Jacob Needleman su finanza, ingenuità di massa e sul necessario cambiamento

MoneyAndTheMeaningOfLife

Molte persone si rifiutano di credere che questa sia la crisi sistemica finale. Allevati nella fede dell’auto-correggibilità del nostro modello socio-economico, non possono che credere che possa essere ri-indirizzato nella direzione giusta  e che debbano esistere dei tecnici che sanno quel che va fatto. Alcuni politici e presunti esperti cercano in ogni modo di alimentare quest’illusione, mascherando il vecchio da nuovo (“tutto deve cambiare, affinché nulla realmente cambi”) e rivestendo ciò che è spoglio e macilento con vesti sgargianti (ma il re è nudo!) > Pietro Ichino e il programma di Matteo Renzi (fiscal compact, dismissioni del patrimonio pubblico, flessibilità, costi per gli investitori stranieri ridotti al minimo e tutto l’arsenale neoliberista di Oscar Giannino):
http://www.pietroichino.it/?p=23077

Altri, traditi nella loro fede o nostalgici di un comunismo anarchico à la Tolstoj, sono diventati iconoclasti e si augurano che la civiltà contemporanea sia presto ridotta in macerie e si torni a coltivare l’orto e far pascolare le pecore, per il bene di tutti (!!!). Da un eccesso all’altro: sempre nella logica della dismisura (hybris).
Queste persone si rifiutano di capire che socialismo e capitalismo hanno fallito perché esistono circoli e reti di uomini e donne potenti, motivati da sfrenato egoismo e privi di empatia, che usano qualunque mezzo per cercare di soddisfare una bramosia inesauribile, un vero e proprio buco nero interiore.
Finché queste persone determineranno il destino del mondo, nessun modello socio-economico potrà avere successo, perché sarà invariabilmente non solo insostenibile, ma autodistruttivo in una misura che lascerebbe senza fiato il più somaro degli analfabeti economici. Ora siamo arrivati al punto in cui i nodi vengono al pettine. Servono buone idee, ma soprattutto servono persone degne e lungimiranti negli ambiti chiave. Altrimenti la prossima generazione dovrà affrontare catastrofi peggiori di questa.

Un’intervista a Jacob Needleman realizzata da un consulente finanziario con la mente aperta.

“Ho chiesto al professor Needleman se sarebbe disposto a condividere alcuni dei suoi pensieri con il pubblico di Financial Advisor.

Anthony: Lei sostiene che il denaro è un insegnante severo, ma un ottimo insegnante. Cosa dovremmo imparare in questo momento?

Needleman: I soldi toccano ogni aspetto della vita, cosicché quando qualcosa di drammatico accade al nostro denaro, qualcosa di drammatico sta accadendo anche alle nostre vite. Noi ci chiediamo: “Che cosa è veramente la ricchezza, rispetto all’essere ricchi?” “Che cosa è veramente importante per la nostra vita?” Vedo dei parallelismi tra il terremoto di San Francisco di qualche anno fa e la rovina economica dei nostri giorni. [Nel terremoto], la natura ci ha ricordato chi eravamo – e per un po’ tutti si comportavano rispettosamente, al cospetto della fragilità della vita.

Lo “shock finanziario” ci mette di fronte a noi stessi, chi siamo, a che cosa aspiriamo nelle nostre vite e da cosa ci nascondiamo. Ci ha anche ricordato quanto siamo ingenui.

Anthony: ingenui?

Needleman: la credulità impregna le vite umane. Mi vengono in mente alcuni dei vecchi proverbi di mio padre, ad esempio, “Non ci sono pasti gratuiti”.  Penso che molti di noi in realtà credevano che qualcuno si stesse prendendo cura di noi, che c’erano delle autorità di regolamentazione del sistema che vegliavano su di noi, che il capitalismo possedeva controlli automatici e contrappesi, e che c’era un nerbo morale che teneva insieme il sistema, ma di questa convinzione sono rimaste solo le macerie. Siamo stati noi stessi ad ingannarci. Mio padre era solito dire, “Non possiamo essere ingannati se non inganniamo noi stessi”.

Anthony: Il capitalismo ha mostrato alcuni gravi difetti negli ultimi due anni. Quali insegnamenti dovremmo apprendere da questa vicenda?

Needleman: I Padri Fondatori avevano una chiara percezione dei difetti umani. Avevano capito che, se lasciati a se stessi, le persone si uccidono a vicenda. Si poteva costruire un sistema in cui la gente avrebbe avuto interesse a non farlo? In un sistema capitalistico, le persone sarebbero state avide di denaro e non si sarebbero dedicate a distruggere la vita delle persone. Questa era l’idea.

Richiedeva un senso di integrità morale: essere buoni ripagava, valeva la pena essere cittadini probi, era meglio essere rispettosi piuttosto che non esserlo. Tutto questo è scivolato via. Ora abbiamo bisogno di credere nella gente. Abbiamo bisogno di incontrare le persone, valutarle e lavorare con coloro che hanno integrità. Nessun sistema può rendere le persone oneste. Possiamo ancora trovare persone oneste e intelligenti che possono cambiare questo sistema nella direzione giusta. Ci sono persone sufficientemente intelligenti da non essersi lasciate sedurre dal sistema.

Una persona non è felice perché ha un’illimitata riserva di eroina. Potrebbe essere “felice”, ma non la si definirebbe felice. Allo stesso modo, il denaro era la droga con cui abbiamo preso le decisioni. Probabilmente avrete sentito la vecchia barzelletta che tutto ciò che i soldi non possono comprare, lo possono comprare un sacco di soldi.

Ciò di cui abbiamo bisogno è, allo stesso tempo, un salutare scetticismo ed un autentico idealismo spirituale.

Anthony: nei suoi scritti ho visto che cita l’autore medievale Maimonide, che ha detto che tutti i mali umani scaturiscono dal nostro volere ciò che non ci serve. È così che siamo precipitati così in basso in questo caos economico?

Needleman: Tutta la struttura finanziaria del nostro paese si basa sul volere ciò che non ci serve. L’avvento della cultura del consumo – il riconfezionamento, il ridimensionamento, l’usa-e-getta, le agenzie pubblicitarie, ecc – ci definiscono come consumatori e produciamo più di quello di cui abbiamo bisogno. Il paese si fonda su desideri crescenti, non sulla soddisfazione di bisogni.

Anthony: occorre distinguere tra bisogni e capricci?

Needleman: Viviamo spesso al di sopra dei nostri bisogni e questo va bene fino a un certo punto. Ma abbiamo oltrepassato una soglia, negli ultimi dieci o 15 anni, e ci siamo lasciati convincere che qualcosa di nuovo, qualcosa di più, qualcosa di eccitante, alla fine ci renderà felici. Le case diventavano sempre più grandi e tutti dovevano possedere una casa.

Anthony: È giusto dire che siamo una cultura che si valuta in funzione del denaro? E, se è così, che cosa succede in tempi di recessione alla nostra autostima collettiva?

Needleman: Qualcosa accade, ma la tendenza complessiva in America è quella di un aumento dell’autostima. Ci sono tragedie, ma l’ottimismo cresce: rimbocchiamoci le maniche e ce la faremo. Dobbiamo chiederci che cosa sia la democrazia e che ruolo debba svolgere. Abbiamo una responsabilità. Abbiamo la responsabilità di cambiare le cose adesso. La democrazia è per le persone che pensano, non per quelle passive. Abbiamo bisogno di ascoltare il prossimo e di pensare insieme”.

http://www.fa-mag.com/news/integrity-lost-4360.html

Frances Stonor Saunders, “La Guerra Fredda culturale. La Cia e il mondo delle lettere e delle arti”, Fazi, Roma, 2004

“In nome di che? Non delle virtù civili, ma dell’Impero”

di Guido Barbarigo

Recensione di Frances Stonor Saunders, La Guerra Fredda culturale. La Cia e il mondo delle lettere e delle arti, Fazi, Roma, 2004 (ed. originale Londra, 1999)

“Bel libro, questo dell’inglese Saunders. L’autrice racconta, con ricca documentazione (da cui abbiamo tratto anche il titolo) e stile gradevole, la storia di una parte delle operazioni culturali della CIA dal 1946 al 1970 circa: la parte relativa all’utilizzo in funzione anticomunista e antirussa di varii intellettuali progressisti, della sinistra non comunista o ex-comunista, a livello mondiale e nelle varie sezioni nazionali del cosiddetto Congresso per la libertà della cultura.
Non è possibile nemmeno tentare di riassumere la vasta messe di episodi relativi alle attività del Congresso, e nemmeno fare l’elenco completo dei nomi di coloro che in USA e in Europa vi furono più o meno pesantemente coinvolti. Fra i principali (alcuni fra l’altro sono già noti): Arthur Koestler, James Burnham, Isaiah Berlin, Raymond Aron, Denis de Rougemont, André Malraux, Jean Cocteau, Mircea Eliade, Salvador de Madariaga, Hannah Arendt, Bertrand Russell, Michael Polanyi, George Orwell, Czeslaw Milosz, Jason Pollock. E in Italia, sotto l’egida della rivista Tempo Presente (e non solo): Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte, Benedetto Croce, Altiero Spinelli, Enzo Forcella, Adriano Olivetti, Mario Pannunzio, Ferruccio Parri, Primo Levi, Italo Calvino, Eugenio Montale, Vasco Pratolini, Libero del Libero, Ugo La Malfa, Nicolò Carandini, Francesco Compagna, Giuseppe Romita, Gaetano Martino, Tristano Codignola, eccetera eccetera.

Più interessanti sono gli aspetti per così dire strutturali della vicenda, intesa come modello operativo. In primo luogo, si deve dare atto a Bill Donovan, l’indimenticato capo dell’OSS, di autentiche virtù di reclutatore. Praticamente, la squadra CIA che segue l’operazione è prevalentemente composta di uomini da lui selezionati e provati durante la guerra mondiale: i due Dulles, Arthur Schlesinger, John McCloy, James Jesus Angleton, George Kennan, Irving Kristol, Melvin Lasky, Michael Josselson (che del Congresso per la libertà della cultura fu l’anima), Tom Braden, il cui scanzonato cinismo alla fine si attira le simpatie del lettore. Tutti professionisti del miglior livello, dotati di notevole sensibilità intellettuale e di una capacità organizzativa a tutta prova – tale da permettere alla CIA di intervenire in ogni campo della cultura.

Qualche esempio. 1984 di Orwell, Buio a mezzogiorno di Koestler, I machiavellici di Burnham non avrebbero avuto la risonanza che ebbero senza le cure assidue del Congresso. Forse non ci sarebbe stata Radio Free Europe. L’Europa non sarebbe stata invasa dall’astrattismo pittorico di Pollock e sodali, la Boston Symphony Orchestra non avrebbe conosciuto i fasti del successo internazionale, non avremmo avuto un così spiccato interesse per la musica contemporanea (Luigi Nono compreso), e la storia del cinema sarebbe stata alquanto diversa.

In secondo luogo, è interessante notare come su quel tavolo le posizioni eccessivamente di destra o ferocemente anticomuniste (alla Koestler e alla Burnham, per intendersi), non fossero assolutamente gradite. L’operazione, nella sua durata più che ventennale, era diretta a sedurre gli opinion leaders e le “masse” in modo da creare un progressismo non comunista, anche a livello politico e sindacale – non un anticomunismo forcaiolo. Non a caso Burnham fu da noi girato alle Edizioni del Borghese, assieme al più mite de Madariaga, e in bella compagnia col vice di Johnson, Spyro Agnew, ed altri personaggi del genere (il catalogo di qualche decennio fa delle predette edizioni è un vero florilegio di certo anticomunismo para-neofascista nostrano e delle sue liason dangereuses). Non a caso il maccartismo creò alla CIA e al Congresso sempre e soltanto problemi.

In terzo luogo, la struttura organizzativa, il sistema di reclutamento e quello di finanziamento (benissimo descritte dall’autrice) sono un vero classico, soprattutto per l’utilizzo fatto delle fondazioni (Ford, Rockefeller, eccetera eccetera), in modo che la CIA non comparisse mai direttamente, e al tempo stesso avesse sempre un suo uomo nei punti di controllo critici. Ah, va precisato che quando si dice CIA si arriva direttamente alla Presidenza USA: quindi Truman, Eisenhower, Kennedy, Johnson erano al corrente per quanto di loro competenza (cioè molto), insieme al Dipartimento di Stato, peraltro presidiato da personaggi del calibro di John Foster Dulles, il fratello del più celebre Allen, direttore della CIA: ambedue ex-OSS, ovviamente.
In ultimo è di grande interesse la fine del Congresso e delle multiformi attività culturali ad esso collegate. Tutto comincia, anzi finisce, con un’inchiesta della rivista radicale americana Ramparts. Inchiesta talmente dettagliata da far pensare, a livello di quasi certezza, che le informazioni siano state rese accessibili dalla stessa CIA, o meglio da quel gruppo di suoi strateghi che non ritenevano più interessante una sinistra non comunista. La Saunders non inquadra bene il momento (è il 1966): ma se pensiamo ad alcuni eventi successivi (golpe dei colonnelli in Grecia, 1967; avvio della strategia della tensione in Italia, 1969; golpe in Cile, 1971; terrorismo e caso Moro, 1974 e anni successivi), nonché alla situazione in Vietnam e a quella in Medio Oriente, ci sono pochi dubbi che il Congresso fu liquidato perché non serviva più ad una linea di condotta orientata, almeno nei teatri citati, a forme di gestione più – come dire? – incisive.

Va anche detto che i protagonisti della vicenda furono riassorbiti o riciclati in posizioni di tutto comodo, salvo quelli ormai troppo noti, o incapaci di riallinearsi nel quadro di una diversa strategia. Resta anche il fatto che alcuni di essi ebbero singolari, penose vicende cliniche, turbe psichiche assortite e tendenze suicide (realizzate) – vai a capire se logorati dai conflitti di coscienza, dai troppi alcolici e da un tenore di vita pingue ma frenetico, dagli psicofarmaci o da altro.

Imbecilli o ipocriti? – si chiede reiteratamente la Saunders, quando commenta le dichiarazioni di stupore sulla circostanza di essere pagati dalla CIA da parte dei varii collaboratori del Congresso, allorché il giocattolo si ruppe. L’autrice propende – prove alla mano – per l’ipocrisia. Oddìo, c’è anche una certa dose di imbecillità, abbastanza tipica degli intellettuali, nel senso che se è vera la scultorea massima di sir Stuart Graham Menzies, capo dell’Intelligence britannica nell’ultima guerra mondiale – “Intelligence is the business of gentlemen” – è vero che pur sempre di business si tratta, e che quindi è bene sapere che, quando non si serve più, si è, per così dire, serviti. E questo è il caso migliore, perché poi c’è sempre Musil a ricordarci che il funzionario che non funziona più è, logicamente, de-funto.

Vogliamo sottolineare che la Saunders si richiama esplicitamente ad un metodo prosopografico e di ricostruzione delle reti di amicizie: il che le consente di delineare piuttosto bene la sostanziale compattezza e durata della dirigenza USA, la sua consapevolezza, la natura e la qualità del dibattito interno, le modalità di selezione e di cooptazione del personale – insomma, un bello spaccato di una élite molto organica e programmaticamente convinta di dover interpretare, letteralmente, il ruolo dei guardiani platonici al vertice del nuovo impero romano.

Per finire, qualche parola sulla prefazione, molto interessante per alcuni fatti citati, di Giovanni Fasanella. Abbiamo qualche difficoltà a condividere il suo atteggiamento mentale, quando dice che gli obiettivi (la sconfitta del comunismo) erano giusti, e i metodi invece no. Intanto, va messo in chiaro che la classe dirigente americana era pienamente consapevole, fin dal 1949, che non esisteva nessun piano comunista di dominio del mondo e che, anche se fosse esistito, la Russia non aveva i mezzi per attuarlo (si veda al riguardo la nota 39 al cap.6, sugli esiti del progetto Jigsaw). E poi, se gli obiettivi erano giusti, a che discutere di mezzi? Vogliamo perpetuare l’eterna discussione sulla democrazia protetta, ovvero sul fatto che alla democrazia, per difendersi, non sarebbe lecito impiegare gli stessi mezzi usati dalle dittature?

Francamente, sembra un problema di lana caprina, a parte il caso di crimini che sono tali comunque, democrazia o non democrazia. Ma – ci chiediamo – che doveva, anzi, che deve, meglio ancora: che cosa ci si aspetta che faccia un paese consapevole (nel 1946 come adesso) di essere l’unica vera superpotenza, e per di più convinto di avere raggiunto tale status per la propria intrinseca superiorità in quanto civiltà umana? Ovviamente, che faccia di tutto per rimanere tale il più a lungo possibile. La guerra culturale è un mezzo eccellente per un simile fine. E i problemi di accesso a certe fonti che la Saunders denuncia (a cominciare dalle registrazioni di Radio Free Europe prima e durante l’insurrezione ungherese del 1956), nonostante il Freedom of Information Act, sono del pari mezzi adeguati.

Il vero problema non è la contraddizione interna fra democrazia e mezzi per difenderla, fatti salvi gli eccessi sanguinosi e sanguinari. Fin quando la sinistra europea continuerà su questa strada, non riuscirà mai ad elaborare una seria diagnosi della situazione e quindi nemmeno una seria alternativa.
Il vero problema è, molto semplicemente, che quella angloamericana (nelle sue due versioni) non è più da molto tempo una democrazia, ma una sorta di repubblica aristocratica, con buoni meccanismi di rinnovamento per cooptazione della classe dirigente. Una repubblica aristocratica ben decisa a prolungare il proprio dominio, che ha origini ideologiche assai precise, di cui la teoria del destino manifesto è solo una delle più risalenti ed esplicite espressioni – ma non certo la sola.

Insomma, fin quando si rimane nell’equivoco di riconoscere al mondo angloamericano il titolo di democrazia per eccellenza, non si verrà mai a capo di nulla. Si potrà pensare qualcosa di nuovo solo quando si capirà che la democrazia angloamericana è da un bel pezzo solo un mezzo, in sé stesso quasi formale ma alquanto efficiente, per tutt’altri scopi: in modo assolutamente coerente, e in genere anche con linee strategiche definite ed attuate in maniera piuttosto professionale.

Tra l’altro, rimanere in questo equivoco nell’anno del Signore 2004 dimostra che fra le vittime della guerra culturale della CIA possiamo includere, fra i tanti, anche Fasanella. In tal senso, mai fu scritta presentazione più pertinente e significativa del cronico e persistente fallimento della sinistra europea nel pensare una nuova democrazia, e della solida vittoria statunitense in quella guerra culturale che si depreca.

Un libro proprio da leggere, insomma, adatto anche a non specialisti perché adeguatamente annotato. Un libro in cui non si fa troppa fatica a vedere un modello d’azione tuttora in essere, anche se sono cambiati l’avversario, i nomi dei protagonisti, alcuni dei mezzi impiegati, certe tecniche operative, con buona pace di quei commentatori della grande stampa che (imbecilli o ipocriti? – per dirla con la Saunders) qualche tempo fa cadevano dalle nuvole quando gli USA hanno ripreso espressioni tipo “la battaglia delle idee”.

Riguardo a questi sviluppi più recenti, naturalmente, aspettiamo fiduciosi la puntata successiva”.

APPROFONDIMENTI SUL VERSANTE ITALIANO:
http://www.eurasia-rivista.org/cogit_content/articoli/EkppVVlEpFJBzpSaEW.shtml

La Cia finanziò abbondantemente l’Espressionismo astratto. Obiettivo dell’intelligence Usa, sedurre le menti delle classi lontane dalla borghesia negli anni della Guerra Fredda. Fu proprio la Cia a organizzare le prime grandi mostre del “new american painting”, che rivelò le opere dell’Espressionismo astratto in tutte le principali città europee: “Modern art in the United States” (1955) e “Masterpieces of the Twentieth Century” (1952).

http://www.repubblica.it/speciali/arte/recensioni/2010/11/11/news/cia_mecenate_dell_espressionismo_astratto-8997066/

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