G.C. – Chi era, veramente, Gesù Cristo?

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Dimostrare che Gesù Cristo non è mai esistito avrebbe uno scarso impatto sulla nostra società in termini di sistemi di credenze; a questo punto l’influenza di Gesù permarrebbe anche senza il Gesù storico.

Jacques Vallée

Un originale libro di Francesco Carotta, apparso in varie lingua ma non in Italia (Was Jesus Caesar?), istituisce accostamenti talora suggestivi tra le due biografie, quella di Cesare e quella di Gesù. Forse si potrebbe conclusivamente osservare che anche il corpo di Cesare, ormai inanime e pluripugnalato, rischiò vari possibili trattamenti. I pugnalatori però non ebbero la forza di procedere alla pratica degli “uncini” riservata ai tiranni detestabili. Forse Cesare faceva loro paura anche da morto. Sta di fatto che un moto di popolo – tra lo sgomento dei pugnalatori – trasformò le esequie di una sorta di apoteosi. E le ceneri di lui – come racconta Svetonio – furono vegliate dagli Ebrei di Roma, che gli erano particolarmente riconoscenti.

Luciano Canfora, “Il presente come storia: Perché il passato ci chiarisce le idee”

 

Secondo la tradizione Longino riceve la famosa lancia dal nonno, che a sua volta l’aveva ottenuta in dono da Giulio Cesare. La Chiesa lo venera come santo e la ricorrenza cade il 15 marzo, giorno del cesaricidio.

Come mai?

51CNJHJ6NVL._SY300_Pompeo Magno chiama chrêstos Giulio Cesare (Plut. Pomp. 75)

Essi non lo uccisero, non lo crocifissero, ma così parve loro… 

(Corano, 4:157)

“Non sono venuto a portare pace, ma una spada” (mt 10,34b)

Nei vangeli non è descritta la scena poi ritratta nella Pietà e la Madonna della Pietà è troppo giovane, potrebbe essere la sorella o la compagna di Gesù. La Pietà però è una buona illustrazione del sogno premonitore di Calpurnia.

In Spagna, durante la cerimonia della settimana santa, la Madonna si chiama “la Vedova”.

Iconografia paleocristiana lo rappresenta come un guerriero.

3 giorni dopo la morte un’effigie di Giulio Cesare in cera viene esposta su una struttura a croce, un altare in segno di trionfo (tropaeum che ruotava a 360 gradi per mostrarsi a tutti). Il tropeo, croce di vittoria sulla quale avrebbero dovuto essere fissate la corazza e le armi del vinto Vercingetorige e sulla quale invece il genio di Antonio aveva fatto sospendere e mostrare al popolo il simulacro in cera del corpo martirizzato di Cesare scoprendolo dalla sua toga insanguinata, quel tropeo, dicevamo, è visto come croce.

Corpo di Cesare viene lasciato giacere in un tempietto consacrato a Venere.

Galilea e Gallia. Corfinio e Cafarnao. Nicomede e Nicodemo. Betania e Bitinia.

«Mi chiamo Legione, gli rispose, perché siamo in molti» (Marco 5, 9).

Longinus e Longinus. Lepidus e Pilatus.

Cesare si fa nominare pontefice (pontifex maximus) per fare carriera a Roma.

G.C. > G.C.

Entrambi sanno che saranno traditi. Traditi dopo un bacio: Lenate bacia la mano a Cesare per dare il segnale del suo assenso alla congiura.

Entrambi sono “figli di Dio” e muoiono a Pasqua (15 marzo, 15 Nisan). Entrambi accusati di volersi fare re. Entrambi indossano una veste rossa e una corona (di spine e serto di alloro). Entrambi pugnalati da un Longino (Gaio Cassio Longino, promotore e guida della congiura cesaricida: “sia fatta giustizia e perisca pure il mondo” – “fiat iustitia et pereat mundus”).

Incontrano di notte Nicomede IV Filopatore, re della Bitinia (amore omosessuale) e Nicodemo (fariseo e discepolo di Gesù: tradizione secondo cui proprio insieme a Giuseppe d’Arimatea è stato uno dei custodi del Santo Graal).

In entrambe le narrazioni c’è di mezzo una testa mozzata (Pompeo e Giovanni Battista).

Gesù prima della morte parla a Pilato, Giulio Cesare parla a Lepido, che sposerà la figlia del Giuda/Bruto.

Cleopatra e “Maria” di Cleofa/Cleopa (Μαρία ἡ τοῦ Κλωπᾶ) “è una discepola di Gesù menzionata in Gv19,25, presente durante la passione di Gesù. Da molti esegeti cattolici viene indicata come moglie di Clopa, fratello di san Giuseppe, e madre dei fratelli di Gesù” (wikipedia).

Carotta_WarJesusCaesarRimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori: Giulio Cesare contrae ingenti debiti per fare carriera, ma una volta arrivato al potere intende realizzare un giubileo del debito che salvi Roma, ormai oberata da un indebitamento intollerabile, anche a causa di usurai come Bruto. Chiunque accettava di non riscuotere più i suoi crediti poteva non pagare più i suoi debiti.

Dio incarnato l’uno e l’altro.

Tre cadute di Gesù corrispondono ai 3 episodi di epilessia di GC.

Gli scontri di Cesare coi diversi Caecilii, Claudii e Metelli si trasformano in guarigioni di ciechi (lat. caecilius = cieco), zoppi (lat. claudius = claudicante) e mutilati (come se metellus venisse da mutilus).

Senato > Sinedrio.

“A Cesare quel che è di Cesare”.

Clemenza di Cesare > Agape di Gesù

Dante mette i tre traditori nell’ultimo girone dell’Inferno, unici “residenti”: Cassius Longinus, M. Iunius Brutus e Giuda (al posto di D. Iunius Brutus)

http://www.carotta.de/

http://www.prnewswire.com/news-releases/jesus-was-caesar-new-book-by-philosopher-and-linguist-francesco-carotta-claims-that-the-real-identity-of-jesus-christ-has-been-discovered-66246907.html

https://divusjulius.wordpress.com/reception/

http://www.enquete-debat.fr/archives/francesco-carotta-si-le-jesus-christ-historique-etait-jules-cesar-cela-creerait-un-probleme-aux-eglises-aux-athees-et-a-la-politique-des-occidentaux-au-moyen-orient-63732

http://www.vanfrieslandfilm.nl/pictures/Lecture_Escorial_Carotta.pdf

http://www.academia.edu/2970832/Francesco_Carotta_War_Jesus_Caesar_Artikel_und_Vortr%C3%A4ge._Eine_Suche_nach_dem_r%C3%B6mischen_Ursprung_des_Christentums

Romano Màdera (Milano Bicocca) sul Mondo Nuovo

PREMESSA MIA

Il fatto è che il montismo non è nulla più che una forma collettiva della Sindrome di Stoccolma.

Gli ostaggi fraternizzano con il rapitore (che diventa il salvatore) per non dover affrontare psicologicamente l’orrore della propria situazione.

In questa versione, come suggerisce Debora Billi, molti lo vedono come l’aguzzino buono che li protegge da aguzzini peggiori.

S’incrociano dunque due dinamiche psicologiche che inducono alla sottomissione: la sindrome di Stoccolma e la tecnica del poliziotto buono e di quello cattivo, che però, come spiega la voce di wikipedia, pur essendo utile con soggetti “giovani, impauriti o sprovveduti”
comporta un certo grado di rischio, se infatti è riconosciuta dal soggetto esso può considerarsi offeso ed insultato e rendere meno probabile una sua collaborazione“.

È “facile” guarire: basta guardare in faccia la realtà e sfuggire a chi ci tiene in ostaggio, verso un Mondo Nuovo.

Romano Màdera (che confesso di non aver mai sentito nominare prima, purtroppo), mi pare una buona guida.

Questa è una sua intervista.

INTERVISTA SUA

…Nell’epoca del pensiero unico neoliberista intravede ancora degli spiragli per immaginare altrimenti il futuro dell’umanità?

Credo che sia un’esagerazione pensare che il pensiero neoliberista sia davvero unico. E’ il pensiero egemone, solo questo. E un’egemonia sgangherata, perché l’egemonia americana, oggi, è ormai da tempo in declino. Non sappiamo se ci sarà, o quale sarà, la forza egemonica nel futuro prossimo, o se, invece, entreremo in un’epoca di confusa competizione fra diverse aree geopolitiche che incorporano grandi gruppi capitalistici. Una delle possibili prospettive, relativamente nuova, è quella di una sovrapposizione di diverse sfere di giurisdizioni e d’influenza non più riconducibili a sfere istituzionali esclusive, come sono state quelle degli stati nazionali o dei blocchi internazionali.

Ma nella pancia del mondo ci sono anche milioni di piccoli esperimenti, come ben sapete, che moltiplicano le sfaccettature di un altro mondo possibile. Non cambieranno la sorte complessiva, a breve, ma sono laboratori di alternative di ogni genere, pronte a tornare utili nella lunga fase di transizione della crisi generale del nostro modello di vita. Una crisi che riguarda, come si sa, fonti di energia, materie prime e risorse alimentari, distribuzione mondiale del lavoro e della popolazione per classi di età, divaricazione fra istruzione e mercato del lavoro, servizi alla persona, assenza di istituzioni sovranazionali forti e credibili.

 

[…].

 

Nel suo Il nudo piacere di vivere (2006) lei sottolinea la necessità di recuperare il senso del limite e della misura per scardinare la logica dell’accumulazione infinita e i suoi effetti patologici sulla vita delle persone. Qual è la sua opinione sul tema della «Decrescita»? In che modo pensa che possa diffondersi una nuova cultura del limite capace di incidere sia sul versante degli stili di vita individuali che su quello della macroeconomia?

Milioni di microesperimenti in questa direzione, semplicemente perché in modo più o meno confuso l’assenza di limite è radicalmente insoddisfacente, radicalmente angosciante. E la sempre più acuta percezione che stiamo arrivando al capolinea dello sviluppo, uno sviluppo che, ormai è sempre più chiaro, non è conquista di maturazione umana. Il disgusto crescerà insieme alla crisi. Il disagio psichico delle popolazioni sopra il livello di sussistenza si specchierà nel rovescio della disperazione dei poveri del mondo, scatenando ancora più depressione e rabbia espulsiva, ma anche preoccupazione e stimolo a convertire le nostre abitudini di vita. Certo non basterà. Noi umani siamo testoni, ancora impariamo solo dalle catastrofi. Penso che ci saranno passaggi molto duri, tremendi, le convulsioni del vecchio mondo possono durare secoli, e non è detto che sorga poi il sole dell’avvenire. Ma avere in mente una meta di patto di equilibrio e di pace può orientare le azioni e iscrivere la propria vita nella sensatezza. Serve la crescita consapevole di una nuova avanguardia.

Non di un nuovo partito, ma di una avanguardia spirituale, capace di sperimentare su di sé una disciplina spirituale (con spirituale intendo l’unità dello psichico, del corporeo e della cultura sociale di un dato tempo), una cultura della cooperazione e della competizione non distruttiva e non espulsiva.

La cellula virale capace di iniettare la possibilità di un esito positivo alla grande crisi di civiltà che stiamo attraversando. Sperimentare su di sé e con gli altri forme di comunicazione e di cooperazione solidale, esercitarsi quotidianamente per rendersi capaci e degni di questo compito, utilizzando in modo eclettico, sincretico ed ecumenico – sulla base della propria esperienza biografica di vita – lo sconfinato patrimonio di saggezza che ci è stato consegnato da filosofie, religioni, spiritualità e arti di tutte le culture.

Confesso però che il termine di Decrescita – non l’idea che condivido nella sua ispirazione di fondo – mi suona, comunicativamente, troppo legata a una negazione, ancora troppo polemica. Preferisco parlare di patto dell’equilibrio e della pace. Equilibrio e pace nel rapporto con la casa comune che è costituita dagli altri, dal lavoro di tutti e dalla natura. Voglio dire, ovviamente, che il punto non è in sé crescere o decrescere, ma come, rispetto a che cosa. So che questo è ben presente nella teoria, ma lo slogan che la traduce non mi convince e rischia di dare un’immagine falsata di quello che si propone. Bisogna dire che vogliamo che crescano, crescano immensamente, attività sensate, consumi attenti, tempi di riflessione, di contemplazione, di gioco, di cura…

Infine, chi volesse superare la dicotomia fra destra e sinistra per produrre un’alternativa credibile all’attuale totalitarismo capitalistico, quali forze simboliche dovrebbe mettere in campo per riconquistare i cuori dei delusi dalla politica?

Le forze simboliche non si inventano, si raccolgono e si re-inventano sulla base di una memoria capace di creazione, come sempre è in realtà la memoria. Abbiamo possibilità meravigliose: possiamo mettere in sintonia e in sincronia (cf. sincronicità, Jung) la concordia di tutto ciò che di saggio, di buono e di bello hanno creato le culture della storia del mondo. Il criterio può appunto essere ciò che contribuisce a costruire un patto di equilibrio e di pace fra i popoli e nell’interiorità di ciascuno.

Ma non serve neppure basarsi soltanto su ciò che forma la grande concordia della saggezza universale, sui punti di coincidenza che pure sarebbero più che sufficienti e di stupefacente capacità trasformativa.

Con un metodo adeguato di comunicazione che rispetti la singolarità biografica e la faccia vivere nella fecondità dello scambio comunitario, possiamo, senza urtarci, far tesoro delle più fini diversità, senza pretendere di imporle. Uno dei milioni di microesperimenti è anche quello che conduciamo in piccoli gruppi di pratiche filosofiche da quindici anni, pratiche fra le quali, appunto, c’è anche la sperimentazione di regole di comunicazione biografico-solidali.

Questo per dire cosa tento di fare personalmente. Facciamo invece un esempio in grande: prendiamo uno dei temi più scottanti di scontro e di incomprensione di universi simbolici, usati spesso a rinforzo di politiche fondamentaliste, contrappositive, sostanzialmente succubi, peraltro, agli interessi della civiltà dell’accumulazione. Quali tesori simbolici sono da snidare nelle convergenze fra le religioni del Libro – Ebraismo, Cristianesimo e Islam – quali forze simboliche possono essere evocate a vantaggio della fratellanza e della cooperazione, della trasformazione interiore e della condivisione sociale e materiale, quali spinte generose verso la comunità universale dell’umano !

Certo, bisogna impegnarsi in un processo di purificazione, di vera e propria catarsi, liberando le religioni – queste e tutte le altre – dalle loro incrostazioni complici di mentalità oggi inaccettabili: bisogna liberarle dall’etnicismo, dal classismo, dal sessismo, dall’autoritarismo, farle passare da questo setaccio, trattenendo solo le perle che vincono il tempo.

Romano Màdera è filosofo, psicoanalista di formazione junghiana e professore ordinario presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, dopo aver insegnato all’Università della Calabria e all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Tra i suoi libri più significativi: L’alchimia ribelle (Palomar, 1997), L’animale visionario (Il Saggiatore, 1999), La filosofia come stile di vita (con L.V. Tarca, Mondadori, 2003) e Il nudo piacere di vivere (Mondadori, 2006).

http://www.megachip.info/component/content/article/32-pensieri-lunghi/5782-lanimale-visionario-intervista-al-filosofo-romano-madera.html

Aung San Suu Kyi, la ribellione, la violenza, la nonviolenza

Necessaria premessa: come sempre, per chi non ha letto le mie precedenti analisi su questo tema, chiarisco che non vedo perché una persona dovrebbe voler arrecare del male a qualcun altro. Però un conto è essere innocui e cercare di non seminare zizzania e di tollerare la diversità umana, un altro conto è consentire ai bulli ed oppressori di spadroneggiare. Questi vanno fermati, meglio se con le buone, alla peggio con le cattive. Non è moralmente accettabile permettere che altri soffrano quando potremmo intervenire, e questo solo per preservare la nostra purezza ed innocenza “ontologica”. Il nonviolento (per definizione “senza se e senza ma”, altrimenti non avrebbe senso definirsi nonviolenti) è in realtà un narcisista egoista, complice di qualunque disegno “satanico”, in quanto usa la nonviolenza come un’arma.

La forza, la potenza servono e sono legittime e virtuose, se sono al servizio dell’umanità e della creazione.

L’importante è capire il contesto, altrimenti si rischia di dare carta bianca o rendersi complici, involontariamente ed inconsapevolmente, di  progetti neocoloniali camuffati da “gravosi ma ineludibili impegni umanitari”.

I pacifisti e nonviolenti si sono appropriati, a torto, di Aung San Suu Kyi (come di tanti altri).

Ma né lei, né Arundhati Roy, né molti ebrei del ghetto di Varsavia, né Bartolomé de las Casas, i nativi americani, gli aborigeni australiani, i tibetani, ecc. erano nonviolenti.

Né lo era il Gesù che scacciava i mercanti dal Tempio. Il più grande messaggero di pace della storia, Gesù il Cristo, ammoniva: “Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra. Non sono venuto a portare la pace, ma una spada” (Mt 10, 34; cf. 12, 51-53). Altrove, precisava: “Non sanno che sono venuto a portare il conflitto nel mondo: fuoco, ferro, guerra” (Tommaso, 16).

Nelson Mandela era stato nonviolento, ma si era poi reso conto che il regime dell’apartheid non aveva alcuna intenzione di dialogare ed usava invece la forza per intimidire. Così il giovane avvocato divenne un “terrorista”/partigiano (a seconda dei punti di vista):

http://fanuessays.blogspot.it/2011/12/mandela-nobel-per-la-pace.html

A parte Martin Luther King e Gandhi, nessun leader di gruppi umani subordinati alle potenze bianche coloniali ha mai abbracciato la nonviolenza senza se e senza ma. In più, nessuno dei due avrebbe mai conseguito alcunché se le autorità a cui si contrapponevano non fossero state indebolite da guerre terribili (le due guerre mondiali per l’impero britannico, il Vietnam per quello americano):

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/02/26/gandhi-o-arundhati-roy-la-scelta-che-determinera-il-futuro-dellumanita/

Aung San Suu Kyi, pur precisando che la violenza è l’extrema ratio, non reputa di poter condannare chi si affida ai metodi violenti (p. 166):

Non condanno chi combatte per la “giusta causa” con qualsiasi mezzo. Mio padre l’ha fatto e io lo ammiro molto per questo.

Perché la nonviolenza non garantisce il successo e ancora meno l’incolumità (p. 165):

Non pretendiamo neppure di avere il monopolio sui metodi di lotta giusti per ottenere ciò che vogliamo. D’altronde, non possiamo garantire la loro incolumità. Non possiamo dire: “seguiteci sulla via della nonviolenza e sarete protetti”, né che ci arriveremo senza vittime. È una promessa che non possiamo fare.

http://fanuessays.blogspot.it/2011/11/omaggio-aung-san-suu-kyi.html

Il suo merito è quello di aver sviluppato una visione profonda ed introspettiva della vicenda umana.

Ecco la sua comprensione delle radici del male e della violenza.

Quando la politica birmana parla dei tiranni che hanno oppresso il suo paese e la sua gente per decenni, traspare la sua incapacità di disumanizzarli. Ai suoi occhi rimangono ancora esseri umani come lei e come le loro vittime (Aung San 2008):

Avverto il loro disagio: la mancanza di fiducia nel bene. e penso che debba essere molto triste non poter credere nel bene. Dev’essere difficile essere una persona che crede solo nelle banconote…Non sto parlando di morale o di coscienza. Non so se ce l’abbiano. Purtroppo ho imparato che esistono persone prive di coscienza morale. Quello che voglio dire è che c’è molta insicurezza nelle persone che riescono a credere solo nei dollari…Ci considerano oggetti da schiacciare, ostacoli da rimuovere. Ma io li valuto molto come persone… Non ho mai imparato ad odiarli. Se lo avessi fatto, sarei stata davvero in loro balia…non si può avere paura di chi non odi. Odio e paura vanno a braccetto… Prima di entrare in politica in Birmania pensavo di essere capace di odiare come chiunque altro. Tuttavia, in seguito mi sono resa conto di non conoscere il vero significato dell’odio, ma che lo potevo vedere nei miei carcerieri…Odio profondo e malvagità…Per superare le tue paure devi prima di tutto dimostrare compassione verso gli altri. Quando cominci a trattare le persone in maniera compassionevole, gentile, partecipe, le tue paure si dissolvono. È un processo immediato.

Non trova disdicevole ammettere di aver sbagliato, riconoscere i propri errori, domandare scusa ed interrogarsi costantemente, anche timorosamente, sulle conseguenze delle proprie azioni per le esistenze altrui, incluse quelle dei propri avversari (ibidem, p. 56):

Secondo il buddismo c’erano persone che neppure il Signore Buddha poteva redimere. Perciò chi siamo noi per affermare di poter salvare tutti? Siccome non sappiamo chi possa essere salvato e chi no, abbiamo il dovere di tentare comunque. non possiamo eliminare qualcuno a priori. Dovremmo concedere a tutti il beneficio del dubbio. 

Un atteggiamento che è reso possibile dalla strenua resistenza al potere della soggettività, dell’egocentrismo, e dalla ricerca di una maggiore consapevolezza delle cose del mondo (ibidem, p. 64):

La consapevolezza è strettamente legata all’obiettività. se sei consapevole di quello che fai, hai una percezione obiettiva di te stesso. e se sei consapevole di ciò che fanno gli altri, diventi più obiettivo anche nei loro confronti…Senza consapevolezza, i pregiudizi di ogni tipo si moltiplicano

Per questo gli uomini del regime sono maestri dell’autoinganno, miopi, privi di lungimiranza, e per ciò stesso intrinsecamente autodistruttivi. Così li descrive la statista birmana: “Sono del tutto fuori di testa. Non hanno nessun contatto con la realtà. Il loro pensiero è così distante dalla verità dei fatti, da diventare assurdo” (p. 171). Nessun regime può reggere a lungo proprio perché si nutre di menzogne, le menzogne impediscono di ragionare, disseminano immobilismo, omologazione, malafede, opacità, false coscienze, che fossilizzano le personalità e le facoltà cognitive, impongono una cronica ristrettezza di vedute, fanno temere l’ampiezza di respiro, inducendo, in ultimo, i decisori – si pensi ad Hitler o Mussolini – a fornire direttive insensate e scegliere opzioni che li condannano alla rovina (op. cit.):

La natura stessa dei governi autoritari e delle dittature impedisce loro di conoscere la verità, perché le persone che vivono sotto tali regimi si abituano a nasconderla a loro stessi e a vicenda. Anche chi ha il compito di scoprire che cosa sta succedendo nel paese per riferirlo alle autorità, acquisisce l’abitudine di non riferire la verità ai superiori. Così tutti disimparano a dire la verità e alcuni arrivano addirittura a non saperla più vedere. Vedono ciò che vogliono vedere, oppure ciò che reputano i superiori vogliano che loro vedano. Se sviluppi tale atteggiamento, poi diventa facile non osare più nemmeno ascoltare ciò che non vuoi sentire. E così finisce per non vedere, né sentire, né dire al verità. E alla lunga l’intelligenza ne risente. […]. Se non ti rendi conto che ciò che fai è sbagliato, non potrai neppure vergognartene. Vivi nella pura fantasia – una specie di follia e una totale mancanza di obiettività. Il che si riduce poi all’incapacità di affrontare la verità. Se vivi in un mondo dove tutto ciò che fai è giustificato da concetti come “patriottismo” o “il bene del paese”, non potrai compiere il passo successivo di vergognarti e desiderare di correggerti.

Solo prestando attenzione a chi ci circonda, alle loro reazioni nei nostri confronti, ossia essendo interessati a loro, alle loro convinzioni, sentimenti e paure è possibile sconfiggere l’intrappolamento in una società sociopatica in cui compassione, misericordia, trasparenza, onestà, lealtà ed altruismo sono trattati alla stregua di vizi o imbarazzanti debolezze (pp. 65-69):

Penso che prima di tutto occorra essere interessati alle persone, vederle come individui, con i loro valori e i loro pregi. Se sei interessato agli altri e rispetti il loro punto di vista, vuoi approfondire la loro conoscenza, il che significa che stai ad ascoltarli, li osservi e impari da loro. penso che l’amicizia cominci da qui… Se loro mi mentono e io li ricambio con la menzogna, come potremmo mai raggiungere una posizione di fiducia? Se loro mi mentono è ancora più importante che io non lo faccia… Si può dire che mentire viola il diritto altrui di ascoltare la verità e in questo senso è una violenza.

E ancora (p. 105):

La corruzione è una forma di disonestà perché è radicata nell’autoinganno. Non credo che le persone corrotte lo ammettano nel proprio intimo. usano altre espressioni. Magari dicono: “Oh, ma lo fanno tutti”. Oppure: “non c’è niente di male”. Ci sono molti modi per giustificare la corruzione. che in se stessa è mancanza di onestà. mancanza di onestà nei confronti della propria persona.

Per Aung San Suu Kyi la migliore definizione di sincerità è “il desiderio di non ingannare nessuno”. Chi è sincero è veritiero, se non inganna se stesso. Perciò, come prima cosa, ci si deve esercitare a fare attenzione ai propri pensieri ed alle proprie azioni, in modo da diventare onesti con se stessi e di conseguenza poterlo essere anche con gli altri (p. 215):

Se hai il coraggio di affrontare te stesso, nel senso di guardarti veramente allo specchio, con tutti i tuoi difetti e le tue mancanze, allora resterai immune alla corruzione. Come buddista non posso fare a meno di pensare che comprendendo il significato autentico di anicca [transitorietà] nessuno darebbe la caccia al potere e alla ricchezza a spese della propria integrità morale.

Inaudite affermazioni sui Conquistadores pubblicate dal Trentino – mia replica

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/06/22/la-verita-sulla-nostra-conquista-di-caprica/

Leggo con sconcerto l’inaudito attacco di Luciano Conotter a Stefano Oss, fisico all’Università di Trento, “colpevole” di aver condannato gli eccidi e l’indottrinamento coatto che hanno accompagnato la Conquista della Americhe.

Senza soffermarsi troppo su quel “miliardo di cattolici latinoamericani” (ci sono circa un miliardo di cattolici in tutto il mondo e la popolazione latino-americana supera di poco il mezzo miliardo), l’intervento di Conotter è talmente disgiunto dalla realtà che inizialmente pensavo fosse da intendersi come una provocazione goliardica.

A beneficio dei lettori del Trentino, del rigore storico e della decenza, è opportuno citare i testimoni del tempo.

A proposito degli indios, nel 1556 il cronista Gonzalo Fernández de Oviedo tuonava: “Dio provvederà presto a distruggerli tutti”. Era certo che “l’influenza di Satana scomparirà quando la maggior parte degli indiani sarà morta…chi può negare che l’uso della polvere da sparo contro i pagani equivale alla combustione dell’incenso in onore di Nostro Signore?”. Secondo lui gli Indiani erano “codardi sozzi e mentitori che si suicidano per noia, solo per danneggiare gli Spagnoli con la loro morte; non hanno alcun desiderio o capacità di lavorare” e l’idea di farne dei Cristiani equivaleva a “martellare il ferro quando è freddo” perché le loro teste erano così dure che quando combattevano contro di loro gli Spagnoli dovevano stare attenti a non colpirli in testa con le spade, per non spezzarle.

Il viceré Francisco de Toledo asseriva che “prima di divenire cristiani, gli indios devono diventare uomini”.

Il giurista Diego de Covarrubias li definiva “stolidi, dementes, obtusi, hebeti” e “di ingegno animale”.

Il domenicano Domingo de Betanzos li chiamava “bestias”, preconizzando che la loro barbarie li avrebbe condannati ad una rapida e certamente meritata estinzione.

Il giurista spagnolo Juan de Matienzo li considerava “più schiavi dei miei negri”.

Il dominicano Tomás Ortiz scriveva al Consiglio delle Indie che gli autoctoni erano scimuniti, instabili, imprevidenti, ingrati e volubili, brutali, si dilettavano nell’esagerare i propri difetti, erano disubbidienti, insubordinati ed irrispettosi. Si rifiutavano o erano incapaci di apprendere il giusto modo di vivere. Le punizioni non servivano da deterrente con loro. Mangiavano insetti e vermi, osavano affermare che il messaggio cristiano era adatto agli Spagnoli, ma non necessariamente a loro; non volevano cambiare le loro usanze. Più vecchi diventavano, peggio si comportavano: da ragazzini sembravano avere una parvenza di civiltà, da vecchi diventavano delle bestie. “Devo dunque affermare – concludeva – che Dio non ha mai creato una razza tanto radicata in vizi e bestialità, senza alcuna presenza di bontà e civiltà”.

Queste sono le persone che Conotter afferma abbiano rispettato i nativi, la loro terra e le loro cose, aiutandoli a progredire e svilupparsi.

Bartolomé de las Casas si rivolta nella tomba.

http://fanuessays.blogspot.it/2011/10/bartolome-de-las-casas-introduzione.html

Gesù, il Grande Inquisitore e l’economia esoterica

Spread. Default. Fiscal compact. Spending review.

L’importante è che la gente non capisca nulla e continui a restare al suo posto.

Come proclamava il Grande Inquisitore di Dostoevskij (“I Fratelli Karamazov”): “Abbiamo corretto l’opera Tua [di Gesù] e l’abbiamo fondata sul miracolo, sul mistero e sull’autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere nuovamente condotti come un gregge e di vedersi infine tolto dal cuore un dono cosí terribile [la libertà], che aveva loro procurato tanti tormenti”.

Il Grande Inquisitore è il dominatore del nostro tempo, in ogni sfera della vita umana, e ci vuole sempre più simili a lui.

Gustavo Zagrebelsky, “Simboli al potere” (2012, pp. 29-30):

“Nei primi tempi, i tempi della clandestinità, non esisteva un simbolo dei cristiani, per così dire, ufficiale. Il più diffuso era il pesce, ma ci si riconosceva anche in altri segni, come l’ancora, la palma, la corona, l’albero (della vita), il vitigno, la nave, l’aratro, il pane, la fonte d’acqua viva, l’araba fenice. La croce era assente o, forse, dissimulata con ritegno. Come simbolo cosmogonico di religioni pagane e come strumento di tortura e di esecuzione capitale riservato agli schiavi ribelli e fuggitivi, proveniva da mondi non solo distanti, ma ostili alla nuova religione e testimoniava dell’inimicizia romana nei confronti del fondatore e dei suoi seguaci. Solo con l’avvicinamento e poi l’alleanza tra la nuova religione e l’impero nel IV secolo (il sogno di Costantino e la croce sulle armi dei suoi soldati; l’abolizione di quel tipo di patibolo da parte di Teodosio), il simbolo cristiano per eccellenza fa la sua comparsa nell’iconografia e, da simbolo di persecuzioni e umiliazioni subite, diventa simbolo di vittoria sul mondo. La croce, all’inizio, è nuda; il Cristo crocefisso non compare. Quando inizia a essere rappresentato, a partire dal V secolo, è raffigurato come il vivente per eccellenza, nella veste di Christus triumphans, con gli occhi aperti, lo sguardo diritto sul mondo e il volto glorioso nell’adempimento delle profezie. Era il simbolo di vittoria sulla sua morte e sui suoi persecutori e quindi, anche, di potenza mondana. A partire dal XII secolo, in concomitanza con l’assunzione di politiche aggressive di potenza da parte del mondo cristiano nei confronti degli “infedeli”, gli ebrei “deicidi” e i “mori” che dominavano in Terrasanta, l’aspetto del Cristo in croce cambia radicalmente e diventa il Christus patiens, col corpo ripiegato, il corpo contratto dalle sofferenze o irrigidito nella morte, un corpo che è in se stesso un’accusa e che sembra chiedere giustizia, cioè, in breve, vendetta. È questo il volto del Cristo sotto il quale saranno arruolati i crociati…Ancora questo era il Cristo in nome del quale i re cristiano conducevano guerre tra di loro e convertivano o sterminavano le popolazioni indigene al seguito dei colonizzatori europei. Espressione di aggressività popolana era il crocifisso che il prete fanatico portava in processione alla testa delle spedizioni punitive – i pogrom contro gli ebrei – negli shtetls dell’Europa centrale, come sono rappresentati nella Crocifissione bianca di Marc Chagall, dove all’ombra della croce bruciano villaggi. […]. Da simbolo di trionfo a simbolo di vendetta…a simbolo passivo, perché chiunque può fargli dire quello che vuole, come se fosse una marionetta…Dopo essere stato così secolarizzato, laicizzato, sociologicizzato, per poterlo comunque appendere nelle aule delle scuole e dei tribunali, lo si è addirittura zittito: simbolo muto che non simbolizza nulla, e quindi “inoffensivo” perché morto. Così ha stabilito la più alta giurisdizione europea dei diritti, precisando che non può perciò “indottrinare” nessuno. È stupefacente che il mondo cattolico, nelle sue istanze gerarchiche superiori, abbia gioito di questa sentenza, invece di considerarla oltraggiosa nei confronti del proprio segno più caro, nel quale è concentrata l’essenza della propria fede e del proprio messaggio…Il Cristo in croce resta dov’è, testimone esanime d’una controversia che ormai non lo riguarda, o meglio lo riguarda strumentalmente, come blasfema posta in gioco in una contesa apparentemente di simbologia religiosa, in realtà di puro potere”.

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