A cura di Stefano Fait
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L’unico merito di “Elysium” è che ci rammenta che le società egoiste fondate sull’arrivismo e sulla prevaricazione sono intrinsecamente instabili.
La base della piramide preme per prendere il posto di chi risiede sulla sua sommità.
L’apice non può disfarsi della base e dei corpi intermedi se vuole continuare a “vivere alla grande” e quindi è condannato a vivere in uno stato di ansia e diffidenza.
Non è una società, è un incubo sociopatico: come un magnete, può solo attirare disgrazie, deprimere la natalità, moltiplicare la violenza e la paura, cronicizzare un’insoddisfazione inappagabile, a ogni livello.
È come essere prigionieri di un videogioco in cui – anche da protagonisti – si recita la parte di una comparsa unidimensionale, non si riesce a passare di livello nemmeno con i trucchi e, giorno dopo giorno, vita dopo vita, si batte il muso contro l’eterno ritorno dell’uguale a se stesso.
La fiera della prevedibilità e quindi del tedio esistenziale, un insulto all’intelligenza umana, postumana, transumana, ecc. L’antitesi delle utopiche aspirazioni di Elysium, che sarebbe dovuta essere un’oasi di pace, benessere, serenità, ordine, armonia ma, date le premesse, non può essere qualcosa di diverso da un nido di serpi, o da una banda di parassiti che, spolpata la carcassa, cominciano a consumarsi tra loro.
Il concetto di fondo è che nessuno ha valore di per sé, ma solo in quanto possessore/proprietario e quindi nella misura in cui è capace di sottrarre ad altri ciò che la cultura dominante considera degli status symbol. Un’esistenza falsamente attiva, che in realtà è passiva, a rimorchio di bisogni indotti che formano un guinzaglio attorno al collo di tutti i combattenti della lotta di classe. Chi è libero? Nessuno. Chi è schiavo? Tutti, ciascuno a modo suo.
Una caricatura neomarxista del capitalismo e del feudalesimo, dove né gli uni né gli altri vedono i propri antagonisti come esseri umani degni di rispetto, se non di cameratismo, ma come avversari da disprezzare e sottomettere, cioè a dire come cose, in conformità con quel feticismo degli oggetti che li porta a idolatrare la materia che vogliono dominare al fine di stabilire la propria superiorità. Perché è questo che desiderano più di ogni altra cosa: vincere, fortissimamente vincere. E quindi bramano l’altrui disfatta. Questa è la mentalità che guida le loro azioni.
Elysium è un cantico dell’invidia, del cliché, del materialismo e della totale assenza di senso dell’umorismo, creatività, inventiva, empatia. È lo specchio di Hollywood, la fabbrica degli sbadigli e dello spreco di risorse (un potlatch del terzo millennio). L’anti-Mida: ogni ispirazione immaginifica che tocca riesce a trasmutarla in qualcosa di dozzinale, puerile e decerebrante.
La Hollywood decadente di un Occidente decaduto richiama alla mente quelle file di auto parcheggiate nelle nostre città: più o meno tutte uguali, più o meno tutte dello stesso colore (grigio, bianco o nero).
Non c’è alcuna ragione di interessarsi alle vicende di una tale società – Elysium, come l’Occidente decaduto –, se non sulla scia di uno stravagante e transitorio slancio mirmecologico. L’antropologia s’interessa di esseri umani a tutto tondo e deve quindi rivolgersi altrove.
Ed è precisamente quel che ho fatto, delineando un’alternativa alla società zombie, necrofila e decadente che certuni, morbosamente eccitati dalla mania del controllo, del possesso, del dominio, tentano di spacciare come inevitabile (“non ci sono alternative” – TINA)