Giapponesi indolenti, tedeschi lavativi ed altri miti etnici

Una leggenda medievale narra di anime di morti costrette a marciare notte e giorno, senza una meta, alla massima velocità: quelle che cadono, stremate, ai margini della via si sbriciolano immediatamente in polvere. Sembra la parabola di un tipo di coscienza molto diffuso nel mondo moderno, ossessionato dalla coazione a “tenere il passo”, ridotto alla disperazione dalla velocità sempre crescente del movimento totale. È un tipo di coscienza che chiamerò l’”alienazione del progresso”. Alienazione e progresso sono due elementi centrali nella mitologia dei nostri giorni, e tutt’e due i termini sono stati abbondantemente usati, a proposito e a sproposito.

Northrop Frye, “Cultura e miti del nostro tempo”, p. 23

Ma il destino ha voluto che il mantello si trasformasse in una gabbia di durissimo acciaio….  da cui lo spirito è fuggito. In ogni caso il capitalismo vittorioso non ha più bisogno di questo sostegno, da quando poggia su una base meccanica… e la ricerca del profitto si è spogliata del suo senso etico-religioso, e oggi tende ad associarsi con passioni puramente agonali, competitive… Nessuno sa ancora chi in futuro abiterà in quella gabbia…invero, per gli “ultimi uomini” dello svolgimento di questa civiltà potrebbero diventare vere le parole: “Specialisti senza spirito, edonisti senza cuore; delle nullità che si immaginano di essere ascesi a un grado di umanità mai prima raggiunto”.

Max Weber, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”

I miti etnici possono anche essere divertenti. Penso ai film francesi ed italiani dove si ironizza sul meridionale che deve trasferirsi al nord e sul settentrionale spedito al sud. Se fatti con tatto e buon cuore, possono aiutare una popolazione a ridere di sé e sentirsi meglio con se stessa, più disposta a capirsi, ad accettare i suoi lati oscuri, i suoi vizi, i suoi difetti ed a valorizzare le sue virtù.

Quasi altrettanto divertenti sono i miti etnici del passato, se guardati con gli occhi del presente. Li ha recuperati ed impiegati con grande acume Ha-Joon Chang, docente di origine coreana all’università di Cambridge, uno dei più rispettati economisti del mondo ed uno dei tanti critici del paradigma neoliberista che governa l’economia mondiale (Ha-Joon Chang, “Cattivi samaritani : il mito del libero mercato e l’economia mondiale”, Milano : EGEA, 2008).

Chang riporta la vicenda del consulente australiano preoccupato nello scoprire che il paese asiatico che stava visitando sembrava completamente sprovvisto di un’etica del lavoro, popolato di gente pigra che non mostrava alcuna intenzione di riscattarsi, di imitare l’esempio australiano. Per questo, a suo avviso, il loro reddito equivaleva a meno di un quarto di quello australiano. Quel paese era il Giappone, nel 1915 (meno di un secolo fa). Oggi gli Australiani sono considerati dagli altri “anglo-sassoni” come i cugini più rilassati e dediti a spassarsela.

Non era il solo occidentale a pensarla a quel modo. Anche i missionari si stupivano dell’inclinazione giapponese alla pigrizia, della loro indifferenza al trascorrere del tempo, la loro assenza di qualsiasi turbamento riguardo al futuro, descrizioni che ricordano dappresso quelle dei conquistadores e dei pionieri del Nord America. La socialista britannica Beatrice Webb, qualche anno prima, stigmatizzava l’indipendenza di pensiero dei Giapponesi ed il loro indulgere nei piaceri del tempo libero, lamentandosi del fatto che nel paese del Sol Levante “non c’è evidentemente alcun desiderio di insegnare alla gente a pensare”. A suo modo di vedere i Coreani erano sporchi, degradati, tristi, pigri, selvaggi e complessivamente inetti.

Dal punto di vista dei turisti e visitatori inglesi i Tedeschi di un secolo prima non erano molto meglio dei Coreani. Nella prima metà del diciannovesimo secolo i Tedeschi erano descritti come indolenti, ottusi, indisciplinati, disonesti, svogliati (“lavorano quando vogliono”), scarsamente innovatori e curiosi, incapaci di distinguersi, troppo individualisti per cooperare e perciò anche per badare alla manutenzione delle strade. Così John McPherson, viceré dell’India, e perciò più che aduso a strade in pessime condizioni, raccontava che in Germania aveva trovato strade così malmesse da aver deciso di cambiare i suoi piani ed andare in Italia (!!!).

Ha-Joon Chang osserva giustamente che se i fattori culturali sono così determinanti per il progresso di un popolo non si capisce come i discendenti dei Tedeschi e Giapponesi di poche generazioni fa siano così diversi dai loro antenati. In secondo luogo, l’economista coreano fa notare che definire un popolo “cattolico” vuol dire tutto e niente, dato che sono cattolici sia gli ultrareazionari di Opus Dei sia gli ultraprogressisti teologi della liberazione. Guidati da principi morali e logiche drasticamente diverse, i loro rispettivi atteggiamenti verso la ricchezza e la giustizia sociale sono diametralmente opposti. Musulmani sono sia i talebani sia le donne dirigenti della banca centrale malese, in numero percentualmente maggiore delle donne impiegate in qualunque banca centrale dell’Occidente “femminista”. Certi economisti e storici attribuiscono il successo giapponese all’etica confuciana, ma altri incolpano proprio l’etica confuciana per il ritardo nello sviluppo cinese e coreano. L’Islam è rimasto all’avanguardia per molti secoli in molti settori rispetto alle nazioni cristiane, non ultimo per quanto concerne la tolleranza (gli Ebrei sefarditi cercarono rifugio tra i musulmani quando fuggivano dalle persecuzioni cristiane). Oggi, a parte le petromonarchie assolutiste alleate dell’Occidente, solo Malesia ed Indonesia sono nazioni islamiche economicamente di successo.
Tornando al Giappone, l’odierna immagine del lavoratore nipponico ciecamente leale all’azienda mal si concilia con la combattività della generazione precedente che, tra il 1955 ed il 1964, accumulò più ore di sciopero della Francia e della Gran Bretagna, paesi in cui i lavoratori non sono noti per la loro arrendevolezza.

La spiegazione di queste contraddizioni è piuttosto semplice: gli osservatori dei paesi ricchi tendono a spiegare l’arretratezza dei paesi poveri chiamando in causa la pigrizia (es. crisi dell’eurozona) quando invece è il sistema economico locale che opera con ritmi diversi, meno automatizzati, più umani, oppure molto più massacranti, schiavistici, ma lontano dalla vista dei visitatori. Chi ozia spesso non ha molte altre scelte: non c’è lavoro. Tanto più che molto spesso gli emigrati dei paesi “pigri di natura o di cultura” lavorano più duramente degli autoctoni, per poter aiutare chi è rimasto nel paese d’origine.

Quanto alla “disonestà tedesca”, Chang conclude che quando si è poveri non si va tanto per il sottile, se si tratta di poter sopravvivere dignitosamente. L’eccessiva emotività tedesca e giapponese era invece probabilmente dovuta all’assenza di un modello moderno di organizzazione razionale delle attività che modifica la comprensione del mondo e dei rapporti umani: “è per questo che i Tedeschi ed i Giapponesi del passato erano “culturalmente” molto più simili a chi vive nei paesi in via di sviluppo di oggi rispetto ai Tedeschi ed ai Giapponesi di oggi. In altre parole, la cultura cambia con lo sviluppo economico e diventa industriosa e disciplinata, o impigrita (stagnante) e spensierata, in funzione delle esigenze contingenti. Così, un giorno, se la geografia economica globale dovesse spostarsi verso l’Oceano Indiano, Kenya e Mozambico potrebbero rappresentare un nuovo modello di sviluppo ed impressionare il mondo.

Restano gli interrogativi impliciti nelle riflessioni di Frye e Weber: ne vale davvero la pena? È questo l’unico modello di sviluppo possibile? È così che si valorizzano gli insondabili potenziali di ciascuno di noi? È questa la retta via nella ricerca della felicità? Oppure ci siamo dimenticati che la triade libertà, uguaglianza e fraternità ha senso solo se tutti e tre i principi acquistano un peso determinante, contemporaneamente? I miti etnici (razzisti) non hanno forse tentato di abolire l’ultimo?

La mitezza non divenga mai un alibi

Tutti vedono la violenza del fiume in piena, nessuno vede la violenza degli argini che lo costringono.

Proverbio cinese

Allora anche i miti non disdegneranno di uscire dalla loro indole profonda e indossare quella dei loro nemici. Si tratta di combattere una buona battaglia che, nei risultati sperati, non contraddice affatto ma ribadisce la loro fedeltà alla mitezza. Quando ciò accadesse, quando ciò accadrà, bisognerebbe, bisognerà temere l’ira dei miti.

Gustavo Zagrebelsky, “Bobbio: la forza dei miti”, La Stampa, mercoledì 13 ottobre 2010

Arrivano momenti in cui diventa d’obbligo liberare una rabbia che scuota i cieli. Esiste un momento in cui bisogna dar fuoco alle polveri. In risposta a un’offesa grave, contro l’anima o lo spirito. Prima bisogna provare con tutte le altre strade ragionevoli per ottenere un cambiamento, ma se non portano a nulla allora occorre scegliere il momento giusto …giusto, come la pioggia…il momento in cui tirar fuori le viscere, il momento della collera giusta, della rabbia giusta.

Clarissa Pinkola Estés, “Donne che corrono coi lupi”

È sempre l’oppressore, non l’oppresso, che determina la forma della lotta.

Nelson Mandela

Avevo l’impressione che la guerra, pur non potendo mai essere un bene positivo o assoluto, potesse servire come bene negativo nel senso di impedire la diffusione e la crescita di una forza malvagia. per quanto orribile sia, la guerra potrebbe essere preferibile alla resa a un sistema totalitario: nazista, fascista o comunista…Dopo la lettura di Niebuhr, cercai di arrivare a un pacifismo realistico.

Martin Luther King

Il diritto alla tolleranza illimitata favorisce i forti a scapito dei deboli.

Claudio Pavone

Tu puoi essere pacifista fino all’estremo ed essere disposto al martirio per testimoniare la tua fede, ma ti sentiresti di rimanere inerte quando altri che non partecipano della tua fede sono esposti alla violenza? Ti sentiresti di dire loro: in nome di ciò che io credo, tu lasciati massacrare? Non sarebbe questa, a sua volta, un’estrema violenza, per di più rivestita di buoni sentimenti?

Gustavo Zagrebelsky, “La felicità della democrazia: un dialogo”, 2011

A proposito del disarmo, cavallo di battaglia dei pacifisti: che io butti via le mie armi non serve a niente. Né serve a qualche cosa che le buttino via tutti tranne uno, perché quest’uno diventerà il padrone della terra. Continuare a dichiarare il proprio pacifismo assoluto serve a salvare la propria anima. Serve anche a salvare il mondo? Alla base del nostro dissenso c’è forse la sua affermazione che le tendenze dominatrici e distruttrici sono patologiche e non fisiologiche nella natura umana. Tanto lei che io sappiamo ben poco della natura umana. Ma dalle testimonianze della storia e dei fatti che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi, sarei più prudente, o almeno distribuirei in parti eguali quello che appartiene alla grandezza e quello che appartiene alla miseria dell’uomo.

Norberto Bobbio a Enrico Peyretti (16 agosto 1993)

[Alexander Kerenksij è] un uomo onesto, sincero e pronto a dare la vita per il suo Paese. Ma che non sa assolutamente niente dell’arte del governo e immagina di fare grandi cose quando elabora sulla carta piani per l’abolizione della pena di morte in tempi di guerra e di rivoluzione. Aborrisce forza, violenza e crudeltà e pensa davvero che sia possibile esercitare il potere con parole gentili e sentimenti elevati. Più di ogni altra cosa sembra compiacersi della sua purezza, umanità e idealismo. Un uomo buono, ma un cattivo leader, di fatto il tipo perfetto dell’intelletto russo.

Pitirim A. Sorokin, già collaboratore di Kerenskij nel governo provvisorio del 1917.

L’idealismo degli indignati, convinti che la mera protesta prolungata farà cambiare atteggiamento a chi di dovere, è deleterio, futile e ottuso. La mitezza nei confronti della tracotanza e della violenza ha la stessa efficacia del belato di un agnellino nel tenere alla larga un branco di lupi. Arriva il momento in cui bisogna battersi per la libertà e la dignità. E battersi significa dire no ad un sistema decadente e corrotto e dire sì ad un sistema che va costruito assieme. Altrimenti è nichilismo, ribellismo luciferino, male travestito da bene.

La mitezza, che Bobbio definiva “la più impolitica delle virtù”, non va confusa con la passività mansueta. Per Bobbio il mite non è remissivo davanti alla soperchieria, anzi è baluardo contro l’arroganza (l’opinione eccessiva di sé che giustifica la sopraffazione), la protervia (l’ostentazione dell’arroganza) e la prepotenza (l’abuso di potere ostentato e praticato).

Bobbio, come Aung San Suu Kiy, era un fautore della mitezza, che considerava il contrario della tracotanza (l’hybris dei Greci), della protervia, dell’ostentazione, della prepotenza, senza però diventare remissivi e cedevoli di fronte alla soperchieria, senza farsi agnello al cospetto del lupo, perché non si può sfuggire al dovere di difendere il debole dal forte (etica della responsabilità). Permettere al nostro prossimo di essere quello che è ma, contemporaneamente, fare in modo che capisca che la cosa dev’essere reciproca (Bobbio, 2010).

La mitezza illimitata è un vizio, che comprende in sé imbecillità, passività, ignavia, apatia, irresponsabilità, connivenza e complicità involontaria con i violenti (Zagrebelsky, “Bobbio: la forza del mite”, La Stampa, 13 ottobre 2010).

Aung San Suu Kiy ci rammenta che (ibidem, p. 178): “essere compiacenti è molto pericoloso. Vogliamo liberare la gente da questo atteggiamento. […]. Credo che molte persone accettino le cose per paura o per inerzia. Questa disponibilità ad accettare senza fare domande dev’essere eliminata…Dopo tutto il Buddha non accettava lo status quo senza metterlo in dubbio”.

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