Il fratello di tutti gli scioperi (ora si attende la Madre)

Il problema è molto semplice: finché li lasciamo fare, loro andranno avanti. Le bolle speculative possono esplodere, ma poi le riformeranno, a spese dei contribuenti. Ne consegue che il nostro futuro è nero: non c’è la cavalleria che interviene, non c’è un nascondiglio o rifugio per proteggerci. È in corso una lotta di classe (di casta) tra un’oligarchia di super-ricchi parassiti (100 milioni circa) e chi fa stare in piedi l’economia reale (inclusa una maggioranza di imprenditori, che non ha ancora capito che se la sta per prendere nel sedere: cf.  -1,8% della produzione industriale tedesca).

Se non ci ribelliamo all’austerità ci sarà un futuro tetro per tutte le generazioni a venire. Arriva il momento in cui bisogna battersi per salvare quel che abbiamo ricevuto in eredità da chi si è battuto prima di noi.

Senza un movimento di massa le cose non cambieranno e saremo responsabili delle nostre ed altrui afflizioni per molti anni a venire.

Ecco il tipo di europeismo e paneuropeismo (dal basso) che piace a me. Altro che secessioni e fughe dall’euro. Si resta e ci si batte e si cerca di vincere, in nome della dignità di 500 milioni di europei (e di 7 miliardi di esseri umani), dei principi costituzionali e di un’idea di sviluppo moralmente, socialmente ed ecologicamente sostenibile, alternativo al gioco al massacro dei nostri giorni.

“A CHI NON CONVIENE LO SCIOPERO ?”

di ESTHER VIVAS
Público

Il 14 novembre avremo uno sciopero generale e ciò che è più importante ed inedito è che avverrà contemporaneamente in Spagna, Portogallo, Grecia, Cipro, Malta, Belgio e, per quattro ore, anche in Italia. Sembra quindi che un fantasma stia iniziando a muoversi per la periferia dell’Unione Europea, per questa Europa colpita dalla crisi, dalle rettifiche, dal debito e dall’austerità. Uno sciopero generale che deve essere un primo passo per iniziare a coordinare le proteste in scala continentale. I maggiori sindacati hanno un ritardo storico e fino ad ora non hanno fatto quasi nulla per orchestrare internazionalmente le proteste. Il 14 novembre, nonostante arrivi tardi, é perlomeno un passo in avanti.

E’ uno sciopero generale che non può limitarsi ad essere solo una mera astensione dal lavoro. Bisogna avanzare verso uno sciopero sociale e cittadino. Uno sciopero dove non solo si fermino le imprese ma anche le scuole, i supermercati, i servizi sociali… e, in definitiva, i quartieri e le città; dove persone in manifestazione, precari, pensionati abbiano un luogo e un ruolo; dove si creino comitati di quartiere per preparare questo sciopero e la grande manifestazione. Uno sciopero che deve essere una leva per impulsare un processo di lotta sostenuta nel tempo. Affinché dopo uno sciopero generale, come é successo in Grecia, ne venga un altro e un altro ancora.

Il 14 Novembre non deve servire solo per protestare contro gli ultimi tagli di Rajoy. Bisogna andare molto più in là. Basta sfratti, basta licenziamenti, basta povertà e basta debiti: é ciò che chiediamo”.

http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=11045

La democrazia nella Via Lattea (dirittidoveri di un Mondo Nuovo)


Ora l’inverno del nostro scontento

è reso estate gloriosa da questo sole di York,

e tutte le nuvole che incombevano minacciose sulla nostra casa

sono sepolte nel petto profondo dell’oceano.

Ora le nostre fonti sono cinte di ghirlande di vittoria,

le nostre armi malconce appese come trofei,

le nostre aspre sortite mutati in lieti incontri,

le nostre marce tremende in misure deliziose di danza.
Riccardo III

 

Arriverà anche quel momento e bisognerà pensare a cosa costruire sulle macerie.

Questi dirittidoveri non abbisognano di spiegazioni e giustificazioni, sono intuizioni morali spontanee il cui significato e cogenza possono sfuggire solo a persone prive di empatia o introspezione. In un ipotetico consesso di civiltà della Via Lattea esemplificherebbero l’ethos umano, sarebbero il nostro biglietto da visita, qualcosa di cui essere orgogliosi.

Il dirittodovere alla giustizia sociale ed all’equità

Nella filosofia greca classica giustizia e senso della misura erano inestricabilmente connessi. Archita elogiava la giusta misura, che neutralizza “l’avido desiderio di avere sempre di più” (pleonexia). Eraclito, Anassimandro, Esiodo, Solone convenivano sul fatto che il fondamento della moralità umana sia la misura e la repressione dell’eccesso e che mutualità e giustizia sono le virtù che producono l’uguaglianza.

La giustizia non è semplice imparzialità o equità, presuppone uguaglianza nel rispetto, trascende le norme di legge: sei un mio pari, ti tratterò di conseguenza. La giustizia è qui intesa non come ideale ma come una prospettiva sul mondo. Sono in una posizione di privilegio rispetto alla tua, ma è un accidente, un caso del destino e quindi un mio eventuale senso di superiorità sarebbe del tutto ingiustificato.

Non c’è giustizia se manca il riconoscimento della comune umanità e il desiderio di riparare ad un’ingiustizia occorsa ad un altro come se l’avessimo subita in prima persona.

Per questo la civiltà contemporanea sta affondando e dalle sue ceneri non dovrà nascere una fenice, ossia un clone del presente, ma un mondo nuovo e diverso.

Tanto per cominciare si dovrebbero adottare misure di seria e rigorosa regolamentazione dei mercati, di tassazione delle transazioni finanziarie e di contrasto al fenomeno dei paradisi fiscali.

Secondo un rapporto realizzato da un ex capo economista di McKinsey, James Henry, sulla base dei dati della Banca dei Regolamenti Internazionali e del Fondo Monetario Internazionale, ed intitolato “Il prezzo dell’offshore rivisto”, fino al 2010 i patrimoni dei super-ricchi di tutto il mondo nascosti nei paradisi fiscali ammontano ad una cifra che potrebbe raggiungere i 32mila miliardi di dollari, pari ad una volta e mezza la somma del PIL americano e giapponese. Le 10 maggiori banche hanno messo da parte un quinto del totale, nel 2010, quasi triplicando il gruzzolo di 5 anni prima. Miracoli delle crisi globali. Le mancate entrate derivanti da questa elusione fiscale sono enormi. La ricchezza sottratta ai paesi in via di sviluppo (in primis alla Russia post-comunista) negli ultimi 40 anni sarebbe più che sufficiente a coprire il loro indebitamento con il resto del mondo, con effetti decisivi sui flussi migratori. Il rapporto precisa che “il problema è che i beni di queste nazioni sono controllati da un ristretto numero di persone mentre i governi ridistribuiscono i debiti sui cittadini ordinari”. La somma calcolata è così colossale da lasciar capire che la misura dell’ingiustizia sociale dei nostri tempi è “drammaticamente sottostimata”. Quasi la metà di queste ricchezze è posseduta da 92mila persone, ossia circa lo 0,001% della popolazione mondiale. Finora i politici si sono ben guardati dal prendere l’iniziativa contro questa vero e proprio crimine contro l’umanità. Del resto ben 68 parlamentari britannici controllano o sono partner finanziari di imprese uffici, conti correnti e sedi in vari paradisi fiscali (inchiesta del Guardian, 2012).

Anche la Tobin Tax, la cosiddetta “tassa Robin Hood”, continuamente evocata, non è mai stata approvata. Colpirebbe le compravendite borsistiche che, a differenza di quelle ordinarie (merci, beni e servizi sono sottoposti all’IVA o ad altre imposte), sono gratuite. Innumerevoli miliardi di dollari ed euro di fatturato non tassato. Negli Stati Uniti erano tassate fino alla seconda metà degli anni Sessanta, poi questa misura fu abolita dal successore di JFK, Lyndon Johnson. Curiosamente, è proprio dagli anni Settanta che il divario tra i redditi dell’1% e quelli del 99% della popolazione americana prima e occidentale poi ha cominciato a crescere in modo molto sostenuto. Una tassa di un semplice 1% risolverebbe la colossale crisi del debito sovrano americana.

Il dirittodovere alla libertà ed all’autonomia

La libertà è lo svincolamento da forze e circostanze che oggettificano l’umano, che impongono ad una persona la passività e prevedibilità della materia grezza. Gli oggetti hanno cause, i soggetti hanno motivazioni e ragioni complesse ed anche contraddittorie.

La libertà è la dimensione di apertura illimitata che consente all’essere umano di trascendere la finitezza. È una condizione d’esistenza indispensabile allo sviluppo della psiche e della coscienza. Essere libero, libero di essere onesto con me stesso, di pensare senza dovermi chiedere ogni volta cosa gli altri penseranno di me, di vivere pienamente ed abbondantemente.

Non c’è umanità senza libertà di scegliere, non esiste morale e maturazione spirituale se una persona non può essere libera di compiere il male. Quella persona sarebbe un’arancia meccanica, un congegno, non un essere vivente. Per questo nei campi di sterminio il suicidio e lo sciopero della fame erano proibiti e severamente puniti, anche se acceleravano la morte dei detenuti. Ogni atto di autodeterminazione era bandito.

In una democrazia che rispetto libertà ed autonomia, io conto, le mie decisioni possono fare la differenza, perché sono mie; non sono trascurabile, la mia volontà ha un peso. Mi si devono delle spiegazioni, posso esprimere il mio parere, posso contestare quello altrui, ho diritto di poter ascoltare il parere altrui, di prendere parte alla vita della comunità. In questo risiede la mia dignità, nel fatto che sono imprevedibile perfino a me stesso; sono solo parzialmente determinato dal mio corredo genetico e dal mio ambiente socio-culturale; c’è qualcosa in me che è unico e che è in larga misura inespresso.

Sono un progetto, un lavoro in corso, posso e debbo riflettere su chi sono, da dove vengo e dove voglio andare. Posso scegliere, mi creo e ricreo ogni giorno e non sono un prodotto, un manufatto, una merce, un burattino, un automa. Posso trovare il coraggio di essere me stesso, di vivere consapevolmente e sento che questo enorme beneficio vale per tutti gli altri, che vivrei meglio in una comunità in cui tutti potessero farlo, senza violare l’altrui diritto di poterlo fare. Una comunità di persone libere e responsabili che si sforzano di consentire agli altri di essere nelle condizioni di poter esprimere e migliorare se stesse, di non nascondersi a se stesse ed agli altri, di cambiare, di desistere e ricominciare da capo.

Non sono la proprietà di nessun altro, neppure della mia comunità, di una casta, della società, di una multinazionale, o dello Stato. Nessuno mi può trattare come un bambino o un animale domestico se sono un adulto e mi comporto come tale. Ci sono dei confini che non devono essere violati, ho dei diritti inalienabili che mi permettono di procedere nell’elaborazione del progetto di me stesso, assieme agli altri, coralmente. Mi pongo al servizio del prossimo ma non sono a disposizione degli altri per qualunque cosa, eccezion fatta per le persone che amo ed anche lì con dei distinguo.

Devo poter vivere a modo mio anche se le mie scelte sono impopolari e magari persino considerate aberranti, purché non leda il diritto altrui di fare lo stesso e non danneggi il mio prossimo (ma non certo la sua sensibilità, che è un arbitrio e come tale non merita rispetto a prescindere dalle circostanze e dalla persona).

Il dirittodovere alla tolleranza

È più facile essere tolleranti quando si è consapevoli della nostra finitezza, dei nostri difetti e della nostra ignoranza. La disposizione d’animo di chi ritiene di poter apprendere dal prossimo è il fondamento della tolleranza.

Il bisogno di convertire il prossimo al nostro punto di vista è invece alla radice dell’intolleranza. La persona tollerante è pronta ad includere nel principio di libertà l’altrui espressione anche di idee che personalmente ripudia.

Ciò non significa però che la tolleranza debba essere illimitata. Esistono dei principi fondamentali incastonati nelle nostre costituzioni che fanno sì che non si varchi mai quella soglia oltre la quale una democrazia non è più in grado di gestire un eccesso di pluralismo e sprofonda nell’anarchia, nell’anomia, nel caos.

Il dirittodovere alla democrazia ed all’uguaglianza

Democrazia è bello perché le decisioni sono più ragionate e precise, perché ci sono meno possibilità di lasciarci la pelle, perché c’è maggiore prosperità, perché una società democratica è tenuta a difendere i suoi assunti fondanti: l’essenziale dignità dell’essere umano; l’importanza di proteggere e coltivare la personalità dei cittadini in un clima di collaborazione e non di divisione (pluralità unitaria); l’eliminazione di privilegi basati su interpretazioni arbitrarie ed esagerate delle differenze tra esseri umani; l’idea che l’umanità possa migliorare; la convinzione che i profitti debbano essere ridistribuiti il più possibile tra tutti ed in tempi ragionevoli; il pari diritto dei cittadini di far sentire la propria voce su questioni delicate (coesistenza del maggior numero possibile di opinioni, o pluralismo) e di decidere autonomamente chi li debba rappresentare; la premessa che i cambiamenti sono normali, possono essere molto vantaggiosi e vanno realizzati tramite processi decisionali consensuali (spirito del compromesso, suffragio universale) e non con la prevaricazione e la forza bruta.

La democrazia è un ambiente in cui, idealmente, ciascuno, anche la persona più mediocre, ha qualcosa da esprimere che merita la nostra attenzione, ha valore di per sé e non in relazione ad un gruppo di appartenenza o riferimento, ed in cui nessuno ha la verità in tasca. Di qui l’obbligo di concedere spazi di sperimentazione per le coscienze. La società democratica è una grande scuola dove tutti sono alunni e maestri, dove tutti imparano insegnando ed insegnano imparando, dove è indispensabile essere curiosi, attenti e ricettivi e nel contempo difendere la propria indipendenza di giudizio; dove ciascuno deve fare la sua parte nel processo di democratizzazione delle relazioni umane, di rafforzamento del senso di uguaglianza tra le persone, di espansione della capacità di sospendere il nostro giudizio prima di aver ben compreso. Ascoltare, dibattere, partecipare, deliberare, acconsentire, mettere in discussione: solo così ogni singolo cittadino acquista valore, “peso”, diventa consapevole del suo ruolo nella società e nel mondo e dell’importanza del parere altrui.

Il dirittodovere alla fratellanza (convivialità)

Il più grave errore commesso dai rivoluzionari francesi è stato quello di trascurare la fraternité, sacrificata in nome della lotta alla controrivoluzione, all’edificazione di un’utopia in terra sfociata nel Terrore giacobino, alla volontà di schiacciare il movimento indipendentista ed anti-schiavista degli Haitiani, all’idea di una repubblica campanilista e uniforme nella sua volontà che stava tanto a cuore a Jean Jacques Rousseau ed ai suoi discepoli, Robespierre e Saint-Just.

Rousseau ci offre un esempio particolarmente efficace di come si possa ripudiare l’anelito alla fratellanza continuando però a credere di battersi per il bene dell’intera umanità.

Orfano di madre dalla nascita e di padre dall’età di 15 anni, senza fissa dimora, Rousseau conduce l’esistenza di un nomade, legandosi a chi lo ospita, specialmente a figure materne. È straniero in ogni luogo e patisce questa condizione di precarietà ed estrema vulnerabilità. È ossessionato dall’altrui generosità, eternamente sospettoso di ogni dono, delle motivazioni degli altri, fino al punto da rifiutarli, per paura del fardello dell’obbligo di reciprocità. L’ospitalità lo fa sentire alienato, un eterno straniero nel mondo. C’è in lui una forte ambivalenza: ne ha bisogno ma odia il senso di dipendenza. È ingrato verso le sue protettrici, senza l’assistenza e l’ospitalità delle quali sarebbe restato nell’anonimato e magari persino deceduto prematuramente. Finisce i suoi giorni come un eremita, prediligendo la compagnia del suo cane a quella degli altri esseri umani e quella dei libri alla compagnia di un amico. Preferisce il visitare all’essere visitato, si sente ostaggio, non ospite; rifiuta i doni per non doverli ricambiare.

Immanuel Kant è l’opposto di Rousseau. Per lui mangiare da solo è malsano, nocivo (ungesund), equivale alla morte del filosofo, che perde vivacità ed acutezza, non potendo avvalersi del contributo stimolante di un punto di vista alternativo, quello dell’ospite al suo desco. Il filosofo che consuma il suo pasto da solo diventa autarchico, auto-referenziato, si auto-consuma (il proprio cibo, come le proprie idee, a ciclo continuo), disperdendosi (sich selbst zehrt) in ragionamenti circolari, idee fisse, vicoli ciechi. Perde il suo vigore, la vivacità dell’intelletto (Munterkeit). L’ospitalità è invece apertura al resto del mondo, all’altro, è una messa in discussione di se stessi, una breccia nel proprio egoismo. Per questo Kant sente il bisogno di avere sempre degli invitati al pasto, a costo di domandare alla servitù di invitare un passante a sedersi al tavolo con lui. La compagnia conviviale deve essere eterogenea ed includere dei giovani, per variare la conversazione e renderla più giocosa. Il piacere deriva dalla presenza di commensali con interessi diversi dai nostri: “non mi attrae chi ha già ciò che possiedo, ma chi mi può dare ciò che mi manca”, spiega il filosofo di Königsberg.

Al contrario, Rousseau non sa gestire la diversità, ne è allergico, vorrebbe controllarla. Non ama mangiare con gli altri: mangia un boccone alternandolo con una pagina di libro. L’ospitante, nei suoi racconti, è incline al dispotismo, all’assimilazione cannibalistica dell’ospitato. Per questo muore da eremita, in preda alle allucinazioni, vittima del peso del matricidio, l’uccisione della madre, l’ospitante per eccellenza.

Il sentimento di fratellanza è quello dimostrato dal buon samaritano. Non viveva per compiere buone azioni – aveva sicuramente altre occupazioni, nella vita –, ma le faceva quando si presentava l’occasione. Non era l’amore a guidarlo, ma la compassione. La regola d’oro, infatti, si applica in egual misura alle persone che si amano o con le quali esiste un rapporto amicale o di intimità e familiarità ed agli sconosciuti, agli stranieri, agli immigrati. Lo straniero bisognoso d’aiuto non lo incomoda, non è più straniero, non è etnicamente/razzialmente differente, non è meno reale e meno degno di lui. Straniero, vicino, amico: non conta. Lo Stato salvaguarda i dirittidoveri, ma è il samaritanismo dei cittadini che deve supplire alla sua inevitabile e anche necessaria ed opportuna (in quanto lo stato è comunque coercitivo) assenza.

Nel 2009 Walt Staton, un programmatore elettronico dell’Arizona, è stato condannato ad un anno di libertà vigilata per aver lasciato brocche d’acqua con scritto “buena suerte” (buona fortuna) sul percorso attraversato dai chicanos che entrano clandestinamente negli Stati Uniti attraverso la frontiera con il Messico. Dava da bere agli assetati in un’area in cui negli ultimi vent’anni, sono morti come minimo 5mila immigrati illegali, in gran parte per disidratazione.

L’accusa: aver inquinato il parco naturale Buenos Aires National Wildlife Refuge.

Libertà, uguaglianza e fratellanza: o trionfano unite, o restano solo sulla carta.

Il dirittodovere all’ospitalità (cittadinanza mondiale e beni comuni)

Umberto Curi, storico e filosofo all’Università di Padova e Maria Chiara Pievatolo, filosofa politica all’Università di Pisa, ci aiutano a comprendere la dimensione politica e giuridica del principio di ospitalità (Curi, 2010; Pievatolo, 2011) che ha come suo insigne pioniere nientemeno che Immanuel Kant.

Kant concepisce un diritto cosmopolitico fondato su un principio cardine, quello, appunto, dell’ospitalità universale: “il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come nemico a causa del suo arrivo nella terra di un altro”. Questo perché “originariamente, nessuno ha più diritto di un altro ad abitare una località della terra”. Anche per il filosofo di Königsberg siamo solo di passaggio su questo pianeta, la cui superficie sferica e finita fa sì che non possiamo evitare di incontrarci. Le nostre nascite sono del tutto accidentali, per quanto ne sappiamo. Siamo nati in un certo luogo piuttosto che in un altro e ciò non ci dà alcun diritto di reclamare un’area come nostra. Per lo stesso principio nessuno può rivendicare alcun titolo preferenziale a risiedere in un dato luogo piuttosto che in un altro. Se è vero, come è vero, che nessuno ha più diritto di un altro di essere titolare di una porzione di questo pianeta, poiché siamo tutti viaggiatori, allora la condizione originale dell’uomo è quella di una relazione aperta, di condivisione, che respinge ogni pretesa di esclusività. Il risiedere in un luogo, la delimitazione del proprio rifugio, santuario, riparo, non assegna alcun diritto di possesso. La superficie della terra e le sue risorse appartengono a tutti e a nessuno e non è pertanto  inquadrabile nella logica del diritto d’uso esclusivo e meno che meno della proprietà privata. Non esiste una terra promessa ed un popolo eletto destinato a dimorarvi. Lo straniero per Kant è ospite e lo si allontana solo se crea problemi, ma non se ciò comporta la sua rovina.

Kant parla di diritto alla visita, alla mobilità, in nome della socievolezza e del destino comune (siamo su una stessa barca e non è grande): “diritto di possesso comune della superficie della terra”. Esclude il possesso esclusivo: “l’inospitalità è contraria al diritto naturale”. Per questo il diritto cosmopolitico non è una “rappresentazione di menti esaltate”. L’evidenza del fatto che la superficie terrestre è un possesso comunitario di tutti gli esseri umani – con tutti i diritti fondamentali che ne conseguono – è rimasta un’ovvietà per la quasi interezza della storia umana, ma non lo era per gli europei che massacrarono i nativi americani proprio in virtù di un diritto proprietario e di sfruttamento delle risorse antitetico a quello indigeno. Gustavo Zagrebelsky ribadisce che dovrebbe ritornare ad essere un’ovvietà (Mauro/Zagrebelsky, 2011, pp. 101-102):

L’idea dell’essere umano come animale stanziale, un animale che, come altri, ha il suo territorio e lo difende dalle intromissioni, deve essere un’idea del profondo…La terra, questa “aiuola che ci fa tanto feroci” (Par., XXII, 151) l’abbiamo divisa in tante parti e ce ne siamo impossessati, popolo per popolo, come cosa nostra, e ci pare normale, naturale, l’idea di straniero, di colui che passa o tenta di passare da un’aiuola all’altra turbando le sicurezze che riponiamo “in casa nostra”. Quante volte abbiamo sentito ripetere anche da noi, come se fosse ovvia e innocente, questa espressione!

Kant simpatizza per una posizione analoga a quella dei nativi americani ed invoca il diritto di visita e di asilo, non certo il diritto di imporre con la forza la propria volontà alle altre nazioni, come facevano le potenze coloniali. L’ospitalità universale diventa uno dei pilastri imprescindibili per il conseguimento della pace perpetua, la “comunanza tra i popoli della Terra”, in un’epoca, la sua, in cui il pianeta si andava già globalizzando, tanto che: “si è arrivati a tal punto che la violazione di un diritto commessa in una parte del mondo viene sentita in tutte le altre parti”.

L’ospitalità dovrebbe precedere, fondare ed orientare il diritto.

La vera ospitalità deve superare la violenza intrinseca all’ospitalità, che risiede nella dipendenza dall’altro, interiorizzata, e che nasce con il concetto di proprietà. C’è un legame occulto, ma vibrante, tra il tuo e il mio, me e te: siamo ospiti di questo pianeta. Siamo provvisori, nomadi, votati alla scomparsa. Questo legame non ha nulla a che vedere con la pietà, ma piuttosto con il rispetto e la devozione per l’ospite, nel quale riconosco l’estraneità che alberga in me stesso: anch’io, come lui, nato e cresciuto per caso qui ed ora. Anche e soprattutto così si realizza la promessa della fratellanza, il terzo termine della triade rivoluzionaria francese.

Il dirittodovere alla dignità

L’idea di dignità umana – “ci sono cose che non si fanno agli esseri umani” – esisteva in nuce già tra i Cro-Magnon che, a differenza dei Neanderthal, mostravano una spiccata sensibilità nel trattamento dei cadaveri e pare si astenessero, in genere, dal cannibalismo.

È con Socrate – o, forse, prima di lui, con Pitagora – che si diffonde nell’Occidente il precetto che tutti gli esseri umani hanno un medesimo valore, pari dignità intrinseca, ossia il principio su cui si fondano lo stato di diritto, le carte costituzionali di tutti i paesi democratici, le convenzioni internazionali per la tutela dei diritti umani, insomma tutto ciò che ci separa dalla barbarie. Socrate è convinto che sopravvivere non sia sufficiente; occorre esserne degni e devono essere presenti quelle precondizioni essenziali senza le quali la vita non è tollerabile e perde il suo valore specifico, riducendosi ad un concetto astratto. Sopravvivere senza una coscienza integra è peggio che morire. La vita del corpo non è il valore precipuo. C’è un confine che molti esseri umani, come Socrate, non osano oltrepassare, ci sono azioni che queste persone non commetterebbero mai, indipendentemente dagli ordini che vengono loro impartiti o da quanto disperata sia la loro situazione. Questo perché sentono, istintivamente, che varcata quella linea, non potrebbero più tornare indietro, non ci sarebbe più un punto ulteriore dove marcare il confine del nec plus ultra (non oltre). Una tale azione, se compiuta, causerebbe un danno irreparabile dentro di loro, distruggerebbe qualcosa che vale più della loro stessa vita. Eseguito un certo comando, diventerebbe più difficile rifiutarsi di eseguirne altri, ancora più discutibili e riprovevoli.

La soddisfazione con cui persone dalla coscienza assopita si prestano ad ogni tipo di servizio corrisponde al patimento di chi quella coscienza ce l’ha ben desta e non si rassegna all’idea di eseguire certi ordini. Per questo Socrate affronta a testa alta un processo ingiusto, per insegnare a tutti che il valore etico fondativo delle nostre società è la dignità, non la forza, il giudizio di chi vince le elezioni, la presunta sovranità popolare incarnata nel capo.

Nuocere o tentare di rimuovere la dignità di qualcuno significa trattarlo come se fosse non completamente umano, uno strumento o una creatura subumana (Kateb 2011). L’essere umano è l’unico animale indeterminato, in quanto parzialmente non-naturale, cioè frutto dell’interazione di genoma, ambiente naturale ed ambiente culturale. Proprio nella sua indeterminazione, ossia nell’assenza di confini precisi, risiede la sua dignità intrinseca, che è il fondamento dei diritti umani (nonché il suo libero arbitrio e quindi il senso morale e di responsabilità). La sua fondamentale indefinitezza consente ad ogni singolo essere umano di essere migliorabile: ha un potenziale indeterminabile, inestimabile, appunto. È creativo, innovatore. Come aveva intuito Sartre, gli esseri umani sono sempre più di quel che credono di essere in ogni singolo istante della vita e se scelgono di negarlo, è per mala fede o falsa coscienza. Tale è la nostra condizione che ogni persona è unica ed individuata, non interscambiabile, anche quando non è interessata ad esserlo, senza però per questo essere esistenzialmente e moralmente superiore a chiunque altro.

 La specie umana è solo parzialmente naturale, rappresenta uno scarto rispetto alla natura. Questo la rende la più speciale tra le specie, ciascuna a suo modo speciale. L’umanità è la parte più interessante della natura, nel bene e nel male, l’unica che può aiutare la natura a riflettere su stessa. Per questa ragione, il prossimo passo dovrebbe essere quello di comprendere e rispettare la dignità dell’ambiente naturale e di chi vi dimora.

Una volta che questi principi saranno condivisi da una massa critica di europei e di ospiti di questo pianeta, l’Europa dei dirittidoveri, confederale, unione euro-mediterranea, costruita dal basso e non calata dall’alto, diventerà un modello per il mondo (Caracciolo, 2010).

La democrazia diretta non ha mai ucciso nessuno…finora!

Non credete a chi vi dice che più democrazia diretta ci sarà, meno problemi avremo. Non è successo in Svizzera e non succederà altrove. La democrazia diretta è una buona cosa se usata con misura, sobrietà, buon senso, assennatezza e discernimento, altrimenti è un’arma micidiale. In ogni caso, i diritti fondamentali e la pari dignità di cittadini e residenti/soggiornanti NON DEVONO ESSERE MAI TOCCATI (se non per migliorarli ed ampliarli!)

Un estratto dal mio prossimo libro
:

“[…] Gli etnopopulisti elvetici dell’SVP, imprigionati dai vincoli costituzionali, adoperano la democrazia diretta, incluse le proposte di legge di iniziativa popolare e i referendum, per vincere delle battaglie che altrimenti non potrebbero neppure intraprendere. Questo, naturalmente, significa che la fede di carattere messianico dei campioni della democrazia diretta, che vedono nella democrazia diretta la soluzione alla gran parte del mali della società, è malriposta. Lungi dall’indebolire la partitocrazia, la democrazia diretta dal basso incentiva lo sviluppo di nuove forme di partitismo non meno manipolative e spregiudicate di quelle giustamente sotto accusa (Ladner/Brändle, 1999).

Uwe Serdült e Yanina Welp, due tra i massimi esperti elvetici di democrazia diretta, hanno studiato le iniziative popolari di democrazia diretta in tutto il mondo dalla prima (nel 1874) al 2009 (Serdült/Welp 2012) ed hanno scoperto che la diffusione della democrazia diretta non ha nulla a che vedere con la crisi della democrazia rappresentativa nelle democrazie consolidate. Infatti la spinta per una maggiore democrazia diretta ha riguardato soprattutto paesi non-europei. Sono solo quattro su 38 le nazioni dell’Europa occidentale che si sono dotate degli strumenti per attuare la democrazia diretta a partire dal basso. E di queste 38 nazioni solo 19 ne hanno fatto uso dalla fine degli anni Ottanta. La tanto bistrattata democrazia italiana risulta al secondo posto nel mondo, con 62 referendum a partire dal 1974, dopo la Svizzera (336 dal 1874) e davanti al Liechtenstein (56 dal 1925), San Marino (14 dal 1982) e Uruguay (11 dagli anni Cinquanta). Proprio in Uruguay dei referendum di riforma costituzionale sono stati promossi nel 1958, 1962 e 1966 per imprimere una svolta autoritaria al sistema di governo uruguagio. In Estonia, nel 1933, sotto la pressione della Depressione, il regime fascista fu instaurato proprio attraverso un’iniziativa popolare di democrazia diretta.

Più recentemente, numerosi studiosi hanno messo in guardia dal sottovalutare la capacità dei gruppi di pressione e dei poteri forti di influenzare l’andamento delle campagne referendarie e l’esito del voto: il cosiddetto “paradosso populista” (Gerber, 1999). David S. Broder (2000) ha evidenziato con abbondanza di riferimenti come, soprattutto in California, ma non solo, è tragicamente ingenua la fiducia che si ripone del potere taumaturgico dell’iniziativa popolare: laddove c’è un netto divario di risorse, demagoghi e lobbisti strumentalizzano la democrazia diretta senza che gli elettori se ne rendano conto e sussiste un rischio molto concreto che, prima o poi, il sistema democratico rappresentativo e, con esso, la cornice costituzionale, possa essere abbattuto dall’interno, a furor di plebiscito. In pratica, quella che doveva essere una cura contro il lobbismo si è trasformata in un’ulteriore opportunità di manipolazione degli orientamenti dei cittadini, perché la politica non ha ancora provveduto a regolamentare adeguatamente le attività di pressione e renderle trasparenti.

Barbara Gamble, che ha rianalizzato le esperienze di democrazia diretta negli Stati Uniti tra il 1959 ed il 1993, ha mostrato che le maggioranze hanno ripetutamente usato lo strumento referendario per tiranneggiare le minoranze, con iniziative contrarie ai loro diritti civili che hanno riscosso una serie straordinaria di successi (Gamble 1997, p. 261). Questo avviene ancora più di frequente nelle comunità più piccole, laddove manca quell’eterogeneità di interessi che rende più arduo formare delle maggioranze coese che possano spadroneggiare sulle minoranze (Donovan/Bowler 1998).

Il problema principale è che chi è in grado di investire molto denaro ha una concreta possibilità (statisticamente significativa) di far pendere la bilancia da una parte o dall’altra, in accordo con le sue preferenze (Hertig, 1982; Kriesi, 2005; Stratmann, 2006). Hanspeter Kriesi, direttore del dipartimento di politica comparata all’Università di Zurigo e specialista di democrazia diretta, ha rilevato che le iniziative di democrazia diretta in Svizzera sono molto spesso impregnate di emotivismi e di tenaci pregiudizi in favore delle indicazioni di voto del proprio partito di riferimento e moltissimi elettori decidono fin dall’inizio che cosa voteranno, cambiando idea molto di rado e facendo proprie le argomentazioni che raccolgono durante la campagna referendaria solo per razionalizzare scelte predeterminate e di carattere emotivo. In un intervento alla conferenza internazionale annuale dell’associazione di studi politici sul tema “in difesa della politica” (aprile 2012), Kriesi ha amaramente commentato che l’esercizio deliberativo nelle campagne di democrazia diretta non corrisponde ad uno scenario ideale in cui i votanti prendono delle decisioni sulla base delle argomentazioni più persuasive.

Mentre l’islamofobia e la xenofobia hanno pesantemente condizionato la pratica della democrazia diretta in Svizzera, ostacolando per esempio gli sforzi dei rappresentanti politici di naturalizzare gli immigrati e garantire i loro diritti civili (Hainmueller/ Hangartner 2012), l’omofobia ha più volte annullato virtualmente tutte le iniziative a livello rappresentativo negli Stati Uniti che volevano garantire pari diritti agli omosessuali. Negli Stati Uniti, tra il 1995 ed il 2004, gli stati che prevedevano la democrazia diretta hanno approvato molte più proposte di legge ostili alle minoranze di quelli che non la contemplano (Lewis, 2011). La Svizzera, avendo previsto questo tipo di risvolto, è meno affetta – ma tutt’altro che immune – da questa sindrome di populismo autoritario e discriminatorio perché ha cercato di mettere al sicuro i principi costituzionali ed i diritti civili già garantiti dalle aggressioni di un elettorato volubile (ma sulle naturalizzazioni ha potuto fare ben poco).

Dobbiamo, tristemente, prendere atto del fatto che James Madison, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, aveva ragione quando ammoniva che “quando una maggioranza è unita da un comune interesse, i diritti della minoranza sono incerti” (1787)”.

Stati Uniti d’Europa – i dubbi dei costituzionalisti e delle persone di buon senso

Tutto il popolo tolse i pendenti che ciascuno aveva agli orecchi e li portò ad Aronne. Egli li ricevette dalle loro mani e li fece fondere in una forma e ne ottenne un vitello di metallo fuso. Allora dissero: «Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto!». Ciò vedendo, Aronne costruì un altare davanti al vitello e proclamò: «Domani sarà festa in onore del Signore». Il giorno dopo si alzarono presto, offrirono olocausti e presentarono sacrifici di comunione. Il popolo sedette per mangiare e bere, poi si alzò per darsi al divertimento.

Esodo 3-6

Solo il federalismo sarà capace di evitare il fallimento dell’Euro e le sue conseguenze disastrose sulla vita di tutta l’Unione europea. Esso aprirà agli Europei la via verso un’Europa giusta, solidale e democratica in grado di garantire il suo spazio centrale nel mondo.

Giuliano Amato, Jacques Attali, Emma Bonino, Romano Prodi,Il federalismo che può salvare l’Europa”, La Repubblica, 9 maggio 2012

Un’Europa che potrebbe rivelarsi uno dei pilastri essenziali di un più ampio sistema euroasiatico di sicurezza e cooperazione sponsorizzato dagli americani. Ma, prima di ogni altra cosa, l’Europa è la testa di ponte essenziale dell’America sul continente euroasiatico. Enorme è la posta geostrategica americana in Europa…l’allargamento dell’Europa si traduce automaticamente in un’espansione della sfera d’influenza diretta degli Stati Uniti. In assenza di stretti legami transatlantici, per contro, il primato dell’America in Eurasia svanirebbe in men che non si dica. E ciò comprometterebbe seriamente la possibilità di estendere più in profondo l’influenza americana in Eurasia…Un impegno americano in nome dell’unità europea potrebbe scongiurare il rischio che il processo di unificazione segni una battuta d’arresto per poi essere addirittura gradualmente stemperato.

Zbigniew Brzezinski, architetto della politica estera statunitense in Eurasia, mentore del giovane Obama e co-fondatore con David Rockefeller della Commissione Trilaterale –“La grande scacchiera”,  Milano : Longanesi, 1998, pp. 83-85

Io credo che, alla fine, la risoluzione della crisi odierna in Europa non funzionerà poi tanto male…Inevitabilmente, una vera unione politica prenderà gradualmente forma, all’inizio probabilmente attraverso un trattato di fatto, che sarà raggiunto con un accordo intergovernativo nel prossimo futuro. Sarà un’Europa a due velocità. Non c’è niente di male in un’Europa che è in parte e contemporaneamente un’unione politica e monetaria nel suo nucleo centrale e che accetta di essere diretta da Bruxelles, circondata da un’Europa più ampia che non fa parte dell’eurozona ma condivide tutti gli altri vantaggi dell’Unione, per esempio la libera circolazione delle persone e delle merci. È un progetto in linea con la visione post-Guerra Fredda di un’Europa in espansione, unita e libera.

Zbigniew Brzezinski, intervista rilasciata al Christian Science Monitor, 24 gennaio 2012

Leggendo il suo articolo mi pare che per lei il federalismo sia una soluzione finale. Io credo che sia un mezzo: uno dei mezzi. Se ci guardiamo attorno, ci accorgiamo che il potere oppressivo non è soltanto prerogativa degli Stati nazionali. Una grande impresa oggi ha la possibilità di abusare del potere più dello stato stesso. Le nostre costituzioni accordano garanzie contro l’abuso di potere da parte degli organi dello Stato. Non ne accordano contro l’abuso di potere da parte dei grandi gruppi capitalistici. Il superamento dello Stato nazionale è una faccia del problema del potere. O i federalisti credono che sia una soluzione totale? Io non ne sono del tutto convinto.

Norberto Bobbio ad Altiero Spinelli, 15 dicembre 1957

Nessuno degli esempi della storia, siano essi una federazione di stati o un’unione di nazioni, può servire come modello per plasmare l’unione politica. L’Unione europea è sempre stata, e resterà, un impegno unico per il quale non ci sono modelli che possono essere facilmente adottati. È importante consentire un processo evolutivo, che è aperto a ulteriori iniziative di integrazione, ma salvaguarda ciò che è già in atto e funziona bene, e che assegna le competenze agli Stati nazionali o addirittura alle regioni a seconda dei casi.

Otmar Issing, capo degli economisti della BCE, 24 marzo 2006.

Il modello burocratico che vige a Bruxelles è il modello francese, in cui la burocrazia decide quanto cacao vi deve essere in un impasto di cioccolata oppure il raggio di curvatura che deve avere una banana. La Svizzera per contro rappresenta ancora oggi lo spirito di regionalismo, d’identità locale che non vuole cedere alla pressione dell’Unione Europea. E secondo me con diritto. Perché io sono democratico, e per me l’esistenza di una comunità come Bellinzona, che andrà alle urne per decidere di un credito per la pavimentazione di una piazza, è una parte importante della democrazia mondiale. […]. I singoli Stati americani sono molto più simili tra loro che non i 26 cantoni svizzeri. Quando si attraversano le frontiere in America non si nota nessuna differenza. Tutto è uguale, che sia Pennsylvania o New Jersey o Virginia. La diversità americana, che tanto ho amato, non esiste più. […]. Lì il federalismo è più una finzione: in realtà quello americano è un governo centralizzato.

Jonathan Steinberg, docente di storia moderna europea all’Università della Pennsylvania, Corriere del Ticino, 31 Luglio 2003

È nell’interesse di tutti addivenire ad un’Europa politicamente unita, ma dovrebbe essere evidente a tutti che l’Europa è sostanzialmente diversa dagli Stati Uniti d’America, per storia, lingue e cultura. I suoi popoli e comunità non possono essere trattati alla stregua degli ospiti della leggendaria locanda di Procuste, che venivano amputati oppure “allungati” per poterli adattare alle misure dei letti. È più che realistico attendersi che proprio la mancanza di rispetto per le specificità locali e le sensibilità particolari, oltre ad una fretta ingiustificata, produrranno reazioni violente e l’affondamento del sogno europeista.

Tra l’altro, è piuttosto curioso che si caldeggi una maggiore integrazione europea mentre oltreoceano, per tre soli voti (e grazie ad uno scaltro emendamento inserito all’ultimo minuto), non è passata una proposta di legge del Wyoming (HB 0085, 2012) per l’istituzione di un gruppo di studio che intraprenda l’analisi delle conseguenze di una potenziale interruzione del governo federale degli Stati Uniti, di un eventuale rapido declino del dollaro, di una situazione in cui il governo federale non ha alcun potere effettivo o autorità sul popolo degli Stati Uniti, di una crisi costituzionale e dell’ipotetica interruzione nel settore della distribuzione alimentare e dell’energia.

In un libro molto bello e sincero, intitolato “Il mito d’Europa” (Monti, 2000) Luciano Monti, docente di Politica Regionale europea presso la Luiss Guido Carli, dà testimonianza di come certe perplessità siano assolutamente motivate. Carli rileva che l’Europa è diventata un fine in sé e che il mito rischia di diventare un idolo. Sottolinea la modesta potestà legislativa del Parlamento europeo ed il suo scarso coinvolgimento nel processo decisionale della politica europea, stigmatizza il prevalere della burocrazia e l’inamovibilità dei suoi vertici, il proliferare di normative sempre più complesse ed il decentramento a livello regionale che indebolisce gli stati come corpi intermedi che possono anche tutelare le regioni stesse, le quali, sono comunque troppo deboli e mal coordinate. Infine, un’élite distante dai cittadini, isolata nella sua torre eburnea, persuasa di essere, sola, in grado di decretare i destini di centinaia di milioni di cittadini (p.235): “Vi sono anche numerosi potentati, che a differenza delle tradizionali strutture di governo, legate ad un territorio, sono piuttosto incardinati su una fitta rete di relazioni. Non si tratta in realtà di una casta determinabile, ma, per dirla con Herman Hesse, delle Castalie, vale a dire dei gruppi circoscritti di soggetti isolati dal resto della società civile. Dove l’isolamento è il prodotto non già dell’emarginazione ma piuttosto dell’elevazione“.

Perciò non sorprende constatare che le corti costituzionali dei paesi europei, specialmente in Francia, Germania e Regno Unito, abbiano assunto un atteggiamento difensivo e critico verso l’architettura istituzionale dell’Unione Europea (Zagrebelsky/Portinaro/Luther, 1996; Zagrebelsky, 2003). In particolare, il costituzionalista tedesco Dieter Grimm ha argomentato in modo molto persuasivo una serie di contestazioni all’iter integrativo europeo che si coniugano a quelle che ho menzionato in precedenza. Grimm osserva che, come non si possono costruire degli edifici a partire da tetto, ma servono delle solide fondamenta, così l’edificio europeo non può prescindere da una società civile europea, una lingua-ponte europea sufficientemente diffusa, partiti europei, media europei, una memoria sufficientemente condivisa, ossia di tutti quei trait d’union e soprattutto corpi intermedi che, fin dai tempi di Montesquieu, sono considerati elementi basilari ed irrinunciabili per un’organizzazione statuale stabile ed efficiente ed una cittadinanza che possa prendere parte attiva al processo decisionale. Senza la possibilità di comunicare in modo più agevole, di scambiare opinioni e valutazioni, come sarà possibile che mezzo miliardo di persone trovi punti di accordo, raggiunga compromessi e regoli i suoi rapporti con i paesi extra-europei, anche in tempi di crisi?

Una valutazione sottoscritta, tra gli altri, da Ralph Dahrendorf e Gian Enrico Rusconi nei loro commenti ad una sentenza della Corte Costituzionale Federale Tedesca del 12 ottobre 1993, la prima di una serie di sentenze, non solo tedesche, che hanno intralciato i piani delle autorità europee di addivenire al più presto ad uno Stato federale. Sentiamo il parere, al riguardo, di Andreas Vosskuhle, presidente della corte costituzionale tedesca, intervistato dalla Frankfurter Allgemeine („Mehr Europa lässt das Grundgesetz kaum zu“, 25 settembre 2011):

La Costituzione consente un’ulteriore integrazione europea?

Penso che i margini di manovra si siano in gran parte esauriti.

E se la politica volesse procedere oltre?

La costituzione tedesca garantisce l’inviolabilità della sovranità statuale. Essendo ancorata alla Costituzione, essa non potrebbe essere accantonata neppure per mezzo degli emendamenti costituzionali. Le modifiche della Costituzione concernenti i principi strutturali – democrazia, stato di diritto, stato sociale, federalismo – sono inammissibili.

La sovranità di bilancio del Parlamento potrebbe essere parzialmente trasferita alle istituzioni europee?

Non c’è più molto spazio per una cessione di ulteriori competenze all’Unione Europea. Se si volessero varcare questi limiti – il che può anche essere politicamente legittimo e desiderabile –, in quel caso la Germania dovrebbe darsi una nuova costituzione. Ma allora si renderebbe necessaria una consultazione referendaria. Non si possono fare queste cose senza il popolo.

È curioso che molti analisti politici, accecati dalla loro fede europeista, si dimentichino della differenza tra democrazia formale (la scatola) e democrazia sostanziale (il contenuto) e che debbano essere dei costituzionalisti a rammentarglielo (cf. per esempio Antonio Cantaro). Una democrazia senza una società civile vigorosa e corale (voci distinte ma armonizzate, come in un coro, appunto) è come quelle pagnotte che sembrano belle esternamente ma quando le spezzi scopri che è quasi tutta crosta e poca mollica (sostanza). Un vinaccio scadente ed un vino di alta qualità sono entrambi vini, ma sfido chiunque a dire che sono la stessa cosa: uno intossica, l’altro gratifica.

Ciò che è forse paradossale, ma molto significativo, è che questa agognata società civile europea, questo popolo sovrano europeo, sta effettivamente sbocciando, con fatica, solo ora, tra gli indignati, ma come atto di protesta contro le istituzioni europee e globali. La sensazione è che, per molti Europei, l’Unione stia diventando un problema, piuttosto che una soluzione, a dispetto del diverso parere di una larga fetta dell’intellettualità europea.

Come giustamente lamenta Giuseppe Guarino (2008, p. 160): “Bisogna andare avanti, si dice. Completare un processo glorioso che si è svolto con successo per oltre cinquanta anni. Andare avanti, certo. È indispensabile. Ma sempre che la strada prosegua diritta e sicura. Se diventa accidentata e va inoltrandosi in luoghi non chiari, se sorge anche un minimo dubbio se continui ad essere quella giusta, la più elementare prudenza suggerisce di fermarsi e chiedere informazioni…Non c’è ragione per discostarsi da quanto in analoghe condizioni farebbe una comune persona, mediamente saggia. Solo di questo si tratta“.

Vorrei concludere questo capitolo riproponendo alcuni passi salienti di un dibattito avvenuto in seno alla famosa, o famigerata, Commissione Trilaterale (Crozier, Huntington, Watanuki, 1977), un’organizzazione che è soprattutto nota per il suo elitismo e che quindi non ci si aspetta che possa manifestare posizioni contrarie all’accentramento del potere nelle mani di pochi selezionati. Ebbene, verso la fine degli anni settanta, le proposte di tre relatori che andavano, appunto, nella direzione di una revisione in senso tecnocratico e centralistico della democrazia come rimedio per la presunta crisi in cui versavano le società democratiche, ricevettero una bordata di critiche da diversi membri della Commissione. Ci fu chi sottolineò che i padri fondatori degli Stati Uniti non avrebbero mai anteposto la “governabilità” al rispetto dei diritti dei cittadini, chi denunciò gli eccessi dei governanti e della burocrazia, piuttosto che quelli dei governati, chi definì i rimedi raccomandati “errati, deludenti, fatali”, chi invocò più democrazia, non meno democrazia, chi lamentò il restringimento del pluralismo nei media e chi constatò che, essendo gli esseri umani così deboli, in una situazione di monopolio sarebbero inclini ad abusare del potere loro conferito. Posizioni assolutamente coincidenti con quelle degli indignati dei nostri giorni. Quel che più ci interessa è invece la valutazione che i membri canadesi diedero del federalismo canadese, uno dei possibili modelli per quello europeo (pp. 184-185): “Si fece rilevare che l’espansione e la proliferazione della burocrazia a livello federale, provinciale e comunale hanno contribuito, a causa della sempre minore chiarezza di direzione e responsabilità, alle tensioni cui è sottoposto il sistema politico canadese. Si registra una tendenza sempre più forte – si disse – della burocrazia ad assumere ruoli che tradizionalmente erano di pertinenza prevalente degli uomini politici – ad esempio quei ruoli che hanno per oggetto il “bene pubblico”. In ciò si potrebbe vedere uno sviluppo pericoloso, specie alla luce della vocazione della burocrazia federale a “imperniarsi su Ottawa”, senza più esprimere un’adeguata rappresentanza delle altre regioni del paese“.

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