Il FMI sapeva fin dal 2010 che l’austerità avrebbe distrutto l’economia e la società europea

PREMESSA: Non ci sono alibi per i 450mila bambini greci malnutriti (UNICEF), né per la distruzione di migliaia di piccole e medie imprese italiane espulse dal mercato a causa del crollo dei consumi dovuto ad un’austerità immotivata stando al parere degli stessi analisi dell’FMI. Ci sarà clemenza, perché tutti possono sbagliare in buona fede e rifiutarsi di osservare le cose come stanno, ma non ci sono alibi. Ognuno si dovrà assumere le sue responsabilità al cospetto della propria coscienza e chiedersi se ha davvero fatto tutto quel che poteva fare, se è stato un giusto o un operatore di iniquità.

Già da due anni il Fondo Monetario Internazionale (Christine Lagarde) sa che l’austerità è la strategia più sbagliata che si possa immaginare per risolvere la crisi. La prova che non sono inetti ma che stanno deliberatamente distruggendo le vite di milioni di persone si trova in uno studio realizzato dallo stesso FMI nel 2010.

Michael Kumhof & Romain Rancière, “Inequality, Leverage and Crises”, International Monetary Fund, Working Paper 268 (2010)

http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2010/wp10268.pdf

L’austerità non potrà mai funzionare perché si basa sulla premessa che la stagnazione economica attuale è la conseguenza del debito pubblico mentre questo studio dimostra che la causa del crollo finanziario del 2007 e della susseguente recessione è la colossale disparità di reddito, non l’eccesso di spesa pubblica o di indebitamento.

Le ragioni di questa disparità individuate dai due economisti dell’FMI sono: indebolimento dei sindacati, disgregazione del sistema della contrattazione collettiva, flessibilità del mercato del lavoro, delocalizzazione, riduzione della spesa sociale, privatizzazioni, globalizzazione, sgravi fiscali per i più ricchi, esplosione nella remunerazione dei dirigenti, tassazione dei guadagni derivanti da investimenti finanziari inferiore a quella del reddito generato dal lavoro.

[Economisti dell’FMI più marxisti di Paolo Ferrero? O forse Ferrero ha ragione e gli editorialisti dei maggiori quotidiani non sanno quello che dicono?]

Il risultato è stato questo:

http://www.informarexresistere.fr/2012/04/01/il-99-contro-l%E2%80%991-non-e-populismo-spicciolo-eccone-la-prova/#axzz1wjYeBq00

Gli autori sottolineano che l’altro periodo nella storia degli Stati Uniti in cui si è verificata una situazione del genere è stato quello precedente la Grande Depressione.

Le montagne di denaro accumulate dal 10% più ricco degli americani, allora come a partire dagli anni Ottanta, non sono stati investite per aumentare la capacità produttiva dell’economia, ma in attività di acquisizione, speculazione immobiliare e, catastroficamente, in prestiti concessi al 90% il cui reddito è diminuito. Così la restante parte della popolazione si è indebitata sempre di più, anche grazie alle invenzioni di Wall Street, che hanno permesso di introdurre nuovi strumenti di indebitamento come i mutui sub-prime e le garanzie collaterali (collateralized debt obligations, CDO). [Per non parlare delle frodi su scala industriale]. Così, dal 1983 al 2007 l’indebitamento per i mutui sulle abitazioni è aumentato di oltre il 200% negli Stati Uniti, con un incremento che non si vedeva dalla Grande Depressione. Ma il massiccio trasferimento di denaro e beni dal basso verso l’alto non ha affrontato il problema essenziale: la mancanza di crescita del reddito per la maggior parte dei lavoratori. Così la disparità tra diminuzione dei salari e incremento del debito privato ha portato il sistema al collasso nel 2008, falciando le bellezza di 9mila miliardi dollari dall’economia degli Stati Uniti.

Nel Regno Unito, stagnazione dei salari, deregolamentazione del governo Thatcher del settore dei servizi finanziari nel 1980 e crescita della disuguaglianza hanno portato ad una simile esplosione del debito privato. Per mantenere il loro potere d’acquisto, i salariati si sono rivolti al credito, contando sul rapido aumento di valore delle proprietà. Ma, come negli Stati Uniti, l’inflazione dei prezzi delle abitazioni alimentata dal crescente debito privato si è rivelato insostenibile ed il castello di carte è crollato. Entro il 2015 si prevede che l’indebitamento delle famiglie inglesi salirà del 36%, fino all’astronomica cifra di 2mila miliardi di sterline.

Quale soluzione proponeva lo studio del FMI per ridurre l’indebitamento, saldare i debiti e stabilizzare l’economia? L’esatto opposto dell’austerità, ossia l’aumento dei redditi bassi e medi. Un’idea già testata con successo negli Stati Uniti del 1930: si chiamava New Deal (F.D. Roosevelt) e realizzò l’aumento dei redditi e l’occupazione di milioni di persone.

Solo un elettorato ignorante, ebete e fanaticamente anticomplottista, dei politici corrotti e conniventi ed un’élite genuinamente psicopatica potrebbero continuare a sostenere la ricetta dei salassi del rigore neoliberista a dispetto dei fatti e delle raccomandazioni dei loro stessi esperti.

Contro l’alta finanza forse serve un esorcista

Cosa fanno i lavoratori (cittadini), quando scoprono che la loro rappresentanza sindacale (parlamentari) è in combutta con il padronato (finanza)?
Su Affari e Finanza, Federico Rampini spiega che: “come zombi, i derivati sono risorti e sono in mezzo a noi più terribili che mai. Una massa incontrollata che vale 650 trilioni di dollari”.

Cosa hanno fatto i politici occidentali per bloccare questi zombi responsabili della crisi? NIENTE!

Da che parte stanno i politici occidentali? Con chi li elegge o con chi li compra?

Per fortuna ci sono anche le eccezioni:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/05/15/oskar-peterlini-il-roosevelt-de-noantri-potra-scongiurare-la-rivoluzione/

Federico Rampini, “Derivati, il ritorno degli zombie. In ballo 650 trilioni di dollari”, Affari & Finanza, 21 maggio 2012

“È il ritorno dei morti viventi. Ci illudevamo di averli seppelliti, di aver trovato la formula per un funerale definitivo, che ce li togliesse di torno per sempre? Come zombi, i derivati sono risorti e sono in mezzo a noi più temibili e pericolosi che mai. Una massa incontrollata che vale 650 trilioni di dollari. Non è solo la scoperta di quel buco di 2 miliardi (già diventati 3, ora si mormora che siano saliti a 4, e non staccate gli occhi dal contatore) nel bilancio di JP Morgan Chase, la più grande banca degli Usa. Un obbrobrio su cui ora indaga perfino l’Fbi, dopo la Federal Reserve e la Sec. C’è di peggio, tutta una serie di dettagli di contorno che danno a questa vicenda un aspetto terrificante: gli zombi fingevano di riposare, eccoli che ci afferrano come in un remake infinito dello stesso film horror, come se fosse impossibile uscire dall’incubo. Zombi per eccellenza lo è una figura chiave dello scandalo: non tanto lo Squalo di Londra Bruno Iksil, diretto esecutore della speculazione sui derivati; bensì sopra di lui la malefica Ina Drew, la manager che dal quartier generale di JP Morgan sulla Park Avenue di Manhattan aveva la guida delle strategie d’investimento e la supervisione sul controllo dei rischi.

Si scopre che la superbanchiera si fece le ossa nientemeno che nello hedge fund Ltcm. Vi state stropicciando gli occhi? Ma sì, proprio quello, il fondo che usava sofisticati algoritmi matematici elaborati da un premio Nobel che con le sue travolgenti speculazioni e poi l’improvvisa maxiperdita fece crollare Wall Street nel 1998, costringendo ad intervenire la Fed allora guidata da Alan Greenspan, per impedire uno shock sistemico. Non è un refuso, l’anno di grazia era proprio il 1998, e la Signora Drew era già all’onore delle cronache per i disastri dei derivati. A nulla servì quella catastrofe come a nulla è servita la lezione della crisi del 2008. Più zombi di così!

L’improvvisa voragine nel bilancio JP Morgan è legata a speculazioni sui credit default swaps, titoli derivati che fungono da polizze assicurative e servono a proteggersi dall’eventualità di bancarotta di una società a cui il banchiere ha prestato soldi, oppure dalla quale ha comprato dei bond. Gli stessi Cds però possono servire non a scopo precauzionale, bensì per la finalità opposta: una giocata aggressiva di chi scommette sui fallimenti societari. Una storia stravecchia: fu attraverso titoli strutturati di questo tipo che la bolla dei subprime nel 2008 travolse Lehman Brothers e rischiò di mandare in bancarotta la maggiore compagnia assicurativa americana, Aig, se a salvare quest’ultima non fosse intervenuto il governo e quindi il contribuente americano.

A proposito di zombi, che dire di Jamie Dimon, il capo supremo di JP Morgan? Secondo l’economista Mark Williams della Boston University, che in passato lavorò alla vigilanza della Fed, sotto la guida di Dimon “la JP Morgan Chase contiene un enorme hedge fund nascosto dentro il corpo di una grande banca di depositi”. Questa commistione fra due mestieri fu all’origine del grande crac di Wall Street nel 1929 così come nel 2008. E’ la lezione che credevamo fosse stata imparata quattro anni fa, no? “Le grandi banche di deposito continua Williams dovrebbero raccogliere il risparmio e fare prestiti, non avventurarsi in grosse operazioni speculative“. Se la commistione di mestieri non viene evitata, l’instabilità che incombe sull’intero sistema del credito è molto pericolosa. Basti pensare a questo, tornando alla tecnicalità delle operazioni che l’ufficio di Londra di JP Morgan effettuava sotto la direzione di Squalo Iksil e Madama Drew: è bastato uno spostamento infimo dello 0,25% dei tassi d’interesse sui mercati per sballare un coacervo di posizioni speculative del valore “nozionale” tra i 150 e i 200 miliardi di dollari (neppure JP Morgan riesce a quantificare esattamente l’entità: gli apprendisti stregoni hanno messo in movimento forze troppo grandi per loro).

Il martedì successivo alla scoperta, il 14 maggio a Tampa (Florida), Dimon all’assemblea degli azionisti della sua banca ha ammesso che probabilmente l’operazione “è iniziata nel rispetto delle normative attuali, poi si è trasformata in qualcosa di diverso”. Questa frase non è suonata solo come lo “scaricabarile” che ha dato il via alle dimensioni della Drew e Iksil. In realtà in quel passaggio c’è anche la scelta di una sottile strategia politica. Dimon nel suo intervento di Tampa ha scelto di “difendere” la normativa attuale come efficace e sufficiente, attribuendo il disastro al mancato rispetto di quelle stesse regole.
L’obiettivo è difendere la versione più minimalista della Volcker Rule, la regola che prende il nome dal più severo (e competente) fustigatore dei banchieri Usa, l’ex presidente della Fed. Nella riforma dei mercati finanziari la DoddFrank varata al Congresso su pressione di Barack Obama è inserita la Volcker Rule: quella che proibisce alle grandi banche di deposito di fare operazioni speculative con capitali propri. In sede interpretativa, però, Dimon da due anni ha guidato l’offensiva della lobby di Wall Street per svuotare la Volcker Rule inserendovi un’eccezione: in questa versione le operazioni speculative sono consentite allo scopo di “copertura del rischio”, cioè per proteggere la banca da eventuali perdite dovute all’insieme delle sue attività. Questa scappatoia che avrebbe dovuto essere un correttivo marginale, di fatto consente l’aggiramento della Volcker Rule e il ritorno a tutti i peggiori eccessi pre2008 (o pre1929…).
Guarda caso l’ufficio di Londra diretto da Iksil si occupava proprio di “copertura del rischio” per conto di Dimon. È con quell’alibi che ha potuto ricominciare a speculare sui derivati, alla grande, in barba allo spirito della Volcker Rule. All’assemblea degli azionisti a Tampa, solo un coraggioso sacerdote cattolico, il Reverendo Seamus Finn dell’ordine missionario di Maria Immacolata, ha osato affrontare il potente Dimon prendendo la parola a nome di un gruppo di piccoli azionisti. “Le sembra il caso ha detto il Reverendo Finn che la banca continui a spendere soldi dei suoi azionisti, al ritmo di 7 milioni di dollari quest’anno, per attività di lobby dirette a modificare la legge DoddFrank?” Inoltre, sfidando il dogma neoliberista di cui Dimon è un alfiere, il missionario cattolico gli ha chiesto: “Alla luce di queste ultime rivelazioni, Mr. Dimon, lei pensa ancora che una banca sia in grado di regolarsi da sola?” Ma l’intervento del sacerdote non ha impedito che l’assemblea degli azionisti approvasse la mozione proposta dal consiglio d’amministrazione: confermando a Dimon uno stipendio di 23 milioni di dollari, nonché il cumulo delle cariche di presidente e amministratore delegato.
Dunque il superzombi la farà franca anche questa volta? Sul fronte politico, non è detto che le cose si mettano male per il più potente banchiere d’America. Certo, la Casa Bianca ha colto la palla al balzo per ripartire all’offensiva in favore di una interpretazione più rigorosa della Regola Volcker. A meno di sei mesi dalle elezioni, Obama ha interesse a mostrarsi intransigente contro gli eccessi di Wall Street, un tema che compatta la sua base democratica e può portargli consensi anche fra gli incerti e i moderati. La logica è dalla sua parte: quando una banca ha le dimensioni della JP Morgan Chase, un suo fallimento è impensabile perché trascinerebbe l’intero settore del credito in una nuova “glaciazione”. Visto dunque che per le sue stesse dimensioni la JP Morgan gode della protezione implicita delle autorità pubbliche (Federal Reserve, Federal Deposit Insurace), la sua attività va limitata in modo severo. C’è ancora tempo per farlo: la Volcker Rule deve diventare pienamente operativa a luglio, da qui a luglio è ancora aperta la partita per la sua “interpretazione definitiva” da parte del Tesoro e delle authority coinvolte, dalla Fed alla Sec.

Ma è impossibile non notare che Obama è stato finora attento ad evitare attacchi personali a Dimon. Tutti sanno che il chief executive di JP Morgan è un democratico, e in passato è stato generoso di contributi elettorali ai candidati del suo partito. Inoltre nel 2010 Obama fu quasi “costretto” a difendere il “diritto” di Dimon di attribuirsi un bonus di 17 milioni (oltre allo stipendio). Perché? Un precedente attacco di Obama ai superstipendi dei banchieri gli era valso una valanga di accuse dai repubblicani. Lo avevano dipinto come un “socialista”, che interferisce politicamente nella gestione delle aziende private. Ancora in questi giorni, la reazione di Mitt Romney al “buco dei derivati” nel bilancio di JP Morgan è stata un classico del brivido. Intervistato dal blogger Ed Morrissey in un talkshow radiofonico, il candidato repubblicano alla Casa Bianca ha escluso categoricamente che questa perdita debba “ispirare nuove leggi o modifiche alle regole”. Romney ha proseguito così: “E’ in questo modo che funziona l’America. Qualcuno ha preso delle decisioni sbagliate e ci ha perso dei soldi. Be’, sapete cosa? Qualcun altro ci avrà guadagnato, quindi va bene così”. Ecco quel che pensa l’uomo che potrebbe entrare alla Casa Bianca dal gennaio 2013.

http://www.repubblica.it/supplementi/af/2012/05/21/copertina/001feudo.html

NOTA BENE
curioso che sia un reverendo a contrapporsi ad uno squalo di nome Dimon (demone). Forse servirebbe un esorcista.

Qual è il loro obiettivo? Questo:
http://fanuessays.blogspot.it/2011/11/crisi-generate-e-colpi-di-stato-soft.html

L’uscita della Grecia dall’eurozona può distruggere l’Unione Europea?

Marco Brunazzo scrive: “la stessa sopravvivenza dell’UE non può essere data per certa”.

Proprio così, e proprio per questo è semplicemente indecente che le massime autorità monetarie stiano spalancando la porta a questa eventualità.

Christine Lagarde ha ventilato l’ipotesi di una “uscita ordinata” della Grecia dall’eurozona.

Per Patrick Honohan (direttivo della BCE), l’uscita della Grecia dall’area euro non sarebbe un evento ”necessariamente disastroso” e, pur rappresentando un ”colpo alla fiducia” nell’Eurozona, sarebbe ”tecnicamente” gestibile.

Sono esternazioni gravemente irresponsabili.

“Alla fine ci ha pensato il presidente dell’Eurogruppo e primo ministro lussemburghese, Jean-Claude Juncker, a fare un po’ di chiarezza rispetto alle voci, diffuse nei mercati e avallate dalle uscite infelici di qualche ministro Ue (in particolare l’austriaca Maria Fekter e il tedesco Wolfgang Schaeuble) e dell’ambiguità dello stesso presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, su una possibile uscita della Grecia dall’Eurozona. Il nostro fermo desiderio – ha detto ieri sera a Bruxelles durante la conferenza stampa conclusiva dell’Eurogruppo – è di mantenere la Grecia nell’Eurozona, e faremo di tutto perché sia così. Di uscita di Atene dall’euro non si è assolutamente parlato e nessuno, assolutamente nessuno, ha avanzato quest’idea”.

http://www.tmnews.it/web/sezioni/top10/20120515_072558.shtml

Chi e perché sta mentendo sulla pelle di centinaia di milioni di cittadini europei ed investitori europei ed extraeuropei?

Se una maggioranza di Greci (70%) vuole restare nell’Unione Europea (pur rifiutando le disposizioni draconiane e letteralmente omicide degli eurarchi) è perché hanno capito che la loro uscita li condannerebbe ad un disastro ancora peggiore di quello attuale.

L’espulsione (ordinata o meno) dall’eurozona di uno stato membro non è prevista da nessun trattato ed in ogni caso comporta l’uscita della Grecia anche dall’Unione Europea. Diversamente nessuna sostituzione dell’euro con la dracma sarebbe giuridicamente contemplabile e senza frontiere nazionali il governo greco, già in difficoltà nel contenere la conseguente iperinflazione, non riuscirebbe a bloccare la fuga di euro:

“Solo ieri, ha detto il presidente Papoulias, i correntisti hanno ritirato dalle banche depositi per 700 milioni di euro”.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-05-15/caos-atene-allarmeeuro-221805.shtml?uuid=AbYUaDdF

Scrive l’economista Varoufakis, celebre nel resto d’Europa e negli Stati Uniti e finalmente molto citato anche sulla stampa italiana:

“Anche mettendo da parte le ramificazioni nazionali per la perdita dei sussidi all’agricoltura, fondi strutturali e forse interscambi commerciali (in seguito alla possibile introduzione di barriere commerciali tra la Grecia e l’UE), gli effetti sul resto della zona euro sarebbero catastrofici. La Spagna, già in un buco nero, vedrà il suo Pil ridursi di un valore superiore a quello dell’attuale tasso record di deflazione della Grecia, gli spread dei tassi di interesse tenderanno al 20% in Irlanda e in Italia e, in breve tempo, la Germania deciderà di darci un taglio e salverà se stessa assieme agli altri paesi con un surplus commerciale. Questa catena di eventi causerà una terribile recessione nei paesi in surplus raggruppati attorno alla Germania, la cui moneta si apprezzerebbe astronomicamente, mentre il resto d’Europa affonderebbe nella melma della stagflazione. Un habitat ideale per la Grecia? Assolutamente no!”

Varoufakis ribadisce in conclusione che la Grecia deve fare default, ma all’interno dell’eurozona:

http://yanisvaroufakis.eu/2012/05/16/weisbrot-and-krugman-are-wrong-greece-cannot-pull-off-an-argentina/#more-2171

Ne consegue che i cinque punti del programma di governo di SYRIZA, guidato da Alexis Tsipras, Solone redivivo contro le infamie di Dracone, sono ben congegnati e potrebbero salvare la Grecia, l’eurozona e l’Unione Europea:

  1. immediata cancellazione delle incombenti misure che impoveriranno ulteriormente i greci, come i tagli alle pensioni ed ai salari;
  2. cancellazione immediata delle misure tese a indebolire i diritti fondamentali dei lavoratori, come l’abolizione di CCN;
  3. abolizione dell’immunità parlamentare; riforma elettorale e generale ristrutturazione del sistema politico;
  4. indagine sulle banche greche, e pubblicazione immediata dei risultati dell’audit eseguito da BlackRock sul settore bancario greco;
  5. istituzione di un comitato internazionale di revisione dei conti, che indaghi sulle cause del deficit pubblico greco, in aggiunta ad una moratoria sulla riparazione del debito fino a che i risultati dell’indagine non siano resi pubblici.

L’opinione dell’economista greco Panos Evangelopoulos:

“Mi prendo qui la libertà di fare una previsione: queste misure di austerità faranno la stessa fine delle famigerate Leggi di Dracone nell’antica Atene. La loro durezza era simboleggiata dall’essere scritte col sangue e non con l’inchiostro. Riportarono l’ordine nell’antica Atene, ma furono in seguito emendate da Solone. Lo spirito delle Leggi di Solone era di portare armonia senza austerità e senza coercizione, e diedero avvio all’Età Aurea dell’antica Atene. Sembra proprio il destino della moderna Grecia quello di rivivere le asprezze di Dracone prima di poter sperare in una liberazione simile a quella che portò Solone”.

Le considerazioni di Barbara Spinelli (“La preghiera di Aiace”, la Repubblica, 16 maggio 2012):

“Può darsi che la secessione greca sia inevitabile, come recita l’articolo di fede, ma che almeno sia fatta luce sui motivi reali: se c’è ineluttabilità non è perché il salvataggio sia troppo costoso, ma perché la democrazia è entrata in conflitto con le strategie che hanno preteso di salvare il paese. Nel voto del 6 maggio, la maggioranza ha rigettato la medicina dell’austerità che il Paese sta ingerendo da due anni, senza alcun successo ma anzi precipitando in una recessione funesta per la democrazia: una recessione che ricorda Weimar, con golpe militari all’orizzonte. Costretti a rivotare in mancanza di accordo fra partiti, gli elettori dilateranno il rifiuto e daranno ancora più voti alla sinistra radicale, il Syriza di Alexis Tsipras. Anche qui, i luoghi comuni proliferano: Syriza è forza maligna, contraria all’austerità e all’Unione, e Tsipras è dipinto come l’antieuropeista per eccellenza. La realtà è ben diversa, per chi voglia vederla alla luce. Tsipras non vuole uscire dall’Euro, né dall’Unione. Chiede un’altra Europa, esattamente come Hollande”.

Infine, ultimo punto ma non meno importante degli altri [cf. Marco Brunazzo/Michele Nardelli: “L’Unione europea, diceva uno dei padri fondatori, si farà attraverso le crisi e sarà il risultato di queste crisi”].

Richard Jeffrey, direttore della divisione investimenti del Cazenove Capital Management, ha confidato, in uno speciale della BBC, i suoi sospetti che le autorità europee avessero ben chiaro in mente che la configurazione dell’eurozona era afflitta da difetti strutturali fatali, perché erano talmente evidenti che non potevano essere ignorati. Tuttavia, a suo dire, avrebbero deciso di procedere nella convinzione che una di quelle crisi sistemiche che caratterizzano il capitalismo avrebbe permesso di realizzare una piena integrazione politica che, altrimenti, tenuto conto dello scetticismo dell’opinione pubblica europea, avrebbe dovuto attendere per molti altri decenni. Ha precisato meglio il suo punto di vista in un’intervista al Wall Street Journal: “Il punto è che, a rigor di logica, una moneta comune sarebbe l’ultima cosa da introdurre (dopo una politica fiscale comune, sistemi giuridici comuni, una comune regolamentazione dei mercati, ecc.), se l’idea è quella di costruire una federazione politica, poiché sarebbero proprio una moneta ed una politica monetaria comune ad evidenziare tutte le tensioni tra le economie. Ma i politici hanno rovesciato questo argomento e hanno visto nell’unione monetaria un primo passo forzato che, se avesse avuto successo, avrebbe portato ad un approccio più federale in altri settori, come la politica fiscale

A riprova della plausibilità di questa sua ricostruzione, Jeffrey ha citato il pensiero di Romano Prodi quando era presidente della Commissione Europea, in una lettera scritta al Financial Times, nel dicembre del 2001: “Sono sicuro che l’euro ci obbligherà a introdurre nuovi strumenti di politica economica. Attualmente è politicamente impossibile farlo. Ma un giorno ci sarà una crisi e nuovi strumenti saranno creati”.

http://blogs.wsj.com/source/2011/10/31/did-the-euros-architects-expect-it-to-fail/

Personalmente trovo che queste astuzie, se fossero vere, sarebbero in completa antitesi rispetto alla prassi democratica. Sarebbe il comportamento di persone senza scrupoli, così ossessionate dal fine da restare completamente indifferenti alla questione della moralità dei mezzi, dell’impatto umano dei suoi effetti (la terzo-mondializzazione dei paesi più deboli, ma anche l’aggravamento della crisi globale e quindi l’immiserimento di milioni di persone in tutto il mondo), per non parlare della volontà sovrana dei cittadini europei. Questo mio giudizio di condanna è anche quello dell’economista Paolo Savona (ex Banca d’Italia) che ha severamente criticato la tendenza a nascondere al pubblico il dibattito sulle scelte che è possibile fare, nella convinzione che i cittadini siano troppo ignoranti e superficiali per prendervi parte. Anche per Paolo Savona così si tradisce l’ethos democratico.

Non è così che si costruisce l’Europa.

Miseria o Rivoluzione – a questo hanno ridotto gli Europei

Stiamo uscendo dalla crisi

Mario Monti, 25 gennaio 2012

http://www.repubblica.it/politica/2012/01/25/news/mozioni_senato_monti-28727394/

Possiamo dire che con le severe misure politiche adottate, stiamo uscendo dalla crisi

Mario Monti, 30 marzo 2012

http://www.italiaoggi.it/news/dettaglio_news.asp?id=201203301316001068&chkAgenzie=CLASSNEWS&sez=news&testo=&titolo=Monti:%20%27%27Stiamo%20uscendo%20dalla%20crisi%27%27

La crisi è nata fuori ma anche perché l’Italia non ha affrontato le sue debolezze strutturali, ora ne stiamo uscendo con fatica.

Mario Monti, 18 aprile 2012

http://www.tgcom24.mediaset.it/politica/articoli/1043516/def-monti-evitato-uno-shock-distruttivo.shtml

L’Italia è davvero sul sentiero giusto

Mario Draghi, 3 maggio 2012

Noi abbiamo il consenso, loro no.

Mario Monti, marzo 2012

Nella sofferenza l’Italia dà una prova esemplare.

Mario Monti, 18 aprile 2012

Si stanno creando tutte le condizioni per far sì che il Paese possa rimettersi a crescere

Corrado Passera, 23 aprile 2012

Che monotonia il posto fisso, i giovani si abituino a cambiare

Mario Monti, febbraio 2012

Gli italiani sono fermi, come struttura mentale, al posto fisso, nella stessa città e magari accanto a mamma e papà, ma occorre fare un salto culturale.

Anna Maria Cancellieri, ministro dell’Interno, febbraio 2012

Le auto blu sono una limitazione della libertà.

Michel Martone, viceministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, febbraio 2012

Dobbiamo dire ai nostri giovani che se non sei ancora laureato a 28 anni, sei uno sfigato.

Michel Martone, viceministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, febbraio 2012

Siete l’Italia peggiore

Renato Brunetta, rivolgendosi a dei precari, giugno 2011

Un sondaggio realizzato per le Acli da Ipr Marketing tra il 22 ed il 25 aprile del 2012 e pubblicato il 2 maggio 2012 mostra che il numero di Italiani che ritiene che l’unico mezzo per cambiare il paese sia una rivoluzione (32,5%) non si discosta molto da quello di chi preferirebbe “interventi graduali e condivisi” (35,7%). Solo un 14,6% di persone pensa che delle riforme impopolari cambieranno il paese, mentre il 17,2% non pensa che l’Italia possa essere cambiata. In altre parole ben il 49,7% degli Italiani non crede più alla capacità o volontà dei politici di migliorare la società. L’opzione rivoluzionaria è di gran lunga maggioritaria tra i giovani (18-34 anni) dove raggiunge il 41,4% e tra gli adulti di età compresa tra i 35 ed i 54 anni (36,7%); anche tra le persone più anziane (oltre i 54 anni) è comunque condivisa da un ragguardevole 22,1%. Il 32,3% delle donne approverebbe una rivoluzione.

D’altronde il 48,6% degli intervistati ha risposto che la crisi durerà come minimo altri quattro anni (37,7%) e potrebbe non terminare mai, essendo una condizione strutturale di un’economia che ha superato il punto di non ritorno (10,9%). Meno di un quinto (19,1%) degli intervistati crede che tra dieci anni sarà più ricco di oggi.

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Monitorare l’impatto sociale della crisi: percezione dell’opinione pubblica nell’Unione europea” – Rapporto Flash dellEurobarometro 338 (ricerca sul campo dicembre 2011, pubblicazione aprile 2012)

Proporzioni relativamente elevate di persone affermano che la povertà è aumentata, nel loro paese, in Grecia (97%), Francia (93%), Portogallo (93%) e Spagna (92%).
Il 32% degli intervistati ritiene che 1 su 3 dei loro concittadini può essere descritto come povero, mentre il 64% pensa che almeno 1 persona su 5 è povera.
Quasi un quinto (18%) degli intervistati dice che ad un certo punto il suo nucleo familiare ha finito i soldi per pagare beni e servizi essenziali nel corso degli ultimi 12 mesi.
Più di un terzo delle persone in Grecia (45%), Lettonia (42%), Lituania (37%), Bulgaria (36%), Romania (36%) e Ungheria (34%) dice che la sua famiglia è al verde. Per la prima volta la Grecia guida questa classifica [grazie Papademos! NdT]
Il 63% degli intervistati in Europa dice che corre il rischio di non riuscire a far fronte ad un spese impreviste di € 1.000 per il prossimo anno, il 45% dice di non potersi permettere di pagare le bollette ordinarie o acquistare cibo; 43% dice di non essere in grado di pagare l’affitto o un mutuo, e il 31% pensa che ci sia il rischio che non riesca a saldare i suoi debiti.
Guardando ai prossimi 12 mesi, più di uno su 10 (14%) dei cittadini dell’UE ritiene che la situazione finanziaria della sua famiglia migliorerà, mentre poco meno della metà (47%) si aspetta che tutto rimanga come prima. Più di un terzo (36%) si aspetta un peggioramento, rispetto al 26% dell’ottobre 2010.
Il 6% degli intervistati teme di poter essere costretto a lasciare la casa entro i prossimi 12 mesi, non potendo permettersele. Questa percentuale sale al 26% in Grecia, al 16% nel Lussemburgo (!!!) ed al 15% a Cipro.
Quasi un quinto (18%) degli intervistati non è sicuro di potersi tenere il lavoro nei prossimi 12 mesi.
Mentre il 46% delle persone crede di poterne trovare un altro, il 48% crede che avrà difficoltà a trovare un altro impiego.

Quasi un terzo (32%) dei cittadini dell’Unione europea dice che è diventato più difficile coprire i costi dell’assistenza sanitaria in generale; il 38% fa fatica a coprire i costi per i propri figli.

La maggioranza (57%) degli intervistati europei teme che non avrà un reddito sufficiente per vivere la propria vecchiaia dignitosamente (53% a ottobre 2010). In Germania il dato è del 58% (persino lì!!! NdT).

1 cittadino su 6 nel corso degli ultimi 12 mesi ha dovuto scegliere tra pagare le bollette o comprare generi di prima necessità.

Capolinea: Grecia

 

 

È stato evitato uno shock distruttivo. Ci battiamo ogni giorno per continuare a evitare un drammatico destino come quello della Grecia

Mario Monti, 18 aprile 2012

In Grecia la crisi ha provocato 1.725 suicidi, noi lo eviteremo.

Mario Monti, 18 aprile 2012

Un ottimo incentivo alla crescita nel settore edile, l’unico che potrebbe rilanciare l’economia, proviene da un emendamento al dl fiscale approvato dalla Commissione Finanze della Camera: anche sul ”marchio” apposto ”sulle gru mobili, sulle gru a torre adoperate nei cantieri edili e sulla macchine da cantiere” si applicherà l’imposta comunale sulla pubblicità (Ansa – ringrazio Ruben per la segnalazione).

Nel frattempo la destrutturazione dello Stato italiano (e degli altri Stati europei) a beneficio delle istituzioni sovranazionali globali non elette (FMI, BCE, Commissione Europea, ecc.) procede di gran carriera, come se ci fosse un senso di urgenza, un qualche progetto che va completato entro una ben determinata scadenza.

Mauro Poggi sintetizza efficacemente quel che è accaduto con l’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione: “un parlamento squalificato vota a maggioranza qualificata (per evitare il referendum confermativo) una modifica costituzionale proposta da un governo non eletto, su indicazione di organismi extra-nazionali privi di alcun mandato popolare, nel connivente silenzio dei mezzi di informazione. Democrazia? What is “democrazia”?

http://mauropoggi.wordpress.com/

I Democratici sono contrari al pareggio di bilancio per legge; quelli americani, però:

http://keynesblog.com/2012/04/18/il-partito-democratico-contro-il-pareggio-di-bilancio-ma-e-quello-americano/#more-1182

Leggiamo cosa che ne pensa l’economista Vladimiro Giacchè, già protagonista di un precedente post.

Sera di martedì 17 aprile. Il Senato ha appena inserito in Costituzione il pareggio di bilancio. Per capire gli effetti di questa riforma, abbiamo intervistato Vladimiro Giacchè, economista, autore del libro dal titolo “Titanic Europa – La crisi che non ci hanno raccontato” (ed. Aliberti, gennaio 2012).

 

Professor Giacchè, iniziamo col provare a capire la base di questa riforma. Qual è la ratio del pareggio di bilancio in costituzione?

[…]. Questa cosa può sembrare apparentemente ragionevole per paesi indebitati come il nostro, ma in realtà è assolutamente folle. Così facendo si stanno replicando gli errori drammatici degli anni ’30: quando ci si trova alle prese con la recessione, oggi come ottanta anni fa, accade che i privati investono meno. Ed è qui che sarebbe fondamentale un deciso intervento pubblico, con investimenti che facciano in modo che la ‘domanda aggregata’, cioè l’insieme dell’economia, aumenti, per ripresa. Questi effetti benefici, poi, si riassorbirebbero negli anni a seguire con effetti positivi sui conti pubblici. Ad esempio, con un maggior introito di tasse, il governo avrebbe avuto un rientro maggiore. Da oggi, invece, questo non sarà più possibile.  

 

Cosa significa questo per un paese come l’Italia?

Semplicemente che sarà impossibile mettere soldi nei settori che invece richiedono un forte investimento. Ad esempio nella cultura, nella ricerca o nelle infrastrutture ‘utili’. ‘Utili’ come la Salerno-Reggio Calabria, per intenderci, e non come il Ponte sullo Stretto. Non è un caso se il nostro è un paese che per la ricerca spende meno della media europea. Non è un caso se il nostro è un paese con un sistema scolare e post-scolare che versa in condizioni drammatiche a causa dei tagli iniziati nel 2008. Non è un caso se tra gli Stati europei il nostro è ai primi posti, insieme ai paesi più arretrati d’Europa (in primis Portogallo e Grecia), per bassa qualifica dei nostri lavoratori. Oggi abbiamo reso illegale il ‘deficit spending’. Questo significa che sarà impossibile investire ma soprattutto attivare una serie di diritti previsti dalla nostra Costituzione: il diritto alla scolarità che non deve essere ‘per ceto’, l’assistenza sanitaria gratuita per tutti, il diritto a una serie di servizi alla persona. Ora, interpretando la Costituzione facendo perno sull’articolo 81 come modificato, tutti questi diritti primari non saranno più esigibili. O almeno saranno subordinati all’articolo 81.

Lei quindi vede nel pareggio di bilancio un attacco ai diritti di base che dovrebbero essere costituzionalmente garantiti?

La questione è molto semplice. Il senso di questa riforma costituzionale è che se uno ‘vuole’ dei diritti, se li deve pagare. Non sarà più lo Stato a raccogliere risorse per i suoi cittadini. Peccato, però, che guardando alla crescita economica di lungo periodo, per uscire da una crisi come quella che stiamo attraversando, servirebbero tutta una serie di investimenti che il privato non si sobbarcherà mai.

 

Nell’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio, si lega la crescita al Prodotto interno lordo. Cosa significa questo?

Partiamo dal precedente governo. Per diverso tempo Tremonti all’epoca del suo dicastero all’Economia ha ingannato i mercati facendo leva su false previsioni di crescita, parlando di una crescita maggiore di quella che si sarebbe poi verificata. Ma il meccanismo di queste ‘bugie’ era chiaro: si aveva bisogno della crescita per far si che il deficit diminuisse. Comunque la si voglia vedere, i dati di fatto da cui partire per analizzare le conseguenze di questa riforma sono due. Il primo: con la crisi, sono diminuite le entrate fiscali e sono aumentate le spese per gli ammortizzatori sociali. Il secondo: si continua a incentrare qualsiasi analisi sul rapporto tra debito e Pil. Dove il debito è il numeratore e il Pil il denominatore. Ma io posso far calare il numeratore all’infinito (in questo caso, tagliando all’inverosimile la spesa pubblica), ma se è il numeratore a diminuire più velocemente (e il Pil è la ricchezza prodotta), ecco che il rapporto sarà sempre destinato a peggiorare. Sembra una cosa evidente, ma per qualcuno al governo evidentemente non lo è. Basterebbe ragionare partendo da questo aspetto per capire che una vera manovra per uscire dalla crisi dovrebbe essere calibrata per fare in modo che si impedisca al Pil di scendere. Cosa che, invece, puntualmente accade con ogni manovra di austerity. Dopo i 55 miliardi di tagli di Berlusconi, siamo ai 30 miliardi di tagli di Monti. Ma questi 85 miliardi di tagli hanno impattato fortemente sulla crescita. Si è lavorato sullo ‘stabilizzatore keynesiano’ ma al contrario. E’ crollata la domanda privata, e di riflesso è crollata la domanda pubblica. Così, di colpo, abbiamo settori di imprese rivolte al mercato interno in grave difficoltà, mentre quelle imprese che lavorano sul mercato estero sono in ripresa. Ma così si è soltanto indebolita l’economia italiana.

Vede ‘la Grecia’ come un rischio per il nostro paese?

Qui la sfida è una crescita reale, possibile solo abbandonando le ricette adoperate negli ultimi tempi. Se si riduce drammaticamente la spesa pubblica in tempo di crisi, il futuro è la Grecia. C’è poco da girarci attorno. Con i tagli su tagli, l’economia greca di obbedienza all’Unione europea è crollata del 6,5% per tre anni consecutivi. E’ praticamente implosa. E il Pil crollato. Il risultato, per fare esempi chiari da vita quotidiana, è che oggi in Grecia si comprano il 20% in meno di medicine. E parliamo di un bene essenziale. Con la Grecia si è andati dietro l’ideologia folle che nasce dall’incomprensione di quanto è successo. Il debito pubblico non è la causa della crisi, ma la sua conseguenza. Il debito pubblico nasce dal tentativo di tamponare la crisi, ad esempio salvando le banche. Un esempio: la Germania ha ‘coperto’ le banche con qualcosa come 200miliardi di euro negli ultimi dieci anni. Risultato: il debito pubblico tedesco è cresciuto di 750miliardi di euro in dieci anni. La cosa bizzarra, però, è che i tedeschi hanno adottato misure di compensazione del deficit spending per far fronte a questa situazione e nel 2009 hanno speso il 3% del Pil per salvare le loro imprese. Ebbene, quella stessa Germania oggi impone il divieto di deficit spending ai paesi più deboli dell’Unione europea.

Quale sarebbe, secondo lei, una possibile via d’uscita dalla crisi?

Ce n’è una sola: guardare meno al giorno per giorno e progettare per il lungo periodo. Purtroppo il nostro governo tecnico nasce per l’emergenza e non riesce a progettare nel lungo periodo, anche perché per farlo servirebbe una larga investitura popolare. Ma se continuiamo a vivere nell’emergenza, e questo governo continua a fare politiche ‘da stato di emergenza’, è inevitabile infilarci in un tunnel senza uscita. Non è un caso che per alcuni istituti il Pil quest’anno diminuirà del 2,6%, con una diminuzione prevista per il prossimo anno del 2,9%. Stando così le cose, sarà inevitabile dover ricorrere a nuove manovre di austerity. Ed ecco qui la spirale, innestata proprio dal vincolo costituzionale del pareggio di bilancio. Facendo due rapidi calcoli a partire dall’obbligo sancito dal ‘Fiscal compact’ di dover ridurre il debito pubblico del 5% annuo per quanto eccede il Pil del 60% – ergo, un ventesimo del Pil – ecco che per un certo numero di anni il nostro paese sarebbe chiamato a manovre annuali di 45miliardi di euro. Senza considerare quanto paghiamo di interessi sul debito: nel 2012 qualcosa come 72 miliardi di euro. Di fatto, l’Italia per i prossimi anni sarebbe costretta a manovre, per ridurre il suo debito pubblico, di circa 120miliardi di euro l’anno. Una follia. O meglio, la perfetta ricetta per il disastro economico. Un disastro motivato dall’assurda idea di fondo che si debba cancellare il debito pubblico. Ma la realtà è un altra: nessuno ti chiede di azzerare il debito. Quello che interessa i mercati, infatti, non è che il debito venga cancellato ma che si stabilizzi. L’obiettivo dovrebbe essere non far crescere tendenzialmente il debito.

http://www.today.it/politica/intervista-vladimiro-giacche-pareggio-bilancio.html

“La Grecia è salva” – Le ultime parole famose di Massimo Giannini

Le potete leggere su Affari & Finanza di oggi, 12 marzo 2012.
Un editoriale che si rivelerà imbarazzante per il direttore del supplemento di Repubblica del lunedì che, inspiegabilmente, è stato affidato ad un laureato in giurisprudenza. E si vede!

Tre analisi che vanno oltre la retorica ufficiale che ha imbambolato Giannini.

“Stiamo tenendo il fiato per l’esito di un programma complesso e incerto, che a tutto servirà tranne che a risolvere il problema dell’economia greca e neppure di quella europea. Già circolano stime secondo cui non solo la Grecia, ma anche il Portogallo avranno presto bisogno di un altro ciclo di interventi, sempre spacciati per “aiuti” perché è bello far leva su sentimenti nobili.  Perchè allora montare un meccanismo così complesso? Semplicemente, per consentire alla Grecia di coprire il suo fabbisogno finanziario fino al 2014, senza ricorrere al mercato. Come ha documentato il Sole 24 Ore, con 176 miliardi (cioè con i 130 attuali e il completamento dei fondi stanziati nel 2011), la Grecia sarebbe in grado di fronteggiare tutti i suoi impegni del triennio, compresa una ricapitalizzazione delle banche per 50 miliardi. E dopo? È difficile pensare che ci si aspetti che a quel punto la Grecia sia risanata e i sottoscrittori privati di titoli accorrano nuovamente festanti.

Lo stesso Financial Times ha scritto che il governo greco sta tagliando il ramo su cui è seduto. È più probabile che ci si attenda che a quel punto l’economia europea e il suo sistema bancario siano più robusti e in grado di assorbire meglio l’impatto di un evento traumatico collegato alla Grecia o a qualche altro piccolo paese periferico. Dimenticando però di avviare le riforme necessarie per mettere sotto controllo i settori del credito (come i derivati e in particolare quelli sul rischio di credito) che oggi fanno tanto paura proprio perché totalmente sconosciuti e incontrollati. Perché fra tre anni dovrebbero fare meno paura, se continueranno a operare come oggi? Poiché la politica europea non è in grado di prendere decisioni se non quelle del rigore fiscale e poiché di regolamentare più rigidamente le banche non si parla più, va quindi bene a tutti di spostare un po’ in là nel tempo il problema del debito greco e lasciare che la Bce con interventi eccezionali inondi di liquidità il mercato per favorire le banche nell’immediato e attendere che queste sostengano una ripresa economica ancora di là da venire. Qui non è questione di essere ottimisti o pessimisti, è proprio il gioco del dare e dell’avere che non torna”.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/03/09/grecia-chiamateli-aiuti/196311/

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“Insomma, la Grecia ha fatto default sul 105 miliardi di euro, ma ha aggiunto nuovo debito per 172 miliardi – nuovi prestiti di Ue e Fmi – oltre ai 107 di debito garantito e debitamente “nascosto” finora: dopo lo swap, quindi, Atene si è caricata di 279 miliardi tra nuovo debito e debito non contabilizzato! E sapete perché non era contabilizzato? Perché non era “in nome della Repubblica di Grecia”, ma “garantito dalla Repubblica di Grecia”! Ah beh, gran bella differenza! Quattro domandine quattro, per concludere. La Grecia, al netto dei prestiti di Fmi e Ue, ha un debito maggiore o minore dopo lo swap e il default selettivo? Come pagherà la Grecia quei 107 miliardi di dollari di debito garantito (scattando i cds, non ci sono storie, né dispute nominalistiche da fare)? Se la ragione dell’intero pacchetto di misure per la Grecia era riportare la ratio debito/Pil al 120%, creare maggiore debito è la strada giusta e fiscalmente possibile? Non sarà che l’unica ragione dell’intero programma, invece, era soltanto quella di proteggere le banche europee esposte alla Grecia? Provate a darvi una risposta e vedrete con occhi diversi la pantomima che si terrà oggi e domani, ovvero l’Eurogruppo e l’Ecofin che si riuniranno per decidere lo sblocco dei 130 miliardi di nuovi aiuti”.

http://www.rischiocalcolato.it/2012/03/e-ora-spunta-un-debito-nascosto-della-grecia.html

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“So, Greece defaulted. In the beginning, May 2010 to be precise, Europe and the IMF put up the largest loan in history supposedly to avert any kind of debt restructuring.  Then, when by the summer of 2011 it had become clear that debt restructuring was unavoidable, Europe embarked on ten months of navel gazing and a series of odd negotiations in order to effect the type of debt restructuring that would not, we were told, trigger CDS contracts. This week the default occurred and the CDS contracts were triggered. In terms of the troika’s own criteria, this was a spectacular failure to meet both targets”.

http://yanisvaroufakis.eu/2012/03/12/what-was-it-all-for-the-latest-greek-bailout-psi-in-the-morning-afters-cold-light/

La caccia ai falsi invalidi e la caccia ai signori dell’alta finanza

a cura di Stefano Fait

I falsi invalidi sono una categoria di cittadini infame ed indifendibile. Parassiti della peggior specie.

L’errore che facciamo, però, è quello di concentrarci principalmente su di loro, o sugli evasori, o sui detentori di piccoli privilegi, perdendo di vista i veri responsabili del disastro in cui ci troviamo: i signori dell’alta finanza.

Un ordinario di statistica alla Sapienza, Paolo Palazzi [“La finanza e l’economia reale. Un rapporto perverso?”, 2010], ci spiega perché non si possano paragonare gli 8 miliardi annuali che ci costano i falsi invalidi al parassitismo letale (e per il momento legale) degli speculatori:

“Se analizziamo i dati relativi ai movimenti internazionali di capitali ci appare subito come i movimenti internazionali di moneta causati da effettivo scambio di merci siano una minima parte di tutti i movimenti di capitali finanziari che avvengono nel mondo. Non solo, ma i tassi di crescita di questo fenomeno tendono continuamente ad ampliarlo. Ad esempio negli anni ’90, il commercio internazionale è cresciuto del 63%, mentre il movimento di capitali è cresciuto del 300%, senza nessun rapporto di riferimento con l’aumento di ricchezza reale (il PIL è cresciuto nello stesso periodo del 26%)”.

[…]

“Si può scommettere sull’andamento dei prezzi delle materie prime o di altri beni, sull’andamento delle varie borse, sulla dinamica dei tassi di cambio, ecc., ci sarà chi vince e chi perde, quello che è certo che non tutti possono alla lunga vincere. Un difetto di questo sistema è che non ha possibilità di sosta, non si può scommettere una volta sola, bisogna scommettere e giocare continuamente e questo comporta lo spostamento di enormi quantità di capitali in ogni istante in ogni parte del mondo. Capitali che si muovono “virtualmente” attraverso le reti informatiche con ritmi frenetici alla disperata e incessante ricerca di vincite speculative”.

“Per un lungo periodo di tempo, con la complicità di governi ed economisti, tutto ciò non solo è stato permesso e tutelato, ma anche incentivato nella presunzione, in buona o cattiva fede (cosa difficile da determinare), che tutto questo potesse avere un effetto benefico non solo per i risparmiatori, ma anche per il sistema economico mondiale nel suo complesso. Purtroppo, prevedibilmente e previsto (anche se da pochi economisti e nessun governo) l’ipotesi si è mostrata drammaticamente falsa, perché si basava sulla capacità del mercato di autoregolamentarsi, selezionando ed espellendo le pratiche finanziarie più pericolose e inaffidabili. Cosa è successo è ormai noto: la ricerca di rendimenti aveva portato a un allargamento enorme di impieghi del risparmio in prestiti sempre meno solvibili, cosa che non sarebbe grave se avesse colpito solamente gli investitori più imprudenti. Ma grazie a complessi meccanismi di spartizione del rischio, questi prestiti inaffidabili erano stati distribuiti in tutto il mondo tra i più differenti operatori finanziari, con meccanismi che di fatto, invece di ridurre il rischio, lo hanno moltiplicato paurosamente. È bastata una crisi nel settore delle abitazioni negli Stati Uniti per innescare un processo di reazione a catena che ha investito il sistema finanziario di tutti i paesi del mondo”.

[…].

Il problema chiave è che, se è vero che la speculazione finanziaria è un gioco a somma zero per i contendenti, è però altrettanto vero che investe, quasi sempre con effetti negativi, il sistema economico mondiale nel suo complesso. La ragione sta nel fatto che oggetto di speculazione sono titoli di credito, azioni e merci che alle loro spalle hanno reali processi produttivi, pubblici nel caso di titoli di debito pubblico e privati nel caso di merci, azioni e obbligazioni private. Gli speculatori hanno la possibilità e capacità di spostare una gran massa di capìtali che in molti casi autoalimentano, accelerano o nel peggiore dei casi creano·aspettative di difficoltà di stati o imprese…L’euro era ed è una moneta molto forte rispetto al dollaro, la sterlina e lo yen, anzi la più forte come solidità e garanzie. Speculare contro l’euro, puntando a una sua svalutazione era una prospettiva irrealistica. Gli speculatori alla ricerca disperata di una “rivincita” rispetto alle sconfitte recenti, hanno però individuato un piccolo e, dal punto di vista quantitativo, insignificante anello debole nell’Europa dell’euro: il debito pubblico greco. Con mosse coordinate, tanto da far pensare a un’operazione preordinata, hanno cominciato a speculare al ribasso sul debito pubblico greco, cosa che ha effettivamente provocato un forte deprezzamento del debito greco. Il grave ritardo nell’intervento e le divisioni politiche europee hanno facilitato e accelerato questo processo e portato addirittura a una svalutazione dell’euro che ha trasformato l’attacco speculativo al debito greco in un attacco speculativo contro l’euro che a tutt’oggi ancora continua. È chiaro che gli effetti negativi dell’operazione non si sono limitati a danneggiare le agenzie finanziarie che non avevano previsto e sfruttato questo tipo di operazione, ma investono e investiranno in modo drammatico i cittadini greci e a catena i cittadini europei. Il danno si avrà attraverso l’introduzione di politiche fiscali e di spesa pubblica restrittive, e i più colpiti saranno i ceti medio bassi della popolazione. Questo è solo un esempio recente di come la speculazione finanziaria riesca a danneggiare anche, direi soprattutto, coloro che sono ben lontani dal parteciparvi: infatti la storia recente è piena di veri e propri drammi causati dalla speculazione contro alcuni paesi sottosviluppati.

Una politica legislativa e regolatoria sul movimento di capitali e sulla finanza in genere che ribaltasse l’ubriacatura liberista avrebbe senza dubbio una certa efficacia, che però sarebbe fortemente amplificata se accompagnata da misure di aumento del costo della speculazione attraverso l’imposizione di un sistema di tassazione delle transazioni finanziarie inçernazionali. In modo particolare, come abbiamo visto, le speculazioni hanno bisogno di veloci e continui spostamenti finanziari da un paese all’altro, da una valuta all’altra: quindi, anche un’aliquota non elevata su ogni transazione, avrebbe un effetto rilevante sul costo dei movimenti speculativi e debole o nullo sulle transazioni di beni.

La ricetta non è nuova e se ne parla da molti anni (la Tobin Tax) ma anche in un periodo come questo, in cui gli effetti negativi della speculazione sono sotto gli occhi di tutti, sembra una cosa difficile da realizzare. Difficoltà tecniche esistono, ma non sono insormontabili, ostacoli maggiori sono politici ed ideologici, molto più difficili da superare.

Ma continuare a parlarne, a spingere perché vengano attuate queste misure non è inutile, se non altro perché possono aiutare i cittadini a valutare il proprio sistema economico, quello politico e i propri politici alla luce della loro capacità, se non altro, di difesa e prevenzione dai danni provocati dalla rapacità della speculazione finanziaria”.

http://w3.uniroma1.it/paolopalazzi/Articoli/Finanza%20Focsiv.pdf

Alcune citazioni utili su banche e denaro:
http://fanuessays.blogspot.com/2011/12/il-denaro-il-debito-le-banche-raccolta.html

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