque i possibili effetti della strategia regionalista portata avanti dai tedeschi [alcune forze in seno alla classe dirigente tedesca ed austriaca, non certo tutte – altre forze, sempre austro-tedesche, le avversano, NdR] sono potenzialmente destabilizzanti per tutto il continente, e non solo per l’Europa dell’Est. La rivista italiana LIMES, che ha una collocazione politica apparentemente trasversale ma in effetti è portavoce degli ambienti militari che fanno la geopolitica italiana, pubblicava sul numero 4/1997 un’intervista a Pierre-Marie Gallois, ex-generale e fedelissimo di De Gaulle, dal titolo “Perché temo la Germania (e la televisione)”. Nella introduzione si parla dell’EZM, del suo recente battesimo a Flensburg e del suo Presidente, Stefan Troebst. Si dice tra l’altro:  «Poco dopo la presentazione del centro di Flensburg, un diplomatico ed un sociologo tedeschi, Walter Von Goldenbach e Hans-Rudiger Minow, scrivono il libro “Von Krieg zu Krieg” (Da guerra a guerra), sottotitolo: “La politica estera tedesca e il frazionamento etnico dell’Europa”. I due autori si recano a Parigi dal generale Pierre-Marie Gallois, uno dei maggiori esperti internazionali di geopolitica, e gli chiedono una prefazione. Presa visione della documentazione, Gallois li accontenta. Dopo l’uscita del libro, i due autori incominciano ad avere numerosi problemi, il sociologo Minow subisce anche un’aggressione fisica, al punto da desiderare di trasferirsi all’estero.>>

Nell’articolo, il generale Gallois sottolinea come proprio la diplomazia preventiva tedesca, auspicata da Stefan Troebst, ha fortemente contribuito allo smembramento della Jugoslavia. » Nell’intervista – che suggeriamo di leggere per intero – Gallois dice: « I tedeschi sono eccellenti cartografi. I popoli che non hanno confini naturali cercano sulle carte dove fissare le frontiere. Presumo che, come il Centro di Geopolitica di Haushofer – consigliere di Hitler ed anche di Stalin, nel 1937-’38 – vi siano, oggi, dei gruppi di studio tedeschi che lavorino nell’ombra per preparare un grande futuro alla Germania. Sanno di non poter più speculare sulla supremazia della letteratura o della lingua, per cui rimangono loro l’economia – il culto del marco – e la regionalizzazione… >> [sciovinismo francese che confonde invece di chiarire: c’è, com’è normale che sia, un conflitto di potere tra Francia e Germania intorno a chi avrà più peso all’interno dell’Europa che verrà. Questo conflitto si interseca con le tensioni tra Europa e Stati Uniti all’interno della NATO e con quelle tra neoliberismo della City di Londra e di Wall Street da un lato e politici anti-neoliberisti dall’altro, NdR].

EUROPA NEOLIBERISTA E DISGREGAZIONE DELLA CLASSE
Sarebbe tuttavia ingenuo e sciocco pensare che la strategia della regionalizzazione abbia la sua ragione ed origine esclusivamente in Germania.
Secondo una ricerca della Fiom piemontese (2), dopo l’unità monetaria l’operaio Fiat percepisce grossomodo, allo stato contrattuale vigente, 879 Euro, contro i 1458 del suo collega tedesco alla Volkswagen. Non va meglio anche il confronto con i francesi della Renault (1303 Euro) e con gli spagnoli della Ford (957 Euro). Infine gli inglesi: 1300 Euro.

“Prima di arrivare ad una parità salariale con i tedeschi e con i francesi avremmo da scioperare parecchi anni – commentava il segretario Giorgio Cremaschi – I salari italiani sono l’unica voce dell’economia nazionale già totalmente dentro i parametri di Maastricht. Dovrebbero prenderne visione la Confindustria e la Banca d’Italia”…  Se le tariffe sono cresciute vertiginosamente dappertutto in nome dell’adeguamento ai parametri di Maastricht, nel caso dei salari quali parametri sono da considerarsi “europei”? Lo studio della Fiom piemontese in effetti può essere visto da due punti di vista: da un lato sembra evidenziare un’ingiustizia palese; dall’altro indica chiaramente che gli accordi sul costo del lavoro in tutta Europa vanno perdendo completamente di significato con
l’unificazione. In effetti, cosa dovrebbe spingere la Confindustria italiana ad aumentare gli stipendi per “adeguarsi” agli standard tedeschi? Piuttosto, le statistiche Fiom potrebbero essere usate – poniamo – dal padronato tedesco per ammonire i lavoratori in lotta contro i tagli.  Ed infatti il padronato tedesco sottolinea proprio l’elevato costo del lavoro in Germania per chiederne la diminuzione, tacendo ovviamente sul fatto che ai salari più alti d’Europa corrisponde in Germania una altissima produttività del lavoro – gli imprenditori tedeschi in realtà possono permettersi tranquillamente corresponsioni “elevate”, tra l’altro utili a mantenere un elevato livello di consumi, visti i superprofitti derivanti dallo sfruttamento neocoloniale dei lavoratori e delle risorse dell’Est e del Sud. Contemporaneamente, la previdenza e tutte le forme di salario indiretto sono oggetto di un attacco violento. Quando i sindacati tedeschi alzano la voce vengono subito zittiti con l’accusa di essere “nazionalisti” (ed allora si fa riferimento al costo del lavoro all’estero o agli immigrati…) o “fuori dalla realtà” (la globalizzazione, il mercato, eccetera).
Si tratta di paradossi soltanto apparenti: se l’Europa è unita, ma i salari sono diversi, allora i contratti nazionali perdono veramente di senso. Dunque da una parte l’unificazione, dall’altra la regionalizzazione sono i “piedi di porco”  che il padronato usa per demolire i contratti nazionali di lavoro. Questa logica ovviamente non è una logica soltanto “tedesca”: ecco perché attorno alla unificazione europea ed al regionalismo si è creata una più vasta convergenza tra borghesie.

[…].
Il federalismo si prefigura sicuramente dal punto di vista fiscale come un alleggerimento per le tasche degli imprenditori, ma vedere solo questo aspetto è riduttivo: federalismo significa soprattutto deregulation e liberismo, ovvero gabbie salariali (retribuzione diversa per zone diverse) e fine dei contratti nazionali di lavoro. Ecco perché una riforma istituzionale in senso federalista, ovvero dell'”Europa delle regioni”, è ben vista anche dalle Confindustrie di tutti i paesi. Questa “Europa delle Regioni”, o delle minoranze, non è in contraddizione con l'”Europa delle grandi imprese”:  esse sono identiche.
Ecco dunque la soluzione del dilemma tra unificazione e frammentazione in Europa: si punta solo alla frammentazione della classe lavoratrice, alle divisioni (etniche-nazionali, categoriali) nel suo interno, e viceversa alla totale “libertà d’impresa” ed all’abbattimento dei confini per il mercato. I micronazionalismi sono solo un aspetto del violento attacco contro il proletariato nel suo insieme, un attacco riconoscibile anche nelle molteplici forme della precarizzazione [gergalità marxista che oscura il fatto che non è un attacco al proletariato che si sta verificando, ma la proletarizzazione della gran parte della popolazione, che tra l’altro spesso non ha neanche prole: la servitù per debiti è l’obiettivo, come negli USA, e qualunque proposta alternativa discesa dall’alto servirà solo a convogliare la rabbia verso finalità che convengono alle oligarchie, NdR].
In Europa determinate tendenze sono fortemente incoraggiate proprio dal capitale tedesco: la Germania è l’unica nazione in cui, come ha fatto notare qualcuno, l’europeismo coincide esattamente con il nazionalismo.

Si tratta in fondo della riproposizione di un leitmotiv storico. La struttura dell’Impero austroungarico era fortemente decentrata: Otto d’Asburgo dice esplicitamente che la nuova Europa assomiglierà a quella asburgica. In tempi non lontani Hitler costruiva l’Europa Nazione sotto l’egida della svastica, chiamandosi tra l’altro a difesa delle minoranze tedesche nell’Europa orientale, accolto a braccia aperte però anche dai croati, dagli ucraini, dai ceceni… Ma forse l’analogia più calzante è quella con l’Europa medioevale: la struttura contemporaneamente decentrata e centralizzata del Sacro Romano Impero, il riaffiorare di valori ultrareazionari e dell’oscurantismo religioso, la strutturazione di tipo feudale della politica e dell’economia [esattamente! Bando ai paralleli col nazismo: il progetto è molto più sofisticato e subdolo].
Ecco perché il processo di unificazione europea, pur in parte implicando l’abbattimento di confini tra Stati, è tutt’altro che un processo dal carattere progressista e liberatorio: peraltro è parziale e non del tutto reale. La frammentazione dell’Europa centroorientale – anche dei paesi che “un domani” dovrebbero entrare a far parte della UE – ha comportato negli ultimi anni una crescita smodata dei chilometri di nuovi confini e quindi un notevole aumento dei posti di frontiera da superare per spostarsi, oltreché la moltiplicazione degli Stati e dei relativi eserciti. In pratica si sta generando un sistema “a cerchi concentrici” [nucleo paracarolingio lo chiama Lucio Caracciolo: è l’Europa a due velocità] tale che il nocciolo germanico si unifica, si consolida ed usufruisce di manodopera e risorse a basso costo, le realtà immediatamente vicine si disgregano e perdono prerogative di sovranità, mentre tutto attorno si crea una serie di protettorati, Stati-fantoccio, Stati con governi fascisti e parafascisti in grado di ingabbiare le proprie classi lavoratrici, di ricattarle con il nazionalismo e di garantire la presenza economica e militare occidentale che mira a depredare le risorse umane e naturali di quei paesi.

LEGA NORD E MACROREGIONI

Non a caso dunque la Lega Nord può essere considerata la più europeista delle forze politiche italiane. Sul suo terreno si muove in realtà una costellazione di gruppi o associazioni di categoria come la LIFE (“Liberi Imprenditori Federalisti Europei”), divenuta celebre per l’appoggio prestato ai militanti del Veneto Serenissimo Governo durante il processo.

Proprio la vicenda dell’assalto al campanile offre una quantità di motivi su cui ragionare. In un articolo di Raffaele Crocco apparso su “Guerre&Pace” (n.41/1998) si dimostra come tutta quella storia fosse il risultato dell’intreccio di tre filoni: “quello del neofascismo e del neonazismo, quello del durissimo integralismo cattolico e quello del secessionismo, leghista e non.” Già all’inizio del 1995 erano state perquisite “le case di 27 militanti di organizzazioni
integraliste cattoliche, tutte a Verona. I gruppi hanno nomi espliciti quanto i loro programmi. Sono il “Comitato Principe Eugenio”, che prende il nome dal Savoia che nel XVI secolo difese Vienna assediata dai Turchi; il gruppo “Sacrum Imperium”, che chiede il ritorno all’Europa medievale precedente la Rivoluzione Francese; l’Associazione “Famiglia e Civiltà” e i Gruppi di Famiglie Cattoliche.” Crocco analizza questo terreno di coltura, all’interno del quale troviamo anche alcuni leghisti, notandone la impostazione ideologica: oltre alle tendenze razziste, tutti questi raggruppamenti “individuano in Napoleone Bonaparte il male dell’Europa e aspirano al ritorno allo stato di cose precedente la Rivoluzione di Francia”, che ha posto le basi per il crollo degli imperi e del potere temporale della Chiesa e per la formazione degli Stati nazionali borghesi nel continente. Infine, nel suo articolo Crocco fa un po’ di storia dell’autonomismo veneto ricordando i legami di questo con la CIA e gli ambienti ordinovisti: Franco Rocchetta, ad esempio, prima di essere per anni capo della Liga Veneta, poi leghista ed ora aderente al “Movimento Nord Est”  con Cacciari e (per un periodo) Luca Casarini, fu tra i partecipanti al “viaggio di studio” rautiano nella Grecia dei colonnelli. Che il Veneto sia da decenni laboratorio dell’eversione nera è cosa nota, ma l’articolo apparso su Guerre&Pace” getta lo sguardo su scenari tutto sommato inaspettati. Particolarmente importante è rendersi conto della fisionomia di questa destra, che non è nazionalista in senso tradizionale, bensì europeista, anzi “mitteleuropea” e legata alle mitologie medioevali a cui si richiamavano anche i nazisti.
Recentemente Francesco Cossiga, convinto europeista, ha sorpreso molti per avere “esternato” la sua simpatia nei confronti dei baschi durante una visita in Spagna; da tempo era però nota la sua passione per il Sudtirolo (Cossiga conosce benissimo il tedesco) e soprattutto per l’Irlanda. Inoltre, da Presidente della Repubblica Cossiga ha svolto un ruolo fondamentale di sostegno a Slovenia e Croazia (è amico personale di Tudjman). Anche la Lega ha contatti con gli ambienti governativi croati e sloveni: in particolare, è l’unica formazione politica del nostro paese ad inviare sue delegazioni ai congressi dell’HDZ. In Friuli-Venezia Giulia molti personaggi transitati per la Lega Nord, mischiati a gladiatori e radicali pannelliani, hanno animato la vita politica in regione con la creazione-distruzione di microraggruppamenti autonomisti al centro di strane manovre: difficile risulta infatti in quell’area la dialettica italiano-sloveno-friulano-giuliano-padana. Questo non ha però certo impedito le “relazioni pericolose” con le varie parti in conflitto nei Balcani, anzi. Nel 1992 Bossi ironizzava su un possibile golpe antileghista osservando quanto poco ci volesse a far arrivare “qualche camion di armi DALLA Slovenia o dalla Croazia”, ma nel 1994 ricordava invece “camion carichi di armi PER la Slovenia” transitati nel 1986-’87 nelle valli bergamasche. Messaggi cifrati? Fatto sta che alcuni parlano di traffici di armi gestiti da leghisti della provincia di Trieste forse anche per armare il movimento (3).
Altri contatti preoccupanti sono quelli che la Lega ha instaurato con la destra fascista austriaca di Jörg Haider, che ha sviluppato posizioni europeiste-regionaliste. Diverse sono le pubblicazioni austriache sul tema delle “etnie”, sulle quali trovano spazio teorici della “nuova destra” come Alain de Benoist e Pierre Krebs o storici revisionisti come David Irving.  Nel libro “L’Europa delle Regioni” (Graz 1993) un contributo di Umberto Bossi appare fianco a fianco a scritti di Guy Heraud e dello stesso Haider. I “Freiheitlichen” (Liberali) di Haider sono invitati ai congressi leghisti, e viceversa. L’europarlamentare leghista Luigi Moretti ha costruito tutta una serie di contatti “internazionalisti”  con fiamminghi e tedeschi del Belgio, frisoni olandesi, scozzesi, irlandesi, gallesi, l'”Unione di u Populu Corsu”, savoiardi, alsaziani, il “Parti occitain”, i bretoni, i baschi di “Eusko Askatasuna”, catalani, andalusi e galleghi.
La Lega, peraltro, non è l’unica realtà secessionista italiana. Oltre ai sudtirolesi, dei quali abbiamo già parlato, solo nel Nord Est ci sono alcuni altri “piccoli popoli”  vezzeggiati dalla “internazionale regionalista”. Sono le minoranze slovene, ladine e friulane che tra il ’43 ed il ’45 furono inglobate nella “Zona di Operazioni Litorale Adriatico”, sotto il comando di Rainer che ben seppe sfruttare la loro “alterità”  e la loro storia austro-ungarica: esse si trovano oggi tutte comprese nella Euroregione Alpe Adria. La creazione del “gruppo Adria” negli anni Settanta aveva apparentemente degli obbiettivi culturali, ovvero il risveglio della “Mitteleuropa” asburgica, riunendo austriaci, ungheresi, sloveni, croati, questi italiani del Nord e i bavaresi. Le secessioni croata e slovena hanno però dimostrato quanto ambiguo sia lo slogan della “Mitteleuropa”…

Oggi Alpe Adria cura alcune tra le principali iniziative culturali del Nord-Est, sostenuta in questo soprattutto dai sindaci di Venezia, Cacciari, e Trieste, Illy (l’imprenditore del caffè), che sono in prima fila nel “sinistro” schieramento “federalista soft”. Infatti esiste una versione “minimalista” del regionalismo, che salvaguardando una unità formale del paese – comunque priva di senso nel momento in cui l’Italia si “scioglie” in Europa – mira comodamente alla
disgregazione del tessuto di classe.
Nel 1992 la Fondazione Agnelli lanciò un grande programma di ricerca dal titolo: “Padania, una regione d’Italia in Europa”, i cui risultati furono pubblicati in un grosso volume (4). Il succo dei risultati della ricerca è che la dimensione ottimale per le nuove istituzioni da dare al nostro paese sarebbe quella delle “macroregioni”. Niente di nuovo: anche il Piano di Rinascita nazionale della Loggia massonica segreta P2 individuava nelle macroregioni le nuove unità politico-istituzionali con cui governare il paese. Ecco perché sul federalismo, a parte le sfumature, esiste un coro unanime, ed ecco perché quasi tutti i partiti si alternano in convergenze ed accordi tattici con la Lega. La nostra borghesia da una parte vede la possibile destabilizzazione che viene dalla strategia regionalista, ma giocando da “apprendista stregone” cerca comunque di sfruttarla fintantoché fa comodo. Questo è ovviamente possibile solo nella misura in cui si tagliano le gambe alle tendenze più eversive insite in quel movimento, secessioniste filotedesche, giungendo a continue soluzioni di compromesso con l’ultradestra europeista, un po’ come è successo con la moneta unica [tuttavia non è una scelta stupida, se ci si gioca bene la partita, come hanno fatto i francesi. Può invece essere suicida se la si gioca come ha fatto Israele, NdR]
Si tratta insomma di una partita assai rischiosa che si sta giocando, sempre sulla pelle dei lavoratori [devono cominciare a giocare anche loro, invece di farsi manovrare come pedine, magari rovesciando il tavolo su cui si gioca, NdR], i cui attori sono molteplici e che può alla fine risultare truccata: sulla scorta di quanto analizzato da Crocco, chi può infatti escludere che gli USA non stiano facendo anche il loro specifico gioco per destabilizzare questo o quel paese – se ad esempio l’Italia risultasse un fattore di disturbo nel contesto dei nuovi equilibri geopolitici, nei Balcani o all’Assemblea dell’ONU… – ovvero per destabilizzare il polo imperialista europeo nel suo insieme?
A completare questo quadro preoccupante manca solo qualcosa che dimostri un coinvolgimento diretto di personalità tedesche nel progetto eversivo per la spaccatura dell’Italia. Niente paura: sul numero 4/1997 di LIMES è apparsa una intervista a Saverio Vertone intitolata “L’oro dal Reno? Finanza tedesca e Lega Nord”, nella quale il senatore di Forza Italia sostiene che la Lega è finanziata da gruppi bavaresi ed altri legati ai passati fasti dell’Impero asburgico: egli cita la finanziaria Matuschka, di Monaco di Baviera, che avrebbe”aiutato” in precedenza sloveni e croati, e le famiglie del Nord-Est Stock e Strassoldo.

NOTE:

(1) Citato in: R. Opitz, “Europa-Strategien des deutschen Kapitals 1900-1945”, Colonia 1977 – da pag. 653.

(2) Cfr. Avvenimenti 1/1/1997.

(3) Cfr. A. Sema su LIMES 3/1996.

(4) Cfr. Marco Revelli su “Rifondazione” n.0, dic.1996.

PER APPROFONDIMENTI: Oltre alle fonti citate cfr. tutto il volume di LIMES 3/6 ed il libro di B. Luverà, “Oltre il confine” (Il Mulino, Bologna 1996).

RIQUADRO: LA FUEV

La “Federalistische Union Europaeischer Volksgruppen” [trad. Unione Federalista dei Gruppi Etnici Europei] ha sede a Flensburg, nello Schleswig, al confine con la Danimarca.

Apparentemente privata, questa organizzazione si occupa di minoranze quasi esclusivamente non tedesche diffuse sul continente, e rivendica i “diritti dei gruppi etnici” – sin dagli anni ’20 un beneamato strumento per lo smembramento degli Stati vicini alla Germania in unità territoriali separate. La FUEV nasce infatti nel marzo 1928 e viene “rifondata” a Versailles nel 1949. Noncurante degli eventi accaduti nel frattempo, che si pensava avessero seppellito il  “Nuovo Ordine Europeo” sotto alle macerie della II G. M., la FUEV rivendica l’eredità dei “Congressi Europei delle Nazionalità” (1925-1938), che oggi si tengono infatti regolarmente ogni due anni.  In un suo proprio documento la FUEV afferma di voler rappresentare “quasi 100 milioni di abitanti dell’Europa”. Con rispetto per la tradizione, la sede di Flensburg dell’organizzazione rievoca la rivista “Nazione e Stato” senza minimamente distanziarsi dai suoi contenuti. Al contrario: è proprio una casa editrice già implicata nella produzione di propaganda antisemita in nome dei “gruppi etnici” (Braumueller, di Vienna) a diffondere le “nuove” concezioni della FUEV. Mentre la casa editrice viennese di cui sopra risulterebbe iscritta nei libri-paga governativi, la “Fondazione Hermann-Niermann” di Duesseldorf, che ha finanziato un opuscolo di presentazione della FUEV, è legata a personaggi di estrema destra come Norbert Burger, condannato all’ergastolo in Italia per gli attentati commessi in Alto Adige.

La FUEV tuttavia è riconosciuta e collabora ufficialmente con le  Province di Trento e Bolzano. Ma non solo: essa gode dello status di consulente presso il Consiglio d’Europa e presso l’ONU, tanto che  nel  1996 ha per la prima volta partecipato ai lavori della Commissione ONU per i diritti umani.

La sua influenza arriva anche al Parlamento Europeo ed alla CSCE, cosicché qualcuno ha osservato che la sua importanza non le deriva tanto dall’effettiva rappresentanza dei gruppi etnici, in molti casi dubbia, quanto proprio dall’accesso privilegiato nelle istituzioni nazionali ed internazionali.
RIQUADRO: IL “PENTAGONO” ETNO-SECESSIONISTA
Insieme alla FUEV (vedi riquadro) ed al VDA (vedi testo) altri tre organismi costituiscono quello che su LIMES 3/1996 veniva definito il “pentagono” del federalismo etno-secessionista: si tratta del Movimento PANEUROPA, dell’INTEREG e del Bund der Vertriebenen (BdV).
PANEUROPA: movimento guidato da Otto d’Asburgo, figlio di Francesco Giuseppe d’Austria, eurodeputato per i cristianosociali della Baviera, resosi noto negli ultimi anni per le esplicite dichiarazioni di appoggio alle secessioni jugoslave. Il termine “Paneuropa” sta ad indicare qualcosa di simile alla Unione Europea che si sta oggi costruendo. Negli anni Venti il suo ideologo Coudenhove-Kalergi riteneva che “l’annessione dell’Austria e della Germania alla Paneuropa significa indirettamente l’annessione dell’Austria alla Germania nel quadro dell’Europa… Perciò la politica paneuropea è una politica nazionale in prospettiva… Per un tedesco nazionalista esistono solo due strade per far uscire il suo popolo dal vicolo cieco in cui si trova oggi: o la preparazione di una guerra di rivincita contro i suoi vicini per la creazione di uno spazio imperiale i cui confini corrispondano a quelli dello spazio linguistico tedesco – oppure viceversa la preparazione della Paneuropa, che assicura a tutti i tedeschi in Europa l’indipendenza nazionale e l’unità all’interno di una più grande federazione.” (citato su KONKRET 12/95).
INTEREG: Istituto internazionale per i diritti delle nazionalità ed il regionalismo. fondato nel 1977 in Baviera, ha sede a Monaco e gode del sostegno completo, anche finanziario, da parte della Centrale Bavarese per la Formazione Politica, che è un ente statale. Ha visto tra i suoi membri anche Otto d’Asburgo, Karl Mitterdorfer, vari professori universitari tedeschi ed austriaci nonché il francese Guy Heraud autore del libro “Les principes du federalisme et la Federation Europeenne” (1968), vero e proprio ideologo del federalismo integrale o “etnico”. Il nucleo fondativo consisteva comunque in un gruppo di “tedeschi dei Sudeti” federato al BdV. Si noti comunque che tra i più attivi membri c’è persino l’esperto di politica estera della SPD (socialdemocratici, oggi al governo) Peter Glotz, a sua volta tedesco dei Sudeti, secondo il quale nello scenario di fine secolo lo Stato nazionale “deve essere considerato superato e a livello culturale si deve tornare alle tribù, alle piccole unità linguistiche, etniche, paesaggistiche”. Insieme alla FUEV l’Intereg organizza i “Congressi” biennali e pubblica la rivista “Europa Ethnica”, che si richiama esplicitamente a “Nazione e Stato”, una rivista ideologica del nazionalsocialismo.
– BdV: Questa “Lega degli Esuli” e’ la potente federazione dei tedescofoni giunti in Germania Occidentale da tutta l’Europa dell’Est dopo la guerra. Ne fa parte anche Koschyk, del quale si parla nel testo. Si è recentemente distinta per la formulazione di una serie di progetti di euroregioni “tedesche” in Polonia (Slesia, Pomerania, Prussia Orientale) per cui ad esempio Stettino diventerà porto franco.

http://www.cnj.it/documentazione/europaquemada.htm

La perniciosa influenza planetaria delle fondazioni e think tank degli Stati Uniti

 

Le fondazioni…esercitano un’influenza corrosiva sulla società democratica; rappresentano concentrazioni di potere e ricchezza relativamente incontrollate e che non devono rispondere delle proprie azioni, che comprano i talenti, promuovono cause e, di fatto, determinano che cosa meriti l’attenzione della società…un sistema che…ha operato a svantaggio degli interessi delle minoranze, dei lavoratori e dei popoli del Terzo Mondo

Robert F. Arnove, “Philanthropy and Cultural Imperialism. The Foundations at Home and Abroad”.

Un enorme potere, senza paragoni è concentrato nelle mani di un gruppo di persone, perfettamente coordinato e con la tendenza a perpetuare se stesso. Diversamente dal potere nelle aziende, non è controllato dagli azionisti; diversamente dal potere del governo, non è sottoposto al controllo popolare; diversamente dal potere nelle chiese, non è controllato da alcun canone consolidato di valori.

Conclusioni di un’indagine conoscitiva sulle fondazioni statunitensi effettuata da un comitato del Congresso americano nel 1952

Non ci si dovrebbe aspettare che ingenti patrimoni privati siano donati in maniera tale da innescare nella società redistribuzioni delle ricchezze e trasformazioni politiche.

Ruth Crocker, in“Charity, Philanthropy, and Civility in American History”

Il miglior programma in assoluto di educazione alla democrazia si chiama “Esercito degli Stati Uniti”

Michael Ledeen, American Enterprise Institute for Public Policy Research (AEI), collaboratore di Matteo Renzi

 

I think tank, pensatoi che dovrebbero partorire soluzioni per i grandi problemi di una comunità, sono armi a doppio taglio, perché danno alla luce idee e simboli, che sono il cibo della mente umana, ma anche la sua droga ed il suo veleno. Come le api sono nate per fare il miele ed i castori per costruire dighe, gli esseri umani sono nati per trasmutare simbolicamente tutto ciò che li circonda. Sono fatti per attingere al sublime, ma anche per cadere nella trappola dei miti politicizzati (Fait/Fattor 2010).

La ragion d’essere delle principali fondazioni e think tank (pensatoi, gruppi di riflessione ed approfondimento, reti di esperti) è quella di migliorare il mondo in accordo con le preferenze di chi le crea e le finanzia, ossia, in genere, dei magnati o dei politici, cioè a dire di persone che esercitano già una considerevole influenza sulla società, ma intendono esercitarne ancora di più. Queste organizzazioni, in termini pratici, servono a giustificare la permanenza di rapporti di poteri vantaggiosi per chi è già economicamente e politicamente egemone, pensando al posto nostro. Dato il loro profilo così prominente nella contemporaneità, sono stati oggetto di innumerevoli studi sociologici. Usando un gioco di parole, possiamo dire che il think tank è un carro armato (tank, in inglese) nella guerra delle idee che mira al controllo delle menti di 7 miliardi di persone.
Stephen Boucher e Martine Royo (2006) definiscono i “think tank” degli organismi permanenti non pubblici che hanno l’incarico di formulare soluzioni su scala nazionale o internazionale che possano essere tradotte in politiche pubbliche. Quasi tutte le fondazioni si sono dotate di uno o più think tank, perciò è pressoché inutile cercare di separarli. La loro missione li rende inscindibili. La fondazione si occupa della parte strategica, il think tank di quella tattica. Alcune fondazioni esistono da oltre un secolo, come ad esempio il trittico Ford, Rockefeller e Carnegie, dai nomi dei magnati che hanno fatto la storia dell’economia e dell’industria americana moderna. Un altro gigante si è aggiunto di recente, la Gates Foundation di Bill Gates, il fondatore di Microsoft, e di sua moglie. In Germania, la Friedrich Ebert Stiftung è vicina ai socialdemocratici, la Konrad Adenauer Stiftung è nella sfera democristiana.

Anche se ufficialmente i loro think tank dovrebbero produrre ricerca seria e rigorosa, non conosco nessuno studio accademico (ossia non promosso da un qualche think tank e quindi apologetico) che non li consideri delle vere e proprie macchine ideologiche al servizio di un qualche specifico interesse e/o ideologia. Boucher e Royo parlano di “pensiero mercenario”, un eufemismo per quello che altri chiamerebbero, meno sottilmente, “prostituzione intellettuale”.

Con questo non si vuol dire che tutti i think tank e tutte le fondazioni siano da mettere sullo stesso piano e demonizzare. Ma è indubbio che all’intensificarsi dei legami con la politica ed il capitale l’indipendenza di giudizio e l’integrità morale dei componenti di un think tank subiscono un inevitabile processo involutivo e la loro attività finisce per rassomigliare sempre più al marketing ed al lobbismo, con un impatto mediatico rapido e massiccio nel mercato delle idee (Boucher/Royo, ibidem). Gli intellettuali e gli stessi scienziati sono degli esseri umani come gli altri, né peggiori né migliori degli altri, anche se loro, non-ufficialmente, sono inclini a ritenersi migliori ed esenti da certe influenze corruttrici. Non citerò la cospicua produzione di studi sociologici che smentiscono le loro più intime convinzioni. Per questo sarebbe meglio che le politiche pubbliche fossero formulate da commissioni pubbliche temporanee, allo stesso modo in cui si sottopongono periodicamente al voto i rappresentanti parlamentari che poi le vaglieranno. A meno che non si creda, con Mandeville, che i vizi privati sono alla base delle virtù pubbliche, uno slogan screditato da millenni di storia umana ma che piace molto ai neoliberisti.

L’influenza dei think tank è poderosa in una molteplicità di settori: dall’ecologismo alla bioetica ed alle biotecnologie, dagli studi sulla pace alla geopolitica, dalle risorse energetiche alle politiche socio-economiche, carcerarie e monetarie, dalla Guerra al Terrore alla globalizzazione, all’arte ed alla cultura, al razzismo, al federalismo ed alla tutela delle minoranze etno-linguistiche.

Gli esempi della loro egemonia culturale non si contano, ma due sono forse i più eclatanti. Il primo è quello delle politiche di sterilizzazione involontaria di decine di migliaia di donne nel mondo occidentale e di milioni di donne nel Terzo Mondo a fini eugenetici prima e di controllo della popolazione non-bianca (ad esempio i quechua ed aymara del Perù) poi (Connelly, 2008). L’altro è il “Progetto per un nuovo secolo americano”, una strategia neoconservatrice imperialista statunitense che risale alla fine degli anni Novanta e che ha condotto all’invasione dell’Iraq nel 2003. È notorio perché al centro delle teorie del complotto riguardo all’11 settembre 2001, in quanto un suo rapporto del settembre del 2000, intitolato “Rebuilding America’s Defenses: Strategies, Forces, and Resources for a New Century” (“Ricostruire le difese dell’America: strategie, forze e risorse per un nuovo secolo”), auspicava il verificarsi di un evento del tipo Pearl Harbor che autorizzasse gli Stati Uniti a prendere il controllo dell’Asia Centrale, considerata la chiave per mantenere in una posizione subalterna Russia, India e Cina e quindi per conservare lo status di unica superpotenza egemone. Altri casi degni di menzione sono l’amministrazione Reagan, che selezionò lo staff presidenziale (150 specialisti!) nel vivaio della Hoover Institution, della Heritage Foundation e dell’American Enterprise Institute, tutte fondazioni ultraconservatrici, con relativi think tank.

Tra gli studiosi che hanno approfondito il ruolo delle fondazioni e dei think tank nella formazione della percezione della realtà da parte dei cittadini delle democrazie occidentali figura anche il celebre Pierre Bourdieu, che anche dopo la morte, avvenuta nel 2002, resta il più influente sociologo francese. Nel 1998, assieme al collega francese (docente a Berkeley) Loïc Wacquant, riconosciuto specialista nel campo del razzismo e dei sistemi carcerari, pubblicò un saggio dagli effetti dirompenti, intitolato “Sulle astuzie della ragione imperialista” (“Sur les ruses de la raison impérialiste”), in cui si argomentava la tesi che le grandi fondazioni americane che si occupano di razzismo, in particolare la Rockefeller e la Ford, cerchino deliberatamente di incoraggiare i leader delle minoranze etno-razziali al di fuori degli Stati Uniti ad adottare le stesse tecniche di autoaffermazione identitaria, oggettivamente fallimentari, impiegate negli Stati Uniti. Tecniche, per intendersi, che sono state ripudiate dallo stesso Martin Luther King, un uomo dall’enorme perspicacia ed onestà, e che non sono mai state prese in seria considerazione da Aung San Suu Kyi o da qualunque attivista che rivendichi i diritti umani e civili per tutti e non solo per una fazione.

Bourdieu e Wacquant sono finiti al centro di una vigorosa polemica non tanto per aver denunciato il carattere fallimentare dell’identitarismo particolaristico e settario, ma per aver affermato che la contrapposizione tra neri e bianchi, che volutamente cancella l’esistenza dei meticci/mulatti, fa parte di una strategia globale neocolonialista all’insegna del divide et impera che, insistendo sulla componente somatica (il colore della pelle), conduce ad una guerra tra poveri che avvantaggia chi teme che le classi subordinate possano creare una piattaforma di rivendicazioni comuni che metta in difficoltà lo status quo. Le loro conclusioni sono in linea con quanto si apprende dalle ricerche di Anthony W. Marx (nessuna relazione con il più celebre Karl) su Stati Uniti, Sudafrica e Brasile, Livio Sansone sul Brasile (2002, 2003), Mark Clapson sul Regno Unito (2006), Donald E. Abelson (1996), Yves Dezalay & Brian G. Garth (2002), Noliwe Rooks (2006), Inderjeet Parmar (2012) e Thomas Medvetz (2012) sugli Stati Uniti e le loro relazioni interrazziali ed internazionali, Rafael Loayza Bueno ed Ajoy Datta sulla Bolivia (2011).

A dire il vero, Bourdieu e Wacquant non sono stati dei pionieri. Già negli anni Quaranta il giornalista e storico statunitense Joel A. Rogers lamentava il fatto che gli attivisti neri per i diritti civili fossero usati dai filantropi delle maggiori fondazioni per diffondere un’immagine omogenea, omologata, monolitica e caricaturale dei neri che sarebbe servita a “tenerli al loro posto” e a “mettere in cattiva luce quei pochi neri in grado di ragionare con la propria testa” (cit. in Plummer, 1996, p. 228). Uno dei più ammirati sociologi americani, C. Wright Mills, aveva gettato le basi per un’analisi scientifica di questo fenomeno già a cavallo degli Cinquanta e Sessanta, ma scomparve prematuramente prima di riuscire a portare al termine il suo ambiziosissimo progetto sociologico di studio delle élite e delle loro strategie. Solo negli anni Ottanta, grazie ad Edward Berman ed al suo magnifico e scrupoloso saggio (“The Ideology of Philanthropy”) e, più recentemente, Sally Covington (1998), Frances Stonor Saunders (1999, ed. it. 2004) e Joan Roelofs (2003) sono riusciti a mettere in luce i legami tra le fondazioni filantropiche, le militanze identitarie, gli architetti della politica estera americana e la CIA. Centinaia di milioni di dollari investiti in una guerra di idee e per il controllo dei media, di interi dipartimenti universitari e della lealtà di membri del Congresso (Saunders, op. cit., p. 122):

L’uso delle fondazioni filantropiche si rivelò il modo più efficace per far pervenire consistenti somme di denaro ai progetti della CIA, senza mettere in allarme i destinatari sulla loro origine…Nel 1976, una commissione d’inchiesta nominata per indagare le attività dell’intelligence statunitense riportò i seguenti dati relativi alla penetrazione della CIA nella fondazioni: durante il periodo 1963-1966, delle 700 donazioni superiori ai 10.000 dollari erogate da 164 fondazioni, almeno 108 furono totalmente o parzialmente fondi della CIA. Ancor più rilevante è che finanziamenti della CIA fossero presenti in quasi metà delle elargizioni, fatte da queste 164 fondazioni durante lo stesso periodo nel campo delle attività internazionali durante lo stesso periodo.

Sempre negli anni Ottanta, Robert Arnove, oggi professore emerito all’Università dell’Indiana, allora un insider con accesso ad informazioni riservate, curò la pubblicazione di un volume collettaneo (“Philantropy and cultural imperialism: the foundations at home and abroad”, 1980) in cui puntava il dito contro le fondazioni Ford, Rockefeller e Carnegie e la loro “corrosiva influenza sulla società democratica”, resa possibile da una concentrazione di potere e capitali non adeguatamente regolamentata, in grado letteralmente di comprare la lealtà degli esperti e di promuovere certe cause secondo certe modalità in modo tale da indirizzare l’attenzione dell’opinione pubblica in certe direzioni piuttosto che in altre. Lo stesso Arnove, in seguito, assieme alla collega sociologa Nadine Pinede (“Revisiting the Big Three Foundations”, 2003), ha potuto confermare la validità dei precedenti giudizi sulle politiche di deradicalizzazione (leggi: castrazione e frammentazione) del movimento per i diritti civili attuate dalle suddette fondazioni in nome dell’ideologia dell’identitarismo culturale che sottrasse al più vasto movimento le importanti energie di una larga porzione di attivisti afro-americani, non più disposti a condividere la lotta con esponenti di altre culture ed etnie (si veda anche Roelofs 2003).

Il povero Martin Luther King non poté sfuggire a questo gorgo e ne finì risucchiato, lui che contrastava ogni tentativo di spezzare il movimento dei diritti civili in fazioni concorrenti. Nel febbraio del 1967 prese la decisione di opporsi alla politica americana in Vietnam, pur sapendo che così facendo avrebbe causato l’interruzione del flusso di erogazioni da parte di varie fondazioni e in particolare della Ford Foundation. Aveva ben chiaro in mente che, com’era più che logico, le politiche di finanziamento delle maggiori fondazioni favorivano le valvole di sfogo, ossia quelle organizzazioni che davano voce alla protesta ma senza mai mettere in discussione l’establishment nel suo complesso (Walker, 1983).

Molte persone fanno fatica ad immaginare che delle fondazioni possano realmente cambiare il corso della storia di un’intera nazione. Ma si considerino le somme a loro disposizione. Nel 2011 il valore del patrimonio complessivo delle fondazioni americane ammontava a quasi 622 miliardi di dollari. Se fossero una nazione, sarebbero al ventesimo posto nella classifica del PIL, poco dietro la Svizzera. Nel 2010 decine di migliaia di fondazioni filantropiche hanno distribuito finanziamenti per un valore totale che eccede i 46 miliardi di dollari (valore raddoppiato rispetto al 1999). Ciò significa che, in questi anni, solo negli Stati Uniti, le fondazioni movimentano l’equivalente di una manovra finanziaria italiana importante o del PIL della Tunisia o dell’Uruguay. Nel 2000 il solo “Programma per la pace e la giustizia sociale” della Ford Foundation ha devoluto 26 milioni di dollari per i “diritti delle minoranze e la giustizia razziale”, su un totale di 80 milioni di dollari di finanziamenti a livello globale. La Bill e Melinda Gates Foundation distribuisce annualmente almeno 3 miliardi di dollari ad organizzazioni ed individui che ritiene meritevoli e dispone di un patrimonio del valore di oltre 33 miliardi di dollari (poco meno del PIL del Kenya, più di quello della Lettonia). Era a 37 miliardi nel 2010. Ford Foundation, Paul Getty Trust, Robert Wood Johnson Foundation dispongono tutte di circa 10 miliardi di dollari di beni: in termini di PIL, si collocherebbero davanti all’Armenia. In termini pratici, non devono rispondere del loro operato né ai mercati, né alla stampa, né tantomeno all’elettorato.

Con queste cifre e questo potere in ballo, non è sorprendente che i saggi dedicati a questo argomento così cruciale siano, globalmente, poche decine e tutti o quasi tutti ad opera di accademici non dipendenti da sovvenzioni private. Non sono molti i giovani ricercatori disposti a sputare nel piatto in cui sperano di mangiare e ancor meno quelli, più maturi, pronti a farlo in quello in cui stanno già mangiando. La falsa coscienza fa il resto: si razionalizza il proprio comportamento e quello di chi ci sovvenziona e ci si convince che l’utile giustifica i mezzi. D’altronde, stante il feroce antistatalismo americano, quasi tutte le organizzazioni per i diritti civili, la giustizia sociale e la difesa dell’ambiente, per poter restare in vita, sono costrette a rivolgersi alle fondazioni “filantropiche” ed alla loro per nulla disinteressata filantropia. Lo stato non è quindi in grado di assicurarsi che l’elaborazione e discussione delle questioni pubbliche non vengano monopolizzate da interessi privati. È un fenomeno che si sta verificando anche in Europa, specialmente ora che la crisi e l’austerità hanno prosciugato le casse degli stati europei.

Ora, limitatamente alle fondazioni maggiori, emanazioni del capitale finanziario-industriale, alla luce degli studi summenzionati, possiamo dire che quelle di destra sono anti-democratiche e non fanno molto per nasconderlo; quelle “progressiste” sembrano più orientate a provare a migliorare la situazione, ma solo per poter mantenere le cose come stanno. Queste ultime sono espressioni di centri di interesse che non disprezzano apertamente la democrazia, ma preferiscono gestirla in modo accentrato e tecnocratico, a causa della scarsa stima che nutrono nei confronti delle masse. Ciò che accomuna le fondazioni di destra (es. praticamente tutte quelle legate agli interessi delle multinazionali farmaceutiche e petrolifere, o il Pioneer Fund) e i think tank di destra da un lato (es. Freedom House, Council on Foreign Relations, Hudson Institute) e quelle di sinistra (es. Open Society di George Soros, Gates Foundation) con i rispettivi think tank (es. la New America Foundation vicina a Zbigniew Brzezinski, una delle figure più influenti nelle scelte di politica estera dell’amministrazione Obama) dall’altro è, a grandi linee, il rifiuto del principio della pari dignità e il trionfo dell’elitismo e dell’oligarchismo più o meno benevolo (o malevolo, a seconda dei punti di vista, naturalmente). Come documentano Robert Arnove e Nadine Pinede, tutte le grandi fondazioni “progressiste” sono ispirate ai principi del conservatorismo sofisticato ed appoggiano dei cambiamenti che assicurano una maggiore efficienza del sistema esistente ed una minore frizione con i privilegi già acquisiti. In questo modo, però, perpetuano le dinamiche che generano quelle disuguaglianze ed ingiustizie alle quali ufficialmente desiderano porre rimedio.

I due fuochi, l’uovo di serpente, la lotta per un Mondo Nuovo

Le autonomie europee alla sfida dell’immigrazione. Quali diritti-doveri per i nuovi cittadini glocali?

21 settembre 2012, 18.00

Incontro pubblico

La crisi europea offre una grande opportunità per le autonomie locali come Trentino e Alto Adige, ma anche Catalogna, Baviera, Scozia, Paesi Baschi, Corsica. Queste regioni sono protagoniste di un processo di costruzione di una identità propria sempre più fortemente proiettata sullo scenario internazionale. Tale processo crea tuttavia una fortissima tensione attorno al concetto di cittadinanza: aperta all’inclusione degli immigrati come nuovi cittadini delle autonomie europee, o chiusa su una concezione attenta alla difesa della propria identità storica e delle radici etniche e territoriali?
Ne parliamo con Lorenzo Piccoli, Stefano Fait e Piergiorgio Cattani. Introduce Michele Nardelli.

Organizza: Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani

Luogo: Sala Aurora, c/o Sede Consiglio Provinciale – Trento

http://www.tcic.eu/web/guest/eventi/-/asset_publisher/8ZdO/content/storie-di-immigrazione-appunti-di-cittadinanza?redirect=%2Fweb%2Fguest%2Feventi

LINEE GUIDA DEL MIO INTERVENTO

La crisi dell’eurozona e la crisi globale aprono scenari nuovi per il futuro.

Un cambiamento positivo è quello che consente di diventare più liberi, più consapevoli, più responsabili e più miti (ossia meno prevaricatori).

Un cambiamento negativo è quello in cui la piramide sociale diventa più ripida, la dignità delle persone è mortificata, la libertà è compressa, l’iniquità è diffusa, la fratellanza umana è vilipesa.

Al momento attuale il Trentino-Alto Adige, come il resto del mondo, si trova preso tra due fuochi: quello della destra neoliberista, esportato dal mondo anglo-americano (Wall Street e la City di Londra) – il suo verbo è incapsulato in quel “a me non interessano i poveri” di Mitt Romney – , e quello della destra etnopopulista/etnofederalista, particolarmente forte nell’area che si estende tra i confini settentrionali della Baviera ed il Po e che, localmente, preme per la soppressione della regione Trentino-Alto Adige e vuole che il Trentino sia escluso dalla candidatura alle Olimpiadi Invernali del 2022.

Il rischio che corriamo è quello di un ritorno al passato, addirittura ad un sistema neo-feudale su base etnica-sciovinista che si proponga come rimedio (falso) alle catastrofi prodotte dal neoliberismo (vere); cioè a dire, ad una ridotta alpina (Alpenfestung) in un’Europa unita di stampo “imperiale” (“Fortezza Europa” la chiamano i critici), tenuta insieme solo dalla bramosia di potere e risorse e dalla paura di ciò che sta fuori e di ciò che è sgusciato dentro (milioni di immigrati, molti di loro musulmani).  

Alcune citazioni aiuteranno a delineare meglio i contorni e la natura del problema.

Vergérus, “L’uovo del serpente”, di Ingmar Bergman:

Il mio esperimento è come un abbozzo di ciò che avverrà nei prossimi anni. Tuttavia nitido e preciso: proprio come l’interno dell’uovo di un serpente. Attraverso la sottile membrana esterna, si riesce a discernere il rettile già perfettamente formato.

Lucio Caracciolo (prefazione a “I confini dell’odio”, 1999):

In discussione non è la dimensione geopolitica, economica o demografica della mia, della vostra, o forse della nostra patria di domani. In gioco è il carattere delle sue istituzioni e della sua società civile. Prima di decidere pro o contro l’Europa – l’Europa delle nazioni, l’Europa delle Regioni, lo Stato europeo o l’Europa ineffabile ed esoterica degli europeisti – dobbiamo decidere per o contro la democrazia liberale. Il resto viene dopo.

La decisione, come abbiamo oramai capito, non è purtroppo così scontata.

Ho parlato di due fuochi.

Gustavo Zagrebelsky (“Simboli al potere”, 2012, pp. 89-90) descrive il primo fuoco:

Noi non sappiamo se la crisi attuale sia una di quelle cicliche che investono il mondo capitalistico, oppure se sia qualcosa di completamente nuovo, come nuove saranno le uscite. In ogni caso, ne constatiamo già gli effetti, più o meno evidenti, nella vita delle nazioni, i cui governi, da rappresentanti delle istanze popolari, decadono a strumenti amministrativi dell’ordine dell’economia finanziaria mondiale. Alla cementificazione del pensiero, all’espulsione delle alternative dal campo delle possibilità, all’omologazione delle aspirazioni, alla diffusione di modelli pervasivi di comportamento, di stili di vita e di status e sex symbol nelle società del nostro tempo, lavorano centri di ricerca, scuole di formazione, università degli affari, accademie, think-tanks, uffici di marketing politico e commerciale, in cui vivono e operano intellettuali e opinionisti che sono in realtà consulenti e propagandisti, consapevoli o inconsapevoli, ai quali la visibilità e il successo sono assicurati in misura proporzionale alla consonanza ideologica. La loro influenza sul pubblico è poi garantita dall’accesso a strumenti di diffusione capillari e altamente omologanti. Non è forse lì che, prima di tutto, si stabiliscono i confini simbolici del legittimo e dell’illegittimo, del pensabile e dell’impensabile, del desiderabile e del detestabile, del ragionevole e dell’irragionevole, del dicibile e dell’indicibile, del vivibile e dell’invivibile? Da qui provengono le forze simboliche potenti che, fino a ora, cercano di tenere insieme le nostre società….come in una religione, per di più monoteista.

Bruno Luverà (“Il razzismo del rispetto”, Una Città, 1999) descrive il secondo fuoco:

Nel nuovo regionalismo europeo ci sono due correnti: il regionalismo autonomista della Svp in Alto Adige o di Pujol in Catalogna, che hanno come idea-guida quella dell’autonomia dinamica, con l’acquisizione di sempre maggiori competenze per arrivare a forme forti di autogoverno, senza però che si arrivi a mettere in discussione la lealtà rispetto allo Stato nazionale, se non in una prospettiva lontana (per esempio, il diritto di autodeterminazione viene posto come valore, ma non se ne chiede l’esercizio immediato). L’altra corrente è quella, invece, micronazionalista, secondo la quale la regione diventa sinonimo di nazione, di piccola nazione, di piccola patria, e il richiamo alla regione serve per creare dei meccanismi di esclusione, serve per innalzare dei muri attorno a un luogo molto facile da controllare, potenzialmente più sicuro, in cui il criterio fondante la cittadinanza è quello dell’omogeneità etnica… La Baviera ha giocato fino in fondo la carta dell’Europa a due velocità perché questa poteva aprire scenari geopolitici interessanti. I quali, guarda caso, sarebbero andati nella direzione dell’Europa delle Regioni; l’Europa delle due velocità era uno scenario che poteva rimettere in discussione i confini.

Lucio Caracciolo, in un dibattito con Enrico Letta (Caracciolo/Letta, 2010, p. 22), illustra il punto di contatto tra i due fuochi: la distruzione del progetto europeo pluralista, democratico e liberal-socialista e degli stessi stati-nazione che lo compongono, attraverso la creazione di un’Europa a due velocità:

L’attuale crisi economica, che è sempre più una crisi sociale, rischia poi di mettere in questione il senso concreto degli Stati nazionali, a cominciare dal nostro. Quando i tedeschi riscoprono l’Euronucleo come insieme riservato ai Paesi connessi all’economia e alla cultura monetaria germanica, constatiamo che ne risulta rafforzata la tesi «padana» per cui il Nord Italia pertiene a questo spazio, il Sud niente affatto. […]. Se davvero si costituisse un Euronucleo paracarolingio, forse ne saremmo esclusi. In tal caso metteremmo a rischio l’unità nazionale. Perché se il criterio di quel nucleo è l’appartenenza alla sfera economica tedesca, fino a Verona ci siamo, più a sud molto meno. Bossi avrebbe buon gioco a rispolverare i suoi argomenti secessionisti. Per la Lega l’Euronucleo tornerebbe a rivelarsi la leva per dividere l’Italia, non per unire l’Europa.

Zbigniew Brzezinski, architetto della politica estera statunitense in Eurasia dagli anni Settanta, mentore del giovane Obama e co-fondatore con David Rockefeller della Commissione Trilaterale, ha espresso la sua approvazione per questo genere di sviluppo, che si integra perfettamente nelle strategie della NATO (Christian Science Monitor, 24 gennaio 2012):

Io credo che, alla fine, la risoluzione della crisi odierna in Europa non funzionerà poi tanto male…Inevitabilmente, una vera unione politica prenderà gradualmente forma, all’inizio probabilmente attraverso un trattato di fatto, che sarà raggiunto con un accordo intergovernativo nel prossimo futuro. Sarà un’Europa a due velocità. Non c’è niente di male in un’Europa che è in parte e contemporaneamente un’unione politica e monetaria nel suo nucleo centrale e che accetta di essere diretta da Bruxelles, circondata da un’Europa più ampia che non fa parte dell’eurozona ma condivide tutti gli altri vantaggi dell’Unione, per esempio la libera circolazione delle persone e delle merci. È un progetto in linea con la visione post-Guerra Fredda di un’Europa in espansione, unita e libera.

Questo è un progetto che piace molto alle fondazioni e think tank neoliberisti e che potenzierebbe a dismisura le spinte secessioniste nei paesi relegati in “serie B”. Catalogna, Paesi Baschi, Scozia, Alto Adige e “Padania” difficilmente tollererebbero l’esclusione.

In un’intervista per il Corriere della Sera (“Ispiratevi alle città del Rinascimento”, 14 luglio 2012), Marcia Christoff Kurapovna, sfegatata paladina del neoliberismo residente a Vienna, ha perciò esortato la Grecia e l’Italia a seguire l’esempio jugoslavo, smembrandosi in piccoli staterelli sul modello dell’Alto Adige/Sudtirolo. Ha sorvolato però sul dettaglio che tali micro-entità sarebbero istantaneamente e completamente alla mercé dei mercati, delle oligarchie finanziarie, delle multinazionali.

Esaminiamo dunque questo progetto di uno Stato Libero del Sudtirolo.

Il politologo Günther Pallaver, intervistato nel febbraio del 2009 da Gabriele Di Luca, in vista di un dibattito pubblico sul tema “Stato libero: una visione” ha dichiarato, in modo piuttosto perentorio:

Chi rivendica il diritto all’autodeterminazione sottolinea in continuazione che gli italiani – in uno Stato autonomo o nell’ambito dello Stato austriaco – sarebbero tutelati come lo sono i tedeschi in Italia. Ciò significa che la tutela attuale non può essere poi così male. Ma se penso a come l’Austria tutela le sue minoranze, allora il mio scetticismo si acuisce. Basta dare uno sguardo alla Carinzia, dove vive la minoranza slovena. Confesso che in uno Stato sovrano avrei paura del nazionalismo tedesco, dei suoi impulsi vendicativi. Solo fino a pochi anni fa gli Schützen dichiaravano che gli italiani sono solo ospiti in questa terra, un’assurdità che contrasta con i diritti fondamentali dell’uomo, poiché ogni cittadino dell’Unione Europea ha il diritto di residenza in tutti i suoi Stati membri. Preferisco dunque le certezze di oggi: garanzie costituzionali e internazionali e una cultura politica europea di democrazia e tolleranza. Alle promesse di un radioso futuro preferisco le sicurezze del presente.

I Freiheitlichen hanno commissionato la stesura della bozza di una possibile costituzione per lo Stato Libero del Sudtirolo. Tale bozza corrobora i timori di Pallaver, stabilendo che lo strumento referendario consentirebbe di emendare la costituzione: il che introduce la prospettiva di una tirannia della maggioranza che stravolga quegli articoli che tutelano i diritti civili di chiunque risieda in Alto Adige – in primis gli immigrati, che non sono particolarmente ben visti –, lasciando intatti quelli più problematici, come quello che consente ai ladini veneti di chiedere l’annessione al nuovo stato, generando ulteriori tensioni con l’Italia e quello che sancisce il diritto per ogni gruppo etnolinguistico di difendere la propria identità, aprendo la strada ad ogni possibile interpretazione. Infatti, molti si ricorderanno della famosa vicenda della rana verde che stringe un boccale di birra ed un uovo tra le zampe, autoritratto dell’artista Martin Kippenberger, torturato dall’alcolismo, la sua croce. Fu esposta al Museion di Bolzano e scatenò la furia di una parte della popolazione locale. Il presidente del Consiglio Regionale, Franz Pahl, arrivò a dire che “la Rana è un oltraggio alla nostra cultura. Se continueremo di questo passo arriveremo alla totale anarchia”. Ora, al di là del fatto che la stessa destra che mandava gli Schützen a presidiare l’accesso al Museion ora bolla come primitivi i musulmani che si sentono ingiuriati da una pellicola trash che ritrae Maometto come un pedofilo-stupratore-pappone-sterminatore, questa è una dichiarazione che esplicita la bizzarra credenza che non insegnare ai bambini la (presunta) verità di una particolare religione equivalga ad educarli al nichilismo. Bizzarra perché c’è da augurarsi che molti concordino nel dire che la fonte più affidabile per una condotta autenticamente morale è imparare a metterci nei panni degli altri – pur tenendo conto dei loro gusti. Chiunque dovrebbe essere in grado di farlo, ma sono proprio le militanze ed identificazioni forti (incluso l’ateismo) ad essere di grave ostacolo. Pichler-Rolle, il presidente del partito di governo in Alto Adige, l’SVP, chiese la rimozione dell’opera perché “troppi sudtirolesi si sono sentiti feriti nei loro sentimenti religiosi”.

Gustavo Zagrebelsky (“Simboli al potere”, 2012,  p. 45) ci ragguaglia rispetto al potere dei simboli ed alla necessità di democratizzarli:

“Il simbolo che non è di tutti, ma è solo di qualcuno, cessa di essere simbolo e diventa diabolo. Viene meno ai suoi compiti d’unificazione, di diffusione di sicurezza e di promozione di speranza…Se qualcuno se ne impadronisce, governandone i contenuti, inculcandoli come propaganda o come pubblicità nella testa degli altri, facendone così strumento di governo e di dominio delle coscienze, il simbolo cambia natura…Il simbolo-diabolo può diventare il diapason del potere totalitario.

Chi controlla certi simboli controlla le coscienze attratte da tali simboli; può così dominare intere nazioni (pensiamo ad Hitler, alla swastika, all’Ariano) e magari perfino interi pianeti.

Quel che vogliono i Freiheitlichen è, molto semplicemente, una piccola fortezza, una ridotta alpina, all’interno della Fortezza Europa.

Proprio sul tema delle fortezze in Alto Adige e della loro vacuità, la celebre scrittrice indiana Arundhati Roy ha qualcosa da dire (da “The Briefing”, Manifesta 7, 2008):

Cosa custodivano qui, care compagne e compagni? Cosa difendevano? Armi. Oro. La civiltà stessa. Questo è ciò che dice la guida…Quando le ossa di pietra di questo leone di pietra saranno interrate nella terra inquinata, quando la Fortezza-che-non-è-mai-stata-attaccata sarà ridotta in macerie e la polvere delle macerie avrà formato dei cumuli, chissà che non nevichi di nuovo.

Per concludere, un intervento (Alto Adige, 25 luglio 2012) di Luigi Gallo, assessore alla Partecipazione, al Personale e ai Lavori Pubblici del comune di Bolzano, che va dritto al cuore del problema. Rispondendo a due lettori impregnati di luoghi comuni xenofobici, mostra il nesso tra i due fuochi, l’immigrazione e l’unica, concreta, attuabile soluzione ai nostri problemi, un autentico viatico verso un Mondo Nuovo:

I due lettori hanno sacrosanta ragione a lamentare una drammatica crisi economica che colpisce giovani, pensionati, lavoratori; ma dovrebbero rivolgere i propri strali verso altri bersagli; mentre loro guardano male il carrello della spesa del vicino immigrato o notano con invidia la marca della sua auto di “seconda mano”, qualche decina di speculatori a livello mondiale – con un clic sulla tastiera di un computer – guadagna miliardi di euro con operazioni di Borsa che mandano sul lastrico interi paesi, Italia compresa; le conseguenze sono poi che i governi di quei paesi devono tagliare gli ospedali, le scuole e le pensioni per risparmiare e pagare interessi astronomici sui titoli di stato. Forse i due lettori potrebbero prendersela con queste politiche economiche che tagliano pensioni e diritti del lavoro mentre gli evasori fiscali rimangono salvi. Certo, è più facile guardare il vicino di casa che viene dal Marocco o dal Pakistan e pensare che sia colpa sua, ma non è così. Piaccia o meno, semplicemente non è così. Avete tante ragioni cari signori ma la guerra fra poveri serve solo a distruggere la solidarietà fra le persone e a far ridere “quelli in alto, ma molto in alto” che decidono la nostra vita. Sta a voi decidere da che parte stare

Libia: missione compiuta. Sotto a chi tocca! (Pachistan, Siria)

a cura di Stefano Fait

L’ulteriore impegno dell’Italia in Libia è uno sviluppo naturale.

Giorgio Napolitano

Bombardare una nazione non è uno sviluppo naturale.

Antonio Di Pietro

Si tratta di una questione seria e delicata, che riguarda tra l’altro milioni di persone che si sono ribellate a un regime dittatoriale e che per questo stanno subendo azioni di guerra e rischi per la loro stessa incolumità fisica, civili innocenti abbandonati alla furia oppressiva.

Anna Finocchiaro

Chi scende in piazza contro la missione internazionale di fatto non è neutrale, bensì con Gheddafi. Perché niente cortei quando Gheddafi massacrava il suo popolo? […] In Italia vedo appelli a protestare mossi dall’ossessione assoluta e accecante della mitica lotta contro l’imperialismo americano. Come fa Vendola a dire né con Gheddafi né con le bombe?

Daniel Cohn-Bendit, presidente dei Verdi al Parlamento europeo.

http://fanuessays.blogspot.com/2011/11/perche-questuomo-e-il-leader-dei-verdi.html

Circa 10 giorni dopo l’11 settembre 2001 mi sono recato al Pentagono, ho visto il segretario alla difesa Rumsfield e il vice segretario Wolfowitz, sono sceso per salutare alcune persone dello Stato Maggiore che lavoravano per me e uno dei miei generali mi chiamò dicendomi: «Venga, Le devo parlare un momento», io gli dissi «ma lei avrà da fare…» e lui disse «no, no, abbiamo preso una decisione, attaccheremo l’Iraq» . Tutto questo accadeva attorno al 20 di settembre. E io gli chiesi: «ma perché?» e lui: «non lo so», e aggiunse «penso che non sappiano cos’altro fare». Io gli chiesi «hanno trovato informazioni che collegano Saddam Hussein con Al Quaeda?», disse «No, non c’è niente di nuovo. Hanno soltanto deciso di fare la guerra all’Iraq!», e disse «non so la ragione è che non si sa cosa fare riguardo al terrorismo, però abbiamo un buon esercito e possiamo rovesciare qualsiasi governo». Sono tornato a trovarlo alcune settimane più tardi e all’epoca stavamo bombardando l’Afghanistan. Gli chiesi: «bombarderemo sempre l’Iraq?», lui mi rispose «molto peggio!». Prese un foglio di carta e disse «ho appena ricevuto questo dall’alto», sarebbe a dire dall’ufficio del segretario alla difesa. «Questo è un memo che descrive in che modo prenderemo 7 paesi in 5 anni, cominciando dall’IRAQ, poi la SIRIA, il LIBANO, la LIBIA, la SOMALIA, il SUDAN e per finire l’IRAN». Gli chiesi: «è confidenziale?» e lui «si, signore».

Generale Wesley Clark, ex comandante generale dell’US European Command.

http://www.youtube.com/watch?v=fW8mLDtq9Ls&feature=player_embedded

Al Pentagono, nel novembre del 2001, feci una chiacchierata con uno degli ufficiali superiori. Sì, stavamo ancora progettando la guerra contro l’Iraq, ma c’era anche altro. Quel progetto faceva parte di un piano quinquennale di campagne militari che comprendeva sette nazioni: a partire dall’Iraq, per continuare con la Siria, il Libano, la Libia, l’Iran, la Somalia e il Sudan. Il tono era indignato e quasi incredulo […] Cambiai discorso, non erano cose che volevo sentire.

Wesley K. Clark, Winning Modern Wars, p. 130

http://www.amazon.com/Winning-Modern-Wars-Terrorism-American/dp/1586482181

Sono un autonomista, non un separatista, o comunque non separatista ad ogni costo.

Razzismi e nazionalismi e la violenza irrazionale che li accompagna si estinguono quando c’è prosperità e non c’è disoccupazione, ossia quando i deboli non sono costretti a combattersi l’un l’altro, quando nessuno si permette di stabilire che il proprio dio è superiore a quello degli altri, nessuno ha bisogno di idoli da venerare e tribù a cui giurare eterna fedeltà e per cui immolarsi. Quando invece c’è crisi gli intelletti si ottenebrano, le passioni si accendono, le idee si deformano, il buon senso ne esce mutilato. A quel punto o le comunità sono governate da persone di buona volontà, disposte a servire i cittadini, la verità e la giustizia, oppure razzisti, oscurantisti, populisti, guerrafondai, fanatici, mitomani, psicopatici assumeranno il controllo della società e la spingeranno verso l’abisso.

La dignità dei popoli non va confusa con il narcisismo particolarista di chi è più interessato a tutelare le proprie rendite e che, per ciò stesso, è facilmente manovrabile, diventa una pedina impiegata per frammentare entità nazionali, balcanizzandole, contrapponendo cinicamente un gruppo all’altro (divide et impera), trasformandole in golosi bocconi per la potenza di turno e neutralizzando così preventivamente ogni possibilità che le masse si uniscano contro le élite e le loro politiche egemoniche ed anti-democratiche.

Il separatismo è il gioco preferito da chi aderisce alle strategie di Zbigniew Brzezinski, grande vecchio della politica estera statunitense, mentore del giovane Obama e co-fondatore con David Rockefeller della Commissione Trilaterale (ne fu il direttore tra il 1973 ed il 1976) che, alla fine degli anni Novanta, spiegava che le guerre americane non servono a sanare l’economia americana ma esclusivamente a riaffermare l’egemonia statunitense mondiale e che solo un qualche tipo di Pearl Harbor consentirebbe di occupare militarmente l’Asia Centrale, il centro geostrategico del globo (l’11 settembre è arrivato circa 4 anni dopo la pubblicazione del libro):

http://www.amazon.com/Grand-Chessboard-American-Geostrategic-Imperatives/product-reviews/0465027261/ref=dp_top_cm_cr_acr_txt?ie=UTF8&showViewpoints=1

Riferendosi alle nazioni centrasiatiche, Brzezinski usava volutamente termini come: “vassalli”, “tributari” e “barbari”.

Essendo contrario alle guerre, che considerava e considera troppo dispendiose rispetto ai benefici che possono apportare, suggerisce di optare per la soluzione dell’insorgenza anti-governativa, ossia cambi di regime per mezzo di insurrezioni popolari programmate, le ben note rivoluzioni colorate.

Le rivoluzioni colorate sono dei movimenti di protesta non-violenti e non-spontanei esplosi in varie regioni dell’ex Unione Sovietica e del Medio Oriente, tra le quali la Serbia (2000), la Georgia (2003), l’Ucraina (2004), il Libano e il Kyrgyzstan (2005), l’Iran (fallita, nel 2009-2010), in seguito ad un’elezione  dall’esito contestato o sull’onda della richiesta di un voto legittimo. Sono non-spontanee in quanto strumenti di politica estera, come il terrorismo.

Questi non sono complottismi, sono fatti documentati dai migliori corrispondenti internazionali, incluso il premio Pulitzer Seymour Hersh (quello di My Lai e di Abu Ghraib) e confermati da Kissinger e, appunto, dallo stesso Brzezinski.

Se così tanta gente non l’ha ancora capito è per pigrizia intellettuale ed inerzia morale.

L’Occidente (o altre potenze regionali e globali) organizza e finanzia le rivolte, direttamente o attraverso le ONG, per ottenere dei cambi di regime senza incorrere negli ingentissimi costi di una guerra (Iraq, Afghanistan, Libia) o nelle spiacevoli ricadute d’immagine di un golpe (es. Pinochet, Gbagbo), sfruttando le vulnerabilità dell’emotività umana (paura, desiderio, pigrizia) e la credulità dell’opinione pubblica internazionale pronta ad avallare qualunque moto nominalmente democratico. I fomentatori sono degli specialisti, persone altamente competenti che devono manovrare i moti popolari in modo tale da non far trapelare le reali motivazioni dei poteri forti che li sostengono. La stragran parte dei manifestanti dev’essere in buona fede, altrimenti il fallimento è assicurato.

Se i governi (“regimi”) esistenti sono troppo robusti (es. Libia, Pachistan), si ricorre all’indipendentismo ed alla guerra civile.

Praticamente tutti i critici dell’intervento in Libia avevano previsto che quel paese sarebbe stato separato in due tronconi e quello orientale, più ricco di petrolio e gas naturale, sarebbe diventato una colonia euro-americana. Ora sappiamo che avevamo visto giusto.

“La Cirenaica si proclama “autonoma”. Alla Tripolitania, la mossa non è piaciuta. Il Cnt parla di «un appello alla fragmentazione». Il leader Mustafa Abdul Jalil minaccia uso forza. Il dopo-Gheddafi mostra le ambiguità di una ribellione che non è stata una rivoluzione per la democrazia.

La nuova Libia ogni giorno ha la sua pena. Si può anche capire, visto che i 42 anni di Gheddafi si sono lasciati dietro un vuoto istituzionale che la (ex) Jamahiriya (lo Stato delle masse) non è certo servita a coprire.

Però questo non rende la pena quotidiana meno acuta. Quella di ieri è la proclamazione, unilaterale, di una regione (o peggio, di «uno Stato») semi-autonomo. È la regione (o lo Stato) di Barqa, nome arabo della Cirenaica, l’est del paese, quella più grande – la metà dell’attuale territorio libico: va da Sirte fino al confine con l’Egitto a est, fino al Ciad e al Sudan a sud – e, guarda un po’, quella che racchiude i due terzi delle colossali risorse petrolifere.
La proclamazione è avvenuta nel corso del «Congresso del popolo della Cirenaica», svoltosi in un hangar fuori Bengasi, con duemila delegati in festa. Fra loro rappresentanti delle principali tribù dell’est – Ubaidat, Mughariba, Awajeer -, comandanti delle milizie che hanno combattuto contro Gheddafi – l’«Esercito di Barqa» che raggruppa 61 «milizie rivoluzionarie» dell’est – e uomini politici della regione – alcuni dei quali membri dello stesso Cnt, il Consiglio nazionale transitorio: come lo stesso Ahmed al Zubair al Senussi, nominato capo del Consiglio di governo provvisorio di Barqa.
Ahmed al Zuabair, quasi ottantenne, è il pronipote dell’ultimo re libico, re Idriss (pupazzo nelle mani degli inglesi rovesciato dal giovane colonnello Gheddafi il primo settembre 1969), ha passato nelle galere gheddafiane 31 anni e nel 2011 ha vinto il premio Sakharov per «aver combattuto per la libertà della Libia». La nuova Libia ha recuperati la vecchia bandiera di re Idriss e ora anche il pronipote.

Al Cnt e all’occidente libico, la Tripolitania, la mossa dei cirenaici non è piaciuta per nulla. Hanno un bel dire che si è trattato solo di una dichiarazione di intenti, che autonomia non vuol dire secessione, che federalismo «non significa divisione ma unità», che le risorse petrolifere, la politica estera e l’esercito nazionale resteranno nelle mani del governo centrale e «federale» di Tripoli. Il Cnt ha parlato di un passo «pericoloso» e di «un evidente appello alla fragmentazione».
Anche perché l’«autonomia» pretesa dalla Cirenaica è molto larga: un proprio parlamento, una propria polizia, delle proprie corti di giustizia, una capitale – Bengasi, la seconda città del paese -, un proprio governo. Anche le elezioni, indette «entro due settimane» per eleggere il proprio esecutivo, suonano come una sfida a quelle che il Cnt ha fissato per giugno, che dovranno eleggere una assemblea nazionale di 200 membri per nominare un nuovo capo di governo e scrivere una nuova costituzione. Sulla base della legge emanata dal Cnt, di quei 200 deputati, la Cirenaica dovrebbe averne 60, contro i 100 della Tripolitania (più popolosa). Troppo pochi dicono a Bengasi, accusando le autorità della «nuova Libia» di proseguire la politica di emarginazione-discriminazione che fu di Gheddafi verso l’est, accusato di essere culla dell’islamismo e dell’opposizione.

Alla «autonomia» e al «federalismo», il Cnt di Mustafa Abdel Jalil e il governo provvisorio del premier Abdel Rahim al-Keib contrappongono una «decentralizzazione» che darebbe ampi poteri ai governi muncipali e locali ma che non prevede l’esistenza di «Stati» così ingombranti. La mossa ieri a Bengasi riporta agli anni fra il 1951 (quando gli inglesi diedero «l’indipendenza») e il ‘63 in cui re Idriss (in realtà il Foreign Office di Londra) divise la Libia in tre Stati: la Tripolitania a ovest, la Cirenaica a est e il Fezzan nel sud-ovest.

La «nuova Libia» ha qualche problema”.

Maurizio Matteuzzi [Il Manifesto]

Roma, 07 marzo 2012, Nena News

http://nena-news.globalist.it/?p=17584

“Libia, Amnesty International denuncia “Torture e abusi da milizie fuori controllo”. L’organizzazione umanitaria sottolinea che “le azioni e il rifiuto di deporre le armi o unirsi ai ranghi dell’esercito regolare minacciano di destabilizzare il Paese e deludere le speranze di milioni di persone che sono scese in piazza per chiedere libertà, giustizia, rispetto per i diritti umani e dignità”.

Il loro disarmo era uno degli impegni prioritari del nuovo governo libico che deve traghettare il paese nel dopo-Gheddafi. Invece, a un anno dall’inizio della guerra civile che ha poi portato all’intervento della Nato e alla cacciata del dittatore, le milizie sono la principale minaccia alla stabilità della nuova Libia. Lo documenta un rapporto reso pubblico oggi da Amnesty International, che si apre, con una frase di Navi Pillay, Alto commissario Onu per i diritti umani: “La mancanza di controllo da parte del governo centrale produce un ambiente favorevole alle torture e agli abusi”.

[…].

“I miliziani hanno preso prigionieri centinaia di lealisti di Gheddafi e di presunti mercenari stranieri, molti dei quali sono stati maltrattati e torturati, a volte fino alla morte”. Decine di migliaia di persone, secondo Amnesty, sono state costrette a lasciare le proprie case dalle milizie lanciate in saccheggi e devastazioni contro presunti fedeli del dittatore. La pratica degli arresti arbitrari, al di fuori di qualsiasi controllo da parte delle autorità statali, continua ancora con “migliaia di detenuti arrestati senza alcun processo e senza la possibilità di contestare la legalità del loro fermo”.

Il rapporto è basato sulle ricerche sul campo condotte dal personale di Amnesty che ha intervistato centinaia di persone che sono state detenute a Sirte, Misurata, Tripoli, al-Zawyah e Gharian.

[…].

Medici, personale internazionale, attivisti per i diritti umani erano troppo spaventati per denunciare le violenze di cui avevano avuto notizia o che avevano potuto verificare di persona. “Le loro paure erano fondate – aggiunge AI – Persone che hanno presentato denunce sono state minacciate o attaccate dalle milizie”.

[…].

Le autorità non hanno voluto riconoscere la scala degli abusi, limitandosi al massimo ad ammettere casi individuali, nonostante l’evidenza di abusi diffusi e sistematici in molte parti del Paese”.

Difficilmente la nuova Libia poteva partire peggio di così”.

di Joseph Zarlingo

http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/02/16/libia-amnesty-international-denuncia-torture-abusi-milizie-fuori-controllo/191706/

PACHISTAN

L’8 febbraio 2012 si è tenuta un’Audizione del Congresso americano, convocata dalla Commissione per gli Affari Esteri della Camera statunitense dei Rappresentanti e presieduta da Dana Rohrabacher, membro repubblicano del Congresso e co-autore di un articolo che esprime sostegno per un Belucistan indipendente:

http://gilguysparks.wordpress.com/2012/02/19/ingerenza-straniera-negli-affari-del-balucistan/

Ciò corrobora l’analisi di Webster G. Tarpley sui piani statunitensi per il Pachistan:

http://tarpley.net/2011/05/27/gli-stati-uniti-e-il-pakistan-vicini-a-una-guerra-aperta/

A questa potenza nucleare, caduta in disgrazia presso la Casa Bianca e il Pentagono, potrebbe essere strappato il Belucistan, che diventerà uno stato indipendente molto ricco di risorse minerarie:

http://www.corriere.it/scienze_e_tecnologie/12_febbraio_21/miniera-oro-paksitan-virtuani_a952b4a4-5bda-11e1-9554-12046180c4ab.shtml

L’argomentazione impiegata è trita e ritrita. La maggioranza oppressiva dev’essere fermata, la minoranza può tutelarsi solo costituendo uno stato indipendente, alleato di ferro della NATO. [Chissà cosa succederebbe se fossero il Texas, il Nuovo Messico o il Vermont a volersene andare].

Nel caso pachistano, dopo la rimozione dal potere di Musharraf, burattino dell’Occidente, gli oppressori sarebbero gli indomiti Pashtun, che hanno resistito per secoli ad ogni occupante straniero. Oppressiva è la millenaria cultura del Punjab.

Il Belucistan ha anche il vantaggio di sconfinare nell’Iran e nell’Afghanistan, il che non guasta ai fini della destabilizzazione di governi ostili.

Questo piano ha però alcune controindicazioni di non poco conto: Pachistan ed Iran combatteranno fino all’ultimo per difendere la loro integrità territoriale e la Turchia non sarà disposta ad avallare una strategia che favorirebbe il separatismo kurdo. Gli Americani si troverebbero isolati nell’Asia Centrale e spazzati via, anche in virtù del probabile intervento cinese e russo, due potenze che si sono fatte garanti dell’unità pachistana e del diritto iraniano di proseguire il loro programma atomico:

http://fanuessays.blogspot.com/2011/11/terza-guerra-mondiale-scacchiera-pezzi.html

SIRIA

Le milizie ribelli non sono diverse da quelle che hanno imperversato in Libia:

http://www.silviacattori.net/article2864.html

Forse sono addirittura le stesse persone:

http://gilguysparks.wordpress.com/2012/03/08/la-russia-critica-aspramente-la-nato-sulla-libia-e-la-libia-sulla-siria/

Il responsabile di Al-Jazeera per la Siria è il fratello di uno dei capi dell’insurrezione siriana. I giornalisti di Al-Jazeera si dicono sempre più indignati per la distorsione della realtà prodotta dal loro canale di informazione:

http://english.al-akhbar.com/content/syria%E2%80%99s-electronic-warriors-hit-al-jazeera

I ribelli ammettono di ricevere già da tempo armi dall’Occidente:

http://www.presstv.ir/detail/228428.html

La prima figura istituzionale ad abbandonare Assad e schierarsi coi ribelli è, guarda caso, un viceministro del petrolio:

http://it.euronews.com/2012/03/08/siria-vice-ministro-del-petrolio-si-dimette/

Una parte importante dell’opposizione siriana contraria all’escalation militare si dissocia da chi vuole a tutti i costi un intervento bellico:

http://www.almanar.com.lb/english/adetails.php?eid=46639&cid=23&fromval=1&frid=23&seccatid=20&s1=1

“Perché il regime di Bashar al-Assad non è caduto? Perché la maggioranza della popolazione siriana ancora lo sostiene (il 55%, in base a un sondaggio che risale di metà dicembre finanziato dalla Qatar Foundation)”:

http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=print&sid=9863

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