I punti controversi del referendum sulla riforma costituzionale

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Il ddl Renzi-Boschi:
– nega l’elettività diretta del Senato, ancorché gli venga contraddittoriamente ribadita la spettanza della funzione legislativa e di revisione costituzionale;
– privilegia la governabilità sulla rappresentatività;
– elimina i contro-poteri esterni alla Camera senza compensarli con contropoteri interni;
– riduce il potere d’iniziativa legislativa del Parlamento a vantaggio di quella del Governo;
– prevede almeno sette/otto tipi diversi di votazione delle leggi ordinarie con conseguenze pregiudizievoli per la funzionalità delle Camere;
– sottodimensiona la composizione del Senato (100 contro 630) rendendo irrilevante il voto dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune relative alla elezione del Presidente della Repubblica e dei componenti del CSM (mentre per quanto riguarda i giudici della Corte costituzionale ne attribuisce irrazionalmente tre ai 630 deputati e addirittura due ai 100 senatori);
– pregiudica il corretto adempimento sia delle funzioni dei senatori, divenute part-time, sia quelle ad esse connesse, dei consiglieri regionali e dei sindaci;
– prevede degli inutili senatori pro-tempore di nomina presidenziale, ancorché il Senato non svolga più quelle alte funzioni che giustificavano la presenza di senatori a vita eletti dal Capo dello Stato.
– Inoltre ciò che preoccupa di più è il combinato disposto della riforma costituzionale e dell’Italicum (che è il bis del Porcellum), in conseguenza del quale il Premier-segretario conseguirebbe uno smisurato accumulo di poteri.

http://temi.repubblica.it/micromega-online/pace-%E2%80%9Crenzi-vuole-un-principato-ecco-le-ragioni-del-no%E2%80%9D/

Verso lo scontro con Roma (e con Bruxelles?)

Lo Stato continua a giocare la carta dell’emergenza per riservarsi di intervenire unilateralmente. Non che così facendo ottenga di più. L’obiettivo sembra piuttosto di tipo “educativo”: dimostrare di avere il coltello dalla parte del manico, anche a costo di perdere qualche ricorso davanti alla Corte costituzionale. Pensando che, alla lunga, il Paese non possa più permettersi la specialità. Un’idea sbagliata, ma che permea molti circoli politici e accademici a sud di Borghetto…Il Governo, forte di un consenso ancora ampio e della forza che gli deriva dalla gestione dell’emergenza, sta facendo oggi quello che le autonomie speciali hanno fatto a lungo, e con indubbio successo. Adotta un atteggiamento pragmatico. Cioè, sostanzialmente, senza regole, o (il che è lo stesso) con regole ad hoc. Il pragmatismo è dei forti, le regole servono per i deboli. Ignorando lo stato di diritto, si passa ai rapporti di forza, e in questo momento le autonomie speciali forti non lo sono. Hanno certamente alcuni importanti baluardi giuridici, che però valgono fintantoché vale lo stato di diritto. Se la regola è l’emergenza o il pragmatismo, rischiano di saltare anche le garanzie più solide. Insomma, la partita in corso va ben al di là delle cifre. È la cartina di tornasole della qualità dello stato di diritto in Italia”.

Francesco Palermo (giurista), Alto Adige, 1 giugno 2012

“In attesa che Roma chiami per dare una risposta chiara e definitiva sulle ultime proposte delle Province di Trento e Bolzano, il presidente Dellai si porta avanti e dà il via libera alla riscrittura dello Statuto dell’autonomia, quel “terzo statuto” che dovrebbe sancire il passaggio all’autonomia integrale. «E’ una base di partenza – spiega lo stesso presidente – di alto profilo sulla quale avviare il dibattito necessario». È chiaro che il percorso è ancora lungo, ma intanto la giunta provinciale ha dato incarico a Roberto Toniatti (costituzionalista, già preside di giurisprudenza a Trento) e a Massimo Carli (già professore di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano) di predisporre nel giro di un anno una bozza che tenga conto delle evoluzioni più recenti e che prefiguri un’evoluzione basata sul diritto. «Il dibattito su una riforma in senso costituzionale – aggiunge il presidente Dellai – non è certo nuova ma ultimamente si affaccia sempre di più nel dibattito politico nazionale. Noi vorremmo farci trovare pronti nel momento in cui si vorranno definire i nuovi scenari, abbozzando una proposta seria e concreta che naturalmente ha bisogno di un confronto politico e sociale molto più ampio. Già nelle passate legislature si sono susseguiti studi e approfondimenti relativi all’impianto statutario, posto a fondamento dell’autonomia di questa Provincia; tali studi hanno dato luogo a una notevole e pregevole documentazione in materia e hanno evidenziato spunti di riflessione e di approfondimento anche di rilievo politico. Ora c’è la necessità di elaborare una proposta organica di revisione dello Statuto speciale per il Trentino Alto Adige, anche in una prospettiva evolutiva dei precedenti lavori commissionati e alla luce dei recenti mutamenti normativi, economici e sociali, che si riflettono anche sull’assetto statutario vigente e che hanno evidenziato la necessità di ridefinire gli assetti istituzionali dello Statuto speciale a distanza di oltre 40 anni dalla sua approvazione». Il lavoro dei due professori si concluderà in un anno e costerà complessivamente alle casse pubbliche 51 mila euro”.

Trentino, 3 luglio 2012

http://trentinocorrierealpi.gelocal.it/cronaca/2012/07/03/news/e-gia-ora-di-scrivere-il-terzo-statuto-1.5356511

“A noi fa piacere che Dellai venga. Non importa chi sia, che stia lavorando palesemente pro domo sua. Importa che le Alte Terre si parlino e che si concepiscano come un soggetto politico, un soggetto che nel contesto attuale può rivendicare un nuovo ruolo. Finita e fallita la modernità le Alte Terre possono tornare al centro della scena”.

http://www.ruralpini.it/Inforegioni04.07.12-Dellai-autonomismo-alpino.htm

Stati Uniti d’Europa – i dubbi dei costituzionalisti e delle persone di buon senso

Tutto il popolo tolse i pendenti che ciascuno aveva agli orecchi e li portò ad Aronne. Egli li ricevette dalle loro mani e li fece fondere in una forma e ne ottenne un vitello di metallo fuso. Allora dissero: «Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto!». Ciò vedendo, Aronne costruì un altare davanti al vitello e proclamò: «Domani sarà festa in onore del Signore». Il giorno dopo si alzarono presto, offrirono olocausti e presentarono sacrifici di comunione. Il popolo sedette per mangiare e bere, poi si alzò per darsi al divertimento.

Esodo 3-6

Solo il federalismo sarà capace di evitare il fallimento dell’Euro e le sue conseguenze disastrose sulla vita di tutta l’Unione europea. Esso aprirà agli Europei la via verso un’Europa giusta, solidale e democratica in grado di garantire il suo spazio centrale nel mondo.

Giuliano Amato, Jacques Attali, Emma Bonino, Romano Prodi,Il federalismo che può salvare l’Europa”, La Repubblica, 9 maggio 2012

Un’Europa che potrebbe rivelarsi uno dei pilastri essenziali di un più ampio sistema euroasiatico di sicurezza e cooperazione sponsorizzato dagli americani. Ma, prima di ogni altra cosa, l’Europa è la testa di ponte essenziale dell’America sul continente euroasiatico. Enorme è la posta geostrategica americana in Europa…l’allargamento dell’Europa si traduce automaticamente in un’espansione della sfera d’influenza diretta degli Stati Uniti. In assenza di stretti legami transatlantici, per contro, il primato dell’America in Eurasia svanirebbe in men che non si dica. E ciò comprometterebbe seriamente la possibilità di estendere più in profondo l’influenza americana in Eurasia…Un impegno americano in nome dell’unità europea potrebbe scongiurare il rischio che il processo di unificazione segni una battuta d’arresto per poi essere addirittura gradualmente stemperato.

Zbigniew Brzezinski, architetto della politica estera statunitense in Eurasia, mentore del giovane Obama e co-fondatore con David Rockefeller della Commissione Trilaterale –“La grande scacchiera”,  Milano : Longanesi, 1998, pp. 83-85

Io credo che, alla fine, la risoluzione della crisi odierna in Europa non funzionerà poi tanto male…Inevitabilmente, una vera unione politica prenderà gradualmente forma, all’inizio probabilmente attraverso un trattato di fatto, che sarà raggiunto con un accordo intergovernativo nel prossimo futuro. Sarà un’Europa a due velocità. Non c’è niente di male in un’Europa che è in parte e contemporaneamente un’unione politica e monetaria nel suo nucleo centrale e che accetta di essere diretta da Bruxelles, circondata da un’Europa più ampia che non fa parte dell’eurozona ma condivide tutti gli altri vantaggi dell’Unione, per esempio la libera circolazione delle persone e delle merci. È un progetto in linea con la visione post-Guerra Fredda di un’Europa in espansione, unita e libera.

Zbigniew Brzezinski, intervista rilasciata al Christian Science Monitor, 24 gennaio 2012

Leggendo il suo articolo mi pare che per lei il federalismo sia una soluzione finale. Io credo che sia un mezzo: uno dei mezzi. Se ci guardiamo attorno, ci accorgiamo che il potere oppressivo non è soltanto prerogativa degli Stati nazionali. Una grande impresa oggi ha la possibilità di abusare del potere più dello stato stesso. Le nostre costituzioni accordano garanzie contro l’abuso di potere da parte degli organi dello Stato. Non ne accordano contro l’abuso di potere da parte dei grandi gruppi capitalistici. Il superamento dello Stato nazionale è una faccia del problema del potere. O i federalisti credono che sia una soluzione totale? Io non ne sono del tutto convinto.

Norberto Bobbio ad Altiero Spinelli, 15 dicembre 1957

Nessuno degli esempi della storia, siano essi una federazione di stati o un’unione di nazioni, può servire come modello per plasmare l’unione politica. L’Unione europea è sempre stata, e resterà, un impegno unico per il quale non ci sono modelli che possono essere facilmente adottati. È importante consentire un processo evolutivo, che è aperto a ulteriori iniziative di integrazione, ma salvaguarda ciò che è già in atto e funziona bene, e che assegna le competenze agli Stati nazionali o addirittura alle regioni a seconda dei casi.

Otmar Issing, capo degli economisti della BCE, 24 marzo 2006.

Il modello burocratico che vige a Bruxelles è il modello francese, in cui la burocrazia decide quanto cacao vi deve essere in un impasto di cioccolata oppure il raggio di curvatura che deve avere una banana. La Svizzera per contro rappresenta ancora oggi lo spirito di regionalismo, d’identità locale che non vuole cedere alla pressione dell’Unione Europea. E secondo me con diritto. Perché io sono democratico, e per me l’esistenza di una comunità come Bellinzona, che andrà alle urne per decidere di un credito per la pavimentazione di una piazza, è una parte importante della democrazia mondiale. […]. I singoli Stati americani sono molto più simili tra loro che non i 26 cantoni svizzeri. Quando si attraversano le frontiere in America non si nota nessuna differenza. Tutto è uguale, che sia Pennsylvania o New Jersey o Virginia. La diversità americana, che tanto ho amato, non esiste più. […]. Lì il federalismo è più una finzione: in realtà quello americano è un governo centralizzato.

Jonathan Steinberg, docente di storia moderna europea all’Università della Pennsylvania, Corriere del Ticino, 31 Luglio 2003

È nell’interesse di tutti addivenire ad un’Europa politicamente unita, ma dovrebbe essere evidente a tutti che l’Europa è sostanzialmente diversa dagli Stati Uniti d’America, per storia, lingue e cultura. I suoi popoli e comunità non possono essere trattati alla stregua degli ospiti della leggendaria locanda di Procuste, che venivano amputati oppure “allungati” per poterli adattare alle misure dei letti. È più che realistico attendersi che proprio la mancanza di rispetto per le specificità locali e le sensibilità particolari, oltre ad una fretta ingiustificata, produrranno reazioni violente e l’affondamento del sogno europeista.

Tra l’altro, è piuttosto curioso che si caldeggi una maggiore integrazione europea mentre oltreoceano, per tre soli voti (e grazie ad uno scaltro emendamento inserito all’ultimo minuto), non è passata una proposta di legge del Wyoming (HB 0085, 2012) per l’istituzione di un gruppo di studio che intraprenda l’analisi delle conseguenze di una potenziale interruzione del governo federale degli Stati Uniti, di un eventuale rapido declino del dollaro, di una situazione in cui il governo federale non ha alcun potere effettivo o autorità sul popolo degli Stati Uniti, di una crisi costituzionale e dell’ipotetica interruzione nel settore della distribuzione alimentare e dell’energia.

In un libro molto bello e sincero, intitolato “Il mito d’Europa” (Monti, 2000) Luciano Monti, docente di Politica Regionale europea presso la Luiss Guido Carli, dà testimonianza di come certe perplessità siano assolutamente motivate. Carli rileva che l’Europa è diventata un fine in sé e che il mito rischia di diventare un idolo. Sottolinea la modesta potestà legislativa del Parlamento europeo ed il suo scarso coinvolgimento nel processo decisionale della politica europea, stigmatizza il prevalere della burocrazia e l’inamovibilità dei suoi vertici, il proliferare di normative sempre più complesse ed il decentramento a livello regionale che indebolisce gli stati come corpi intermedi che possono anche tutelare le regioni stesse, le quali, sono comunque troppo deboli e mal coordinate. Infine, un’élite distante dai cittadini, isolata nella sua torre eburnea, persuasa di essere, sola, in grado di decretare i destini di centinaia di milioni di cittadini (p.235): “Vi sono anche numerosi potentati, che a differenza delle tradizionali strutture di governo, legate ad un territorio, sono piuttosto incardinati su una fitta rete di relazioni. Non si tratta in realtà di una casta determinabile, ma, per dirla con Herman Hesse, delle Castalie, vale a dire dei gruppi circoscritti di soggetti isolati dal resto della società civile. Dove l’isolamento è il prodotto non già dell’emarginazione ma piuttosto dell’elevazione“.

Perciò non sorprende constatare che le corti costituzionali dei paesi europei, specialmente in Francia, Germania e Regno Unito, abbiano assunto un atteggiamento difensivo e critico verso l’architettura istituzionale dell’Unione Europea (Zagrebelsky/Portinaro/Luther, 1996; Zagrebelsky, 2003). In particolare, il costituzionalista tedesco Dieter Grimm ha argomentato in modo molto persuasivo una serie di contestazioni all’iter integrativo europeo che si coniugano a quelle che ho menzionato in precedenza. Grimm osserva che, come non si possono costruire degli edifici a partire da tetto, ma servono delle solide fondamenta, così l’edificio europeo non può prescindere da una società civile europea, una lingua-ponte europea sufficientemente diffusa, partiti europei, media europei, una memoria sufficientemente condivisa, ossia di tutti quei trait d’union e soprattutto corpi intermedi che, fin dai tempi di Montesquieu, sono considerati elementi basilari ed irrinunciabili per un’organizzazione statuale stabile ed efficiente ed una cittadinanza che possa prendere parte attiva al processo decisionale. Senza la possibilità di comunicare in modo più agevole, di scambiare opinioni e valutazioni, come sarà possibile che mezzo miliardo di persone trovi punti di accordo, raggiunga compromessi e regoli i suoi rapporti con i paesi extra-europei, anche in tempi di crisi?

Una valutazione sottoscritta, tra gli altri, da Ralph Dahrendorf e Gian Enrico Rusconi nei loro commenti ad una sentenza della Corte Costituzionale Federale Tedesca del 12 ottobre 1993, la prima di una serie di sentenze, non solo tedesche, che hanno intralciato i piani delle autorità europee di addivenire al più presto ad uno Stato federale. Sentiamo il parere, al riguardo, di Andreas Vosskuhle, presidente della corte costituzionale tedesca, intervistato dalla Frankfurter Allgemeine („Mehr Europa lässt das Grundgesetz kaum zu“, 25 settembre 2011):

La Costituzione consente un’ulteriore integrazione europea?

Penso che i margini di manovra si siano in gran parte esauriti.

E se la politica volesse procedere oltre?

La costituzione tedesca garantisce l’inviolabilità della sovranità statuale. Essendo ancorata alla Costituzione, essa non potrebbe essere accantonata neppure per mezzo degli emendamenti costituzionali. Le modifiche della Costituzione concernenti i principi strutturali – democrazia, stato di diritto, stato sociale, federalismo – sono inammissibili.

La sovranità di bilancio del Parlamento potrebbe essere parzialmente trasferita alle istituzioni europee?

Non c’è più molto spazio per una cessione di ulteriori competenze all’Unione Europea. Se si volessero varcare questi limiti – il che può anche essere politicamente legittimo e desiderabile –, in quel caso la Germania dovrebbe darsi una nuova costituzione. Ma allora si renderebbe necessaria una consultazione referendaria. Non si possono fare queste cose senza il popolo.

È curioso che molti analisti politici, accecati dalla loro fede europeista, si dimentichino della differenza tra democrazia formale (la scatola) e democrazia sostanziale (il contenuto) e che debbano essere dei costituzionalisti a rammentarglielo (cf. per esempio Antonio Cantaro). Una democrazia senza una società civile vigorosa e corale (voci distinte ma armonizzate, come in un coro, appunto) è come quelle pagnotte che sembrano belle esternamente ma quando le spezzi scopri che è quasi tutta crosta e poca mollica (sostanza). Un vinaccio scadente ed un vino di alta qualità sono entrambi vini, ma sfido chiunque a dire che sono la stessa cosa: uno intossica, l’altro gratifica.

Ciò che è forse paradossale, ma molto significativo, è che questa agognata società civile europea, questo popolo sovrano europeo, sta effettivamente sbocciando, con fatica, solo ora, tra gli indignati, ma come atto di protesta contro le istituzioni europee e globali. La sensazione è che, per molti Europei, l’Unione stia diventando un problema, piuttosto che una soluzione, a dispetto del diverso parere di una larga fetta dell’intellettualità europea.

Come giustamente lamenta Giuseppe Guarino (2008, p. 160): “Bisogna andare avanti, si dice. Completare un processo glorioso che si è svolto con successo per oltre cinquanta anni. Andare avanti, certo. È indispensabile. Ma sempre che la strada prosegua diritta e sicura. Se diventa accidentata e va inoltrandosi in luoghi non chiari, se sorge anche un minimo dubbio se continui ad essere quella giusta, la più elementare prudenza suggerisce di fermarsi e chiedere informazioni…Non c’è ragione per discostarsi da quanto in analoghe condizioni farebbe una comune persona, mediamente saggia. Solo di questo si tratta“.

Vorrei concludere questo capitolo riproponendo alcuni passi salienti di un dibattito avvenuto in seno alla famosa, o famigerata, Commissione Trilaterale (Crozier, Huntington, Watanuki, 1977), un’organizzazione che è soprattutto nota per il suo elitismo e che quindi non ci si aspetta che possa manifestare posizioni contrarie all’accentramento del potere nelle mani di pochi selezionati. Ebbene, verso la fine degli anni settanta, le proposte di tre relatori che andavano, appunto, nella direzione di una revisione in senso tecnocratico e centralistico della democrazia come rimedio per la presunta crisi in cui versavano le società democratiche, ricevettero una bordata di critiche da diversi membri della Commissione. Ci fu chi sottolineò che i padri fondatori degli Stati Uniti non avrebbero mai anteposto la “governabilità” al rispetto dei diritti dei cittadini, chi denunciò gli eccessi dei governanti e della burocrazia, piuttosto che quelli dei governati, chi definì i rimedi raccomandati “errati, deludenti, fatali”, chi invocò più democrazia, non meno democrazia, chi lamentò il restringimento del pluralismo nei media e chi constatò che, essendo gli esseri umani così deboli, in una situazione di monopolio sarebbero inclini ad abusare del potere loro conferito. Posizioni assolutamente coincidenti con quelle degli indignati dei nostri giorni. Quel che più ci interessa è invece la valutazione che i membri canadesi diedero del federalismo canadese, uno dei possibili modelli per quello europeo (pp. 184-185): “Si fece rilevare che l’espansione e la proliferazione della burocrazia a livello federale, provinciale e comunale hanno contribuito, a causa della sempre minore chiarezza di direzione e responsabilità, alle tensioni cui è sottoposto il sistema politico canadese. Si registra una tendenza sempre più forte – si disse – della burocrazia ad assumere ruoli che tradizionalmente erano di pertinenza prevalente degli uomini politici – ad esempio quei ruoli che hanno per oggetto il “bene pubblico”. In ciò si potrebbe vedere uno sviluppo pericoloso, specie alla luce della vocazione della burocrazia federale a “imperniarsi su Ottawa”, senza più esprimere un’adeguata rappresentanza delle altre regioni del paese“.

Dopo il pareggio di bilancio in costituzione anche il premierato forte? (e senza che la gente possa dire la sua!)

Ecco a cosa servono le grandi coalizioni (grandi inciuci): ad aggirare la sovranità popolare e disfarsi, un passetto dopo l’altro (mitridatizzazione: ti uccide ma non te ne accorgi), dell’articolazione democratica della Repubblica italiana.

“Apprendiamo da una intervista all’Unità dell’on. Luciano Violante che “entro maggio ci sarà il voto del senato sulla riforma costituzionale”, che gli stessi autori chiamano “riforma degli sherpa”: di coloro cioè che avrebbero molto faticato per consentire alle vecchie istituzioni italiane di raggiungere vette di modernità e democrazia mai raggiunte prima.

Libertà e Giustizia ribadisce di preferire la Costituzione del ’48 alla Costituzione degli sherpa, che fra l’altro renderà ancora più succube il Parlamento alla volontà del capo del governo.

LeG chiede che si vada prima a votare con una nuova legge elettorale e poi che si affidino al nuovo Parlamento eletto e non nominato gli eventuali aggiornamenti della Costituzione. Un Parlamento credibile, affidabile e competente. Certamente non un Parlamento come questo che ha al suo interno 90 tra deputati e senatori indagati e/o condannati per corruzione, concussione e abuso d’ufficio.

Libertà e giustizia chiede che la discussione esca subito dal circolo ristrettissimo di sherpa,  membri delle commissioni e segretari di partito e si dica chiaramente ai cittadini italiani che questa riforma non si fa per diminuire il numero dei parlamentari (nemmeno 200) come gli si vuol far credere, ma per investire il capo del governo di poteri che non ha mai avuto prima e che vengono sottratti al presidente della Repubblica.
Infine, è chiaro l’obiettivo di approvarla con i due terzi del Parlamento (come avvenuto per la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio) impedendo così ai cittadini italiani che ancora preferiscono la Costituzione del ’48 di bocciare quella degli sherpa”.
http://www.libertaegiustizia.it/2012/04/27/la-costituzione-degli-sherpa/

“Nel progetto in discussione vi sono almeno quattro oggetti ben distinti, che riguardano rispettivamente: la composizione delle Camere; la distribuzione delle funzioni fra di esse; i poteri del governo nel procedimento legislativo; la fiducia e la sfiducia al governo e lo scioglimento delle Camere (cosiddetta forma di governo); e altri se ne potrebbero aggiungere per strada.

Sul primo punto ciò che servirebbe è una integrazione della riforma proposta: la tanto invocata riduzione del numero dei parlamentari potrebbe essere senz’altro disposta, ma accompagnandola con la cancellazione di quel vero obbrobrio che è l’elezione separata dei rappresentanti degli italiani all’estero, sciaguratamente introdotta nel 2001. È sotto gli occhi di tutti che cosa abbia prodotto questa strana elezione — su scala addirittura continentale — di una pattuglia di parlamentari che non hanno e non possono avere nessun rapporto reale con la loro base elettiva. Gli italiani all’estero che vogliono partecipare alla elezione delle Camere votino casomai per corrispondenza o, tornando in Italia, magari con voli low cost.
Il secondo punto (il bicameralismo) meriterebbe probabilmente una riforma più incisiva, che differenzi davvero le Camere riservando a quella dei deputati il conferimento della fiducia al governo e facendo del Senato una assemblea rappresentativa delle autonomie. Ma questa riforma, lo si è capito, non piace al presente Parlamento. Allora, invece che attribuire a ciascuna delle due Camere una preminenza (e l’ultima parola) su diverse categorie di leggi, difficilmente distinguibili fra loro (le leggi espressione di competenze statali esclusive o invece di competenze concorrenti con quelle delle Regioni), e quindi su «materie» spesso dagli incerti confini, come dimostra l’abbondante contenzioso Stato-Regioni, meglio sarebbe limitarsi a rendere facoltativo, dopo l’approvazione di una Camera, l’esame da parte dell’altra Camera, su richiesta di una frazione di questa. Si avrebbe un risultato di snellimento senza dar luogo a disarmonie o a infinite controversie.

Il terzo punto riguarda i poteri del governo nel procedimento legislativo. È corretto stabilire — lo si potrebbe fare anche con i regolamenti parlamentari — dei termini (congrui) entro cui il governo possa chiedere che le Camere esaminino e approvino o respingano o modifichino i progetti che sono per esso caratterizzanti. E solo nel caso di vano decorso del termine si potrebbe ammettere una sorta di «voto bloccato» sulla proposta del governo. Ma a questo indubbio rafforzamento del potere del governo nel processo legislativo ci si dovrebbe domandare se non accompagnare, per riequilibrarlo, un riconoscimento della facoltà per le minoranze di impugnare direttamente le leggi davanti alla Corte Costituzionale nel caso di violazione delle norme sul procedimento legislativo che ne garantiscono i diritti.

L’ultimo punto (la forma di governo) tocca invece aspetti su cui meglio sarebbe rinviare ogni eventuale decisione al futuro Parlamento, che sarà espresso dagli elettori nel 2013. Il sistema politico italiano è oggi troppo fluido e indeterminato nei suoi lineamenti perché si possa capire fino in fondo quali prospettive e quali rischi si aprirebbero modificando le regole sulla fiducia e sullo scioglimento (che incidono anche sui poteri del capo dello Stato). La tesi, pur frequentemente enunciata, secondo cui il presidente del Consiglio avrebbe oggi troppo pochi poteri è in realtà indimostrata e indimostrabile. I poteri istituzionali (quelli politici effettivi dipendono da fattori, appunto, politici) del primo ministro sono tutt’altro che scarsi nel regime parlamentare che ci caratterizza (basta pensare alla questione di fiducia che egli può porre davanti alle Camere), e ancor più consistenti diventerebbero se si modificassero come si è detto le regole sui procedimenti legislativi.

C’è invece un provvedimento che questo Parlamento non dovrebbe tardare ad approvare: ed è una diversa legge elettorale. Ma questo non ha a che fare con modifiche della Costituzione, semmai con una sua migliore attuazione”.

http://www.libertaegiustizia.it/2012/05/18/la-costituzione-non-e-merce-di-scambio-2/

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