“Fraudologia: teoria e tecniche della truffa” di Matteo Rampin, Ruben Caris (2010)

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Da questo studio – molto articolato e completo, questa è solo una sintesi: leggetelo! – apprendiamo che i truffatori sfruttano i vizi capitali: superbia (narcisismo), avarizia (possesso), lussuria (edonismo sessuale), ira (aggressività), gola (edonismo alimentare), invidia (competizione), accidia (passività). Ricorrono ai beni materiali come fonte illusoria di certezze (anche amuleti), a dipendenze da piaceri ed appetiti, al desiderio di essere amati ed apprezzati/valorizzati/riconosciuti nei nostri meriti, di essere al centro dell’attenzione, di vedere la propria visione del mondo confermata (stabilizzazione e coerenza interna: è sufficiente assecondare le credenze della vittima), di nutrire speranze, di ricevere consolazione, al rimorso, al senso di colpa, al timore della punizione o di un “imminente stravolgimento cosmico (sic!).

La gente ha paura di perdere quel che ha e di non ottenere quel che desidera. La gente ha anche paura delle complicazioni, della confusione, dell’imprevedibilità. Uno dei riduttori della complessità è la tendenza a pensare che il mondo sia complessivamente ordinato secondo giustizia e che i cattivi saranno puniti ed i buoni premiati (le disgrazie accadono a chi se le cerca). Ogni evidenza che indica il nostro errore viene squalificata o ignorata. Rifiutiamo ciò che non si adatta ai nostri sistemi di credenze e accettiamo le menzogne più incredibili, se ci piacciono. Decidiamo di credere ad una cosa e continuiamo a farlo anche di fronte all’evidenza del contrario.

A questo punto è sufficiente che i truffatori ci costringano a costringere la nostra convinzione da attacchi esterno per consolidarla e farla fruttare. La situazione ideale è quando uno crede di essersi persuaso da sé senza immaginare che non è così e poi desidera fortemente che la “sua” costruzione della realtà sia vera, il che accade specialmente se ci si sente minacciati.

Altri fattori che spianano la strada del truffatore sono la bellezze e la piacevolezza (una guerra umanitaria è bella e piacevole). La spettacolarizzazione  (un evento sorprendente) indirizza la mente, supera le difese che allarmerebbero la vittima (sensazionalismo mediatico). Le persone tendono ad evitare il dolore e cercare il piacere. Per questo i governi truffaldini evitano di rispondere ad un’obiezione, cosicché alcuni scettici meno determinati e sicuri reagiscono sentendosi in colpa per aver sollevato una questione indegna di essere presa in considerazione.

Una strategia semplice ed efficacissima è quella del poliziotto buono (una figura genitoriale rassicurante come la mamma) che collabora con il poliziotto cattivo (castrante ed aggressivo come papà).

La gente si fa fregare anche perché sente il bisogno di appartenere ad un gruppo e teme di esserne escluso. L’autostima, l’orgoglio la vanità impediscono di mettersi in gioco, di gridare che il re è nudo.

Un’altra brillante metodica è quella di creare il problema e poi fornire la soluzione desiderata (dal truffatore). Ad esempio si genera una crisi per trarre vantaggio dal bisogno di senso di fronte all’assurdo.

I governi truffaldini, per rinforzare gli effetti di una crisi, sfruttano la suggestionabilità dei cittadini ed i momenti in cui sono più vulnerabili, il senso di solitudine, la fame, la sonnolenza, la spossatezza fisica e psicologica. Un truffatore infonderà sempre un senso di urgenza e agirà in situazioni che producono confusione: incoerenza, sorpresa, incomprensibilità, sovraccarico sensoriale, inclassificabilità dell’evento nel repertorio delle conoscenze della persona, sovraccarico emotivo. Tutti questi frangenti spengono le facoltà di comprensione della realtà delle persone e spingono ad aggrapparsi ad un’ancora di salvezza, che invece è la tana del lupo.

Lupo che non è avvertito come tale perché si traveste da agnello e/o da pastore e per via della propensione ad accettare un ordine imposto dall’alto, dell’istinto gregario-gregge, della acquiescenza nei confronti di persone percepite come autorevoli, formidabili o autoritarie.

Il depistaggio dell’attenzione della vittima si realizza anche con false esche: costruendo ricordi fittizi (ricostruendo la storia), scenari futuri fittizi, eventi apparentemente casuali; rendendo apparentemente essenziali cose che non lo sono, creando problemi inesistenti e poi proponendosi di risolverli, prospettando due sole alternative (libertà di scelta ristretta, una sola opzione attraente), ben sapendo che una sarà rifiutata, oppure prospettando tante scelte ma poco diverse tra loro.

L’obiettivo del lupo è quello di mettere la vittima con le spalle al muro; deve fuggire solo nella direzione prestabilita: firma qui! Dai pure a me! Vedrai che se fai così tutto si risolverà! È tempo di agire! Questi sacrifici non saranno inutili!

I governanti truffaldini usano frasi fatte e luoghi comuni che fanno appello alla pigrizia cognitiva semplificatoria, oltre alle manipolazioni semantiche del tipo costoso = esclusivo, aborto = interruzione di gravidanza, guerra = conflitto. “missione di pacificazione” e “missione di pace” (invasione e guerra), “supporto aereo” (bombardamento), “proteggere la nostra libertà” (guerra preventiva), “l’amore vince sull’odio” (conversione), “il prezzo della libertà” (sacrificio dei diritti), “guerra al terrore” (terrorismo psicologico), “danni collaterali” (strage di civili, per fare una frittata bisogna rompere le uova), “trasferimento di profughi” (deportazione), “difesa aggressiva” (attacco), “cambio di regime” (colpo di stato), “omicidio extra-giudiziario” (esecuzione, omicidio eccellente), “metodi d’interrogatorio più aggressivi” e “tecniche avanzate di interrogatorio” (tortura), consegne straordinarie” (extraordinary renditions, deportazioni illegali), “intelligence” (servizi segreti deviati), “combattenti nemici illegali” (inapplicabilità della convenzione di Ginevra), “flessibilità d’impiego” (affari tuoi), “non è questo il problema e non è questo il momento” (la tua opinione è irrilevante), “stati canaglia” (nemici), “ateo devoto” (leccapiedi), “bombe intelligenti” (bombe), “sovranità popolare” (demagogia), “Federal Riserve” (non è federale, ma privata e non possiede alcuna riserva), ecc. IDF israeliana: esercito coloniale ed aggressivo si chiama “forze di difesa”. Il Giappone abbandona il suo impegno scritto nella costituzione a non sviluppare un esercito offensivo. Con l’ennesimo espediente retorico: “capacità difensiva dinamica” (= “da ora in poi possiamo attaccare preventivamente…per difenderci”).

Infine, come nel caso della Siria e dell’Iran, entra in gioco anche la tendenza al completamento, ossia il bisogno di finire una cosa iniziata (primavera araba).

Giapponesi indolenti, tedeschi lavativi ed altri miti etnici

Una leggenda medievale narra di anime di morti costrette a marciare notte e giorno, senza una meta, alla massima velocità: quelle che cadono, stremate, ai margini della via si sbriciolano immediatamente in polvere. Sembra la parabola di un tipo di coscienza molto diffuso nel mondo moderno, ossessionato dalla coazione a “tenere il passo”, ridotto alla disperazione dalla velocità sempre crescente del movimento totale. È un tipo di coscienza che chiamerò l’”alienazione del progresso”. Alienazione e progresso sono due elementi centrali nella mitologia dei nostri giorni, e tutt’e due i termini sono stati abbondantemente usati, a proposito e a sproposito.

Northrop Frye, “Cultura e miti del nostro tempo”, p. 23

Ma il destino ha voluto che il mantello si trasformasse in una gabbia di durissimo acciaio….  da cui lo spirito è fuggito. In ogni caso il capitalismo vittorioso non ha più bisogno di questo sostegno, da quando poggia su una base meccanica… e la ricerca del profitto si è spogliata del suo senso etico-religioso, e oggi tende ad associarsi con passioni puramente agonali, competitive… Nessuno sa ancora chi in futuro abiterà in quella gabbia…invero, per gli “ultimi uomini” dello svolgimento di questa civiltà potrebbero diventare vere le parole: “Specialisti senza spirito, edonisti senza cuore; delle nullità che si immaginano di essere ascesi a un grado di umanità mai prima raggiunto”.

Max Weber, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”

I miti etnici possono anche essere divertenti. Penso ai film francesi ed italiani dove si ironizza sul meridionale che deve trasferirsi al nord e sul settentrionale spedito al sud. Se fatti con tatto e buon cuore, possono aiutare una popolazione a ridere di sé e sentirsi meglio con se stessa, più disposta a capirsi, ad accettare i suoi lati oscuri, i suoi vizi, i suoi difetti ed a valorizzare le sue virtù.

Quasi altrettanto divertenti sono i miti etnici del passato, se guardati con gli occhi del presente. Li ha recuperati ed impiegati con grande acume Ha-Joon Chang, docente di origine coreana all’università di Cambridge, uno dei più rispettati economisti del mondo ed uno dei tanti critici del paradigma neoliberista che governa l’economia mondiale (Ha-Joon Chang, “Cattivi samaritani : il mito del libero mercato e l’economia mondiale”, Milano : EGEA, 2008).

Chang riporta la vicenda del consulente australiano preoccupato nello scoprire che il paese asiatico che stava visitando sembrava completamente sprovvisto di un’etica del lavoro, popolato di gente pigra che non mostrava alcuna intenzione di riscattarsi, di imitare l’esempio australiano. Per questo, a suo avviso, il loro reddito equivaleva a meno di un quarto di quello australiano. Quel paese era il Giappone, nel 1915 (meno di un secolo fa). Oggi gli Australiani sono considerati dagli altri “anglo-sassoni” come i cugini più rilassati e dediti a spassarsela.

Non era il solo occidentale a pensarla a quel modo. Anche i missionari si stupivano dell’inclinazione giapponese alla pigrizia, della loro indifferenza al trascorrere del tempo, la loro assenza di qualsiasi turbamento riguardo al futuro, descrizioni che ricordano dappresso quelle dei conquistadores e dei pionieri del Nord America. La socialista britannica Beatrice Webb, qualche anno prima, stigmatizzava l’indipendenza di pensiero dei Giapponesi ed il loro indulgere nei piaceri del tempo libero, lamentandosi del fatto che nel paese del Sol Levante “non c’è evidentemente alcun desiderio di insegnare alla gente a pensare”. A suo modo di vedere i Coreani erano sporchi, degradati, tristi, pigri, selvaggi e complessivamente inetti.

Dal punto di vista dei turisti e visitatori inglesi i Tedeschi di un secolo prima non erano molto meglio dei Coreani. Nella prima metà del diciannovesimo secolo i Tedeschi erano descritti come indolenti, ottusi, indisciplinati, disonesti, svogliati (“lavorano quando vogliono”), scarsamente innovatori e curiosi, incapaci di distinguersi, troppo individualisti per cooperare e perciò anche per badare alla manutenzione delle strade. Così John McPherson, viceré dell’India, e perciò più che aduso a strade in pessime condizioni, raccontava che in Germania aveva trovato strade così malmesse da aver deciso di cambiare i suoi piani ed andare in Italia (!!!).

Ha-Joon Chang osserva giustamente che se i fattori culturali sono così determinanti per il progresso di un popolo non si capisce come i discendenti dei Tedeschi e Giapponesi di poche generazioni fa siano così diversi dai loro antenati. In secondo luogo, l’economista coreano fa notare che definire un popolo “cattolico” vuol dire tutto e niente, dato che sono cattolici sia gli ultrareazionari di Opus Dei sia gli ultraprogressisti teologi della liberazione. Guidati da principi morali e logiche drasticamente diverse, i loro rispettivi atteggiamenti verso la ricchezza e la giustizia sociale sono diametralmente opposti. Musulmani sono sia i talebani sia le donne dirigenti della banca centrale malese, in numero percentualmente maggiore delle donne impiegate in qualunque banca centrale dell’Occidente “femminista”. Certi economisti e storici attribuiscono il successo giapponese all’etica confuciana, ma altri incolpano proprio l’etica confuciana per il ritardo nello sviluppo cinese e coreano. L’Islam è rimasto all’avanguardia per molti secoli in molti settori rispetto alle nazioni cristiane, non ultimo per quanto concerne la tolleranza (gli Ebrei sefarditi cercarono rifugio tra i musulmani quando fuggivano dalle persecuzioni cristiane). Oggi, a parte le petromonarchie assolutiste alleate dell’Occidente, solo Malesia ed Indonesia sono nazioni islamiche economicamente di successo.
Tornando al Giappone, l’odierna immagine del lavoratore nipponico ciecamente leale all’azienda mal si concilia con la combattività della generazione precedente che, tra il 1955 ed il 1964, accumulò più ore di sciopero della Francia e della Gran Bretagna, paesi in cui i lavoratori non sono noti per la loro arrendevolezza.

La spiegazione di queste contraddizioni è piuttosto semplice: gli osservatori dei paesi ricchi tendono a spiegare l’arretratezza dei paesi poveri chiamando in causa la pigrizia (es. crisi dell’eurozona) quando invece è il sistema economico locale che opera con ritmi diversi, meno automatizzati, più umani, oppure molto più massacranti, schiavistici, ma lontano dalla vista dei visitatori. Chi ozia spesso non ha molte altre scelte: non c’è lavoro. Tanto più che molto spesso gli emigrati dei paesi “pigri di natura o di cultura” lavorano più duramente degli autoctoni, per poter aiutare chi è rimasto nel paese d’origine.

Quanto alla “disonestà tedesca”, Chang conclude che quando si è poveri non si va tanto per il sottile, se si tratta di poter sopravvivere dignitosamente. L’eccessiva emotività tedesca e giapponese era invece probabilmente dovuta all’assenza di un modello moderno di organizzazione razionale delle attività che modifica la comprensione del mondo e dei rapporti umani: “è per questo che i Tedeschi ed i Giapponesi del passato erano “culturalmente” molto più simili a chi vive nei paesi in via di sviluppo di oggi rispetto ai Tedeschi ed ai Giapponesi di oggi. In altre parole, la cultura cambia con lo sviluppo economico e diventa industriosa e disciplinata, o impigrita (stagnante) e spensierata, in funzione delle esigenze contingenti. Così, un giorno, se la geografia economica globale dovesse spostarsi verso l’Oceano Indiano, Kenya e Mozambico potrebbero rappresentare un nuovo modello di sviluppo ed impressionare il mondo.

Restano gli interrogativi impliciti nelle riflessioni di Frye e Weber: ne vale davvero la pena? È questo l’unico modello di sviluppo possibile? È così che si valorizzano gli insondabili potenziali di ciascuno di noi? È questa la retta via nella ricerca della felicità? Oppure ci siamo dimenticati che la triade libertà, uguaglianza e fraternità ha senso solo se tutti e tre i principi acquistano un peso determinante, contemporaneamente? I miti etnici (razzisti) non hanno forse tentato di abolire l’ultimo?

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