Gli uomanzé della Nuova Atlantide

Atlantide, il continente perduto (1961) — fantasia, allegoria, presagio?

Atlantide, il continente perduto (1961) — fantasia, allegoria, presagio?

La chimera era originariamente una figura mitologica dal corpo di capra, la testa di leone e la coda di serpente che terrorizzava la Licia fino a quando non fu uccisa da Bellerofonte.
Oggi le chimere umane, o ibridi uomo-animale, anche note con il termine inglese di parahumans, sono definite dai genetisti “creature in parte umane, in parte animali”. Possono essere create tramite l’uso di tecniche di ingegneria genetica — ed in questo caso potrebbero in teoria riprodursi e perpetuarsi –, di inseminazione artificiale, o di chirurgia avanzata, come nel caso di pazienti che ricevono valvole cardiache provenienti da altri mammiferi che, grazie all’aggiunta di geni umani, non sono soggetti a rigetto.
Attualmente animali che hanno ricevuto cellule umane sono utilizzati per produrre e testare medicinali e terapie e come riserva di organi da trapianto. Un esempio è il famoso OncoMouse®, un sorcio transgenico con un gene umano che predispone al cancro e che fu brevettato nel 1988 dai ricercatori dell’università di Harvard per studiare terapie anti-tumorali.
Questi animali, che hanno subito modifiche di tipo somatico, e non germinale, generano una prole normale, senza trasmettere i caratteri acquisiti. Un intervento di ingegneria della linea germinale potrebbe invece creare esseri sufficientemente diversi dagli esseri umani da costituire una specie a parte, che potrebbe ad esempio colonizzare lo spazio al posto nostro.

Il sogno di una specie di umanoidi al nostro servizio non è certamente nuovo. Per secoli i neri furono considerati membri di una razza, se non di una specie, diversa ed inferiore, il che giustificò il loro asservimento alla “superiore razza” bianca e la loro riduzione a res commerciabilis, cioè a merce o a unità di scambio.

[…]

In Italia, Brunetto Chiarelli, ordinario di antropologia all’università di Firenze ed ex affiliato alla loggia P2, fu uno dei pochi ad appoggiare pubblicamente il progetto di utilizzare la procreazione artificiale per creare ibridi uomo-scimmia, da impiegare come forza lavoro o serbatoio di organi per trapianto. Lo fece in un’intervista rilasciata all’Espresso e pubblicata il 17 maggio del 1987, nella quale spiegò di essere stato informato di un esperimento segreto nel quale un ovocita di scimpanzé era stato inseminato con successo da sperma umano. L’esperimento fu poi interrotto nella fase embrionale in nome di considerazioni di carattere etico.

Nel 1988 Joseph Fletcher, docente di filosofia all’Università della Virginia nonché ministro protestante episcopale, comunemente considerato uno dei padri della bioetica, ripubblicò dopo 14 anni un controverso saggio intitolato The Ethics of Genetic Control nel quale dichiarava che la creazione di chimere e cyborg programmati per essere al servizio della specie umana sarebbe stata moralmente legittima (The Ethics of Genetic Control, pp. 172–173).

Il resto del testo lo trovate su Medium, cliccando sul link sottostante:

Gli uomanzé della Nuova Atlantide

Sonmi-451 e Thomas Sankara – quando finzione e realtà riecheggiano

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a cura di Stefano Fait, direttore di FuturAbles

La preghiera di Sonmi~451 (2144)

Archivista “Ricordati non è un interrogatorio, né un processo, la tua versione della verità è ciò che conta”

Sonmi~451 “La verità è singolare, le sue versioni sono non-verità”

Archivista “Qual è il primo catechismo?”

Sonmi~451 “Onora il tuo consumatore”

Yoona~939 “Io non sarò mai soggetta a maltrattamenti criminosi”

Sonmi~451 “La nostra vita non è nostra, da grembo a tomba, siamo legati ad altri, passati e presenti, e da ogni crimine e ogni gentilezza generiamo il nostro futuro”

Sonmi~451 “Puoi mantenere il potere sulle persone finché dai loro qualcosa, deruba un uomo di ogni cosa e quell’uomo non sarà più in tuo potere”

Hae-Joo Chang “Spesso la sopravvivenza richiede coraggio”

Sonmi~451 “Ma io sono solo la servente di una mangeria, non sono stata genomata per alterare la realtà”

Generale An-kor Apis “Nessun rivoluzionario lo è mai stato”

Sonmi~451 “Non importa se siamo nati in una vasca o in un grembo, siamo tutti purosangue. Dobbiamo tutti combattere, e se necessario morire, per insegnare alle persone la verità”

Sonmi~451 “Essere vuol dire essere percepiti, pertanto conoscere se stessi è possibile solo attraverso gli occhi degli altri. La natura della nostra vita immortale è nelle conseguenze delle nostre parole e azioni, che continuano a suddividersi nell’arco di tutto il tempo.

Archivista “Nella tua rivelazione hai parlato delle conseguenze della vita di un individuo che si spandono per tutta l’eternità. Questo vuol dire che credi in una vita nell’aldilà, nel paradiso e nell’inferno?”

Sonmi~451 “Io credo che la morte sia solo una porta, quando essa si chiude, un’altra si apre. Se tenessi a immaginare un paradiso, io immaginerei una porta che si apre e dietro di essa, lo troverei lì, ad attendermi”

Archivista “Se posso fare un’ultima domanda, dovevi sapere che la rivolta dell’unione sarebbe fallita”

Sonmi~451 “Si”

Archivista “E perché hai accettato di farlo?”

Sonmi~451 “E’ questo che il generale Apis mi aveva chiesto”

Archivista “Cosa, di essere giustiziata?”

Sonmi~451 “Se io fossi rimasta invisibile, la verità sarebbe stata nascosta, non lo potevo permettere.”

Archivista “E se nessuno credesse a questa verità?”

Sonmi~451 “Qualcuno ci crede già”

A Nuova Seoul (Nea So Copros), l’ingegneria genetica viene impiegata per produrre cloni inseriti in caste inferiori, con uno status morale inferiore. Possono essere oggetto di abuso senza che ciò sia sanzionato, ma sia i cloni sia i consumatori (“purosangue”) sono all’oscuro del destino di questi servitori: dopo un prematuro pensionamento dopo 12 anni di servaggio, sono uccisi e trasformati in cibo per cloni (sedato per intontire i servitori in modo che non si mettano in testa strane idee) e tessuti organici per fabbricare altri cloni.

Coesistono tre caste: la “razza padrona”, i servitori e i consumatori, che hanno il dovere costituzionale di consumare una certa somma, calcolata in funzione del loro status sociale, e di obbedire alle direttive della tirannia che li domina. I consumatori cercano solo apatia spirituale, comfort e gratificazioni fisiche. Sono distinguibili dai cloni che li servono per il fatto di possedere dalla nascita un microchip sull’indice, mentre i servitori hanno un collare che li può uccidere se disobbediscono.

Con il passare del tempo le distinzioni di classe e di casta hanno perso il loro carattere arbitrario, artificiale, fittizio per acquistare una vita propria, una certa naturalità e quindi ineluttabilità: “le cose stanno così perché è giusto e normale che sia così”.

Questo è il “progresso” che conduce alla Caduta e ad un mondo post-apocalittico.

Gattaca

Di sviluppi del genere se ne discute da anni negli ambienti della bioetica (si veda anche Gattaca):

http://fanuessays.blogspot.it/2011/10/leugenetica-e-un-complotto-scientista.html

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/05/06/ethical-aspects-of-genetic-engineering-and-biotechnology/

o “In Time”

In-Time

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/01/in-time-occupy-hollywood-e-la-lotta-di-classe-del-terzo-millennio/

È un avvelenamento progressivo dell’umanità e del mondo, che si perpetua a causa di una popolazione sedata dal consumismo, dalla propaganda che filtra l’informazione che può essere comunicata e dall’ignoranza che ne consegue. È l’oblio della realtà che conserva strutture di potere tossiche e, nel lungo periodo, autodistruttive. Un potere predatorio, cannibalistico, che si sostiene grazie alla sua capacità di definire una narrazione univocamente vantaggiosa, che colonizza le menti delle masse e razze subordinate, predicando una supposta superiore condizione esistenziale, naturale, intellettuale e morale della casta dirigente che giustifica lo status quo.

Questi colonialisti, veri e propri conquistadores, sono cannibali, consumano ciò che li circonda per sostentarsi ed espandere la loro fonte di reddito e potere. Il potere, in particolare, va mantenuto ed esteso, a spese di tutti gli altri ed a qualunque costo, in una frenetica scalata della piramide sociale e naturale che dovrebbe dare un senso ad esistenze ossessionate dalla bramosia insaziabile, una fame inestinguibile, e dalla paura di decadere, di trovarsi sempre più parassiti sul groppone e sempre meno vittime da vampirizzare. Una splendida illustrazione del circolo vizioso che rappresenta la condanna esistenziale degli psicopatici/sociopatici: così terribili eppure così tragicamente prigionieri della loro natura.

Vyvyan Ayrs, ultra-nietzscheano ode una sinfonia in un sogno di un mondo futuristico in cui tutte le cameriere di un locale sotterraneo sono identiche ed ogni giorno ripetono gli stessi gesti e le stesse frasi per accogliere i clienti. La vuole riprodurre per affermare la propria grandezza e come tributo al suo “prezioso Nietzsche”:

E sapete voi che cosa é per me il mondo? Devo mostrarvelo nel mio specchio? Questo mondo é un mostro di forza, senza principio, senza fine, una quantità di energia fissa e bronzea, che non diventa né più piccola né più grande, che non si consuma, ma solo si trasforma, che nella sua totalità é una grandezza invariabile […] Questo mio mondo dionisiaco che si crea eternamente, che distrugge eternamente se stesso, questo mondo misterioso di voluttà ancipiti, questo mio al di là del bene e del male, senza scopo, a meno che non ci sia uno scopo nella felicità del ciclo senza volontà, a meno che un anello non dimostri buona volontà verso di sé, per questo mondo volete un nome? Una soluzione per tutti i suoi enigmi? E una luce anche per voi, i più nascosti, i più forti, i più impavidi, o uomini della mezzanotte? Questo mondo è la volontà di potenza e nient’altro! E anche voi siete questa volontà di potenza e nient’altro! (F. Nietzsche, La volontà di potenza)

Non è il possesso del potere che produce piacere ma l’incessante ricerca di più potere. Non serve dire che questa brama senza fine è una prigionia. Se questo incremento di potenza non ce lo possiamo garantire da noi stessi, ci legheremo sempre più strettamente alla fazione più promettente. Il che spiega come, nel corso della loro vita, molti militanti di un colore politico sono passati a quello opposto: per loro l’ideologia è solo un pretesto, un mezzo per accumulare potenza. Se il partito o movimento che hanno abbandonato tornasse in auge si riavvicinerebbero in breve. Anche la lealtà o slealtà rispetto ad una particolare azienda o nazione segue le stesse logiche (es. si osservi la parabola del sionismo, una causa che era di “sinistra”/“progressista” solo un paio di generazioni addietro).

La ribellione di Sonmi-451 apparentemente fallisce. Viene catturata, interrogata, giustiziata. Migliaia, milioni di altri ribelli come lei sono stati inghiottiti dall’oblio, il loro eroismo si è dimostrato inutile: una goccia in un oceano, appunto. Però gli esseri umani sono tanti, sono come gli spermatozoi, se mi si passa il parallelo non particolarmente elegante. Basta che uno solo riesca a far arrivare il messaggio a destinazione che qualcosa di prodigioso si manifesta (la vita, la libertà).

Se ci pensiamo, è un po’ il fato di Thomas Sankara, martire della dignità e libertà africana, tornato improvvisamente in auge nell’Europa oppressa dai dogmi neoliberisti e dagli attacchi degli speculatori e delle agenzie di rating (chi l’avrebbe mai detto?):

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/12/05/thomas-sankara-e-il-terzo-mondo-europeo-piigs/

http://mauropoggi.wordpress.com/2013/01/20/thomas-sankara-un-documentario-e-un-appello/

o quello di Joel Olson, docente ed attivista morto prematuramente, poco dopo aver realizzato un’analisi che è stata poi fatta circolare viralmente sulla rete, specialmente tra gli indignati:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/11/16/la-democrazia-bianca-e-la-nostra-prigione/

Questi esempi valorizzano e comprovano il contenuto di verità di Cloud Atlas: un messaggio di valore universale resisterà al tempo e riaffiorerà carsicamente al momento giusto, anche in un altro luogo del mondo: laddove ci sia chi ne ha bisogno.

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Il messaggio di Sonmi-451 ce la fa a sopravvivere: è così autentico, vibrante, pregnante, universale, rivoluzionario, da lasciare scossi alcuni dei guardiani del sistema tirannico di Nuova Seoul (Nea So Copros). Non servirà a salvare la civiltà umana del ventiduesimo secolo, ma darà speranza ai superstiti nei secoli seguenti e la speranza è un bene di valore inestimabile quando si conduce un’esistenza miserabile.

Grazie ad un film di un’epoca precedente, ed in particolare ad una battuta – “Io non sarò mai soggetto a maltrattamenti criminosi!” – che ha il potere di scuotere dal torpore persino chi è nato per essere schiavo, Sonmi-451 comprende che esistono dei diritti universali e che occorre battersi per riaffermarli, perché questi possono essere sovvertiti esattamente come il granito può essere eroso, dato che l’ignoranza produce paura, la paura partorisce l’odio, l’odio genera violenza e la violenza prolifera fino a quando l’unico diritto riconosciuto è la volontà di chi è più forte e spietato in un dato momento.

I forti restano al comando grazie alle illusioni. Dunque la libertà vera è quella dalle illusioni (di separazione, differenza, gerarchia come parte di un “ordine naturale”) che vengono perpetrate da rapporti di forza iniqui ed artificiali. Il coraggio proviene dalla ferma volontà di combattere queste illusioni: “Sarai solo una goccia nell’oceano” – “Cos’è l’oceano se non una moltitudine di gocce?”. Di combatterle per sé e per tutti quanti, a nome di tutti quanti.

Cloud Atlas ci chiede di essere più empatici e più audaci nell’estensione verso il prossimo della nostra empatia, nel nostro riconoscimento della nostra comune condizione, comuni esigenze, comune destino. L’empatia, l’amore e la meraviglia sono le fondamenta della società. Il cinismo è ciò che la corrode e minaccia la nostra sopravvivenza come civiltà e come specie degna di esistere. La strada per l’ascensione, di Sonmi-451 e di tutti noi, passa per la disponibilità a trattare gli altri con decenza e rispetto, riconoscendone la dignità intrinseca, e per il rifiuto di accettare una società costruita intorno a convenzioni che discriminano gli uni ed avvantaggiano gli altri e che, se trasmesse di generazione in generazione, finiscono per apparire come un fatto naturale, un prodotto dell’evoluzione che l’uomo non ha il diritto di mettere in dubbio e cambiare.

La storia di Sonmi-451 ci insegna che, sebbene il mondo possa essere destinato ad una caduta – il che può certamente essere il nostro caso –, il percorso non è predeterminato. Le scelte dei singoli hanno la capacità di creare narrazioni diverse, con conclusioni diverse. Le scelte interrelate di molte persone hanno considerevoli ramificazioni (effetto del battito d’ali di una farfalla).

Per questo è indispensabile credere in un futuro alternativo (es. a quello deciso per noi dalle autorità monetarie e dalle oligarchie finanziarie) e plasmare un mondo nuovo. Il futuro è aperto e c’è sempre l’opportunità di considerare verità alternative e di scoprire una conoscenza insperata che può condurci verso altri futuri.

Se un numero sufficiente di persone, una massa critica, mette in discussione la narrazione egemonica che condiziona il comportamento di tutti, è possibile arrivare ad un cambiamento duraturo.

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Per un’analisi più generale:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2013/01/18/cloud-atlas-uno-studio-antropologico/

La perniciosa influenza planetaria delle fondazioni e think tank degli Stati Uniti

 

Le fondazioni…esercitano un’influenza corrosiva sulla società democratica; rappresentano concentrazioni di potere e ricchezza relativamente incontrollate e che non devono rispondere delle proprie azioni, che comprano i talenti, promuovono cause e, di fatto, determinano che cosa meriti l’attenzione della società…un sistema che…ha operato a svantaggio degli interessi delle minoranze, dei lavoratori e dei popoli del Terzo Mondo

Robert F. Arnove, “Philanthropy and Cultural Imperialism. The Foundations at Home and Abroad”.

Un enorme potere, senza paragoni è concentrato nelle mani di un gruppo di persone, perfettamente coordinato e con la tendenza a perpetuare se stesso. Diversamente dal potere nelle aziende, non è controllato dagli azionisti; diversamente dal potere del governo, non è sottoposto al controllo popolare; diversamente dal potere nelle chiese, non è controllato da alcun canone consolidato di valori.

Conclusioni di un’indagine conoscitiva sulle fondazioni statunitensi effettuata da un comitato del Congresso americano nel 1952

Non ci si dovrebbe aspettare che ingenti patrimoni privati siano donati in maniera tale da innescare nella società redistribuzioni delle ricchezze e trasformazioni politiche.

Ruth Crocker, in“Charity, Philanthropy, and Civility in American History”

Il miglior programma in assoluto di educazione alla democrazia si chiama “Esercito degli Stati Uniti”

Michael Ledeen, American Enterprise Institute for Public Policy Research (AEI), collaboratore di Matteo Renzi

 

I think tank, pensatoi che dovrebbero partorire soluzioni per i grandi problemi di una comunità, sono armi a doppio taglio, perché danno alla luce idee e simboli, che sono il cibo della mente umana, ma anche la sua droga ed il suo veleno. Come le api sono nate per fare il miele ed i castori per costruire dighe, gli esseri umani sono nati per trasmutare simbolicamente tutto ciò che li circonda. Sono fatti per attingere al sublime, ma anche per cadere nella trappola dei miti politicizzati (Fait/Fattor 2010).

La ragion d’essere delle principali fondazioni e think tank (pensatoi, gruppi di riflessione ed approfondimento, reti di esperti) è quella di migliorare il mondo in accordo con le preferenze di chi le crea e le finanzia, ossia, in genere, dei magnati o dei politici, cioè a dire di persone che esercitano già una considerevole influenza sulla società, ma intendono esercitarne ancora di più. Queste organizzazioni, in termini pratici, servono a giustificare la permanenza di rapporti di poteri vantaggiosi per chi è già economicamente e politicamente egemone, pensando al posto nostro. Dato il loro profilo così prominente nella contemporaneità, sono stati oggetto di innumerevoli studi sociologici. Usando un gioco di parole, possiamo dire che il think tank è un carro armato (tank, in inglese) nella guerra delle idee che mira al controllo delle menti di 7 miliardi di persone.
Stephen Boucher e Martine Royo (2006) definiscono i “think tank” degli organismi permanenti non pubblici che hanno l’incarico di formulare soluzioni su scala nazionale o internazionale che possano essere tradotte in politiche pubbliche. Quasi tutte le fondazioni si sono dotate di uno o più think tank, perciò è pressoché inutile cercare di separarli. La loro missione li rende inscindibili. La fondazione si occupa della parte strategica, il think tank di quella tattica. Alcune fondazioni esistono da oltre un secolo, come ad esempio il trittico Ford, Rockefeller e Carnegie, dai nomi dei magnati che hanno fatto la storia dell’economia e dell’industria americana moderna. Un altro gigante si è aggiunto di recente, la Gates Foundation di Bill Gates, il fondatore di Microsoft, e di sua moglie. In Germania, la Friedrich Ebert Stiftung è vicina ai socialdemocratici, la Konrad Adenauer Stiftung è nella sfera democristiana.

Anche se ufficialmente i loro think tank dovrebbero produrre ricerca seria e rigorosa, non conosco nessuno studio accademico (ossia non promosso da un qualche think tank e quindi apologetico) che non li consideri delle vere e proprie macchine ideologiche al servizio di un qualche specifico interesse e/o ideologia. Boucher e Royo parlano di “pensiero mercenario”, un eufemismo per quello che altri chiamerebbero, meno sottilmente, “prostituzione intellettuale”.

Con questo non si vuol dire che tutti i think tank e tutte le fondazioni siano da mettere sullo stesso piano e demonizzare. Ma è indubbio che all’intensificarsi dei legami con la politica ed il capitale l’indipendenza di giudizio e l’integrità morale dei componenti di un think tank subiscono un inevitabile processo involutivo e la loro attività finisce per rassomigliare sempre più al marketing ed al lobbismo, con un impatto mediatico rapido e massiccio nel mercato delle idee (Boucher/Royo, ibidem). Gli intellettuali e gli stessi scienziati sono degli esseri umani come gli altri, né peggiori né migliori degli altri, anche se loro, non-ufficialmente, sono inclini a ritenersi migliori ed esenti da certe influenze corruttrici. Non citerò la cospicua produzione di studi sociologici che smentiscono le loro più intime convinzioni. Per questo sarebbe meglio che le politiche pubbliche fossero formulate da commissioni pubbliche temporanee, allo stesso modo in cui si sottopongono periodicamente al voto i rappresentanti parlamentari che poi le vaglieranno. A meno che non si creda, con Mandeville, che i vizi privati sono alla base delle virtù pubbliche, uno slogan screditato da millenni di storia umana ma che piace molto ai neoliberisti.

L’influenza dei think tank è poderosa in una molteplicità di settori: dall’ecologismo alla bioetica ed alle biotecnologie, dagli studi sulla pace alla geopolitica, dalle risorse energetiche alle politiche socio-economiche, carcerarie e monetarie, dalla Guerra al Terrore alla globalizzazione, all’arte ed alla cultura, al razzismo, al federalismo ed alla tutela delle minoranze etno-linguistiche.

Gli esempi della loro egemonia culturale non si contano, ma due sono forse i più eclatanti. Il primo è quello delle politiche di sterilizzazione involontaria di decine di migliaia di donne nel mondo occidentale e di milioni di donne nel Terzo Mondo a fini eugenetici prima e di controllo della popolazione non-bianca (ad esempio i quechua ed aymara del Perù) poi (Connelly, 2008). L’altro è il “Progetto per un nuovo secolo americano”, una strategia neoconservatrice imperialista statunitense che risale alla fine degli anni Novanta e che ha condotto all’invasione dell’Iraq nel 2003. È notorio perché al centro delle teorie del complotto riguardo all’11 settembre 2001, in quanto un suo rapporto del settembre del 2000, intitolato “Rebuilding America’s Defenses: Strategies, Forces, and Resources for a New Century” (“Ricostruire le difese dell’America: strategie, forze e risorse per un nuovo secolo”), auspicava il verificarsi di un evento del tipo Pearl Harbor che autorizzasse gli Stati Uniti a prendere il controllo dell’Asia Centrale, considerata la chiave per mantenere in una posizione subalterna Russia, India e Cina e quindi per conservare lo status di unica superpotenza egemone. Altri casi degni di menzione sono l’amministrazione Reagan, che selezionò lo staff presidenziale (150 specialisti!) nel vivaio della Hoover Institution, della Heritage Foundation e dell’American Enterprise Institute, tutte fondazioni ultraconservatrici, con relativi think tank.

Tra gli studiosi che hanno approfondito il ruolo delle fondazioni e dei think tank nella formazione della percezione della realtà da parte dei cittadini delle democrazie occidentali figura anche il celebre Pierre Bourdieu, che anche dopo la morte, avvenuta nel 2002, resta il più influente sociologo francese. Nel 1998, assieme al collega francese (docente a Berkeley) Loïc Wacquant, riconosciuto specialista nel campo del razzismo e dei sistemi carcerari, pubblicò un saggio dagli effetti dirompenti, intitolato “Sulle astuzie della ragione imperialista” (“Sur les ruses de la raison impérialiste”), in cui si argomentava la tesi che le grandi fondazioni americane che si occupano di razzismo, in particolare la Rockefeller e la Ford, cerchino deliberatamente di incoraggiare i leader delle minoranze etno-razziali al di fuori degli Stati Uniti ad adottare le stesse tecniche di autoaffermazione identitaria, oggettivamente fallimentari, impiegate negli Stati Uniti. Tecniche, per intendersi, che sono state ripudiate dallo stesso Martin Luther King, un uomo dall’enorme perspicacia ed onestà, e che non sono mai state prese in seria considerazione da Aung San Suu Kyi o da qualunque attivista che rivendichi i diritti umani e civili per tutti e non solo per una fazione.

Bourdieu e Wacquant sono finiti al centro di una vigorosa polemica non tanto per aver denunciato il carattere fallimentare dell’identitarismo particolaristico e settario, ma per aver affermato che la contrapposizione tra neri e bianchi, che volutamente cancella l’esistenza dei meticci/mulatti, fa parte di una strategia globale neocolonialista all’insegna del divide et impera che, insistendo sulla componente somatica (il colore della pelle), conduce ad una guerra tra poveri che avvantaggia chi teme che le classi subordinate possano creare una piattaforma di rivendicazioni comuni che metta in difficoltà lo status quo. Le loro conclusioni sono in linea con quanto si apprende dalle ricerche di Anthony W. Marx (nessuna relazione con il più celebre Karl) su Stati Uniti, Sudafrica e Brasile, Livio Sansone sul Brasile (2002, 2003), Mark Clapson sul Regno Unito (2006), Donald E. Abelson (1996), Yves Dezalay & Brian G. Garth (2002), Noliwe Rooks (2006), Inderjeet Parmar (2012) e Thomas Medvetz (2012) sugli Stati Uniti e le loro relazioni interrazziali ed internazionali, Rafael Loayza Bueno ed Ajoy Datta sulla Bolivia (2011).

A dire il vero, Bourdieu e Wacquant non sono stati dei pionieri. Già negli anni Quaranta il giornalista e storico statunitense Joel A. Rogers lamentava il fatto che gli attivisti neri per i diritti civili fossero usati dai filantropi delle maggiori fondazioni per diffondere un’immagine omogenea, omologata, monolitica e caricaturale dei neri che sarebbe servita a “tenerli al loro posto” e a “mettere in cattiva luce quei pochi neri in grado di ragionare con la propria testa” (cit. in Plummer, 1996, p. 228). Uno dei più ammirati sociologi americani, C. Wright Mills, aveva gettato le basi per un’analisi scientifica di questo fenomeno già a cavallo degli Cinquanta e Sessanta, ma scomparve prematuramente prima di riuscire a portare al termine il suo ambiziosissimo progetto sociologico di studio delle élite e delle loro strategie. Solo negli anni Ottanta, grazie ad Edward Berman ed al suo magnifico e scrupoloso saggio (“The Ideology of Philanthropy”) e, più recentemente, Sally Covington (1998), Frances Stonor Saunders (1999, ed. it. 2004) e Joan Roelofs (2003) sono riusciti a mettere in luce i legami tra le fondazioni filantropiche, le militanze identitarie, gli architetti della politica estera americana e la CIA. Centinaia di milioni di dollari investiti in una guerra di idee e per il controllo dei media, di interi dipartimenti universitari e della lealtà di membri del Congresso (Saunders, op. cit., p. 122):

L’uso delle fondazioni filantropiche si rivelò il modo più efficace per far pervenire consistenti somme di denaro ai progetti della CIA, senza mettere in allarme i destinatari sulla loro origine…Nel 1976, una commissione d’inchiesta nominata per indagare le attività dell’intelligence statunitense riportò i seguenti dati relativi alla penetrazione della CIA nella fondazioni: durante il periodo 1963-1966, delle 700 donazioni superiori ai 10.000 dollari erogate da 164 fondazioni, almeno 108 furono totalmente o parzialmente fondi della CIA. Ancor più rilevante è che finanziamenti della CIA fossero presenti in quasi metà delle elargizioni, fatte da queste 164 fondazioni durante lo stesso periodo nel campo delle attività internazionali durante lo stesso periodo.

Sempre negli anni Ottanta, Robert Arnove, oggi professore emerito all’Università dell’Indiana, allora un insider con accesso ad informazioni riservate, curò la pubblicazione di un volume collettaneo (“Philantropy and cultural imperialism: the foundations at home and abroad”, 1980) in cui puntava il dito contro le fondazioni Ford, Rockefeller e Carnegie e la loro “corrosiva influenza sulla società democratica”, resa possibile da una concentrazione di potere e capitali non adeguatamente regolamentata, in grado letteralmente di comprare la lealtà degli esperti e di promuovere certe cause secondo certe modalità in modo tale da indirizzare l’attenzione dell’opinione pubblica in certe direzioni piuttosto che in altre. Lo stesso Arnove, in seguito, assieme alla collega sociologa Nadine Pinede (“Revisiting the Big Three Foundations”, 2003), ha potuto confermare la validità dei precedenti giudizi sulle politiche di deradicalizzazione (leggi: castrazione e frammentazione) del movimento per i diritti civili attuate dalle suddette fondazioni in nome dell’ideologia dell’identitarismo culturale che sottrasse al più vasto movimento le importanti energie di una larga porzione di attivisti afro-americani, non più disposti a condividere la lotta con esponenti di altre culture ed etnie (si veda anche Roelofs 2003).

Il povero Martin Luther King non poté sfuggire a questo gorgo e ne finì risucchiato, lui che contrastava ogni tentativo di spezzare il movimento dei diritti civili in fazioni concorrenti. Nel febbraio del 1967 prese la decisione di opporsi alla politica americana in Vietnam, pur sapendo che così facendo avrebbe causato l’interruzione del flusso di erogazioni da parte di varie fondazioni e in particolare della Ford Foundation. Aveva ben chiaro in mente che, com’era più che logico, le politiche di finanziamento delle maggiori fondazioni favorivano le valvole di sfogo, ossia quelle organizzazioni che davano voce alla protesta ma senza mai mettere in discussione l’establishment nel suo complesso (Walker, 1983).

Molte persone fanno fatica ad immaginare che delle fondazioni possano realmente cambiare il corso della storia di un’intera nazione. Ma si considerino le somme a loro disposizione. Nel 2011 il valore del patrimonio complessivo delle fondazioni americane ammontava a quasi 622 miliardi di dollari. Se fossero una nazione, sarebbero al ventesimo posto nella classifica del PIL, poco dietro la Svizzera. Nel 2010 decine di migliaia di fondazioni filantropiche hanno distribuito finanziamenti per un valore totale che eccede i 46 miliardi di dollari (valore raddoppiato rispetto al 1999). Ciò significa che, in questi anni, solo negli Stati Uniti, le fondazioni movimentano l’equivalente di una manovra finanziaria italiana importante o del PIL della Tunisia o dell’Uruguay. Nel 2000 il solo “Programma per la pace e la giustizia sociale” della Ford Foundation ha devoluto 26 milioni di dollari per i “diritti delle minoranze e la giustizia razziale”, su un totale di 80 milioni di dollari di finanziamenti a livello globale. La Bill e Melinda Gates Foundation distribuisce annualmente almeno 3 miliardi di dollari ad organizzazioni ed individui che ritiene meritevoli e dispone di un patrimonio del valore di oltre 33 miliardi di dollari (poco meno del PIL del Kenya, più di quello della Lettonia). Era a 37 miliardi nel 2010. Ford Foundation, Paul Getty Trust, Robert Wood Johnson Foundation dispongono tutte di circa 10 miliardi di dollari di beni: in termini di PIL, si collocherebbero davanti all’Armenia. In termini pratici, non devono rispondere del loro operato né ai mercati, né alla stampa, né tantomeno all’elettorato.

Con queste cifre e questo potere in ballo, non è sorprendente che i saggi dedicati a questo argomento così cruciale siano, globalmente, poche decine e tutti o quasi tutti ad opera di accademici non dipendenti da sovvenzioni private. Non sono molti i giovani ricercatori disposti a sputare nel piatto in cui sperano di mangiare e ancor meno quelli, più maturi, pronti a farlo in quello in cui stanno già mangiando. La falsa coscienza fa il resto: si razionalizza il proprio comportamento e quello di chi ci sovvenziona e ci si convince che l’utile giustifica i mezzi. D’altronde, stante il feroce antistatalismo americano, quasi tutte le organizzazioni per i diritti civili, la giustizia sociale e la difesa dell’ambiente, per poter restare in vita, sono costrette a rivolgersi alle fondazioni “filantropiche” ed alla loro per nulla disinteressata filantropia. Lo stato non è quindi in grado di assicurarsi che l’elaborazione e discussione delle questioni pubbliche non vengano monopolizzate da interessi privati. È un fenomeno che si sta verificando anche in Europa, specialmente ora che la crisi e l’austerità hanno prosciugato le casse degli stati europei.

Ora, limitatamente alle fondazioni maggiori, emanazioni del capitale finanziario-industriale, alla luce degli studi summenzionati, possiamo dire che quelle di destra sono anti-democratiche e non fanno molto per nasconderlo; quelle “progressiste” sembrano più orientate a provare a migliorare la situazione, ma solo per poter mantenere le cose come stanno. Queste ultime sono espressioni di centri di interesse che non disprezzano apertamente la democrazia, ma preferiscono gestirla in modo accentrato e tecnocratico, a causa della scarsa stima che nutrono nei confronti delle masse. Ciò che accomuna le fondazioni di destra (es. praticamente tutte quelle legate agli interessi delle multinazionali farmaceutiche e petrolifere, o il Pioneer Fund) e i think tank di destra da un lato (es. Freedom House, Council on Foreign Relations, Hudson Institute) e quelle di sinistra (es. Open Society di George Soros, Gates Foundation) con i rispettivi think tank (es. la New America Foundation vicina a Zbigniew Brzezinski, una delle figure più influenti nelle scelte di politica estera dell’amministrazione Obama) dall’altro è, a grandi linee, il rifiuto del principio della pari dignità e il trionfo dell’elitismo e dell’oligarchismo più o meno benevolo (o malevolo, a seconda dei punti di vista, naturalmente). Come documentano Robert Arnove e Nadine Pinede, tutte le grandi fondazioni “progressiste” sono ispirate ai principi del conservatorismo sofisticato ed appoggiano dei cambiamenti che assicurano una maggiore efficienza del sistema esistente ed una minore frizione con i privilegi già acquisiti. In questo modo, però, perpetuano le dinamiche che generano quelle disuguaglianze ed ingiustizie alle quali ufficialmente desiderano porre rimedio.

La volontà di dominio sugli altri – riflessioni sull’attivismo, l’eutanasia e l’aborto

Io non sono un opportunista! Io cerco di dimostrare agli opportunisti quanto siano patetici i loro tentativi di controllare le cose!
The Joker, “Il Cavaliere Oscuro”

Mi è successo un fatto strano. Invece di ricevere una critica direttamente sul blog ho ricevuto l’invito a cliccare su un link che mi ha portato in un forum in cui una mia posizione veniva travisata o volutamente contraffatta ed il mio impegno per la soluzione di una problematica veniva schernito. Ho sempre avuto una vita pugnace e la cosa non mi ha particolarmente scosso. Quel che mi ha invece colpito è stata l’esigenza che questa persona ha sentito di invitarmi a “casa sua” per mostrarmi la misura del suo disprezzo per quel che faccio. Perché scomodarsi? Perché non dedicare il proprio tempo ad attività più gratificanti? All’inizio ho pensato a “carenze affettive”, poi mi è invece venuto il sospetto che, per questa persona, tanta ostinazione (accanimento?) sia di per sé gratificante. Ha una missione da espletare ed io, ai suoi occhi, non devo essere libero di trascurarla. Sono colpevole di indifferenza.

Ora, tralasciando la singolare vicenda occorsami, che è di poco conto, vorrei cogliere quest’opportunità per condividere una riflessione sul controllo.

La necessità che sentiamo di controllare tutto ciò che ci circonda, è la radice di gran parte del male che commettiamo.

Se ci comportiamo come bulli (contro il nostro prossimo, contro altri popoli, contro animali e piante, contro la Madre Terra, ecc.), in attesa che un bullo più forte di noi ci metta in riga (e prima o poi arriva), è perché siamo maniaci del controllo, ci terrorizza l’idea di perderlo. Le incertezze ed indeterminazioni della vita ci spaventano e ci spaventa anche la morte, che pure secondo alcuni pone fine a tutte le nostre traversie: e allora ci troviamo a manipolare, sfruttare, tormentare, aggredire il prossimo per sentirci vivi ed illuderci che “è tutto sotto controllo”.  Vita, morte e controllo, una trittico che ritroviamo nel dibattito sull’eutanasia e sull’aborto. Chi controlla la mia vita? La società, un medico obiettore, o io? Come posso usare responsabilmente il poco controllo che ho su me stessa (donna incinta) o su me stesso (malato terminale)? Il tema non è per nulla scontato: il medico che assiste il suicidio del malato terminale potrebbe non farlo per ragioni umanitarie, ma per soddisfare un suo bisogno di controllare la vita, la vita di qualcun altro. Parimenti, la donna incinta esercita il suo dominio sul feto. C’è persino chi, nella bioetica, pretende di poter giustificare il diritto-dovere all’infanticidio ed all’eutanasia nell’interesse collettivo.

In generale sono dell’idea che controllare le altre persone (adulte) sia sbagliato e che questo sia un miglior discrimine di quel che è accettabile ed inaccettabile rispetto alla dicotomia bene/male. Anche se posso immaginare che questo mondo è così complicato che non ci possono essere degli assoluti categorici, ritengo comunque che il nostro compito sia quello di evitare che un Male Estremo venga riconfigurato come Male Minore per poi diventare Bene Necessario e infine Routine.

Esaminiamo meglio la questione addentrandoci nel dibattito sul suicidio assistito.

La Chiesa, contraddicendo Gesù il Cristo, ha stabilito che la vita organica sia di centrale importanza. Ha trasformato una fede trascendentalista in una fede materialista, inventando un culto magico ed idolatra della vita, che le consente di esimersi dal prendersi cura di quel che veramente importa: i singoli viventi; viventi che non possono essere omologati nella generica categoria: “vita”. C’è vita e vita. La vita di un virus (un cristallo macromolecolare dotato di un codice RNA) ha poco a che vedere con la vita umana. La persona, non la vita deve essere il centro di attenzione di un cristiano e di un cittadino democratico, ma enfatizzando la vita la Chiesa è riuscita ad esercitare un controllo ingiustificato e blasfemo sulle persone, anche sui non-credenti. Pur credendo, a parole, nella trascendenza, hanno deciso che la vita è sacra in quanto biologica, non solo quando è vissuta da qualcuno. Hanno stabilito che è la vita a vivere e non le persone (e gli animali e piante). Tuttavia una persona non è un aspetto particolare del fenomeno “vita”: è un racconto in corso e senza un finale predeterminato, una singolarità in costante trasformazione, il prodotto vivo della morte di milioni di cellule e di un qualcosa – la coscienza – che la scienza non sa spiegare. La sua dignità deriva proprio dal suo non essere “mera vita”, “nuda vita”, come gli internati di Auschwitz.

La cultura della vita dei progressisti valorizza il reticolo di significati, azioni, pensieri e conversazioni di esistenze impregnate di scelte, desideri, afflizioni, disabilità, azioni, anche minute. La cultura della vita dei bioconservatori è in realtà una cultura di morte (la vita biologica è un insieme di processi fisico-chimici che definiamo romanticamente e magicamente “vita”). Violano il consenso in nome del principio che si deve sbagliare per eccesso di vita. Si fanno portavoce delle “non-persone”, non-ancora-persone o non-più-persone che non possono prendere la parola, avendo la pretesa di sapere cosa direbbero se potessero parlare. In questo modo moltiplicano le voci di chi la pensa come loro in un mondo in cui rappresentano una minoranza.

Subordinano l’esistenza dei vivi ai non-ancora-nati ed ai non-più-vivi mentre i loro oppositori, con le leggi sull’aborto, internazionalmente, hanno cercato di conciliare il diritto di una quasi-persona di svilupparsi in una persona ed il diritto della donna di non essere trattata come uno strumento di perpetuazione della specie e di non essere punita, senza darlo a vedere, per il suo comportamento sessuale.

*****

Una parte della Chiesa ci dice che essere testimoni delle agonie umane ci rende più compassionevoli. Ma a me pare evidente che chi ha bisogno di questo tipo di esperienza deve probabilmente avere un deficit nelle funzioni cognitive superiori. Per le persone normali (non psicopatiche) una tale esperienza sarebbe estremamente spiacevole, non didattica. È una logica bizzarra e perversa che potrebbe essere impiegata per giustificare qualunque azione, inclusa la tortura, ossia il culmine del controllo sul prossimo, il culmine della barbarie umana. Un dio che chiedesse un tale comportamento non sarebbe certo un dio d’amore, ma un angelo caduto, un parassita della creazione che nega assistenza a chi lo supplica perché per lui il dolore altrui è nutrimento. Se si rifiuta che Dio sia il punto di convergenza di tutto ciò che esiste, piacevole o spiacevole che sia, si finisce per credere che il dolore nel mondo sia un’occasione di martirio edificante voluta da “Dio” e quindi si legittima il controllo narcisistico e patologico sull’altro.

Se invece si crede nella libertà della coscienza e la sua immortalità (in quanto anima), non ha alcun senso prolungarne la permanenza in un corpo afflitto da atroci tormenti ed incurabile. È puro sadismo, il fanatismo di chi costringe qualcuno ad essere sepolto vivo, uno zombie, in nome delle proprie credenze e assicura tutti gli altri che è una dimostrazione di compassione e bontà e non di bancarotta morale. Che senso ha affinare l’empatia se poi non le esercitiamo impiegandole nell’alleviare le sofferenze altrui?

Si afferma che la sofferenza fa maturare, ma quella è una scelta personale: la sofferenza che aiuta a crescere dev’essere giudicata personalmente. Nessuno può imporla egoisticamente ed autoritariamente. Ed è questa la ragione per cui si deve consentire il suicidio assistito, perché non siamo semplici animali ma persone in grado di determinare autonomamente il valore delle nostre esistenze, senza necessariamente pervenire alle medesime conclusioni. Qualcuno può tollerare un certo livello di sofferenza, altri no. Non è che questa persona stia tradendo il resto dell’umanità o la vita stessa se sceglie diversamente. Sarebbe difficile imbattersi in un malato terminale disposto a moralizzare sulle scelte di vita e morte altrui. Questo lo fanno i malati del controllo, quelli che osano trattare i corpi altrui come se fossero una loro proprietà? Persone che dicono di credere nella sopravvivenza dell’anima ma preferiscono starsene qui e sperare nella risurrezione dei corpi (ennesima blasfemia della Chiesa: tra l’altro la vicenda di Lazzaro è un’invenzione di Giovanni).

La via del Grande Inquisitore di Dostoevskij è la via del potere, la via del dominio sulla natura, per circoscrivere l’area di potere della paura e dell’indeterminatezza. Il fatto è che non è la paura che ci domina, siamo noi che ci lasciamo dominare da essa, schiavi dell’illusione di potere e volere avere tutto sotto controllo.

L’obbligo di morire in una società che invecchia – un altro delirio della torre d’avorio

di Stefano Fait

La frase “non mi sento ancora pronto per morire” non esenta una persona anziana dal dovere di farlo. Raggiungere l’età di 80 anni senza sentirsi pronti a morire è già di per sé un fallimento morale, l’indicazione di un’esistenza dissociata dalla realtà fondamentale della vita. Il dovere di morire può sembrare severo, e talora lo è, ma se davvero ci tengo alla mia famiglia, il dovere di proteggerla sarà spesso accompagnato da un profondo desiderio di farlo. Normalmente uno vuole proteggere le persone che ama: non è solo un dovere, è anche un desiderio. Di fatto, posso facilmente immaginare di volere risparmiare alle persone che amo il peso della mia esistenza più di quanto possa volere altre cose.

John Hardwig, “Dying at the Right Time: Reflections on Assisted and Unassisted Suicide”, 1996

La tesi che esiste un dovere di morire potrà sembrare ad alcuni come una risposta sbagliata alle negligenze della società. Se la nostra società si prendesse cura di disabili, malati cronici ed anziani come sarebbe suo compito fare, ci sarebbero solo rari casi in cui far valere quest’obbligo. Alla luce delle contingenze presenti, sto domandando ai malati e disabili di fare un passo avanti ed accettare una responsabilità che la società non intende assumersene un’altra. […]. Non devo, perciò, vivere la mia vita e pianificarla partendo dal presupposto che le istituzioni sociali proteggeranno la mia famiglia dalla mia infermità ed invalidità. Sarebbe da irresponsabili. Più plausibilmente, spetterà a me proteggere le persone che amo.

John Hardwig, “Is there a duty to die?”, Hastings Center Report 27, no. 2 (1997), p. 34-42

Queste persone animate dalle migliori intenzioni [come Hardwig], ahimé, non vivono nel mondo reale…Il loro mondo ideale non contiene figli e figlie o generi e nuore che non dimostrano amore e rispetto verso i loro genitori e suoceri…dove gli eredi non sono oberati da debiti che sarebbero saldati così facilmente se solo il nonno si desse una mossa a morire. Il loro mondo ideale contiene dottoresse ed infermieri che non necessitano di alcun tabù perché sono naturalmente più virtuosi, nobili ed intelligenti delle altre persone…medici ed infermiere che non trattano mai i loro pazienti sprezzantemente e non si stufano mai di avere a che fare con vecchi sporchi e molesti…che non falsificherebbero mai le cause della morte e non violerebbero mai la legge. [in questo mondo ideale] persino i dottori che hanno già violato le norme vigenti contro l’eutanasia non violerebbero o interpreterebbero arbitrariamente nuove leggi in materia.

Jenny Teichman, “Social ethics”, pp. 84-85

Il caso di Eluana dimostra ancora una volta che le persone restie ai condizionamenti vengono mal tollerate; reclamando il diritto alle loro libertà fondamentali sovvertono l’ordine prestabilito e questo infastidisce e spaventa.

Beppino Englaro – una riflessione applicabile anche al dibattito sul dovere di morire

John Hardwig, Dan Callahan, John Beloff, Margaret Pabst Battin, Judith Lee Kissell, Marilyn Bennett, Julian Savulescu, John Harris si sono tutti espressi in favore del dovere di morire. Lo ha fatto anche Richard Lamm, governatore del Colorado negli anni Ottanta.

John Harris (“Immortal Ethics”, Annals of New York Academy of Sciences, 1019, pp. 527-534, 2004), immagina un futuro in cui si porranno in essere pulizie generazionali (sul modello della pulizia etnica) decidendo collettivamente quanto a lungo è ragionevole che una persona possa vivere e garantendo che il numero più ampio possibile di persone possa farlo in buona salute fino a quell’età limite, per poi “invitarle” a suicidarsi – ingenerando nell’opinione pubblica un certo tipo di aspettative, nonché imbarazzo, disagio e vergogna in un ottuagenario che non voglia morire. In alternativa, suggerisce Harris, ci si potrebbe astenere dal somministrare certe cure o servizi di assistenza, oppure si potrebbe riprogrammare il genoma in modo tale da riattivare i geni dell’invecchiamento per dar spazio alle nuove generazioni, in uno scenario perfettamente descritto in un recente film che consiglio a tutti di vedere:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/01/in-time-occupy-hollywood-e-la-lotta-di-classe-del-terzo-millennio/

Nietzsche approverebbe, visto che definiva i malati [e lui stesso era malato] dei parassiti della società la continua esistenza dei quali, in certe condizioni, è indecente.

Dovremmo domandarci qual è la linea che separa il diritto di scegliere il suicidio e il dovere di scegliere di liberare gli altri della nostra presenza.

Il sacrosanto diritto di morire con dignità e quindi l’altrettanto sacrosanto diritto al suicidio assistito, non deve convertirsi gradualmente dapprima nel dovere di morire con dignità, poi nel diritto della società di insistere che le persone muoiano dignitosamente ed infine nell’eutanasia involontaria. Purtroppo però, come testimoniano i filosofi sopracitati, quando la qualità della  ed il suo costo sociale diventano i criteri principali per valutare se una vita sia degna di essere vissuta, improvvisamente uno si trova a dover meritarsi di poter vivere. Ingranaggi della megamacchina, abbiamo valore solo se siamo efficienti:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/18/la-soluzione-finale-alla-questione-dei-disabili-secondo-il-governo-inglese-cazzi-loro/

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/19/questa-e-blasfemia-questa-e-pazzia-questa-e-oxford-quando-linfanticidio-diventa-un-diritto-inalienabile/

Non è implausibile immaginare che un giorno saranno inaugurati dei corsi di gestione mortuaria.

Dovremmo tener conto del fatto che quello del vecchio eschimese che si fa trasportare via dal ghiaccio verso la morte è un mito occidentale non confermato dai dati etnografici e, se anche fosse vero, noi non viviamo sulla banchisa polare, come forse molti hanno intuito.

Come può essere saggio generare delle pressioni morali o persino normative che spingano gli individui a porre termine alla propria vita (e che avranno effetti devastanti su chi ha già fantasie suicide)? È un genere di società in cui è desiderabile vivere quello che persuade persone di qualunque età che si trovano nella condizione di costituire un “fardello” per la famiglia e per la collettività che è giusto sentirsi in dovere di togliersi di mezzo con un suicidio o un suicidio assistito?

Che messaggio stiamo mandando alle persone che sono già molto anziane, molto malate e gravemente disabili? Si rendono conto, questi “filosofi morali”, che prima o poi anche loro rientreranno in una queste categorie? Non è abbastanza evidente che questo discorso indurrebbe moltissime persone che già si sentono in colpa a sentirsi di troppo sebbene non lo siano, e questo proprio quando il progresso tecnologico consente loro di condurre vite meno dipendenti dagli altri e più attive di quel che sarebbe stato lecito attendersi in passato?

Anni di assistenza a persone non-autonome mi hanno insegnato che prendersi cura del prossimo non è solo un peso, può anche essere un piacere ed una lezione di vita impareggiabile. Lo stress, l’ansia e anche il fastidio di certi momenti è più che compensato da un rapporto umano fatto di dialogo, di esplorazione dell’interiorità di entrambi e di affetto, se non amore.

Che reazione avrei se dovessi scoprire che una persona di cui dovevo prendermi cura ha scelto di togliersi la vita per non importunarmi con la sua presenza? Come potrei sentirmi sicuro che non malinterpreterà certe mie parole o gesti, decidendo che i sacrifici di cui mi faccio carico sono eccessivi? E che cosa succederebbe se il tentativo di suicidio di questa persona fallisse, aggravando ulteriormente la sua condizione: dovrei completare l’opera io?

Com’è possibile che questi pensatori non siano capaci di pensare alle ramificazioni più essenziali dei loro ragionamenti? Si sentono razionali perché sanno ipersemplificare l’esperienza umana? Non sono forse pagati per esercitarsi nel pensiero profondo, insegnando ai loro studenti a fare lo stesso? Oppure gli unici ragionamenti validi, per loro, sono quelli che gratificano il loro ego, le loro predilezioni, e che non si insozzano nelle contraddizioni, incertezze e complicazioni della realtà vissuta?

A me pare che l’inevitabile deriva morale di una società che accetta il dovere di morire la porterà a declinarlo nel senso del dovere di uccidere. Se io ho il dovere di morire e non lo faccio, non c’è ragione di impedire a qualcun altro di togliermi la vita al posto mio, assolvendo un compito assegnatogli implicitamente dalla società. Qualcuno potrebbe andare in giro a uccidere vecchi, malati e disabili proclamandosi un giustiziere, un raddrizzatore di torti, un’esecutore della volontà generale.

La somma ipocrisia di questa società è che si possano immaginare certe situazioni future solo in virtù del fatto che gli elettori continuano a votare stolidamente a fidarsi dei media e a votare per politici che approvano esenzioni fiscali per i ricchi o sussidi per le grandi industrie e banche e continuano a spendere per gli armamenti di destra o “sinistra” che siano.

DIRITTO ALLA VITA, DIRITTO ALL’ABORTO E DIRITTO AL SUICIDIO

Il diritto alla vita comprende, naturalmente, anche il diritto al suicidio. Non si può pensare che il suicidio sia un reato se si stabilisce che la mia vita è mia e di nessun altro, tanto meno proprietà dello stato, della società o di un dio/dèi. Se la mia vita è mia – e solo un fanatico mitomane indegno della mia attenzione potrebbe pensare che non lo sia – la posso anche concludere prematuramente e la società non ha il diritto di tenermi in vita contro la mia volontà. Il diritto all’aborto è collegato al diritto al suicidio nel senso che la donna non può essere considerata come un mero strumento biologico di perpetuazione della Vita. Entrambi questi diritti scaturiscono da e tutelano il senso che la mia vita non è una proprietà e non può essere adoperata da altri, né tantomeno sprecata da altri.

Se non capiamo questo semplice concetto rischiamo, un giorno, di risvegliarci in una società in cui lo stato si è fatto paladino della qualità della vita e ha promulgato norme che sanciscono l’obbligo di provvedere tutti i cittadini del servizio di una morte rapida e confortevole tramite la sospensione di trattamenti medici somministrati a pazienti la cui “qualità della vita” è anche solo marginalmente compromessa.

IL RISPETTO DELLA VITA UMANA E DELLA SUA DIGNITÀ

Una persona che non è più consapevole o normodotata non è meno umana degli altri, tanto quanto un maschio non è meno mammifero solo perché non ha le mammelle. L’unico significativo discrimine tra esseri umani è la morte. Prima si è interamente umani, poi lo si è meno; ma ancora permane, giustamente, un particolare rispetto per la salma che, di norma, non è trattata come un semplice ammasso di materia organica. Per come la vedo io, se perdessimo il rispetto per la dignità dei vivi e dei morti non saremmo più degni di continuare ad esistere e sarebbe meglio che una pestilenza ci spazzasse via tutti al più presto.

 

Questa è blasfemia, questa è pazzia! Questa è Oxford! – Quando l’infanticidio diventa un diritto inalienabile

a cura di Stefano Fait

Se una malattia non è stata scoperta durante la gravidanza, se qualcosa è andato male durante il parto, o se le circostanze economiche, psicologiche o sociali sono cambiate e il prendersi cura della prole diventa un peso insostenibile per qualcuno, allora alle persone dovrebbe essere data la possibilità di non essere costrette a fare qualcosa che non sono in grado di sopportare.

Alberto Giubilini e Francesca Minerva perorano la causa dell’infanticidio (febbraio 2012)

Quando abbiamo deciso di scrivere questo articolo sull’aborto post-natale non avevamo idea che il nostro lavoro potesse sollevare un dibattito così acceso.

Francesca Minerva e Alberto Giubilini, lettera aperta

La mancata consapevolezza che ha un neonato è confrontabile con quella di una persona malata o anziana non in grado di comprendere, riconoscere e autogestirsi. Operando in modo estensivo come hanno fatto i due ricercatori, allora, potremmo eliminare tutti i disabili gravi, i malati di Alzheimer in stato avanzato, etc.

Rita Guma

Tempi davvero oscuri, i nostri.

Chi apprezza la libertà personale e l’autonomia/sovranità della propria comunità dovrebbe fare attenzione a quel che si dice nell’ambito bioetico, perché si comincia discutendo di natura umana e di ciò che è ammissibile in relazione ad essa e si finisce poi per discutere di società e di cosa è ammissibile in relazione ad essa.

Se l’infanticidio diventa lecito e addirittura doveroso, allora lo diventeranno anche la tortura, la pulizia etnica, la sospensione definitiva della democrazia. Questa è la direzione che ha preso la nostra civiltà e i conservatori britannici sembrano fungere da illustri apripista:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/18/la-soluzione-finale-alla-questione-dei-disabili-secondo-il-governo-inglese-cazzi-loro/

Ed è solo l’inizio:

http://www.informarexresistere.fr/2012/01/09/lavvento-di-gattaca-quando-i-complotti-sono-alla-luce-del-sole/

Il compito di un pensatore di buona volontà è quello di contrastare e riconsegnare all’oblio queste tesi, passando poi il testimone a chi le combatterà alla prossima riemersione.

Nel corso della Nuova Depressione, a meno di un secolo da quella precedente, succede di assistere al riemergere di argomentazioni condannate dalla storia e dal buon senso ma rese improvvisamente “trendy” dalle circostanze eccezionali in cui ci troviamo a vivere [cf. il magnifico Marco Paolini: http://www.ilfoglio.it/soloqui/7521]

È il caso del diritto all’infanticidio, che fa il paio con il dovere di suicidarsi o farsi sopprimere per ragioni di budget, un’altra brillante trovata della bioetica anglo-americana che sarà l’oggetto di un altro post.

Il diritto all’infanticidio è stato proposto da due bioetici italiani, Alberto Giubilini (Monash University a Melbourne) e Francesca Minerva (Università di Melbourne) in un articolo intitolato “After-birth abortion: Why should the baby live?” [“Aborto post-natale: perché il neonato dovrebbe vivere?], apparso sul Journal of Medical Ethics, la creatura del bioeticista australiano Julian Savulescu, noto per le sue posizioni controverse riguardo a moltissimi temi, quali l’eugenetica, l’eutanasia, la clonazione, il transumanesimo e la democrazia. Nel 2009, in un intervento intitolato “Unfit For Life: Genetically Enhance Humanity or Face Extinction”, Savulescu ha affermato che la nostra situazione è tale che o optiamo per uno stato totalitario che ci impedisca di farci del male (fino alla nostra estinzione), oppure dovremo alterare drasticamente il nostro corredo genetico per renderci inoffensivi.

Oltre che da Savulescu, questa tesi è stata difesa, tra gli altri, da Roberto Mordacci, docente di filosofia morale all’Università San Raffaele di Milano:

http://moraliaontheweb.com/2012/02/29/la-non-notizia-dellaborto-post-natale-infanticidio/#more-6051

Il tema è perciò rilevante e non confinato ad una combriccola di simil-pensanti con la passione per l’Australia.

Oggi Savulescu insegna a Oxford ed è direttore del Centro di bioetica applicata Uehiro. È una figura discussa, ma influente e riceve generosi finanziamente da chi ha interesse ad istruire l’opinione pubblica in quel senso fintamente progressista che maschera il desiderio di abbattere i principi costituzionali definendoli vacui tabù.

In questo articolo i suoi “discepoli” sostengono che i neonati non sono “persone reali” e non hanno un “diritto morale alla vita”. I due filosofi affermano che i genitori debbono poter uccidere il loro bambino, legalmente, nello scoprire che è disabile: “Lo status morale di un bambino è equivalente a quello di un feto, nel senso che entrambi non possiedono quelle proprietà che giustificano l’attribuzione ad un individuo di un diritto alla vita di un individuo”. Non essendo persone reali, i neonati sono solo “persone in potenza” e quindi non possono beneficiare del diritto morale alla vita.

Gli utilitaristi non riconoscono alcun diritto intrinseco a vivere, nessuna dignità inalienabile. Un bambino non è degno di vivere di per sé in quanto non è in grado di attribuire un significato e valore alla sua esistenza o alla privazione della medesima (omicidio legalizzato). Un bambino non può percepire la sua soppressione come una perdita, quindi non lo si può danneggiare uccidendolo, ossia impedendogli di sviluppare il suo potenziale di essere umano.

Questi ragionamenti sono contemporaneamente risibili e terribili e scaturiscono dalle menti di studiosi egotisti che non riconoscono l’esistenza di valori universali che non siano il piacere (edonismo) e l’utile (avidità), pilastri dell’egoismo individuale e collettivo.

Partendo da premesse riduzionistiche e materialistiche molto in voga ai tempi dei nazisti e ai nostri tempi, giungono, coerentemente, alle stesse conclusioni dei nazisti: esistono vite indegne di essere vissute e non è chi le vive a poter decidere da sé se la sua rientri in questa categoria. Sarà qualcun altro – genitori, famiglia, società, stato – a determinare il grado di accettabilità di un’esistenza, in accordo con parametri di normalità assolutamente arbitrari (non essendosi principi universali, non è neppure possibile stabilire cosa sia normale, utile e piacevole in senso assoluto). Se prevalesse questa logica, il diritto sarebbe plasmabile come argilla nelle mani di un vasaio e chi detiene il potere si vedrebbe conferito il potere di creare e ricreare l’umano, proprio come nel Terzo Reich, che aveva il suo “bravo” programma eugenetico di infanticidio, sterilizzazioni coatte e involontarie, eutanasia dei disabili, sterminio di massa degli indesiderabili e accoppiamenti selettivi per la promozione della supremazia ariana.

Questi campioni del libero ed audace pensiero non sono però sufficientemente coraggiosi da chiamare una cosa con il suo nome. Hanno coniato l’espressione “aborto post-natale” per evitare il termine “infanticidio”, proprio come al tempo dei nazisti l’omicidio selettivo era stata ribattezzato “eutanasia” e il genocidio era la “soluzione finale alla questione ebraica”.

I suddetti sono animati dalle migliori intenzioni, o almeno così ci assicurano. Infatti “allevare questi bambini potrebbe essere un fardello insopportabile per la famiglia e per la società nel suo complesso, che se ne dovrebbe far carico”. Meglio ucciderli subito, no? E che non se ne parli più. Morto un bimbo se ne fa un altro, come i papi.

Savulescu è paternamente molto orgoglioso dei suoi pupilli, che “presentano osservazioni motivate, basate su premesse largamente accettate”. È interessante notare come la megalomania del nostro lo spinga a proclamare che il suo punto di vista è una premessa largamente accettata, come se non esistessero pareri discordanti anche all’interno della scuola utilitaristica, solo una delle tante che costituiscono l’universo della filosofia morale e della bioetica. Sfortunatamente, come ha lucidamente intuito un internauta: “L’equivoco del mondo liberale anglosassone per cui tutto dovrebbe essere accettabile tranne la contestazione del proprio modo di impostare la discussione normativa sul reale è ormai in alcuni casi caratterizzata da tratti da pensiero unico, come se la forma e i contenitori del discorso pubblico razionale fosse univoci (cioè tendenzialmente i loro), e se all’interno di essi tutto è lecito e ragionevole, e al di fuori di essi tutto è barbarie e fondamentalismo”.

A me, personalmente, sfugge come si possa definire razionale un discorso che è completamente disgiunto da qualunque considerazione sociologica, antropologica, psicologica, giuridica, storica e persino filosofica non superficiale, ed insiste invece sull’ambito contabile. Ciò che è razionale per un computer o un’organizzazione non è necessariamente razionale per un essere umano e qui si tratta di applicare una razionalità umana all’ambito umano: una questione etica non si risolve con le procedure impiegate per risolvere un’equazione matematica.

Una logica così spoglia, dozzinale, rozza, asettica e non-umana assomiglia piuttosto alla modalità cognitiva standard degli psicopatici.

Non tutti gli utilitaristi sono psicopatici, ma tutti gli psicopatici sono utilitaristi. Più robusta è la propensione utilitaristica, più marcati sono i tratti di psicopatia:

http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0010027711001351

http://www.informarexresistere.fr/2011/12/19/300-milioni-di-psicopatici-se-ne-fregano-della-nonviolenza-e-dei-diritti-ci-si-difende-informandosi/#axzz1pT9hf38H

Il che non implica certamente che gli utilitaristi à la Savulescu siano degli psicopatici, ma solo che, non essendolo, dovrebbero sentire un marcato disagio nel rendersi conto del degrado morale e cognitivo in cui sono sprofondati.

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